Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.

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«E infine, tutto il mondo deve diventare terra straniera per chi vuole leggere in modo perfetto. Dice il poeta: “non so quale dolcezza ci lega al suolo natio, e non ci permette di dimenticarlo”. Il filosofo deve imparare, a poco a poco, a lasciarlo. Sono queste alcune delle dodici regole di carattere generale che Ugo di San Vittore prescrive per acquisire quelle abitudini che sono necessarie affinché lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza, che diventa così la casa sospirata».

Ivan Illich, Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, Cortina, 1994, p. 17.

 


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Walter Benjamin (1892-1940) – La malinconia tradisce il mondo per amore di sapere. Ma la sua permanente meditazione abbraccia le cose morte nella propria contemplazione, per salvarle.

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Il dramma barocco tedesco

Il dramma barocco tedesco

«La malinconia tradisce il mondo per amore di sapere. Ma la sua permanente meditazione abbraccia le cose morte nella propria contemplazione, per salvarle».

«Il pensiero riprende continuamente da capo, ritorna con minuziosità alla cosa stessa. Questo movimento metodico del respiro è il modo d’essere specifico della contemplazione. Essa infatti, seguendo i diversi gradi di senso nell’osservazione di un unico e medesimo oggetto, trae l’impulso a un sempre rinnovato avvio e giustifica nello stesso tempo la propria ritmica intermittente. Come nei mosaici la capricciosa varietà del le singole tessere non lede la maestà dell’insieme, così la considerazione filosofica non teme il frammentarsi dello slancio».

«Con la loro funzione mediatrice, i concetti permettono ai fenomeni di partecipare all’essere delle idee. E appunto questa funzione mediatrice li rende idonei all’altro e non meno originario compito della filosofia: la rappresentazione delle idee. […] Perché le idee si rappresentano non in se stesse, ma solo unicamente attraverso una coordinazione di elementi cosali nel concetto: ossia in quanto configurazione di elementi».

«È compito del filosofo restituire il suo primato, mediante la rappresentazione, al carattere simbolico della parola: quel carattere nel quale l’idea giunge all’autotrasparenza, che è il contrario di una comunicazione rivolta verso l’esterno» (p. 77).

Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, 1980.


Walter Benjamin (1892-1940) – «Esperienza» . Il giovane farà esperienza dello spirito e quanto più dovrà faticare per raggiungere qualcosa di grande, tanto più incontrerà lo spirito lungo il suo cammino e in tutti gli uomini. Quel giovane da uomo sarà indulgente. Il filisteo è intollerante.
Walter Benjamin (1892-1940) – Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera

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Karl Marx (1818-1883) – L’arcano della forma di merce. A prima vista, una merce sembra una cosa ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Ecco il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.

Marx e il feticismo delle merci

«Non a caso entrambe le grandi opere della maturità di Marx che si accingono a presentare la società capitalistica iniziano con l’analisi della merce. Infatti, non esiste problema che non rimandi in ultima analisi a questa questione e la cui soluzione non debba essere ricercata in quella dell’enigma della struttura della merce … L’essenza della struttura di merce consiste nel fatto che un rapporto, una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi un’”oggettualità spettrale” che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini … Questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce» (G. Lukács, Storia e Coscienza di classe, pp. 107-108, 1988).

A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici.

Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. È chiaro come la luce del sole che l’uomo con la sua attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. P. es. quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria.

Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare.

Dunque, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d’uso. E nemmeno sorge dal contenuto delle determinazioni di valore. Poiché: in primo luogo, per quanto differenti possano essere i lavori utili o le operosità produttive, è verità fisiologica ch’essi sono funzioni dell’organismo umano, e che tutte tali funzioni, quale si sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani. In secondo luogo, per quel che sta alla base della determinazione della grandezza di valore, cioè la durata temporale di quel dispendio, ossia la quantità del lavoro: la quantità del lavoro è distinguibile dalla qualità in maniera addirittura tangibile. In nessuna situazione il tempo di lavoro che costa la produzione dei mezzi di sussistenza ha potuto non interessare gli uomini, benché tale interessamento non sia uniforme nei vari gradi di sviluppo. Infine, appena gli uomini lavorano in una qualsiasi maniera l’uno per l’altro, il loro lavoro riceve anche una forma sociale.

Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. L’eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale di eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma di grandezza di valore dei prodotti del lavoro, ed infine i rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma d’un rapporto sociale dei prodotti del lavoro.

L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi.

Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali. Proprio come l’impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell’occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l’oggetto esterno, su un’altra cosa, l’occhio: è un rapporto fisico fra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini.

Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci. Come l’analisi precedente ha già dimostrato, tale carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci. Gli oggetti d’uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro. Il complesso di tali lavori privati costituisce il lavoro sociale complessivo. Poiché i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all’interno di tale scambio. Ossia, i lavori privati effettuano di fatto la loro qualità di articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra le cose. Solo all’interno dello scambio reciproco i prodotti di lavoro ricevono un’oggettività di valore socialmente eguale, separata dalla loro oggettività d’uso, materialmente differente.

Questa scissione del prodotto del lavoro in cosa utile e cosa di valore si effettua praticamente soltanto appena lo scambio ha acquistato estensione e importanza sufficienti affinché cose utili vengano prodotte per lo scambio, vale a dire affinché nella loro stessa produzione venga tenuto conto del carattere di valore delle cose. Da questo momento in poi i lavori privati dei produttori ricevono di fatto un duplice carattere sociale. Da un lato, come lavori utili determinati, debbono soddisfare un determinato bisogno sociale, e far buona prova di sé come articolazioni del lavoro complessivo, del sistema naturale spontaneo della divisione sociale del lavoro; dall’altro lato, essi soddisfano soltanto i molteplici bisogni dei loro produttori, in quanto ogni lavoro privato, utile e particolare è scambiabile con ogni altro genere utile di lavoro privato, e quindi gli è equiparato. L’eguaglianza di lavori toto coelo differenti può consistere soltanto in un far astrazione dalla loro reale diseguaglianza, nel ridurli al carattere comune che essi posseggono, di dispendio di forza-lavoro umana, di lavoro astrattamente umano. Il cervello dei produttori privati rispecchia a sua volta questo duplice carattere sociale dei loro lavori privati, nelle forme che appaiono nel commercio pratico, nello scambio dei prodotti, quindi rispecchia il carattere socialmente utile dei loro lavori privati, in questa forma: il prodotto del lavoro deve essere utile, e utile per altri, e rispecchia il carattere sociale dell’eguaglianza dei lavori di genere differente nella forma del carattere comune di valore di quelle cose materialmente differenti che sono i prodotti del lavoro. Gli uomini dunque riferiscono l’uno all’altro i prodotti del loro lavoro come valori, non certo per il fatto che queste cose contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo. Viceversa. Gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l’uno con l’altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno.

Quindi il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale. In seguito, gli uomini cercano di decifrare il senso del geroglifico, cercano di penetrare l’arcano del loro proprio prodotto sociale, poichè la determinazione degli oggetti d’uso come valori è loro prodotto sociale quanto il linguaggio. La tarda scoperta scientifica che i prodotti di lavoro, in quanto son valori, sono soltanto espressioni materiali del lavoro umano speso nella loro produzione, fa epoca nella storia dello sviluppo dell’umanità, ma non disperde affatto la parvenza oggettiva dei carattere sociale del lavoro. Quel che è valido soltanto per questa particolare forma di produzione, la produzione delle merci, cioè che il carattere specificamente sociale dei lavori privati indipendenti l’uno dall’altro consiste nella loro eguaglianza come lavoro umano e assume la forma del carattere di valore dei prodotti di lavoro, appare cosa definitiva, tanto prima che dopo di quella scoperta, a coloro che rimangono impigliati nei rapporti della produzione di merci: cosa definitiva come il fatto che la scomposizione scientifica dell’aria nei suoi elementi ha lasciato sussistere nella fisica l’atmosfera come forma corporea. Quel che interessa praticamente in primo luogo coloro che scambiano prodotti, è il problema di quanti prodotti altrui riceveranno per il proprio prodotto, quindi, in quale proporzione si scambiano i prodotti. Appena queste proporzioni sono maturate raggiungendo una certa stabilità abituale, sembrano sgorgare dalla natura dei prodotti del lavoro, cosicché p. es. una tonnellata di ferro e due once d’oro sono di egual valore allo stesso modo che una libbra d’oro e una libbra di ferro sono di egual peso nonostante le loro differenti qualità chimiche e fisiche.

Di fatto, il carattere di valore dei prodotti del lavoro si consolida soltanto attraverso la loro attuazione come grandezze di valore. Le grandezze di valore variano continuamente, indipendentemente dalla volontà, della prescienza, e dall’azione dei permutanti, pei quali il loro proprio movimento sociale assume la forma d’un movimento di cose, sotto il cui controllo essi si trovano, invece che averle sotto il proprio controllo. Occorre che ci sia una produzione di merci completamente sviluppata, prima che dall’esperienza stessa nasca la cognizione scientifica che i lavori privati – compiuti indipendentemente l’uno dall’altro, ma dipendenti l’uno dall’altro da ogni parte come articolazioni naturali spontanee della divisione sociale del lavoro – vengono continuamente ridotti alla loro misura socialmente proporzionale. Perché nei rapporti di scambio dei loro prodotti, casuali e sempre oscillanti, trionfa con la forza, come legge naturale regolatrice, il tempo di lavoro socialmente necessario per la loro produzione, così come p. es. trionfa con la forza la legge della gravità, quando la casa ci capitombola sulla testa. La determinazione della grandezza di valore mediante il tempo di lavoro è quindi un arcano, celato sotto i movimenti appariscenti dei valori relativi delle merci. La sua scoperta elimina la parvenza della determínazione puramente casuale delle grandezze di valore dei prodotti del lavoro, ma non elimina affatto la sua forma oggettiva.

 Karl Marx, Il Capitale, Libro I.

Karl Marx – Cristalli di denaro: “auri sacra fames”
Karl Marx – Il denaro è stato fatto signore del mondo
Karl Marx – Il denaro uccide l’uomo. Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore
Karl Marx – La natura non produce denaro
Karl Marx (1818-1883) – A 17 anni, nel 1835, già ben sapeva quale sarebbe stata la carriera prescelta: agire a favore dell’umanità.
Karl Marx (1818-1883) – Il capitale, per sua natura, nega il tempo per una educazione da uomini, per lo sviluppo intellettuale, per adempiere a funzioni sociali, per le relazioni con gli altri, per il libero gioco delle forze del corpo e della mente.
Karl Marx (1818-1883) – La patologia industriale. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo
Karl Marx (1818-1883) – Sviluppo storico del senso artistico e umanesimo comunista. La soppressione della proprietà privata è la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane. Il comunismo è effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, è reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo
Karl Marx (1818-1883) – Il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità.
Karl Marx (1818-1883) – Gli economisti assomigliano ai teologi, vogliono spacciare per naturali e quindi eterni gli attuali rapporti di produzione.
Karl Marx (1818-1883) – Per sopprimere il pensiero della proprietà privata basta e avanza il comunismo pensato. Per sopprimere la reale proprietà privata ci vuole una reale azione comunista.
Karl Marx (1818-1883) – Noi non siamo dei comunisti che vogliono abolire la libertà personale. In nessuna società la libertà personale può essere più grande che in quella fondata sulla comunità.
Karl Marx (1818-1883) – La sensibilità soggettiva si realizza solo attraverso la ricchezza oggettivamente dispiegata dell’essenza umana.
Karl Marx (1818-1883) – Vi sono momenti della vita, che si pongono come regioni di confine rispetto ad un tempo andato, ma nel contempo indicano con chiarezza una nuova direzione.
Karl Marx (1818-1883) – Quando il ragionamento si discosta dai binari consueti, si va sempre incontro a un iniziale “boicottaggio”

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Charles Chaplin (1889-1977) – La cupidigia ha avvelenato l’animo degli uomini. Abbiamo aumentato la velocità, ma ci siamo chiusi dentro. Più che di macchine abbiamo bisogno di umanità. Battiamoci per liberare il mondo, per abbattere le barriere nazionali, per eliminare l’ingordigia, l’odio e l’intolleranza. Battiamoci per un mondo ragionevole, un mondo in cui la scienza e il progresso conducano alla felicità di tutti

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Chaplin

 

Charles Chaplin

Discorso conclusivo de

IL DITTATORE

dal film «Il grande dittatore», 1940

03

03

Scusate, ma non voglio fare l’imperatore. Non è il mio mestiere. Non voglio governare o conquistare nessuno. Mi piacerebbe aiutare tutti, se fosse possibile: gli ebrei, i gentili, i negri, i bianchi.

Noi tutti vogliamo aiutarci vicendevolmente. Gli esseri umani sono fatti cosi. Vogliamo vivere della reciproca felicità, non della reciproca infelicità. Non vogliamo odiarci e disprezzarci. Al mondo c’è posto per tutti. E la buona terra è ricca e in grado di provvedere a tutti.

La vita può essere libera e bella, ma noi abbiamo smarrito la strada: la cupidigia ha avvelenato l’animo degli uomini, ha chiuso il mondo dietro una barricata di odio, ci ha fatto marciare, col passo dell’oca, verso l’infelicità e lo spargimento di sangue.

Abbiamo aumentato la velocità, ma ci siamo chiusi dentro.

Le macchine che danno l’abbondanza ci hanno lasciato nel bisogno.

La nostra sapienza ci ha resi cinici; l’intelligenza duri e spietati. […]

Più che di macchine abbiamo bisogno di umanità.

Più che d’intelligenza abbiamo bisogno di dolcezza e bontà.

Senza queste doti la vita sarà violenta e tutto andrà perduto.

[…] L’infelicità che ci ha colpito non è che un effetto dell’ingordigia umana: l’amarezza di coloro che temono la via del progresso umano.

L’odio degli uomini passerà, i dittatori moriranno e il potere che hanno strappato al mondo ritornerà al popolo. E finché gli uomini saranno mortali la libertà non perirà mai.

[…] Non datevi a questi uomini inumani: uomini-macchine con una macchina al posto del cervello e una macchina al posto del cuore! Voi non siete delle macchine! Siete degli uomini! Con in cuore l’amore per l’umanità!

Non odiate! Solo chi non è amato odia! Chi non è amato e chi non ha rinnegato la sua condizione umana!

[…] Non combattete per la schiavitù. Battetevi per la libertà!

[…] Voi, il popolo, avete il potere, il potere di creare le macchine. Il potere di creare la felicità! Voi, il popolo, avete il potere di rendere questa vita libera e bella, di rendere questa vita una magnifica avventura. E allora, in nome della democrazia, usiamo questo potere, uniamoci tutti. Battiamoci per un mondo nuovo, un mondo buono che dia agli uomini la possibilità di lavorare, che dia alla gioventù un futuro e alla vecchiaia una sicurezza.

[…] I dittatori liberano se stessi ma riducono il popolo in schiavitù. Battiamoci per liberare il mondo, per abbattere le barriere nazionali, per eliminare l’ingordigia, l’odio e l’intolleranza. Battiamoci per un mondo ragionevole, un mondo in cui la scienza e il progresso conducano alla felicità di tutti […].

 

Charles Chaplin, La mia autobiografia, Mondadori, 1964.


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Giancarlo Paciello – Ascesa e caduta del nuovo secolo “americano” (Potremo approfittarne? Sapremo approfittarne?)

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Jakob von Wyl (1586-1619), Danza macabra

Jakob von Wyl (1586-1619), Danza macabra.

 

 

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Ascesa e caduta

del nuovo secolo “americano”

(Potremo approfittarne? Sapremo approfittarne?)

di Giancarlo Paciello


Premessa

Introduzione

Parte prima

Gli U.S.A. e le istituzioni internazionali

La globalizzazione
La “transizione” russa
La subordinazione europea

Intermezzo, tra il teorico e il politico

Parte seconda

Le cause del fallimento del secolo “americano”

L’egemonia americana di fronte alle crisi finanziarie
La globalizzazione di fronte alle conseguenze dell’imperizia americana nel 1997-1999

Conclusioni

Potremo approfittarne?
Sapremo approfittarne?

 

Appendice

Larry Summers, una scelta suicida


 

Apri il PDF (24 pagine)

 

Giancarlo Paciello

Ascesa e caduta del nuovo secolo «americano»

 



Per il popolo palestinese

 

008G

Giancarlo Paciello,
Per il popolo palestinese


 

Giancarlo Paciello

La conquista della Palestina.
Le origini della tragedia palestinese
.
Con testi di Henry Laurens, Francis Jennings,
Zeev Sternhell, Norman Finkelstein, Gherson Shafir

indicepresentazioneautoresintesi

 



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Giampaolo Abbate – Ne «Il luogo in Aristotele» ho tentato di mostrare come Fisica Δ 1-5 contenga una dottrina unica e coerente svolta secondo certe premesse metodologiche che saranno mantenute pressoché costantemente dal primo al quinto capitolo.

Aristotele 003

 

il-luogo-in-aristotele

Giampalo Abbate, Il luogo in Aristotele
Abstract

«Nonostante il tentativo dello Stagirita di offrire un’esposizione esaustiva di tutta la problematica del luogo e di darne una soluzione definitiva con l’arcinota definizione di luogo come “primo limite immobile del contenente», fin dall’antichità i lettori hanno avuto grande difficoltà a conciliare i diversi aspetti della sua dottrina e, soprattutto, a comprendere il senso esatto della sua definizione di luogo, sia riguardo alla realtà del luogo sia in merito a come il concetto di luogo possa essere un valido sostituto dell’assai più familiare concetto di spazio, quale grande contenitore preesistente a tutte le cose (sostenuto, come riportato dallo stesso Aristotele in questo testo, dall’autorità di Esiodo e Platone). Già Teofrasto confessava di non comprendere cosa intendesse il suo maestro, al punto da dare una definizione del luogo quasi fosse forma, una possibilità più volte espressamente negata da Aristotele; ugualmente i peripatetici Stratone e Eudemo mostrano non poca incertezza (nella testimonianze dei cdd. Corollaria de loco del commentario di Simplicio alla Fisica). Non minori difficoltà dichiarano di aver incontrato Alessandro (sempre nella testimonianza del commentario di Simplicio alla Fisica) e Simplicio, che non capiscono come e perché il limite contenente un singolo corpo mosso può essere mobile e immobile ad un tempo; o come Filopono che rifiuta esplicitamente la definizione aristotelica, per riprendere il concetto di spazio quale un intervallo vuoto capace di contenere. Ma neanche la critica moderna dimostra di avere maggiore facilità, in special modo riguardo: 1) alla natura del luogo come limite che ne farebbe un ente bidimensionale, di contro alla sua capacità di contenere un intero corpo che quindi, ne farebbe un ente tridimensionale (ciò che mostrerebbe inoltre, a detta di alcuni studiosi come Algra, Sorabji e Zekl, una strana, ma palese inconciliabilità tra il testo della Fisica e quello delle Categorie, nel quale si parla del luogo in termini di quantità); 2) al carattere dell’immobilità, che mal si connette all’essere limite mobile contenente un corpo mosso, che ha fatto parlare di un’evidente inadeguatezza o incompletezza della dottrina, o addirittura di un’inconsapevolezza del problema da parte di Aristotele (da parte di Bergson, Hussey, Bostock, Ross, ecc.). Una tale diversità di giudizi e un numero così grande di lettori incerti, se non interdetti, fino ai nostri giorni, mostra con sufficiente chiarezza il bisogno di un commento ab initio di tutto Fisica Δ 1-5, che sappia esaminare passo passo la ricerca svolta dallo Stagirita, con un confronto serrato con i maggiori commentari antichi (oltre Simplicio, anche Filopono e Temistio), medievali (Alberto Magno e Tommaso) e moderni, allo scopo di comprendere appieno i motivi che lo hanno condotto a trovare insufficiente il concetto di spazio e a proporre una definizione di luogo così poco intuitiva e così nettamente contrapposta a concetti che filosofi posteriori, anche quelli a lui molto vicino (sia sul piano personale sia su quello dottrinario), troveranno assai più plausibili. Del resto, oltre quelle difficoltà or ora dette, la dottrina aristotelica del luogo ne presenta altre non meno importanti e dunque meritevoli di essere affrontate e risolte, sulle quali però, non sempre la critica si è sempre soffermata (anche nei commentari antichi e medievali): prime fra tutte l’apparente capacità del luogo di essere separato e non separato, nel medesimo tempo e nel medesimo rispetto, dal corpo di cui è luogo, e la comprensione dell’esatto rapporto fra il luogo primo (il luogo contenente solo e soltanto quel corpo, cioè il luogo proprio), mobile, e il luogo comune (il primo dei quali è l’intero universo), immobile. Malgrado questo però, ho tentato di mostrare come Fisica Δ 1-5, pur nell’assenza di un’evidente unità testuale, i non pochi passi oscuri e numerose argomentazioni brachilogiche e involute (difetti comuni, comunque, a molti altri testi dello Stagirita), contenga una dottrina unica e coerente svolta secondo certe premesse metodologiche che saranno mantenute pressoché costantemente dal primo al quinto capitolo, e che molte difficoltà incontrate dagli interpreti dipendono dal non aver riportato ad un unico quadro di riferimento – che pure c’è affermazioni e valutazioni così apparentemente tanto diverse e distanti fra loro. Nel nostro testo vediamo coabitare varie prospettive di analisi – ciò che di primo acchito sconcerta non poco -, perché sono connesse ai differenti ambiti naturali e disciplinari nei quali il luogo ora si manifesta in un modo ora in un altro, senza che il nostro Autore con ciò veda nel luogo una compresenza di proprietà opposte, o in ogni caso difficilmente conciliabili. Aristotele ci mostra che la realtà del luogo è analizzabile secondo vari punti vista, tutti utili e legittimi, che devono esser rispettati nello loro irriducibilità, con i quali dobbiamo fare i conti, nessuno escluso, evitando di trasformare i suoi et…et nei nostri aut…aut.

 

Giampaolo Abbate, IL LUOGO IN ARISTOTELE. Traduzione e commento di Fisica Δ 1-5, Edizioni EUM, 2007.


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Baruch Spinoza (1632-1677) – In quanto concepisce le cose secondo il dettame della ragione, la mente risente egualmente della sua idea tanto se questa sia l’idea di una cosa futura o passata, quanto se sia l’idea di una cosa presente

Baruch Spinoza 08
«In quanto concepisce le cose secondo il dettame della ragione, la mente risente egualmente della sua idea tanto se questa sia l’idea di una cosa futura o passata, quanto se sia l’idea di una cosa presente».

Baruch Spinoza, Etica, IV, prop. LXII.


Baruch Spinoza (1632-1677) – La via che conduce al vero compiacimento dell’animo sembra estremamente difficile, può tuttavia essere trovata. E arduo, in verità, deve essere ciò che tanto raramente si trova. Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare
Baruch Spinoza (1632-1677) – All’uomo niente è più utile dell’uomo. Da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli.
Baruch Spinoza (1632-1677) – La Letizia è il passaggio dell’uomo da una minore ad una maggiore perfezione. La Tristezza è l’atto del passare ad una minore perfezione, cioè l’atto dal quale la potenza di agire dell’uomo viene diminuita o ostacolata.

Alessandro Pallassini – Finitezza e Sostanza. Sulla fondazione della libertà politica nella metafisica di Spinoza.

Coperta 279

Alessandro Pallassini

Finitezza e Sostanza

Sulla fondazione della libertà politica nella metafisica di Spinoza

indicepresentazioneautoresintesi

Leggi l'estratto

Invito alla lettura (alcune pagine del libro “Finitezza e Sostanza)

 


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Euripide (480 a.C.-406 a.C.) – Gli dei non odiano chi è nobile d’animo, soltanto lo fanno soffrire di più di chi non vale niente.

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«Gli dei non odiano chi è nobile d’animo,
soltanto lo fanno soffrire di più di chi non vale niente».

Euripide, Elena, vv.1678-1679.

 

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Elias Canetti (1905-1994) – È intrinseco alla mia natura rifiutare e odiare ogni morte. L’intima natura del potente consiste nel fatto che costui odia la propria morte, soltanto la propria però, mentre la morte degli altri gli è non solo indifferente, ma perfino necessaria.

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Il libro contro la morte

A me non interessa abolirla, cosa che non sarebbe possibile.
A me interessa soltanto bandire la morte.
E. Canetti
 ***
Il mio istinto più profondo è volto contro l’uccidere, ma con l’uccidere assurge e cade il potente. L’intima natura del potente consiste nel fatto che costui odia la propria morte, soltanto la propria però, mentre la morte degli altri gli è non solo indifferente, ma perfino necessaria. Questa tensione fra la propria morte e quella degli altri è il suo carattere costitutivo.
È intrinseco alla mia natura rifiutare e odiare ogni morte.
Non ritengo impossibile che, fra qualche tempo, io arrivi ad accettare in parte la mia morte, ma non accetterò mai quella altrui. Di questo sono cosÌ sicuro, lo sento cosÌ intensamente che potrei porlo come principio del mio pensiero e del mio mondo. E il mio Cogito ergo sum. Odio la morte, dunque sono. Mortem odi ergo sum. Laddove questa frase tralascia la cosa più importante, ossia che io odio ogni morte.
E. Canetti, Il libro contro la morte, Adelphi, 2017, pp. 113-114.
***
Tutte le vite mancate.
Tutti quelli che non furono amati. Tutti quelli che non seppero amare. Tutti quelli cui non fu
dato di accudire un bambino. Tutti quelli che non erano a casa loro. Tutti quelli che non conobbero la varietà degli animali. Tutti quelli che non prestarono mai ascolto a lingue straniere. Tutti quelli che mai si stupirono per le diverse forme di credulità. Tutti quelli che non si batterono contro la morte. Tutti quelli che non furono sopraffatti dal bisogno di sapere. Tutti quelli cui non fu concesso di  le loro innumerevoli conoscenze. Tutti quelli che non vacillarono mai. Tutti quelli che non dissero mai di no. Tutti quelli che non si vergognarono mai della loro pancia. Tutti quelli che non sognarono la fine delle uccisioni. Tutti quelli che si lasciarono strappare i loro ricordi. Tutti quelli che non cedettero mai al loro orgoglio. Tutti quelli che non si vergognarono degli onori. Tutti quelli che non seppero farsi piccoli, che non riuscirono a  Tutti quelli che non seppero mentire senza   servisse a qualcosa. Tutti quelli che non  davanti al lampo della verità. Tutti quelli che un ardente desiderio degli dèi scomparsi. Tutti  che non fecero amicizia con coloro della cui lingua non
capivano neppure una parola. Tutti quelli che non  gli schiavi. Tutti quelli che non affogarono nella compassione. Tutti quelli che si vergognavano di non aver ucciso un uomo. Tutti quelli che non si lasciarono depredare per gratitudine. Tutti quelli che non si rifiutarono di abbandonare la Terra. Tutti quelli che non seppero mai dimenticare che cos’ è un nemico. Tutti quelli che non s’insuperbirono della loro schiena diritta. Tutti quelli che non si spogliarono mai dei loro averi. Tutti quelli che non si lasciarono mai ingannare e tutti quelli che dimenticarono quanto fossero stati ingannati. Tutti quelli che non tagliarono la testa alla loro supponenza, tutti quelli che per saggezza non sorrisero. Tutti quelli che per magnanimità non risero.
Tutte le vite mancate.
 E. Canetti, Il libro contro la morte, Adelphi, 2017, pp. 303-304.
***
Risvolto di copertina
Il libro più importante della sua vita, Canetti lo portò sempre dentro di sé ma non lo compose mai. Per cinquant'anni procrastinò il momento di ordinare in un testo articolato i numerosissimi appunti che, nel dialogo costante con i contemporanei, con i grandi del passato e con i propri lutti familiari, andava prendendo giorno dopo giorno su uno dei temi cardine della sua opera: la battaglia contro la morte, contro la violenza del potere che afferma se stesso annientando gli altri, contro Dio che ha inventato la morte, contro l'uomo che uccide e ama la guerra. Una battaglia che era un costante tentativo di salvare i morti – almeno per qualche tempo ancora – sotto le ali del ricordo: «noi viviamo davvero dei morti. Non oso pensare che cosa saremmo senza di loro». Sospeso tra il desiderio di veder concluso Il libro contro la morte – «È ancora il mio libro per antonomasia. Riuscirò finalmente a scriverlo tutto d'un fiato?» – e la certezza che solo i posteri avrebbero potuto intraprendere il compito ordinatore a lui precluso, Canetti continuò a scrivere fino all'ultimo senza imprigionare nella griglia prepotente di un sistema i suoi pensieri: frasi brevi e icastiche, fabulae minimae, satire, invettive e fulminanti paradossi. Quel compito ordinatore è assolto ora da questo libro, complemento fondamentale e irrinunciabile di Massa e potere: ricostruito con sapienza filologica su materiali in gran parte inediti, esso ci restituisce un mosaico prezioso, collocandosi in posizione eminente fra le maggiori opere di Canetti.

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Barbara Botter – Aristotele non voleva essere un teologo e la teologia era da lui ritenuta una narrazione poetica sui “viventi immortali e felici”.

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Aristotele e i suoi dei

Aristotele e i suoi dèi

Barbara Botter

Aristotele e i suoi dèi

Un’interpretazione del III libro del De philosophia

Carocci Editore, 2011

Collana: Biblioteca di testi e studi

ISBN: 9788843060702

Quarta di copertina
Lamolteplicità di lineamenti assunta dalla teologia aristotelica nell’insieme delle opere del Corpus e spesso all’interno di una stessa opera ha provocato un certo disagio, spesso accompagnato da una pungente polemica, tanto fra gli interpreti antichi di Aristotele, quanto fra i medievali e i moderni. In epoca antica, l’atteggiamento politeistico di Aristotele provocò disorientamento nell’epicureo Velleio. Teologi cristiani e musulmani utilizzarono la dottrina teologica di Aristotele per fondare la visione monoteistica della divinità, benché le differenze con il Dio della Bibbia fossero sotto gli occhi di tutti. Questo divenne un pretesto per scatenare una campagna di denigrazione contro lo Stagirita. Al-Gazali e Lutero ricoprirono Aristotele degli insulti più feroci, benché già Petrarca si fosse alquanto lasciato andare. La tradizione moderna cercò di assumere un atteggiamento più sfumato malcelando un sentimento di rassegnazione. Attraverso l’analisi dei frammenti del libro III dell’opera Sulla Filosofia l’autrice prova a ristabilire la verità storica: Aristotele non voleva essere un teologo e la teologia era da lui ritenuta una narrazione poetica sui “viventi immortali e felici”. Il filosofo antico usa il termine “dio” solo come attributo che può essere predicato ad enti differenti, a patto che essi occupino un grado di eccellenza. I pezzi del mosaico, rimessi insieme in quest’ottica, restituiscono così l’immagine aristotelica di “un dio”, ma non di “Dio”.

Dio e Divino in Aristotele

Dio e Divino in Aristotele

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La necessità naturale in Aristotele


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