George Steiner – Lo spettro della diversità forma un continuum tra i più sottili e in  ogni essere umano sono presenti elementi di mascolinità e di femminilità. Ma la maggior parte degli uomini e delle donne cristallizza la propria essenziale virilità o femminilità in qualche punto di questo continuum.

Salvatore Bravo

 

Lo spettro della diversità forma un continuum tra i più sottili e in  ogni essere umano sono presenti elementi di mascolinità e di femminilità. Ma la maggior parte degli uomini e delle donne cristallizza la propria essenziale virilità o femminilità in qualche punto di questo continuum.

 

 

Verità ed interpretazione

Vi sono opere imperiture, il cui significato polisemico racchiude segretamente la verità della condizione umana, la quale si offre ad una molteplicità di letture, condizionate dalle circostanze storiche. La verità è nella storia e si svela in essa: pertanto vi sono nuclei veritativi filtrati mediante l’orizzonte storico-mondano in cui l’essere umano è situato.

La letteratura greca è fonte di verità, come lo è la filosofia greca: si utilizzano linguaggi differenti ma in entrambe si colgono verità intramontabili. La verità non brilla al di là dello spazio e del tempo; essa è nel mondano, quindi pone problemi interpretativi, e nei differenti periodi storici un particolare aspetto della verità prevale sugli altri. La verità è prismatica e dinamica, è rizomatica, è una unità che contiene e relaziona una pluralità di aspetti tra di loro razionalmente congiunti in una fitta rete di relazioni.

La letteratura e la filosofia greca non possono essere spiegate con il semplice rapporto struttura-sovrastruttura. Tale consapevolezza era presente anche in Marx. La verità eccede la storia, pur vivendo in essa. Ogni semplicismo rischia di introdurre l’irrazionale, e l’irrazionale comporta una contrazione della capacità di decodificare la verità nel suo disvelamento storico.

Il mondo greco è per Marx un problema, poiché sfugge alle categorie del materialismo: vi è in esso un’eccedenza che esige altre categorie per poter essere interpretato e compreso. La verità della condizione umana ha un nucleo profondo che sfugge all’applicazione meccanica di taluni schemi preordinati:

 

«Nell’Introduzione alla critica dell’economia politica, Marx cerca di raffinare il modello ingenuo e sociologicamente rozzo delle relazioni tra la “sovrastruttura” estetico-ideologica di una cultura e la sua base economica sociale. Secondo Marx, non è possibile formulare un’equazione semplicistica e univoca di tali relazioni che sono molto più sottili sia in rapporto al carattere del clima ideologico o artistico di una determinata comunità, sia agli stadi temporali dell’evoluzione sociale».[1]

 

D’altra parte la verità di una “civiltà altra” non ci giunge nell’oggettività abbagliante del mattino, ma essa deve implicare uno sforzo ermeneutico e una tensione dialettica capaci di un doppio movimento: si arretra dinanzi ad essa, poiché consapevoli dell’alterità filtrata mediante schemi, giudizi e pregiudizi del proprio tempo storico al fine di approssimarsi alla sua presenza senza l’arrogante pretesa di possederla:

 

«Quando arriva a noi dall’Antigone di Sofocle, il “significato” è distorto nella sua struttura originaria proprio come la luce sellare è deformata quando arriva a noi attraverso il tempo e campi gravitazionali successivi».[2]

 

Dai Greci siamo distanti e vicini, le loro verità sono le nostre, ma nel contempo il vissuto storico le fa apparire in modo diverso e dona ad esse una diversa configurazione. Gli esseri umani sono proiettivi, pertanto per decodificare l’alterità e la verità è opportuno il lavoro dello spirito senza il quale nessuna interpretazione risulta razionale e ben fondata.

 

Le Antigoni

L’Antigone di Sofocle è un’opera eterna: si dispiega davanti a noi non una semplice tragedia, ma l’umanità nei suoi complessi conflitti dialettici. Il male è l’opposizione senza sintesi: se il particolare e l’universale guerreggiano senza la capacità di sintesi del concetto, si è colti dalla rovina. La vita sociale e politica è attività dialettica finalizzata a conciliare ciò che pare-appare opposto. Eraclito,[3] nel frammento 51, già affermava la necessità dell’unità degli opposti: la verità è l’unità nella quale gli opposti ridisegnano posizioni e significati. L’armonia non è nella sclerotizzazione della vita, ma nel confliggere fecondo e consapevole.

La tragedia del nostro tempo storico è la cultura della cancellazione degli opposti: il conflitto è sostituito dall’omologazione. La verità senza opposti riposizionati nel reciproco riconoscimento è solo “il niente” ideologico. Il conflitto concettuale è stato sostituito dal confliggere crematistico senza riconoscimento delle autocoscienze nella loro specificità materiale e di genere.

Hegel ha interpretato l’Antigone, ne ha colto un aspetto eterno, ovvero in Antigone il conflitto conduce alla rovina, poiché il polo femminile (Antigone) e il polo maschile (Creonte) non ammettono la sintesi. Il dialogo è solo un atto di forza, poiché entrambi non ascoltano e rifiutano il polo opposto che vive in ciascuno. Creonte non ascolta Antigone con le sue ragioni, poiché è distante dal suo polo femminile, e lo stesso avviene in Antigone. Entrambi sono irrigiditi dall’incapacità di pensare e vivere il proprio nucleo profondo nel quale vi è una sintesi che se pensata-vissuta favorisce l’ascolto e la comunicazione:

 

«I riti funerari, poiché rinchiudono letteralmente il morto nello spazio della terra e nella sequenza fantomatica delle generazioni, che sono alla base del mondo famigliare, sono un compito specificatamente femminile. Quando tale compito tocca a una sorella, qualora l’uomo non abbia né madre né moglie che lo riportino alla terra custode, i riti funebri acquistano la massima sacralità. L’atto di Antigone è il più sacro che una donna possa commettere. È anche ein Verbrechen: un crimine. Ci sono situazioni in cui lo stato non è pronto a rinunciare alla propria autorità sui morti».[4]

 

Per Hölderlin Antigone è una “santa pazza”, è il polo dionisiaco, è la verità aorgica che vive solo in relazione alla razionalità apollinea. Resecare i due poli significa spezzare la profondità della razionalità. Senza dualità nell’unità non vi può che essere irrazionalità e una pericolosa scissione in cui le parti prendono il sopravvento fino alla morte. L’unità è nella dualità dei poli: Antigone sente le potenze profonde della vita, la sua sacralità terrena e trascendente, ma è respinta dalla razionalità della polis e dai suoi poteri. Antigone mostra con la sua rivolta e il suo dolore la parzialità dell’altro polo, nella lotta palesa che vi è altro oltre l’ordine stabilito, nel contempo è sull’abisso dell’irrazionale, poiché in lei vi è il prevalere di un solo aspetto:

 

«Ella è la quintessenza dell’Antitheos, di cui il poeta aveva parlato nella lettera a Böhlendorff, nel dicembre 1801. Il che significa che Antigone fa parte di coloro che si pongono di fronte a Dio o agli dèi (Hölderlin usa alternativamente queste due espressioni) con atteggiamento contrario, avverso, polemico. Ma questa opposizione, questo attacco agonistico rappresentano una forma sublime di devozione. […] I punti di riferimento di Hölderlin sono di natura filosofica. Proprio come Empedocle e come Rousseau, secondo la descrizione che Hölderlin ne dà nell’ode “Der Rhein” (Il Reno), Antigone è una “pazza santa” (törig göttlich)».[5]

 

Maschile e femminile nell’Antigone

George Steiner individua il dramma e la verità dell’Antigone nel rifiuto della differenza profonda: ciascun uomo reca con sé il maschile con un fondo femminile e lo stesso accade nella donna. Una società sana consente l’ascolto del sottofondo che completa la disposizione di genere prevalente senza cancellarla. La comunicazione interiore non può che favorire e incentivare le relazioni positive tra i due generi. Antigone rappresenta il rifiuto di tale positiva ambiguità che non chiede la rinuncia o la negazione di nessun polo, ma consente una proficua comunicazione-sintesi. Nella tragedia di Sofocle è rappresentata la negazione, e l’incomunicabilità tra le due figure è il segno di una resecazione interiore proiettata all’esterno. Antigone e Creonte sono l’uno speculare all’altro:

 

«Il germe di tutto il dramma sta nell’incontro tra un uomo e una donna. Nessuna esperienza di cui abbiamo diretta conoscenza è portatrice di un maggiore potenziale conflitto. Essendo inalienabilmente una sola cosa, in virtù dell’umanità che li separa da ogni altra forma di vita, uomo e donna sono allo stesso tempo inalienabilmente diversi. Lo spettro della diversità. Come sappiamo, forma un continuum tra i più sottili. In ogni essere umano sono presenti elementi di mascolinità e di femminilità (ogni incontro, ogni conflitto è, di conseguenza anche una guerra civile all’interno del proprio io ibrido). Ma la maggior parte degli uomini e delle donne cristallizza la propria essenziale virilità o femminilità in qualche punto di questo continuum. Questa riunione della personalità divisa, questa composizione dell’identità, creano una breccia attraverso la quale le forze dell’amore e dell’odio si congiungono».[6]

 

Il tempo attuale è nel segno della separazione da sé e dall’alterità. le innumerevoli tragedie sono il sintomo di una realtà sociale ed economica che ha cancellato la bella unità nella differenza sostituendola con forme manierate e artefatte congegnali al sistema capitalistico. Ovunque si assiste ad una imitazione del femminile e del maschile senza autenticità e relazioni. Estetiche e scelte sono dettate dal sistema, sono curvate dall’industria del maschile e del femminile ad uso e consumo del mercato. La violenza non può che generare se stessa. Senza la letteratura greca e la filosofia l’Occidente è avviato alla decadenza, poiché si priva di opere in cui può guardarsi e pensarsi.

[1] George Steiner, Le Antigoni. Un grande mito classico nell’arte e nella letteratura dell’Occidente, Garzanti, 2003, pag. 142.

[2] Ibidem, pagg. 232-233.

[3] Eraclito, frammento 51: «Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira».

[4] George Steiner, Le Antigoni, cit., pag. 45.

[5] Ibidem, pag. 93

[6] Ibidem, pagg. 262-263.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ernst Bloch e il concetto di Eingedenken. Il futuro è una possibilità propriamente umana, non è un dato naturale. La metafisica umanistica non è solo una proposta filosofica, ma è il percorso che ci conduce oltre l’annientamento del presente e del futuro. L’ontologia del non ancora è la comunità.

«Non veniamo al mondo solo per accogliere o registrare ciò che era, così com’era quando ancora non eravamo, ma tutto ci attende, le cose cercano il loro poeta […]. Ciò che è accaduto, è sempre accaduto solo a metà, e la forza che lo fece accadere, che si espresse in esso in maniera insufficiente, continua a operare in noi e getta il suo bagliore anche sui tentativi parziali, ancora futuri che giacciono dietro di noi. Ciò che prima di noi, senza di noi era appena un fremito, ora è diventato capace di risuonare, riscaldare e illuminare».

E. Bloch

Salvatore Bravo

Ernst Bloch e il concetto di Eingedenken

La metafisica umanistica è la condizione teoretica per trascendere lo stato di reificazione e violenza connaturati all’economicismo capitalistico. In esso ogni possibilità è resa potenziale distruttivo, in quanto la produzione senza limiti non divora solo il pianeta nella sua totalità, ma ancor prima della distruzione ambientale annichilisce l’essere umano negando la sua natura progettuale e comunitaria da concretizzare nella storia. Necessitiamo di una nuova metafisica, dunque, che possa permettere il virtuoso passaggio dalla potenza all’atto della natura umana.

Senza un nuovo umanesimo non vi può essere futuro, ma solo un veloce declino dell’umanità e dell’ambiente storico e naturale nella quale è iscritta la vita.

Nello Spirito dell’utopia di Ernst Bloch il concetto di Eingedenken, rammemorare il futuro, ha una portata teoretica che svela la sua pregnanza concettuale nel tempo presente segnata dalla “dimenticanza” del passato e del futuro. Il concetto di Eingendenk deriva dalla preposizione “in” e dal verbo “gedenken” (‘ricordare’), legato a sua volta a denken (‘pensare’): non a caso le forme più arcaiche presentano la forma ingedenk.

Lo sconfittismo del nostro tempo si connota per la neutralizzazione della memoria storica. La storia nelle sue vicende e vicissitudini, invece, con il concetto di Eingedenken non è consegnata all’oblio ma fonda la metafisica umanistica, la quale ha come centro l’essere umano nella sua concretezza comunitaria. Si intrecciano in un sinolo inestricabile la biografia personale e la storia collettiva che non è persa nel tempo, ma ha la possibilità di essere rivissuta, rammemorata e pensata nelle sue possibilità inespresse. L’ontologia del non ancora è la comunità che pensa il tempo trascorso, non si limita a conteggiare gli eventi sulla linea della storia, ma ne scorge con gli errori le potenzialità progettuali da attuare nel futuro.

In Ernst Bloch la metafisica umanistica vive dell’irraggiamento del passato verso il futuro. Senza la mediazione della coscienza nulla è possibile: le potenzialità sono disperse nel tempo o sono schiacciate dalla gravità dell’economicismo e del fatalismo.

Il futuro è una possibilità propriamente umana, non è un dato naturale. Pertanto solo l’umanità capace di leggere plasticamente il passato può scorgere nelle sue pieghe il futuro. Non si tratta di correggere ciò che fu, o di ripetere in modo ingenuo ciò che è stato, ma di pensare la distanza temporale al fine di poterla comprendere nella sua profondità per estrarne esperienze non completamente compiute o inespresse. Ciò che fu – in tale cornice intenzionale – è vivo nel pensiero che rammemora il passato per poter progettare il futuro a partire dal presente. La storia è il mondo degli uomini e delle donne nella quale la vita prende forma con le sue imperfezioni, deviazioni improvvise e scambi di binari che attendono di essere pensati in modo che possano vivere di nuova luce nel futuro. La prassi è orientata verso il futuro, ma la condizione ontologica del suo operare trasformativo non può che affondare creativamente il suo rizoma nel passato:

«Perciò qui brilla il presentimento di un sapere non ancora cosciente, […] emerge qui un volere modificante, un pensiero motorio del nuovo, in quanto grande e ancora inesplorata consapevolezza o classe di coscienza di un immemorare, capace di conferire al Wiedererinnerung mondo il suo scopo togliendo di mezzo ogni mera rammemorazione […] o ogni mero alfa del platonismo o dello hegelianismo; perciò si mostra qui l’atteggiamento di un filosofare pragmatistico, rivolto tanto al poter volere a ritroso [das zurück Wollenkönnen des Willens] diretto a ciò che fu, quanto al nuovo, a inserzioni metafisico-morali – atteggiamento illuminato da un mondo che non c’è ancora, immediatamente collocato sul ponte verso il futuro, sul problema, dominato dalla propria volontà, della teleologia».1

Metafisica umanistica

Le parole di Ernst Bloch delineano il fulcro sostanziale della metafisica umanistica. L’essere umano non è un automa che appare passivamente nella storia fino a scomparire. Michel Foucault utilizza un’immagine – in Le parole e le cose – per indicare l’apparire fugace dell’idea di essere umano nella storia: sulla sabbia si può scorgere il volto dell’essere umano portato via velocemente dall’onda.

La metafisica umanistica non è una forma di storicismo, non si limita ad enumerare la storia delle idee con le sue visuali antropologiche che diverranno presto archeologia. Essa ha il suo fondamento veritativo nella natura dell’essere umano curvato nella materialità della storia. L’essere umano media con il pensiero l’esperienza storica, e in tal modo pensa il proprio tempo in modo esteso: il passato si riannoda col presente per orientarsi verso il futuro. La prassi è il catalizzatore del tempo pensato che diviene la luce nelle tenebre del nichilismo e nell’oscurantismo del pessimismo senza speranza ed etica:

«Non veniamo al mondo solo per accogliere o registrare ciò che era, così com’era quando ancora non eravamo, ma tutto ci attende [alles wartet auf uns], le cose cercano il loro poeta e vogliono essere riferite a noi. Ciò che è accaduto [geschehen], è sempre accaduto solo a metà [halb geschehen], e la forza che lo fece accadere, che si espresse in esso in maniera insufficiente, continua a operare in noi e getta il suo bagliore anche sui tentativi parziali, ancora futuri che giacciono dietro di noi. Ciò che prima di noi, senza di noi era appena un fremito, ora è diventato capace di risuonare, riscaldare e illuminare»2

Rammemorare ciò che fu

I morti ritornano nel presente, le idee e le lotte trascorse con il loro tributo di sangue e sacrificio sono nel presente. Rammemorare i “morti” significa farli vivere nel presente: ritornano a noi con il pensiero, per progettare il futuro. Non è un eterno ritorno, ma un ritornare per aprire al futuro, per rompere la «gabbia d’acciaio» che vorrebbe restringere la prospettiva al solo presente sclerotizzato nel ciclo consumo-produzione.

Non è un’operazione archeologica, non si tratta di far affiorare il passato per renderlo “oggetto da esporre”, ma di viverlo nell’attività del pensiero, la quale non si limita alla contemplazione di ciò che fu, ma lo riorienta verso il futuro:

«I morti ritornano in nuove connessioni di senso come pure nel nuovo agire, e la storia così concepita, sottoposta a concetti rivoluzionari che continuano a operare, spinta verso la leggenda e interamente illuminata, diventa la non mai perduta funzione nella sua pienezza di testimonianza della rivoluzione e dell’Apocalisse».3

La metafisica umanistica non è una semplice forma di coscienzialismo, in quanto conserva il materialismo storico liberato dai ceppi del determinismo e dai semplicismi delle proiezioni-previsioni degli economisti presi dalle maglie stringenti e vacue della crematistica. Il nostro presente vorrebbe negare la grandezza dell’essere umano riducendolo a semplice archeologia senza futuro.

L’essere umano non è un osso come afferma Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, per cui dinanzi ai riduzionismi che avanzano è necessario opporre e riproporre la metafisica umanistica che riporti la centralità della cura dell’essere umano.

Senza la prassi e la teoretica l’umanità non può che cadere in forme di manipolazione tecnocratica, il cui scopo è impedire l’ascolto profetico delle voci del passato che giungono fino a noi. La metafisica umanistica si traduce in un modello economico che ha come centro l’essere umano. L’economia con fondamento umanistico consente la fioritura dell’umanità, accoglie la pluralità nella concretezza dell’universale. Stabilisce fini alla misura della natura umana, la quale è fondata sul limite, allo scopo di dare forma e identità al singolo nella comunità con la partecipazione consapevole alla produzione. L’ostilità verso ogni forma di umanesimo rivela il dominio capitalistico nella sua verità nichilistica e distruttiva.

La metafisica umanistica è la condizione teoretica per trascendere lo stato di reificazione e violenza connaturati all’economicismo capitalistico. In esso ogni possibilità è resa potenziale distruttivo, in quanto la produzione senza limiti non divora solo il pianeta nella sua totalità, ma ancor prima della distruzione ambientale annichilisce l’essere umano negando la sua natura progettuale e comunitaria da concretizzare nella storia. Necessitiamo di una nuova metafisica, dunque, che possa permettere il virtuoso passaggio dalla potenza all’atto della natura umana.

Senza un nuovo umanesimo non vi può essere futuro, ma solo un veloce declino dell’umanità e dell’ambiente storico e naturale nella quale è iscritta la vita.

La metafisica umanistica non è solo una proposta filosofica, ma è il percorso che ci conduce oltre l’annientamento del presente e del futuro:

«Ma per sollevarsi oltre l’annientamento del mondo, la vita dell’anima deve diventare “pronta” [fertig] nel senso più profondo, andando a fissare felicemente la gomena alla banchina dell’al di là, onde il suo plasma germinale non sia trascinato nell’abisso della morte eterna, e non si perda la meta verso cui è organizzata la vita terrena: la vita eterna, l’immortalità anche transcosmologica, la realtà unica del regno delle anime, la restitutio in integrum fuori dal labirinto del mondo – a causa della pietà di Satana».4

1 E. Bloch, “Über die Gedankenatmosphäre dieser Zeit”, in Geist der Utopie. Erste Fassung, cit., p. 255; il passo si trova in tradotto in alcune parti a cura di S. Marchesoni in E. Bloch, W. Benjamin, Ricordare il futuro. Scritti sull’Eingedenken, Mimesis, Milano 2016, qui, p. 43

2 Ibidem, pag. 34.

3 E. Bloch, Thomas Münzer teologo della rivoluzione, trad. it. di S. Krasnovsky e S. Zecchi, Feltrinelli, Milano 1980, p. 33.

4 E. Bloch, Geist der Utopie. Erste Fassung, cit., p. 442.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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La “cancel culture” procede spedita. Lo scopo è celare l’antiumanesimo imperante: nessuna cura per le persone, ma solo il profitto deve guidare il mondo.

Salvatore Bravo

La cancel culture procede spedita

Lo scopo è celare l’antiumanesimo imperante: nessuna cura per le persone,
ma solo il
profitto deve guidare il mondo.

Luca Grecchi con il suo impegno decennale ci è di ausilio per comprendere le ragioni strutturali della cultura della cancellazione: si deve nascondere ai “sussunti” che il migliore dei mondi possibili condanna alla cattiva vita le generazioni del nostro presente e priva le future generazioni della possibilità ontologica di progettare e vivere una vita degna di essere vissuta.

Il testo di Luca Grecchi Perché non possiamo non dirci Greci fu scritto più di un decennio fa, ma oggi è più vero e autentico che mai, ci pone dinanzi alla verità del nostro tempo storico, ci conduce a pensarlo. Ciò potrebbe essere terapeutico, in quanto ci aiuta a capire le ragioni dell’infelicità che attanaglia innumerevoli vite malgrado le promesse della crematistica. I Greci sono trasgressivi, in quanto ci insegnano ad essere autenticamente trasgressivi, e questo non può essere tollerato da un sistema che prolifera nel culto clericale della crematistica

Le buone letture sono silenziose, ma consentono di fuoriuscire dalla accidia in cui quotidianamente ci si vorrebbe imprigionare e dalla immateriale violenza di quella weberiana «gabbia d’acciaio» dagli opachi splendori che con ritmo serrato si rovesciano in funambolici ed interminabili supplizi, pubblici e privati.


Cancel culture

La Howard University ha ridimensionato gli studi classici. Inoltre, largo spazio è stato dato dai media alle tesi del prof. Dan-el Padilla Peralta, docente a Princeton, originario della Repubblica Dominicana, il quale ha individuato nella cultura dell’antichità il fondamento del suprematismo bianco. La cancel culture procede spedita, si inneggia alla libertà e alla difesa dei diritti delle minoranze, la causa di ogni male è individuato nelle civiltà passate. Il presente è l’incipit di un nuovo mondo nel quale ogni discriminazione è destinata a scomparire. L’analisi ossessiva del passato, sempre negativa, il giudizio esemplificato teso a cancellare ogni possibile comparazione contrastiva tra il modello economico contemporaneo e modelli di altre civiltà, ha lo scopo di ipostatizzare il presente, di renderlo immacolato e scevro da ogni macchia e critica. Il sistema opera per cancellazione, utilizza nobili ragioni per fini ideologici. Lo scopo è celare l’antiumanesimo imperante: nessuna cura per le persone, ma solo il profitto deve guidare il mondo. Libertà e benessere sono proporzionali al censo, chi non ce la fa è lasciato indietro, è colpevole di diserzione o semplicemente non è all’altezza del migliore dei mondi possibili. In questo clima di conservazione e limitazione del pensiero teoretico e divergente vi sono eccezioni che aiutano a comprendere il tempo presente. Luca Grecchi con il suo impegno decennale ci è di ausilio per comprendere le ragioni strutturali della cultura della cancellazione: si deve nascondere ai “sussunti” che il migliore dei mondi possibili condanna alla cattiva vita le generazioni del nostro presente e priva le future generazioni della possibilità ontologica di progettare e vivere una vita degna di essere vissuta:

«Il cosiddetto “progresso economico” sta infatti costando molto caro all’Occidente in termini di qualità spirituale della vita per le generazioni attuali, e di speranza di vita per le generazioni future, così come sta costando caro da parecchio tempo alle centinaia di milioni di poveri del mondo non occidentale».1

 

Luca Grecchi e lo storicismo crociano

Luca Grecchi nuota in senso contrario. Gli antichi Greci sono il paradigma con cui pensare il presente e comprenderlo. La cultura occidentale è cristiana e greca, oggi entrambe sono rimosse dall’orizzonte etico e culturale. Per valorizzare il pensiero greco bisogna uscire dalla trappola dello storicismo crociano per il quale ciò che viene dopo è più vero di ciò che viene prima.

La verità sfugge alle maglie della successione temporale, essa “appare” in epoche differenti, può scompare nelle vicissitudini storiche, ma la verità attraversa lo storicismo, lo fende per mostrare che il dopo può essere meno vero del prima.

Il mondo greco ci insegna che una civiltà è eccellente, se è curvata sulla cura dell’essere umano e del ben vivere, se si confronta con le spinte distruttrici presenti in essa.

Nel mondo prefilosofico i Greci non si occupavano ingenuamente del cosmo e degli dèi, ma in essi proiettavano le dinamiche umane. In tal mondo oggettivavano l’umano con il suo caos per armonizzare la comunità e fondarla su solide fondamenta veritative. Il centro del pensiero e della prassi era l’essere umano nella comunità. Le forze cosmiche e divine erano interpretate in modo olistico e dinamico: in esse si rifletteva la vita della comunità; il sapere era finalizzato alla buona prassi politica:

«Nella letteratura prefilosofca era infatti presente non tanto la contemplazione disinteressata del cosmo, quanto un tentativo di unificazione del molteplice e di armonizzazione del caos, operato proprio dall’uomo. L’uomo richiedeva infatti di conoscere l’ordine del cosmo per potervi poi vivere in modo più conforme alla propria essenza razionale, morale e simbolica. È errata pertanto la tesi di chi sostiene che l’uomo avrebbe ricercato la contemplazione del cosmo, nella Grecia, solo per poter poi vivere in modo più conforme a tale ordine. La natura, il cosmo, segnarono indubbiamente, con le loro strutture, i limiti dell’azione umana. All’interno di questi limiti, però, l’uomo operò sempre per comprendere e realizzare nel modo più compiuto la propria essenza».2

 

Non fu filosofia ontocentrica

Non fu la filosofia greca ontocentrica, in quanto la riflessione sull’essere è stata funzionale a codificare la buona vita. L’essere è sempre stato inserito all’interno della concretezza della buona vita. L’essere, metafora della comunità stabile e delle buone leggi rispettose della natura, è stato un tema non secondario dei grandi filosofi classici, i quali hanno utilizzato un nuovo linguaggio per l’umanesimo greco, lo hanno categorizzato e concettualizzato per affinarlo e per criticare la crematistica che minacciava la comunità. L’essere umano, dunque, è sempre stata la priorità del mondo greco:

«La riflessione dell’essere fu molto importante nel pensiero classico. Essa infatti occupa un posto rilevante non solo nel pensiero di Parmenide, ma anche nel pensiero di Platone ed Aristotele (sebbene si sia poi sempre più diradata nell’ellenismo). Tuttavia l’essere costituì, per utilizzare una metafora, la semplice cornice del quadro, infatti, rimase sempre l’uomo».3

Ha ben detto Luca Grecchi: la grecità fu umanesimo, per cui da ciò comprendiamo le ragioni strutturali dell’attacco alla cultura classica. Essa, con la sua semplice esistenza, già denuncia le derive nichilistiche e crematistiche della globalizzazione neoliberista. Il mondo classico è divergente rispetto ai nostri malinconici tempi, per cui la globalizzazione che vorrebbe eternizzarsi eliminando ogni dialettica vorrebbe ridurre al silenzio una civiltà che smentisce la presunta superiorità del neoliberismo con il suo feticismo delle merci. Una civiltà è viva, se le tendenze crematistiche incontrano il limite positivo del logos, altrimenti è condannata al dissolvimento. La nostra realtà sociale è adialettica, pertanto rischia l’abisso:

«Ora: non vogliamo affatto negare che Marx avesse ragione nel sottolineare la specificità del modo di produzione capitalistico rispetto ai modi di produzione precedenti. Ciò nonostante, non ci pare che la discontinuità fra il modo di produzione antico ed il modo di produzione capitalistico sia tale da invalidare tout court le proposte teoretiche, ad esempio, di Platone ed Aristotele. Infatti, come i due grandi filosofi hanno mostrato, la società greca era certo gerarchica, elitaria ed aristocratica, ma solo per la presenza centrale in essa della crematistica, presenza che costituisce il nesso di continuità fra pressoché tutti i principali modi di produzione storicamente sviluppatisi. Non a caso Platone ed Aristotele – ma anche prima di loro, Solone ed altri – attribuirono proprio alla crematistica, ossia alla ricerca del massimo arricchimento privato, le cause dei mali della società greca, le quali sono nella sostanza differenti rispetto a quelle della società capitalistica, anch’essa infatti gerarchica, elitaria ed aristocratica».4

La dimostrazione della generale codificazione umanistica della civiltà greca e in particolare della filosofia è la presenza di pochi pensatori relativisti e sostanzialmente nichilisti:

«Altrettanto tranquillamente si può affermare che l’unica eccezione in tal senso, nel pensiero greco, fu costituita da alcuni esponenti della sofistica e della eristica. Una eccezione, però, conferma la regola, e la regola, in questo caso, conferma proprio la tesi qui esposta. Tale tesi sostiene, in pratica, che la Grecità si costituì essenzialmente come opera di resistenza culturale e politica all’antiumanesimo del denaro, dannoso per gli uomini e per la natura».5

L’eccezione è una conferma della regola, non la smentisce, è una prova evidente della ricostruzione e dell’interpretazione svolta da Luca Grecchi e sostenuta, anche, da grandi studiosi come Rodolfo Mondolfo, Costanzo Preve, Enrico Berti ecc.

Solo se si decodifica chiaramente il pensiero greco nella sua postura umanistica, si può ben comprendere la necessità di rileggere e studiare gli antichi Greci, non per una vuota idolatria, ma per capire il presente nel solco di un’identità europea e occidentale da trasformare in prassi e non certo in erudizione filologica e ritrovare, così, il sentiero interrotto che conduce alla felicità:

«In questa situazione, perché dovrebbe avere ancora senso dirci Greci? Ciò ha ancora senso proprio perché gli antichi Greci, come dicevamo in precedenza, furono coloro che per primi – o maggiormente – posero l’uomo al centro dell’essere, ossia posero la massima cura alla felicità dell’uomo nel proprio contesto sociale, pur nel rispetto dei limiti imposti dalla natura. Seguendo gli antichi Greci, potremmo esercitare la sola possibilità che ci resta di arrestare il fiume antiumanistico prodotto dalla crematistica, la cui hybris rischia di distruggere l’uomo e il cosmo».6

 

Felicità

La ricerca della felicità, la valorizzazione dei talenti sul comune sostrato della natura umana razionale e comunitaria è negata in modo quotidiano nel sistema capitalistico. Gli effetti sono palesi, non necessitano di particolari capacità critiche per riconoscerli. Nel tempo in cui trasgredire è solo edonismo acquisitivo, gli antichi Greci ci riportano alla necessità della felicità quale esperienza comunitaria e razionale senza di essa nessuna vita è degna di essere vissuta, ma si consuma nel vespaio della violenza competitiva. In tale cornice l’identità si disperde, diviene liquida fino ad evaporare, alla fine non resta che il niente. Studiare i Greci nel tempo ordinario della distruzione dell’umano ha un senso più profondo che mai, in quanto nessun farmaco può restituirci i fondamenti senza i quali non siamo che fuscelli nella tempesta del capitale destinati a scomparire tra i flutti del PIL senza speranza.

Il testo di Luca Grecchi Perché non possiamo non dirci Greci fu scritto più di un decennio fa, ma oggi è più vero e autentico che mai, ci pone dinanzi alla verità del nostro tempo storico, ci conduce a pensarlo. Ciò potrebbe essere terapeutico, in quanto ci aiuta a capire le ragioni dell’infelicità che attanaglia innumerevoli vite malgrado le promesse della crematistica. I Greci sono trasgressivi, in quanto ci insegnano ad essere autenticamente trasgressivi, e questo non può essere tollerato da un sistema che prolifera nel culto clericale della crematistica:

«L’umanesimo, inteso, come cura dell’uomo rispettosa del cosmo, è a nostro avviso il primo pilastro della Grecità. Questo pilastro è però strutturalmente connesso ad un secondo pilastro, costituito da quella che potremmo definire anticramatisticagreca. I due pilastri sono connessi in quanto la crematistica, intesa come arte di far denaro, è criticata da pressoché tutto il pensiero greco proprio in quanto innaturale, ossia contraria alla natura umana”».7

Le buone letture sono silenziose, ma consentono di fuoriuscire dalla accidia in cui quotidianamente ci si vorrebbe imprigionare e dalla immateriale violenza di quella weberiana «gabbia d’acciaio» dagli opachi splendori che con ritmo serrato si rovesciano in funambolici ed interminabili supplizi, pubblici e privati.

Salvatore Bravo

1 Luca Grecchi, Perché non possiamo non dirci Greci, Petite Plaisance, Pistoia, 2010, pag. 66.

2 Ibidem, pag. 39.

3 Ibidem, pag. 44.

4 Ibidem, pag. 27.

5 Ibidem, pag. 57.

6 Ibidem, pag. 73.

7 Ibidem, pag. 53.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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La società di Ernesto Balducci. L’uomo nuovo è l’uomo conviviale, che non domina il mondo. Il suo sapere non è potere che stupra e saccheggia il mondo, ma è ascolto. La libertà non è nell’accumulo crematistico. L’essere umano è relazione d’ascolto. Chi non concepisce che l’utilizzo porta il silenzio nella sua esistenza. La libertà è polifonica. Nella profondità dell’anima vi è il “dono”, trasgressione massima al capitalismo. La scelta è tra società del dono o società dell’utile. Senza il dono non vi è futuro per nessuno.


Salvatore Bravo

Ernesto Balducci: società religiosa e cristica

La distinzione tra società religiosa e società cristica è una categoria interpretativa con la quale Ernesto Balducci distingue il dominio puntellato dalla religione “mezzo” per giustificare la gerarchia e la reificazione e la figura di Cristo, il quale è stato un rivoluzionario: ha scacciato i mercanti dal tempio e ha rovesciato – con la sua testimonianza – le gerarchie, indicando nella fraterna convivialità l’unico percorso per realizzare e vivere in pienezza la propria e l’altrui umanità. Le gerarchie e la logica acquisitiva/proprietaria estraniano, rendono le soggettività nemiche, veicolano il conflitto quale malinconica normalità dell’infelice convivenza tra gli uomini. Senza indagine critica e razionale non vi può essere l’esodo dalla distruttività del capitalismo.

L’intelligenza competitiva ha realizzato la “società religiosa”: si è in competizione con l’alterità e con se stessi, si è perennemente sotto il giogo dell’illimitato.

La nuova cattiva religione dell’economicismo è lo sgabello del dominio. Il dramma è che non vi è alcun paradigma alternativo nel tempo attuale che possa svelare il carattere clericale del potere della finanza. Si procede a smantellare la cultura critica in modo da omologare l’orizzonte linguistico: tutto dev’essere come la notte in cui le vacche sono tutte nere. L’indistinguibile consente all’ideologia della finanza di rappresentarsi come l’unica verità possibile. Ci si inchina all’altare del valore di scambio: oltre la finanza che si è impiantata nel cuore e nella mente non vi è altro. In tempi in cui l’antiumanesimo è prassi ordinaria, la rilettura dei testi di Ernesto Balducci può riattivare le energie sopite dalla plumbea condizione storica attuale. Francesco d’Assisi, nell’opera di E. Balducci, è l’uomo nuovo:

«Ma nel concedere a Francesco quanto chiedeva, Onorio non intese affatto annullare l’‘indulgenza d’oltremare’, che anzi, tornato a Roma con la sua curia, rimise in moto la macchina organizzativa e propagandistica delle crociate. Il 23 gennaio 1217 scrisse ai fedeli della Lombardia e della Toscana una lettera nella quale la sconcertante teologia del suo predecessore è condotta al limite: il sangue di Cristo vi appare ridotto a un titolo catastale».[1]

Francesco d’Assisi ha insegnato una eterna verità: l’uomo nuovo è l’uomo conviviale, non domina il mondo, il suo sapere non è potere che trasforma, stupra e saccheggia il creato, ma è ascolto, “creatura tra le creature”, vive una razionalità oceanica in cui la vita ritrova la parola. La libertà non è nell’accumulo crematistico, ma nell’uscire dal mondo per testimoniare la convivialità cosmica.

Francesco d’Assisi di E. Balducci non è una biografia, ma in controluce è una radicale critica alla società contemporanea e alla chiesa cattolica che ha posto la conservazione al centro e non certo Cristo. La Chiesa ha utilizzato Cristo come “un titolo catastale”, un mezzo per giustificare “equilibri sociali” e riscuotere interessi sul titolo “Cristo” quotato nel borsino del mondo. Problema annoso, vi è un chiesa invisibile e una chiesa pronta a schierarsi con i poteri forti.

La libertà in Francesco d’Assisi

Francesco d’Assisi è l’uomo nuovo di ogni epoca, figura carsica pronta a materializzarsi in ogni tempo, è l’uomo nella sua purezza etica che spezza la violenza del valore di scambio.

Ernesto Balducci lo spoglia del titolo di “Santo”: non è l’uomo di una religione o di un’epoca, ma è l’uomo profondo e universale, travalica i confini e le categorie religiose e ideologiche per essere “semplicemente un uomo”:

«La “libertà della gloria” non è una semplice condizione di libertà psicologica, quella, ad esempio, concessa ai poeti, che anche loro rendono accessibili i segreti delle cose (ma si tratta di segreti, per così dire, sul nostro versante, che dilatano l’orizzonte del sentimento senza sradicarlo dal suo centro), è un abitare nel mondo ma dal lato di Dio, e cioè dal lato da cui le cose si vedono prima che entrino dentro la parabola entropica che le porta alla consunzione. Ecco perché Francesco aveva riguardo per le cose inanimate, e parlava con loro ottenendone obbedienza per via di persuasione e non con l’imperio del taumaturgo».[2]

La libertà è relazione con gli esseri animati e inanimati, è lasciare che essi vivano e muoiano nella loro pienezza ontologica. Ritrarsi dall’uso, perché il mondo sia è la legge della libertà. Se non si rende l’altro libero non si è liberi. La libertà rompe il circuito entropico delle dipendenze: usare l’altro come mezzo significa dipendere e nello stesso tempo negarsi. L’essere umano è relazione d’ascolto. Chi non concepisce che l’utilizzo porta il silenzio nella sua esistenza. La violenza germina nel silenzio dell’altro. La libertà è polifonica, si spengono in essa la tracotanza degli oratores, e al suo posto gemmano le parole e le voci nell’incontro, si è umili nella libertà della convivialità:

 «La vera radice di questa filosofia è la “libertà”. “Il sommo studio di Francesco era l’esistere libero da tutte le cose di questo mondo” (1 Cel, 71). In quanto è una forma di possesso, la scienza, al pari di ogni altra ricchezza, imprigiona lo spirito in uno stato di dipendenza dalle cose che si sanno, e cioè da quel patrimonio di cognizioni e di abilità che accomuna nel medesimo privilegio il ceto dei dotti, chierici o laici, e apre nella società la discriminazione fra i letterati e gli ‘idioti’».[3]

La libertà è concreta, poiché Francesco d’Assisi è egli stesso “porziuncola”, si rende “piccolo”, affinché il creato possa svelarsi nel suo volto: nulla è separato, ma tutto è in relazione. La condivisione comunitaria non è solo una prospettiva, un “sentire misticheggiante”, ma è l’adesione alla verità della natura, in essa tutto è relazione, nulla è separato. L’essere umano è parte viva dell’unità, la felicità è nel vivere la totalità dinamica:

«Nel far uso di questa sua capacità di stringere accordi con le creature, l’intento di Francesco era di riconciliare tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra, quelle animate e quelle inanimate, spezzando le pareti di separazione, anche quelle create dall’istinto sacrale. La nascita di Gesù gli sembrava, nell’ottica della fede, il vero momento della festa cosmica. Come alla Verna l’umanità del Cristo crocifisso, sciogliendosi dalle regali raffigurazioni bizantine, si impresse in modo misterioso nella stessa carne di Francesco e tornò ad essere, anche nella tradizione devota, l’emblema dell’umanità sofferente, così a Greccio per volontà di Francesco, una volta tanto, la liturgia clericale del Natale ritrovò la verità umana, sociale e fisica della nascita di Gesù».[4]

La festa cosmica non è arretramento nell’arcaico o nell’animismo, ma è la comunione del sentire soffocata e vilipesa dalla sovrastruttura acquisitiva.

Dono e profondità

Nulla fa più paura all’essere umano che la sua profondità. In quell’abisso vi è il male, ma vi sono le sorgenti della verità e del bene che abbattono l’utilitarismo mercantile che divora le vite e le curva al solo valore di scambio. Nella profondità dell’anima vi è “il dono”, trasgressione massima al capitalismo e inibita con la pervasiva logica del calcolo:

“I suoi rapporti di fraternità con le creature non sono da intendere come giochi poetici, ma come esperimenti vissuti di un possibile rapporto tra l’uomo e il suo ambiente vitale. Essi ci suggeriscono non un regresso verso l’arcaico, ma uno spostamento dell’esistenza in profondità, lungo l’asse ontologico. I rapporti economici della società di mercato, questo voglio dire, non vanno demonizzati come a volte sembrò fare lo stesso Francesco. In base alla divisione del lavoro lo scambio dei prodotti mira a realizzare l’utile per il maggior numero di persone possibile, come è nelle esigenze dell’uomo in quanto essere sociale. Ma nel regime reale dell’economia, che cosa avviene? Avviene che le cose si allontanano sempre di più dal loro valore di uso, di oggetti di bisogno, e acquistano il valore di scambio, nel quale la cosa, diventata merce, non è più l’equivalente di se stessa, ma tanto vale quanto è stabilito dalla misura di scambio che è il denaro. Questa mercificazione esce di controllo e assume per suo conto il controllo di tutto, arrivando ad incidere nella stessa modalità percettiva con cui l’uomo si mette in diretto rapporto con le cose, le quali perdono ai suoi occhi la loro nativa consistenza e la loro possibilità di rispondere al suo bisogno».[5]

Nel dono si rivela “Dio nell’uomo” e “l’uomo in Dio”: concetti che si sottraggono ad ogni sterile e vacua categorizzazione. La definizione geometrica è una forma di dominio a cui bisogna rinunciare, perché dio e l’uomo possano essere nella parola, ma nel contempo il disvelamento è inesauribile, non è contenibile in formule da usare per una “società religiosa”. Ernesto Balducci ricorda in L’uomo planetario nel 1943 in Groenlandia[6] la nave Dorchester colpita da un siluro tedesco, quattro cappellani militari: un rabbino, un sacerdote cattolico e due pastori evangelici avevano ceduto la loro cintura di salvezza ad altri. Decisero di legarsi l’un l’altro e di lasciarsi cadere nell’abisso insieme, mentre pregavano. Questa immagine non ha mai abbandonato Ernesto Balducci. Il dio del dono è nella testimonianza vivente dei quattro cappellani che si donano per vivere l’eternità e l’abbondanza della vita. Senza il dono non vi è salvezza, ma solo il contrarsi del tempo nella violenza dell’isolamento e dell’astratto nel quale tutto muore. Il bivio a cui siamo giunti è la scelta tra società del dono o dell’utile, senza il dono non vi è futuro per nessuno.

Salvatore Bravo

[1] Ernesto Balducci, Francesco d’Assisi, Giunti Editore, 2014, p. 96.

[2] Ibidem, p. 136

[3] Ibidem, p. 107

[4] Ibidem, p. 142

[5] Ibidem, p. 135

[6] Ernesto Balducci, L’uomo planetario, Giunti Editore, 2005, p. 64.


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Paul Gille – L’uomo è un essere pensante, dotato di coscienza e di ragione, capace di concepire e di volere il giusto. Avere un ideale, un’idea sintetica di giustezza e di giustizia, ecco quel che costituisce la nobiltà e la superiorità umana. Vivere solo per se stessi è contro natura, l’indipendenza cinica è un’aberrazione. Tutto si sorregge a vicenda in questo grande organismo che è l’universo; e la solidarietà è un fatto prima d’essere un principio.

Salvatore Bravo

A proposito di Paul Gille

 

Sì, l’uomo è un animale, e, come tale, sottomesso, lo sappiamo anche troppo, a tutte le esigenze, a tutte le necessità fisiologiche della vita animale; ma è anche un essere pensante, un essere dotato di coscienza e di ragione, capace di concepire e di volere Il giusto, in tutti i campi, in tutta l’estensione del termine. Avere un ideale — un’idea astratta, un’idea sintetica di giustezza e di giustizia – ecco quel che costituisce la nobiltà e la superiorità umana.

Vivere solo per se stessi è contro natura, una chimera irrealizzabile e malsana; l’indipendenza cinica è un’aberrazione. È tanto impossibile vivere solo per sé, quanto il vivere soltanto da sé; poiché mille legami visibili e invisibili ci riattaccano al di fuori, irradiano attorno a noi e vanno dall’ambiente a noi e da noi all’ambiente. Tutto si sorregge a vicenda in questo grande organismo che è l’universo; e la solidarietà è un fatto prima d’essere un principio.

Paul Gille

 

L’introduzione di Saverio Francesco Merlino al testo di Paul Gille

Gli ultimi anni di Saverio Francesco Merlino sono poco conosciuti, non si hanno molte notizie in merito. Ciò malgrado, nel 1925 scrive la prefazione al testo dell’amico Paul Gille Abbozzo di una filosofia della dignità umana, edito in Italia nel 1926. La prefazione è doppiamente importante, in quanto è un omaggio ad un amico di lotta, di cui condivide concetti e plessi teorici quali: l’anti-economicismo, il capitalismo come monopolio e la libertà come potenzialità umana da concretizzare con la rivoluzione anarchica. Contro ogni pessimismo e nichilismo Merlino afferma nella prefazione che se l’essere umano fosse una creatura guidata da “sentimenti primitivi” la comunità non sarebbe possibile. Lo sarebbe a condizione di un apparato di difesa esteso che dovrebbe difendere ogni cittadino dall’aggressione altrui. Ma così non è: la comunità esiste malgrado le contraddizioni e testimonia che non è riducibile al pessimismo antropologico liberista. Vi è in ogni essere umano un embrione di dignità personale e rispetto dell’altro che si potenzia con l’educazione e con la prassi paideutica. L’essere umano è un essere sociale e politico, ma tali prerogative umane necessitano di condizioni politiche adeguate, affinché possano attuarsi. La libertà è autonomia e capacità di fondare la propria esistenza su comuni fondamenta comunitarie. La “libertà liberista” è, invece, sopraffazione, mentre la libertà socialista ed anarchica è il riconoscimento consapevole della pari dignità di ogni uomo. Nessuna esistenza può essere scissa dalla fratellanza riconosciuta e consapevole. Merlino riconosce un embrione di giustizia e comunità in ogni essere umano, la società è a misura di essere umano se pone le condizioni per la sua umanizzazione:

 

«Infine, se l’uomo non fosse dotato di questo sentimento primitivo di dignità a difesa personale, che è l’embrione della giustizia, la convivenza non sarebbe stata e non sarebbe possibile: ammenoché ogni individuo non fosse costantemente accompagnato passo per passo da un carabiniere, che lo proteggesse dalle altrui violenze, e da un giudice pronto a dirimere tutte le contese e beghe, in cui egli si può trovare impigliato col suo prossimo: nel qual caso, poi sorgerebbe più arduo e assillante che mai il problema: chi ci protegge da’ nostri protettori? come salvaguardare la nostra libertà, il nostro diritto, la nostra personalità, dagli abusi e dagli arbitrii dell’autorità, a cui ci troviamo sottomessi?».[1]

 

L’egoismo personale può essere sublimato in solidarietà con una attenta educazione. La dignità personale coesiste e trova il suo senso nella dignità collettiva. Non si tratta di solidarietà astratta, ma di prassi, e dunque la solidarietà diviene il fondamento metafisico che guida la vita sociale ed economica. Si impara ad essere solidali con l’affinamento della natura umana nella storia. Merlino, nell’opera di Gille, contempla se stesso e la sua azione politica mai scissa da un implicita metafisica. Aggiunge infatti nell’introduzione:

 

«I vincoli di parentela, i rapporti di amicizia e di vicinato, gli affetti vari e il sorgere d’interessi collettivi (comuni a un dato aggregato) producono la formazione di sentimenti, di costumi ecc., che mutano il sentimento primitivo di dignità individuale, che potrebbe essere anche puro egoismo, in un sentimento ego-altruistico di dignità collettiva (solidarietà nazionale, spirito di campanile ecc.), e contribuiscono anche essi a cementare la società, che può perciò reggersi in gran parte, come si regge, per il libero gioco delle volontà, delle energie, de’ bisogni degl’individui, e per virtù de’ sentimenti affettivi che mantengono uniti gli uomini più e meglio che non possano fare le leggi, la forza organizzata gerarchicamente e disciplinata, e le varie coazioni economiche, militari e poliziesche! Così il sentimento individuale della dignità personale si viene approfondendo e raffinando nell’animo umano, e si estende dall’individuo al gruppo e all’aggregato politico (nazione o Stato), da’ rapporti privati e rapporti tra le classi e tra governati e governanti, e tra popoli e popoli, e da ultimo da sentimento particolare (individuale, regionale o nazionale) si trasforma nel sentimento universale della dignità umana, ossia comune a tutti gli uomini, che ciascuno sente per sé e per gli altri, e che comprende in sé, e riassume, valorizzandoli, i sentimenti di libertà e di responsabilità, di reciprocanza, di solidarietà, di umanità e di giustizia. Questo, mi pare, il concetto fondamentale dell’opera del Gille, ricca di osservazioni acute e argute, e atta a sollevare gli animi dalla morta gora della società presente alla contemplazione di un avvenire migliore, che noi tutti dobbiamo affrettare coi voti e con le opere».

 

Paul Gille[2] e l’anarchia

Vi sono modelli di anarchia e libertà, il momento storico attuale utilizza il termine anarchia in modo improprio ed ideologico: l’anarchia sarebbe scissione da ogni vincolo etico e politico. La versione liberista dell’anarchia è usata per affermare l’individualismo astratto e tracotante, funzionale all’aggressività liberista. L’anarchia nel sistema liberista è il disconoscimento di ogni comune fondamento umano; si perseguirebbero solo interessi privati. Paul Gille nel 1926 guarda invece con gli occhi del pensatore l’anomia anarchica liberista e la distingue dalla anarchia autentica, la quale è solidale ed anti-individualista. L’anarchia, nell’ottica di Paul Gille, deve porre le condizioni per la prassi della libertà umana. Non vi può essere individualità che nella comunità liberata dall’autoritarismo verticistico :

 

«Ma questa an-archia razionale è l’antitesi dell’anarchia individualista e particolarista in seno alla quale viviamo. Tra l’una e l’altra c’è antinomia, c’è contrasto e opposizione di principio. Qui l’assolutismo, l’egoismo individuale e collettivo, e ipocrita o brutale, la violenza autoritaria sotto tutte le sue forme; là, la ragione impersonale, universale, e il diritto umano: la libertà nella giustizia. È una sofisticazione sacrilega, un sofisma verbale, un gioco di parole, quello con cui ci si presentano troppo spesso come atti innovatori, esemplari e “rivoluzionari”, dei gesti di pura violenza impulsiva e cieca, degli atti di autoritarismo brutale che non escono dalle consuetudini della vita attuale».[3]

L’età della sofisticazione assimila i concetti rivoluzionari per curvarli ai bisogni del capitale. La forza perversa del capitalismo è nel suo vuoto metafisico: non vi è fondazione veritativa, pertanto tutto si trasforma in un gioco verbale per la propaganda in funzione del valore di scambio e del dominio muscolare.

 

Oltre i semplicismi

Il semplicismo marxista è pensato e oggetto di critica radicale: l’essere umano non è passivamente in attesa delle leggi della storia, ne è condizionato, ma non determinato. Le circostanze economiche devono essere mediate dal soggetto mediante astrazione e concettualizzazione con cui ridisegnare le prospettive storiche future e trasformare in atto ciò che è in potenza:

 

«Il semplicismo economico, il semplicismo materialista di Marx, è tanto falso, tanto assurdo quanto il semplicismo degli idealisti puri. Negando la causalità della coscienza e della volontà, esso disconosce questa verità biologica elementare che l’uomo, essere vivente, non è puramente passivo, che è dotato d’attività, di movimento proprio, d’iniziativa; esso disconosce questa verità psicologica, che ogni azione cosciente è un fatto complesso, in cui interviene, come sorgente, come fattore efficiente, il fattore personale, il fattore psichico; esso disconosce infine questa verità sociologica, che la vita sociale riposa sulla psicologia collettiva, dalla quale emana, per così dire, come un fiore dal suo stelo».[4]

 

L’automatismo economicistico riduce l’essere umano a semplice animale sottoposto alle leggi fisiologiche. Un certo marxismo fa delle leggi economiche la struttura fisiologica che determina la storia. L’anti-umanesimo di tale economicismo è contestato dall’anarchico Paul Gille, in quanto l’essere umano ha coscienza di sé ed è un essere pensante. I condizionamenti non possono eliminare la natura solidale e pensante dell’essere umano, il pensiero è verticalità metafisica, poiché con esso il soggetto si eleva dai semplici calcoli egoistici per incontrare gli ideali di giustizia. Paul Gille interpreta la natura tutta come un movimento energetico che tende all’aggregazione, dall’atomo all’essere umano vi è una traiettoria che di grado in grado, di salto in salto, conduce alla libertà consapevole dell’essere umano che non nega il soggetto ma lo afferma. Si è liberi nel riconoscimento della reciproca condizione umana. Ogni individualismo autoritario nega la specificità umana e offende la dignità umana. La coscienza pensante è incontro con l’altro che lo eleva gradualmente dalla singolarità alla comunità solidale:

 

“Sì, l’uomo è un animale, e, come tale, sottomesso, lo sappiamo anche troppo, a tutte le esigenze, a tutte le necessità fisiologiche della vita animale; ma è anche un essere pensante, un essere dotato di coscienza e di ragione, capace di concepire e di volere Il giusto, in tutti i campi, in tutta l’estensione del termine. Avere un ideale — un’idea astratta, un’idea sintetica di giustezza e di giustizia – ecco quel che costituisce la nobiltà e la superiorità umana».[5]

 

L’egoismo e l’individualismo sono irrazionali, in quanto l’essere umano è intrinsecamente legato –mediante un’infinita serie di fili invisibili – alla comunità, la quale è il centro da cui emerge la singolarità nella relazione sincretica con l’ambiente, il quale non è un contenitore, ma realtà relazionale e plastica. Nell’ordito delle intenzionalità il soggetto si riconosce e si differenzia, ma non può prescindere da essi, altrimenti sarebbe un puro nulla. L’individualismo economicistico è irrazionalità mascherata dalla razionalità del calcolo:

«Vivere solo per se stessi è, quindi, un’utopia contro natura, una chimera irrealizzabile e malsana; l’indipendenza cinica è un’aberrazione. È tanto impossibile vivere solo per sé, quanto il vivere soltanto da sé; poiché mille legami visibili e invisibili ci riattaccano al di fuori, irradiano attorno a noi e vanno dall’ambiente a noi e da noi all’ambiente. Tutto si sorregge a vicenda in questo grande organismo che è l’universo; e la solidarietà è un fatto prima d’essere un principio».[6]

 

 Critica al concetto di causalità

Paul Gille utilizza la deduzione sociale delle categorie per smontare criticamente l’organicità dello scientismo e dell’economicismo al sistema liberista ed autoritario. Il concetto di causalità è la traduzione in campo economico e scientifico dell’autoritarismo agente, la causalità è in forma astratta ed impersonale l’autorità che guida e determina i destini del mondo. Tagliare la testa al re significa eliminare il semplicismo autoritario che si cela dietro il concetto di causalità lineare:

“Determinismo non vuol dire fatalismo, — ecco la conclusione a cui noi giungiamo. La vecchia concezione autoritaria della causalità cade, per far posto a un’eziologia dei fenomeni che non vede dappertutto che dei complessi di complessi, delle risultanti, delle interferenze di fattori intrecciati all’infinito, intus et extra. E se niente si crea e nihilo, è pur vero che non esiste alcuna equazione da causa ad effetto, che un effetto non si deduce da una causa, che ogni effetto ha molte cause, come ogni causa molti effetti, e che ciascuna componente, ciascun centro autonomo di forza, ha, secondo il principio di Galileo, la sua funzione indipendente e il suo potere d’azione, e serba, inalienabile, irriducibile, inesorabile, nel suo dinamismo intimo, la spontaneità della vita».[7]

 

Al semplicismo causale bisogna opporre la complessità delle cause che interagiscono, e mediate dal pensiero umano creano il nuovo. Non si tratta di una libertà assoluta, ma condizionata, l’essere umano crea la sua libertà con l’esercizio del pensiero complesso che si genera all’interno di condizionamenti, i quali non passivizzano il pensiero:

 

“È così che la coscienza, autonoma, crea progressivamente la libertà. Sperimentalmente, a poco a poco, essa accumula le astrazioni, i dati, le verità, sempre più sintetiche, sempre più generali, per elevarsi finalmente, nell’umanità, sino alle verità universali che danno all’uomo la chiave dei fenomeni e il potere scientifico».[8]

 

La libertà è comunitaria, le soggettività nello scambio pensato dei dati spingono spontaneamente la loro coscienza oltre i pregiudizi e le sudditanze preconcette per costruire collettivamente percorsi di consapevolezza sempre rivedibili:

«Evidentemente, lo sappiamo, nelle determinazioni più spontanee e più volontarie, c’è una parte di influenza esteriore, ma se l’azione dell’ambiente è certa (checché ne pensi l’Evoluzionismo mistico), l’ambiente non è tutto; l’energia increata dell’essere vivente — increata e, perciò, irreducibile all’ambiente — ha anch’essa la sua funzione; e l’autonomia che ne risulta va crescendo collo sviluppo della coscienza, della lucidità e del sapere, per giungere alla sua pienezza attraverso la conoscenza scientifica del mondo, fine di tutte le illusioni autoritarie e liberazione da ogni assolutismo».[9]

Paul Gille e Saverio Merlino condividono una visione moderatamente ottimista della natura umana, per entrambi la natura comunitaria è ciò che specificatamente connota l’essere umano. La natura umana può essere deviata e condizionata da vecchie e nuove forme di autoritarismo, ma essa è indistruttibile, perché senza di essa l’essere umano non sarebbe tale. Libertà è lavoro dello spirito, che si esplica nella storia e nelle istituzioni. Il pessimismo antropologico attuale è ideologico, in quanto vorrebbe tacitare il messaggio filosofico che giunge a noi, quale dono eterno che invita ad una razionale ribellione contro l’ordine liberista presente.

 

Salvatore Bravo

 

Note

[1] Paul Gille, Abbozzo di una filosofia della dignità umana, traduzione di L. Fabbri, prefazione di F.S. Merlino, Linotipia Ferruccio Ghidoni, Milano 1926.

[2] Paul Gille professore a l’Insitut des hautes études de Belgique.

[3] Paul Gille, Abbozzo di una filosofia della dignità umana, cit., pag. 37.

[4] Ibidem, p. 8.

[5] Ibidem, p. 9.

[6] Ibidem, p. 25.

[7] Ibidem, p. 19.

[8] Ibidem, pp. 21-22.

[9] Ibidem, p. 43.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Gravidanza e dono. La legge sulla «gravidanza solidale» tra donne in Parlamento. Si codifica che la maternità non è dono, ma diritto. Ma il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto, è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica. Si genera nella mente prima che nel corpo: la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva.

Salvatore Bravo
Gravidanza e dono

La legge sulla «gravidanza solidale» tra donne in Parlamento.
Si codifica che la maternità non è dono, ma diritto.
Ma il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto,
è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica.
Si genera nella mente prima che nel corpo:
la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva.



In Parlamento è stata depositata una proposta di legge per regolamentare la così detta e codificata «gravidanza solidale» tra donne. Il ministero orwelliano della verità è continuamente operante: non solo si mutila la storia delle verità disorganiche al sistema, ma anche le parole sono orientate al relativismo semantico.
Il semanticidio è l’ultima frontiera del dominio. Le parole sono curvate ai bisogni delle nuove classi dirigenti globali. Non più madre surrogata: l’ordine del discorso liberista governa con le parole l’immaginario critico dei singoli e dei popoli per neutralizzarlo, si deve dire «madre solidale». Quest’ultima ospita il feto, “senza scopo di lucro”, sviluppato secondo le tecniche della fecondazione in vitreo. In tal modo coppie di ogni orientamento acquisiscono il diritto alla maternità-paternità.
La maternità è, in tal modo, oggetto di giurisprudenza: si codifica il diritto alla maternità e alla paternità. Non più dono, ma diritto!
Il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto, è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica. Si genera nella mente prima che nel corpo, nel sentire l’assenza dell’alterità verso cui ci si dispone in modo integrale: la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva. Il bisogno di incontrarsi per completarsi pone il senso ontologico dell’esistenza di ogni essere umano. Il dono codificato nella gabbia della legge è negato nella sua verità ontologica per essere merce a disposizione del compratore. Si riproduce la logica dell’azienda: la giurisprudenza codifica i doveri e i diritti del compratore e del venditore. La madre incubatrice, il cui ruolo è ideologicamente edulcorato dal termine “solidale”, vende il “nuovo prodotto” alla madre che lo acquisisce. L’esperienza della maternità/paternità è trasformata in “aziendalizzazione della vita sin sul nascere”.
Il capitalismo non può tollerare il dono autenticamente tale, deve monetizzare ogni respiro, gesto e scelta dell’esistenza. La nascita di un nuovo essere (e dunque la maternità donativa) quale dono che offre allora un nuovo sguardo con cui contemplare la vita, non può essere tollerata dal modo di produzione capitalistico: il dono è uno scandalo dove regna solo il profitto, per cui è soffocato sul nascere.
La «gravidanza solidale» – con annessa menzogna semantica – è esperienza assoluta del capitale. Se la maternità da dono diviene un contratto che stabilisce i compensi e gli obblighi delle protagoniste, si cancella l’idea stessa di dono dall’orizzonte percettivo, immaginativo e concettuale dei popoli e dei singoli. Si cancella l’amore donativo e disinteressato di cui la maternità è l’archetipo. L’interesse personale e la tracotanza del denaro divengono le uniche leggi che devono governare la vita.
In maniera analoga a quanto accade per la scelta degli studi fino alle relazioni affettive, tutto dev’essere regolamentato dall’unica legge dell’interesse privato, in cui a prevalere è il diritto del più forte. L’autentica maternità solidale ritrova la sua verità nelle relazioni che rifuggano dalla quantificazione. La maternità solidale tra donne è, d’altronde, un’esperienza antica. Non era raro in passato nelle famiglie allargate meridionali, che una madre consentisse ad un’altra madre che non poteva avere figli di crescere il proprio figlio. Ciò accadeva su un fondo di solidarietà, in cui le due donne non si contendevano il figlio, ma ciascuna contribuiva alla sua crescita secondo modalità diverse. I padri non erano esclusi, ma si inserivano in tali scelte all’interno di convenzioni e valori non codificati. L’unione non era e non dev’essere nella legalità del contratto, ma dev’essere condizione etica orientata al bene che si autoregola.

Monetizzazione della vita
Il sistema globale con le sue oligarchie nichilistiche produce diritti universali sempre in funzione dei diritti individuali e, in particolare delle classi più abbienti: il diritto è in astratto universale, nei fatti è un privilegio di classe. Siamo innanzi ad un episodio della lotta di classe: coppie benestanti si rivolgeranno a donne precarie e bisognose di denaro per usare il loro corpo come incubatrice, in cambio di denaro, da corrispondere in svariate modalità non rintracciabili.
In un contesto generale nel quale l’interesse privato e il profitto sono la legge aurea che tutto guida l’uso del termina “solidale” si svela nella sua ipocrisia manipolatrice. Si manipolano le parole per determinare il modo di pensare e di agire dei subalterni che le impiegano nel loro dire quotidiano. Una donna ricca può comprare il corpo di un’altra donna per soddisfare un proprio desiderio, una “voglia” di maternità (possessiva), senza dover vivere il rischio della gravidanza che “deforma” il corpo femminile conformato su canoni estetizzanti (la gravidanza mette in gioco molteplici aspetti nella persona e nel corpo della donna che dovrà accogliere dentro di sé l’alterità di un altro corpo, altro da sé, e per lunghi nove mesi, per non parlare della maternità che si esprimerà nel periodo dell’allattamento). Oppure pone rimedio alla sua biologica impossibilità di generare (sterilità) col potere che le deriva dal censo. La predazione, legge del modo di produzione capitalistico, affonda i suoi denti vampireschi nella maternità riducendola ad un affare.
La solidarietà diviene nuovo business, ammantato di stucchevole “buonismo”. Il sistema produce menzogne con la patina delle belle parole per vincere le ultime resistenze etiche. Dietro il paravento della gravidanza solidale non è difficile pensare che giovani donne migranti e precarie disperate possano trovare un mezzo per sopravvivere vendendo non solo il loro corpo, ma soprattutto il significato profondo di questa esperienza nella vita di donna e di madre.
La “gravidanza solidale”, inoltre, permetterebbe a donne in carriera che hanno scelto la professione quale obiettivo primo di pianificare la gravidanza usando il corpo delle perdenti della globalizzazione. La maternità diviene un obiettivo individualistico: non più vita che esce alla luce spontaneamente e liberamente.
Altro punto doloroso: la gravidanza è gestita solo da donne. Siamo all’eliminazione della paternità. La gravidanza diviene un affare tra donne, gli uomini sono solo un dettaglio biologico. Si sperimenta una nuova formula della procreazione: la gravidanza tra sole donne.

Femminismo liberista
I parlamentari che hanno proposto la legge sono in linea con il nuovo femminismo liberista che inneggia all’inclusione nel mercato, ma che in realtà produce esclusione sociale. La “maternità solidale” esclude e ridimensiona il ruolo della paternità. La logica implicita in tale proposta di legge è l’individualismo proprietario, per cui il bambino appartiene alle donne, in quanto hanno la potenzialità di produrlo – come fosse merce – per soddisfare un desiderio codificato e legittimato dalla cultura astratta del diritto.
Il femminismo fa un nuovo salto di qualità, si orienta verso la volontà di potenza e di dominio. Se la tecnica consente di rendere il ruolo degli uomini secondario, la gestione della vita e della comunità politica passa al nuovo femminismo in salsa transumana.
Si prepara con parole “buone” e con gradualità una rivoluzione antropologica, in cui il maschio è solo biologia: il resto è un affare tra donne. Il diritto alla maternità tra donne valuta i bisogni della sola madre: il bambino, con il suo naturale diritto ad una identità, è secondario. Non ci si pone dalla parte del bambino, il più debole in queste relazioni di potere. Cosa potrà provare nel sapere da adulto che è il risultato di una tecnica e di un contratto nessuno lo sa e nessuno si pone tale problema.
Non vi è immaginazione empatica, ma solo desiderio di acquisto e conquista.
In ultimo una società atomizzata e senza capacità spirituali non è nelle condizioni culturali di comprendere che la maternità non è solo una condizione del corpo, ma è un atto emotivo e mentale. Si dovrebbe favorire la cultura del dono e del volontariato, in quanto ogni adulto può vivere maternità o paternità nella cura senza possesso delle persone che incontra sul proprio cammino di vita.
La maternità e la paternità sono al plurale nelle loro espressioni, così come è la vita stessa. Naturalmente tale possibilità è colpevolmente ignorata, taciuta, poiché lo scopo è sempre il possesso individualistico e il business.
I “progressisti” arcobaleno continuano nella loro opera di disintegrazione della comunità, e si fanno braccio armato legislativo del relativismo liberista che tutto riduce a tecnica e a possesso personale. In Inghilterra una madre surrogata può richiedere legalmente fino a 15.000 sterline di rimborso spese, ovvero lo stipendio medio di un anno di una donna a basso reddito. Pertanto il denaro e la tecnica sono le palesi chiavi di lettura della “gravidanza solidale” sotto l’arcobaleno del “progressismo” liberista. L’egoismo e lo sfruttamento della vita sono l’unica legge a cui risponde il liberismo arcobaleno, la nuda vita della maternità è ridotta ad ovaie, embrioni e spermatozoi rigorosamente perfetti, e solo per chi se lo può permettere

… In attesa di tempi più umani rileggiamo la poesia Maternità di Tagore:

«Da dove sono venuto?
Dove mi hai trovato?
Domandò il bambino a sua madre.
Ed ella pianse e rise allo stesso tempo
e stringendolo al petto gli rispose:
tu eri nascosto nel mio cuore, bambino mio,
tu eri il suo desiderio.
Tu eri nelle bambole della mia infanzia,
in tutte le mie speranze,
in tutti i miei amori, nella mia vita,
nella vita di mia madre,
tu hai vissuto.
Lo Spirito immortale che presiede nella nostra casa
ti ha cullato nel Suo seno in ogni tempo,
e mentre contemplo il tuo viso,
l’onda del mistero mi sommerge
perché tu che appartieni a tutti,
tu mi sei stato donato.
E per paura che tu fugga via
ti tengo stretto nel mio cuore.
Quale magia ha dunque affidato
il tesoro del mondo nelle mie esili braccia?».


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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25 Aprile 2022 – Una nuova resistenza sotto la bandiera del bene e della verità.

Anna Magnani in una celebre sequenza di “Roma città aperta”, di Roberto Rossellini.
Salvatore Bravo

Una nuova Resistenza sotto la bandiera del bene e della verità

Esodo per una nuova cultura della Resistenza

Resistenza e riduzionismo

 

 

Il 25 Aprile è il giorno in cui la democrazia sociale afferma i propri valori sconfiggendo le forze oscure del nazifascismo. Nella liturgia annuale della ricorrenza però si tende da più parti ad occultare che il sistema capitalistico – già vigente in tutto il Novecento  (prima, durante e dopo il secondo conflitto mondiale) e oggi globalizzatosi –, non è così antitetico al nazifascismo come sovente ama dipingersi: il nazifascismo è parte sostanziale della ormai lunga storia del capitalismo.

 

La multinazionale capitalistica della IBM, al servizio di Mussolini e di Hitler

In un articolo pubblicato il 14-02-2001 su “il manifesto” si poteva leggere a proposito di un libro di Edwin Black (La IBM e l’Olocausto. I rapporti fra il Terzo Reich e una grande azienda americana, Rizzoli, Milano 2001):

«[…] uno dei motivi che spiegano il putiferio scatenato dal libro di Black è proprio la generalizzata amnesia postmoderna. Negli ultimi due decenni non solo si è rimossa la memoria dei crimini del capitale in nome del profitto: il capitalismo si è persino trasfigurato in una istituzione “morale”, fonte dei valori che contano […]. Sul versante della casa madre IBM il libro mette in luce l’uso delle schede perforate non solo nella preparazione a tavolino della Shoah, ma anche nella gestione logistica dei campi di concentramento, del lavoro coatto, della macchina militare […]. Le schede perforate della IBM grondano di sangue […]. I manager americani sapevano benissimo che la loro tecnologia era usata nei campi di concentramento, che essa “agevolava l’oppressione e il genocifio”, “costituiva l’ossatura dell’infrastruttura nazista”. […] Thomas Watson [si vedano immagini cliccando qui], presidente della IBM, sfoggiava sul suo pianoforte una foto di Mussolini con dedica autografa, e parlava di Hitler con “simpatia” e “ammirazione”, e fu ricevuto dal Führer con tutti gli onori a Berlino nel 1937 [Si vedano le foto cliccando qui]. Ancora nel marzo del 1941 un manager IBM telegrafò soddisfatto a New York: “Il governo tedesco ha bisogno delle nostre macchine. I militari le usano per ogni possibile impiego”. […] Dopo l’entrata in guerra dell’America nel 1941 i rapporti con la filiale svizzera della IBM non si interruppero, e per questo tramite […] forniture americane arrivarono in Germania anche dopo quella data».[1]

 

Mettere a nudo la realtà capitalistica del presente

La vittoria del 25 Aprile e le sue celebrazioni ritrovano il proprio autentico significato se davvero riescono ad individuare le forze che oggi operano (in vario modo) nel controllare, soggiogare, silenziare ogni istanza comunitaria alternativa: è questo l’unico modo per resistere e non lasciarsi avvolgere e stritolare dai tentacoli del capitale. Se ci si limita ad una monumentale celebrazione del passato, e specialmente, se la giornata del 25 Aprile è usata ideologicamente dalle attuali forze capitalistiche per autocelebrarsi, la ricorrenza è svuotata del suo significato etico e politico. Costoro dicono che il nemico è stato sconfitto nel passato e affermano che ora regna il miglior sistema sociale e politico possibile, che bisogna “solo gestire” l’ordinario costituito dai bombardamenti etici e dalla flessibilità (sfruttamento) sul lavoro in nome della libertà del capitale. Resistere significa, invece, far emergere “il nemico” della democrazia e della libertà.

 

L’inganno del riduzionismo

La contemporaneità ha nel riduzionismo e nel capitalismo (nella sua forma globale) i nemici da combattere. La bestia selvatica del mercato, come l’ebbe a definire Hegel, produce riduzionismi in campo culturale, in modo da congelare le coscienze individuali e comunitarie condannate a ipostatizzarsi.
Il feticismo dei mercati sta divorando le libertà mediante l’inganno del riduzionismo: si elimina ogni discorso sul bene e sulla verità per sfuggire allo sguardo critico e non svelare le dinamiche dei processi di accumulo e profitto.

 

Accogliere solo chi testimonia dialetticamente la verità

In tale clima infausto bisogna leggere e pensare autori che testimoniano dialetticamente la verità. Senza la ricerca veritativa il sistema capitale non si palesa nella sua miseria culturale, la quale si traduce in nichilismo e squallore antropologico. Il dialogo tra Carmelo Vigna e Luca Grechi dona uno sguardo critico e fuori dal coro accademico che consente di comprendere le dinamiche in atto. Si resiste al presente, se si introduce il parametro della qualità e del bene con cui giudicare e pensare la totalità.
Il riduzionismo è il velo di Maya con il quale il capitale neutralizza il pensiero dialettico e la prassi. I riduzionismi devono essere letti nella loro valenza storica e ideologica per poterli smascherare nella loro verità strutturale e ideologica:

«Vigna: […] Questo riduzionismo si associa ad altre forme di riduzionismo: naturalistico, psicologico ecc. L’epistemologia è, comunque, sul piano filosofico, la fonte (e la forma) maggiore di questi riduzionismi, specie se coltivata senza la consapevolezza ch’essa è solo riflessione su un frammento dell’esperienza, e non sul senso della esperienza nella sua totalità».[2]

 

Adattarsi passivamente oppure agire criticamente dall’interno?

Resistere significa scegliere. Gli uomini e le donne che hanno resistito al nemico nazifascista hanno scelto la libertà, non sono stati “idioti” nel significato greco del termine. Gli idioti erano coloro che si occupavano solo degli affari privati e non avevano nessun senso del pubblico.

Resistere implica avere il senso etico del pubblico che si costruisce attraverso lo sguardo olistico con il quale si giudica il valore qualitativo della totalità, in cui siamo implicati:

«Vigna: […] La massa può solo fare i conti col proprio “starci dentro” quotidiano, cioè dentro la vita quotidiana. E, in questo quotidiano, si può vivere sostanzialmente in due modi: adattandosi passivamente oppure agendo criticamente dall’interno».[3]

 

Resistenza e flessibilità

La mercificazione totale dell’essere umano e della vita è il vero nemico. Il male è tra di noi e con noi, ogni tentativo di occultarne la verità va combattuto e denunciato. Bisogna tenere la posizione, non cedere all’adattamento che in questo caso è già assimilazione. Le gioie e le promesse del grande tentatore, il capitalismo, si stanno rilevando nella loro effettualità: gli esseri umani con le loro relazioni sono merce di scambio. Il dialogo ha ceduto il posto al solo calcolo utilitario, per cui si è tutti in pericolo e minacciati dal valore di scambio e dai processi di alienazione che producono l’infelicità generale e le guerre nel privato, nel pubblico e tra gli Stati nazionali:

«Grecchi: […] Tutto, nel modo di produzione capitalistico, diventa inevitabilmente merce: non più solo il lavoro, la natura, la moneta (come sottolineava K. Polany), ma anche tutte le relazioni umane, e in un certo senso perfino le strutture della personalità, che il capitale tende a produrre appunto come merci, funzionalmente al proprio valore processo di valorizzazione complessiva».[4]

  

Resistenza significa cambiarne i processi produttivi

Il nucleo del problema resta la produzione. Resistenza significa cambiarne i processi produttivi. Nela produzione capitalistica gerarchizzata i soggetti imparano la normalità del dominio, assimilano e riportano nel loro privato la logica dello sfruttamento e della negazione dell’altro. La produzione forma soggettività passive pur nella loro aggressività competitiva.
Resistere, oggi, significa trasgredire gli inutili specialismi astratti per una critica argomentata al sistema capitale non scissa dalla prassi. L’aziendalizzazione delle istituzioni e della vita è la violenza legalizzata col sistema capitalistico.
Bisogna spostare l’attenzione sul problema essenziale, il quale, non è la distribuzione, ma la produzione che si esplica con la gerarchizzazione e con la sussunzione. La produzione con la divisione tra dominatori e dominati addomestica ed insegna la passività. La genesi della passività è nella produzione la quale forma coscienze che ipostatizzano la gerarchizzazione produttiva con cui si nega l’attività politica. La produzione passivizzante vuole formare alla normalità della pratica del dominio. Resistere e sperare significa storicizzare i sistemi produttivi per emanciparli dalla normalità della violenza globale:

«Grecchi: […] Engels ha chiarito bene che la ridistribuzione della ricchezza dipende dalla forma (privatistica e sociale) della sua produzione, e oggi la forma produttiva è quella capitalistica privata dei gruppi transnazionali…».[5]

 

La fioritura della nostra umanità

Resistere significa coltivare nella lotta la speranza di una nuova fioritura nella vita e nella storia:

«Vigna: […] La fioritura della nostra umanità è sempre inizialmente un sogno, ed è un sogno che vuole (e che deve anche) farsi reale. Perciò è necessario coltivare cose come l’audacia e la speranza, fin da quando si è giovani».[6]

Il primo esodo per una nuova cultura della Resistenza è capire i significati delle nuove liturgie del sistema con il suo linguaggio falsamente libertario e orwelliano. La speranza è prassi critica e consapevolezza teorica del luogo-mondo in cui siamo. Bisogna trovare le ragioni per resistere e sperare, non vi è resistenza senza speranza. Gli adulti devono testimoniare non la flessibilità-adattamento al sistema capitale, ma la speranza critica in opposizione alla crematistica alienante e violenta. La speranza e la resistenza hanno la loro genealogia nella testimonianza critica a cui le nuove generazioni guardano per orientarsi in una realtà depressiva che li vuole perennemente flessibili e adattabili agli ordini del capitale.

 

Note

[1] Un test statistico chiamato Shoah

il manifesto 14/02/01

La Ibm e l’Olocausto Il ramo tedesco del gigante informatico Usa fornì a Hitler il know how dello sterminio. Un libro lo svela, cinque scampati chiedono i danni GUIDO AMBROSINO – BERLINO

Che la macchina di sterminio nazista si fosse avvalsa della tecnologia meccanografica della Ibm, il gigante americano dell’informatica, non è una novità.

In Germania se ne discusse già nel 1983, quando un inedito movimento di protesta riuscì a far saltare il censimento progettato dal governo federale. Incombeva allora lo spettro del “grande fratello” che tutto controlla, come nel romanzo 1984 di George Orwell. Le stesse “iniziative civiche” che si battevano contro le centrali nucleari e i missili atomici a medio raggio temevano un salto di qualità nella schedatura elettronica dei cittadini, già sperimentata in grande scala dalla polizia durante la caccia ai guerriglieri della Rote Armee Fraktion. La corte costituzionale finì col dare loro ragione, proclamando il diritto dei cittadini “all’autodeterminazione informatica”, cioè al controllo sui dati che li riguardano. I Länder tedeschi e lo stato federale dovettero istituire dei garanti per la tutela dei dati personali. Solo molti anni più tardi queste tematiche vennero riprese anche in Italia.

Uno degli argomenti che favorì in Germania il successo della protesta contro il censimento del 1983 fu proprio la scoperta che le premesse “informatiche” per lo sterminio degli ebrei erano state fornite dall’Ufficio statistico del Reich e dalla filiale tedesca della Ibm, la società Dehomag (Deutsche Hollerith Maschinen Gesellschaft), con i censimenti del 1933 e del 1939, i cui dati erano stati elaborati con il sistema delle schede perforate. Due storici della nuova sinistra, Karl Heinz Roth e Götz Aly, riversarono le loro ricerche nel libro Schedatura totale. Censimenti, controlli d’identità e selezione nel nazionalsocialismo (Berlino, 1984).

Un libro importante, che fece perdere l’innocenza alle tecniche di controllo statistico della popolazione. Ma le sue rivelazioni, più che sfociare in una denuncia delle responsabilità passate della casa madre americana, servirono a rafforzare un movimento per i diritti civili nella società contemporanea. Del resto la storiografia di sinistra aveva già tanto insistito sulla compromissione del capitale – anche di quello internazionale – nel nazismo, che il ruolo giocato allora dalla Ibm ne sembrava un corollario quasi scontato. Come che sia il libro di Roth e Aly è finito sulle bancarelle dell’antiquariato, senza fare né caldo né freddo ai manager della Ibm nella centrale di Armonk, vicino a New York.

Non andrà così col nuovo libro del pubblicista americano Edwin Black, La Ibm e l’Olocausto, pubblicato in contemporanea il 12 febbraio in otto paesi, con anticipazioni in esclusiva su settimanali e quotidiani. L’impatto è enorme, e non solo perché Black ha aggiunto molti nuovi dettagli alle ricerche di Roth e Aly, soprattutto sul versante americano della casa madre Ibm, e sull’uso delle schede perforate non solo nella preparazione a tavolino della Shoah, ma anche nella gestione logistica dei campi di concentramento, del lavoro coatto, della macchina militare.

Paradossalmente uno dei motivi che spiegano il putiferio scatenato dalla pubblicazione di Black è proprio la generalizzata amnesia postmoderna. Negli ultimi due decenni non solo si è rimossa la memoria dei crimini del capitale in nome del profitto: il capitalismo si è perfino trasfigurato in un’istituzione “morale”, fonte dei valori che contano, come innovazione e spirito d’impresa. Riscoprire dopo tanta apologia che le schede perforate della Ibm grondano sangue ha l’effetto di uno shock.

Ma è soprattutto l’esperienza organizzativa e giuridica accumulata negli ultimi anni in America dai sopravvissuti allo sterminio con le cause collettive di risarcimento a rendere esplosivo il libro di Edwin Black. Grazie alle class action la storiografia esce dagli scaffali delle biblioteche universitarie e piomba nelle aule dei tribunali. Ed ecco che il gigante Ibm trema: non tanto perché ferito nell’onore, ma perché minacciato nel portafoglio. Sono in gioco indennizzi per miliardi di dollari.

Sabato scorso cinque ebrei scampati ai Lager, due cecoslovacchi, un ucraino e due cittadini statunitensi hanno presentato una denuncia contro la Ibm accusandola di “complicità nell’Olocausto”, a nome dei circa centomila sopravvissuti. Il loro avvocato Michael Hausfeld vuole innanzitutto che i giudici costringano la Ibm a rendere accessibile tutta la documementazione conservata nei suoi archivi. Ma già adesso – sulla scorta dei libro di Edwin Black – ritiene di poter dimostrare che i manager americani sapevano benissimo che la loro tecnologia era usata nei campi di concentramento, che essa “agevolava l’oppressione e il genocidio”, “costituiva l’ossatura dell’infrastruttura nazista”.

Era stato Hermann Hollerith, un ingegnere americano di origine tedesca, a inventare le schede perforate che portano il suo nome, le antenate dei moderni computer. E grazie al possesso di questo brevetto la Ibm ha costruito le sue fortune. I dati, con delle punzonatrici, vengono tradotti in fori su delle schede di cartoncino. Le schede possono poi venire lette con degli aghi di metallo. Quando passano attraverso un buco gli aghi chiudono un circuito elettrico, che aziona dei contatori di scatti, in grado di tradurre le informazioni in serie numeriche.

I circuiti elettrici possono anche azionare delle macchine di smistamento delle schede, che depositano in un mucchietto separato quelle con i dati cercati. Per esempio le schede con i dati del censimento del 1933 prevedevano per gli ebrei un foro alla terza riga della 22esima colonna. La smistatrice ammucchiava una sull’altra le schede con questa informazione in un mucchietto a parte. Per passaggi successivi si poteva ricostruire quanti ebrei abitavano in un determinato quartiere o in una certa strada, o incrociare i loro dati anagrafici con le loro professioni. Negli anni ’40 lettori meccanografici più elaborati erano in grado di tradurre le schede in tabulati e liste di nomi.

Così all’interno della popolazione si potevano rapidamente individuare gruppi a seconda della caratteristica scelta: minorati fisici e mentali, asociali, comunisti, omosessuali. L’amministrazione dei Lager poteva smistare i prigionieri nella produzione a seconda della loro qualificazione professionale, oppure selezionarli per le camere a gas.

In Germania negli anni ’20 una società autonoma utilizzava, su licenza della Ibm, la tecnica Hollerith: la Dehomag di Willy Heidinger. Nel 1922, anno in cui la Germania fu funestata da una superinflazione, la Dehomag non fu in grado di pagare 100.000 dollari per l’uso del brevetto. Thomas Watson, presidente della Ibm, ne approfittò per inghiottirla. Offrì alla Dehomag la cancellazione del debito in cambio della cessione del 90% delle azioni. Da quel momento la fabbrica tedesca divenne a tutti gli effetti una filiale della Ibm, la più importante: il comparto tedesco realizzava quasi la metà del fatturato dell’intero gruppo.

L’ufficio statistico del Reich era uno dei migliori clienti. Watson, che sfoggiava sul suo pianoforte una foto di Mussolini con dedica autografa, e parlava di Hitler con “simpatia” e “ammirazione”, fu ricevuto con tutti gli onori dal Führer a Berlino nel 1937. Ancora nel marzo del 1941 un manager Ibm telegrafò soddisfatto a New York: “Il governo tedesco ha bisogno delle nostre macchine. I militari le usano per ogni possibile impiego”.

Solo dopo l’entrata in guerra dell’America nel 1941 la Dehomag fu posta dai nazisti sotto amministrazione controllata. Ma stranamente i rapporti con la filiale svizzera della Ibm non si interruppero, e per questo tramite, secondo Edwin Black, forniture americane arrivarono in Germania anche dopo quella data.

[2] Carmelo Vigna – Luca Grecchi, Sulla verità e sul bene, Petite Plaisance, Pistoia 2011, pag. 18. [indicepresentazioneautoresintesi ]

[3] Ibidem, pag. 39.

[4] Ibidem, pag. 77.

[5] Ibidem, pag. 115.

[6] Ibidem, pag. 118.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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28 Marzo 2022 – Presentazione del volume di Luca Grecchi “La filosofia prima della filosofia” / SFI di Taranto, Coordinamento di Ida Russo, Introduzione di Mino Ianne / Letture.org, Intervista a L. Grecchi: «Come può esserci una filosofia prima della filosofia?».



A seguire:
Riflessioni di Salvatore Bravo
Introduzione di Daniela Lefèvre-Novaro
Sommario del volume
Intervista a L. Grecchi: 5 domande all’autore da parte di Letture.org.

Lo studio e la ricostruzione storica di Luca Grecchi
sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione

Verità e bene nella pratica filosofica

Vi sono studiosi che non si adattano alle mode accademiche, ma sono fedeli al loro destino. Praticare la filosofia significa avere la chiarezza del fine della stessa. La filosofia è scienza della verità, è attività veritativa che soppesa le opinioni con la forza dialogica delle argomentazioni per uscire dalla palude del conformismo nichilistico. Il presente ci offre un numero notevoli di studiosi, anche di valore, che si sono cadavericamente adeguati alla filosofia nella forma dell’epistemologia o del multiculturalismo. Spesso tali scelte – che negano la filosofia nel suo senso più profondo e nella sua tradizione più antica – sono dovute a pressioni culturali e sociali. In questo contesto gli studiosi che si sottraggono all’omologazione rassicurante sono preziosi, perché ci rammentano il fine autentico della filosofia e ci ricordano che adeguarsi è una scelta: è sempre possibile intraprendere la via più difficile.
La filosofia vive nei filosofi, per cui essa è sempre ad un bivio in cui bisogna scegliere se intraprendere la via dell’opinione o la via della verità. Luca Grecchi è in cammino sul sentiero della verità e le sue pubblicazioni testimoniano il suo percorso. Il suo ultimo testo, La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C. (Morcelliana, Brescia 2022) non è una semplice ricostruzione genetica della filosofia, quale pratica della verità nel rispetto della natura comunitaria degli esseri umani. La filosofia difende la buona vita e il bene testimoniandoli, per cui la ricostruzione storica di Luca Grecchi sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione. Il presente è senza speranza, la categoria della necessità regna, per cui l’attuale modello economico e sociale è giudicato come unico e senza alternative. Luca Grecchi attraverso l’analisi documentata degli albori della filosofia nella società cretese palesa che il presente è esperienza storica non assoluta, e specialmente, il futuro è condizione di possibilità progettante, solo se ci si rivolge al passato per esplorare modelli sociali ed economici nei quali il fine è il benessere dell’essere umano e non il profitto. Per mettere in atto tale prassi è necessario porre al centro la filosofia. Essa è analisi critica della totalità: il metodo dialettico concettualizza la totalità per saggiarne la qualità. Senza l’esame critico della totalità il presente si eternizza negando la prassi e la responsabilità etica e storica dell’essere umano:

«La filosofia, infatti, si occupa principalmente di due contenuti, ossia la verità e il bene, di cui nessuna altra scienza si occupa».[1]

La filosofia ha il compito – che si storicizza nel tempo – di porre un argine alla deriva crematistica, nella quale l’essere umano è solo un mezzo per il profitto e non un fine. Se si vive in una totalità in cui si è solo degli enti da consumare e usare all’occorrenza, l’infelicità e l’alienazione sono generali. La filosofia è anche pratica politica, non è l’anima bella che si rifugia nella turris eburnea dell’astratto, ma è concretezza etica sin dalle origini:

«Nell’VII secolo, dunque, la crematistica ricerca del vantaggio privato, era già presente nei processi dominanti della riproduzione sociale della realtà cittadina. Vi era tuttavia la consapevolezza che essa andava tenuta a freno dalle strutture pubbliche della nascente polis. Al crescere della pervasività della crematistica sul piano sociale cercarono infatti di rispondere le strutture politiche della polis, e, poco dopo, le strutture culturali della philosophia».[2]

 

Civiltà cretese e comunitarismo

L’essere umano per natura è comunitario. Anche l’attuale individualismo presuppone la comunità, solo che essa è intesa e vissuta come mezzo e non come fine. L’individualismo comporta la cattiva vita, poiché l’alterità è uno strumento per soddisfare necessità e per estorcere profitto. La filosofia fa emergere la verità del contesto storico per compararlo al bene, ovvero alla comunità in cui l’essere umano è il centro disinteressato di ogni attività e non una semplice comparsa in funzione del profitto. Non bisogna cadere nella trappola di coloro che affermano che la pianificazione comunitaria dell’economia sia possibile solo vi è una società poco sviluppata.
Luca Grecchi palesa la differenza tra la civiltà cretese e le civiltà orientali, in cui vigeva la gerarchizzazione del potere e la comunità era asservita al potere della casta sacerdotale. Condizioni storiche simili possono sviluppare diversi modelli politici. A tal fine la filosofia è fondamentale, poiché il comunitarismo presuppone una adeguata riflessione teoretica. L’architettura della civiltà cretese comporta una visione dell’essere umano e della totalità in cui è implicato. Il fine è il bene di tutti, pertanto l’economia non è crematistica e saccheggio dell’altro, ma equa distribuzione dei beni conservati nei magazzini di stoccaggio. La centralità è il cortile, spazio aperto in cui si svolgono le attività sociali ed in cui si impara la condivisione e la si organizza:

«Il cortile centrale inoltre rappresenta il cuore dei Palazzi cretesi, in quanto fu verosimilmente il luogo della comunicazione politica e della distribuzione economica dei beni, dunque il luogo fondamentale della comunità».[3]

L’architettura non è neutra, ma è l’oggettivazione della teoretica che guida la comunità. L’architettura ha la prima radice nel sostrato silenzioso ed essenziale della visione del mondo di una civiltà. Se guardiamo all’urbanistica delle nostre città (con la privatizzazione di ogni spazio), non è difficile dedurre che è l’interesse privato a condurre ogni azione e a determinare l’isolamento atomistico che deprime le energie creative e plastiche di ogni cittadino. Nella civiltà minoica la centralità del cortile è il segno della consapevolezza che il benessere dev’essere di ognuno, altrimenti non vi è che lotta e “animalizzazione indotta” dell’essere umano:

«Non vi è dubbio, insomma, che i Palazzi minoici siano stati strutture polifunzionali, ospitanti sia attività economiche che assemblee civili, sia feste sportive che cerimonie religiose. Ciò nonostante, la funzione primaria di tali Palazzi – la funzione essenziale – rimase quella economico-politica di coordinamento della pianificazione produttiva-distributiva dei beni necessari alla vita».[4]

La comunità come esperienza e aspirazione non cointingente

La fine della civiltà minoica non ha comportato la scomparsa nel nulla dell’esperienza cretese, ma essa rivive in taluni aspetti nella civiltà omerica, pur in condizioni storiche molto modificate e diverse. Non a caso nei testi omerici ritroviamo due parole (idion e demion) che segnalano la prevalenza etica e qualitativa del pubblico-comunità sul privato. L’idion è colui che si dedica solo ai propri interessi privati, per cui rompe il vincolo solidale con la comunità tutta:

«L’utilizzo dei termini idion e demion per indicare privato e pubblico era, del resto, già frequente nei poemi omerici, a riprova di una riflessione su questi temi che non poteva essere acerba».[5]

La società omerica, pur bellicosa, conserva la condivisione comunitaria; non a caso i guerrieri pongono al centro (es meson) il bottino per dividerlo. Il mettere al centro è un residuo vivo del passato che non trascorre, è il germe che sarà pensato e porterà alla polis. L’esperienza cretese non scompare con la civiltà minoica, ma la si ritrova ripensata nelle diverse condizioni storiche nelle civiltà geograficamente limitrofe. Nella polis si ha l’espressione massima di tale visione comunitaria, poiché la città è organizzata per il dialogo comunitario, per cui gli spazi pubblici sono la manifestazione della chiarezza concettuale del bene che deve integrare la città con la natura e gli dèi:

«Oltre alla pianificazione degli spazi pubblici (edifici, piazze, santuari, necropoli, ecc.) e degli spazi privati (ripartizione della terra urbana e agricola, ecc.), la progettualità originaria delle apoikiai prevedeva che, nel territorio, ampi spazi dovessero sempre rimanere di uso comune. Si tratta dei cosiddetti saltus, ovvero spazi agricoli occupati dalle foreste e dalle estensioni di altura, necessari per il pascolo estivo, il legname e la caccia. Inoltre, in pressoché tutte le poleis di Magna Grecia e Sicilia erano sempre assicurate le cosiddette “aree di rispetto”, definibili come aree libere situate a ridosso delle mura urbane, disponibili per vari utilizzi comunitari».[6]

Il percorso che dalla civiltà cretese porta alla polis è un messaggio che giunge fino a noi e ci invita a guardare, pensare e vivere il presente con lo sguardo della civetta che è in ogni essere umano:

«L’uomo ha necessità di vivere bene, e per ottenere questo risultato deve costituire all’interno della physis, ossia della realtà che lo ospita, un contesto comunitario in cui realizzare un’esistenza armonica, caratterizzata da rispetto e cura verso sé stesso, gli altri uomini, la natura e il divino».[7]

Leggere il testo di Grecchi è esperienza teoretica, poiché ci conduce con il suo stile discreto a riscoprire il passato per comprendere il presente, in modo da riportare la possibilità della prassi dove vige l’annientamento del solo profitto.

Salvatore Bravo

***

[1] Luca Grecchi, La Filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C., Scholé Morcelliana, Brescia 2022, pag. 15.
[2] Ibidem, pag. 116.
[3] Ibidem, pag. 73.
[4] Ibidem, pag. 89.
[5] Ibidem, pag. 115.
[6] Ibidem, pag. 135.
[7] Ibidem, pag. 156.





Intervista  pubblicata il 18 gennaio 2022 su “Letture.org


  • Prof. Luca Grecchi,
    Lei è autore del libro La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C. – Magna Grecia, VIII secolo a.C. edito da Morcelliana: come può esserci filosofia prima della filosofia?


La domanda è legittima, e la risposta doverosa. Il libro inizia infatti spiegando questo titolo strano, il che si può fare grazie alla coppia concettuale potenza/atto, tematizzata per la prima volta da Aristotele. Detta in modo semplice, la filosofia è un’attività che esiste da sempre in potenza nell’uomo, dato che, per natura, l’uomo – sintetizzo qui le tre caratteristiche essenziali che a mio avviso definiscono la filosofia – necessita, per realizzarsi compiutamente: a) di rapportarsi all’intero, ricercandone il senso; b) di conoscere con verità, agendo per il bene; c) di relazionarsi dialetticamente alla realtà, ponendosi continuamente domande e cercando di formulare risposte, a loro volta da vagliare. Posto che in potenza la filosofia esiste da sempre nella natura umana, essa ha tuttavia iniziato ad esistere in atto solo in un certo luogo ed in un certo momento – poi vedremo dove e quando –, poiché solo in quel luogo ed in quel momento si sono per la prima volta verificate le condizioni, naturali e sociali, favorevoli alla sua nascita.

Cerco di spiegarmi con un esempio. Un uomo e una donna, per natura, hanno sempre in potenza, se si uniscono, almeno in un certo periodo del loro ciclo vitale, la possibilità di procreare. Affinché la procreazione non resti una potenzialità ma si realizzi in atto, occorrono però molte condizioni (che l’uomo e la donna siano fecondi, che vi sia fra loro un’attrazione, che l’interazione della loro genetica non ostacoli la formazione del feto, ecc.). Nel caso mio e di mia moglie, già nei primi giorni dopo il concepimento di nostra figlia Benedetta, si erano verificate queste condizioni, senza che lo sapessimo. Benedetta c’era già, insomma, ma ancora non eravamo consapevoli della sua esistenza. Allo stesso modo, in base a quanto cerco di argomentare nel libro, a partire almeno dalla Creta palaziale del XX secolo a.C., la filosofia in un certo senso c’era già – per quanto non ancora compiutamente formata –, anche se non se ne conosceva l’esistenza; ciò in quanto le sue tre caratteristiche essenziali, che ho poco sopra sintetizzato, cominciarono a formarsi proprio in quel momento ed in quel luogo.

L’obiezione prevalente, tuttavia, che riceverò dagli storici della filosofia antica, immagino si condenserà nella seguente domanda: non è eccessivo andare indietro di 15 secoli nel ricercare l’origine della filosofia rispetto a quanto normalmente si fa, dato che la nascita della stessa è solitamente attribuita al VI-V secolo, coi Presocratici e con Platone? A questa domanda risponderei nel modo seguente: è eccessivo solo in rapporto a quello che si è finora fatto. Così, tuttavia, come non è eccessivo per un neonatologo analizzare un neonato facendo riferimento a tutte le condizioni biologiche del concepimento, all’intero periodo della gestazione e in generale alle varie fasi del processo procreativo, anziché partire solo – come si faceva una volta – dal momento della sua nascita, per lo stesso motivo non è eccessivo, a mio avviso, studiare la filosofia facendo riferimento alle condizioni originarie del suo concepimento, a tutto il periodo della sua gestazione e in generale alle varie fasi della sua “procreazione”. Indubbiamente, con la filosofia si parla di 15 secoli anziché di 9 mesi, e di un processo che riguarda molte generazioni anziché pochi individui, il che rende tutto più complesso. Penso però che sia doveroso considerare tale processo nella sua interezza: dalla cultura minoica del XX secolo alla cultura classica del V secolo vi è una continuità, che nel testo è mostrata in vari modi, la quale deve essere valutata compiutamente se si desidera comprendere in maniera adeguata la nascita della filosofia.

Nel volume ho utilizzato ripetutamente una analogia vegetale – poco fa ho usato quella umana –, assimilando la filosofia a una piantina, uscita dal terreno nel VI-V secolo, e di cui, al massimo, è stata ipotizzata l’esistenza di radici un paio di secoli prima, con la poesia di Omero. La cultura omerica, tuttavia, dipende strettamente dai cosiddetti “secoli oscuri” che l’hanno preceduta (XI-IX), i quali sono, a loro volta, la risultanza del crollo dei regimi micenei (XVII-XII), che ebbero come modello – per quanto senza assimilarne compiutamente la cultura – proprio la civiltà minoica cretese (XX-XV). Possibile, alla luce di quanto ho qui sintetizzato, continuare a studiare la piantina della filosofia considerando solo, al più, i 2 centimetri (secoli) delle sue radici fino a Omero, quando è assai verosimile, per i legami ora esposti, che esse siano lunghe almeno 15 centimetri (secoli) fino a Creta? Mi sembra semplicemente che finora, siccome è molto difficoltoso scavare in profondità, si sia scavato solo in superficie, o spesso addirittura non si sia scavato, essendosi limitati – me compreso – a studiare solo la parte della piantina fuoriuscita dal terreno (ossia la filosofia quando ha iniziato ad essere nominata, coi Presocratici e con Platone), riducendo però di molto, in questo modo, le possibilità di comprensione della stessa.

Mi conceda un’ultima analogia – di quelle che fanno sorridere gli studenti a lezione –, stavolta di genere animale, per par condicio con quelle umana e vegetale utilizzate prima. In una gita ad un parco zoologico di qualche anno fa con mia figlia, ho appurato che la lunghezza delle gambe di una giraffa adulta è di circa 150 centimetri. Sarebbe ben rappresentata, a suo avviso, una giraffa con solo 20 centimetri di gambe? Senza considerare i secoli di cui si occupa questo libro, la filosofia rimane disegnata come una giraffa con le gambe di 20 centimetri. Per quanto la parte più importante di una giraffa sia verosimilmente costituita dal tronco e dal collo, con le gambe così corte essa non è raffigurata in maniera corretta. Ciò nonostante, da secoli, continuiamo a rappresentare la filosofia in questo modo, con tutto quello che ne consegue. Nel libro mostro in merito che molti errati luoghi comuni sulla nascita della filosofia (ad esempio il suo presunto sorgere nelle “colonie”, senza che si specifichi bene questo termine), si originano proprio a causa della mancata analisi delle sue condizioni di base. Per questo motivo ritengo che i futuri manuali di Storia della filosofia dovrebbero essere integrati, nelle loro prime pagine, non col contenuto di questo libro, ma col contenuto di questi secoli. Nutro tuttavia, in merito, poche speranze: lo specialismo accademico non accetta di aprirsi a novità così grandi. La mia proposta sarà per lo più considerata come il testo eccentrico di uno studioso “originale”; o, ancor più probabilmente, sarà ignorata.


  • In che modo, nel XX secolo a. C., a Creta ebbe inizio
    il processo che condurrà alla costituzione della polis
    e alla fioritura della philosophia?


Creta è un’isola grande circa come le Marche, più o meno equidistante fra l’Europa, l’Asia e l’Africa. Per la sua bellezza, fin dal Neolitico, fu abitata da popoli diversi, non esclusivamente da gente ellenica. Solo nel seguito la sua grande civiltà, grazie anche alla mediazione micenea, plasmò la cultura ellenica costituendone la matrice originaria. Lei mi chiede però, giustamente, come sia stato possibile, a partire dai primi insediamenti organizzati dell’Età del Bronzo, giungere progressivamente fino alla costituzione delle poleis ed alla successiva fioritura della philosophia, che è effettivamente un prodotto delle poleis elleniche.

Ebbene, pensi alle tre caratteristiche essenziali della philosophia cui abbiamo accennato sopra: il rivolgimento all’intero; la ricerca della verità e del bene; l’approccio dialettico alla realtà. Pensi a una situazione originaria, in cui vari gruppi di persone vennero ad abitare diverse parti dell’isola cercando di costituire aggregati stabili in cui vivere in maniera armonica. Come ragionarono e come agirono questi gruppi? Essendo nuclei comunitari, come lo sono quasi sempre i nuclei che viaggiano cercando di formare contesti abitativi permanenti, essi in sostanza seguirono – naturalmente senza esserne consapevoli – i tre orientamenti costitutivi della philosophia: a) si rapportarono all’intero, ossia alla natura (scelta di un luogo con corsi d’acqua potabile, con la giusta vicinanza al mare, con luoghi coltivabili nelle vicinanze, ecc.), al divino (scelta dei riti più adatti ad unire la comunità, a rispettare tutte le divinità care ai rispettivi gruppi, a garantire l’armonico svolgimento della vita sociale, ecc.) e all’umano (scelta di modalità economiche comunitarie, di una legislazione attenta alle esigenze di tutti, delle modalità migliori per favorire le espressioni culturali, ecc.). In questo modo essi realizzarono anche, implicitamente, b) una ricerca della verità e del bene, che fu posta in essere in un continuo confronto, ossia c) in maniera dialettica.

A Creta, insomma, rispetto alle coeve civiltà orientali, molto più gerarchiche, autoritarie e dogmatiche, si crearono forse i primi contesti cittadini comunitari di cui abbiamo notizia, i quali scelsero – verosimilmente, per quanto ho potuto ricostruire – di organizzare la loro vita sociale in maniera pianificata, in maniera tale che ognuno potesse dare in base alle proprie capacità e ricevere in base ai propri bisogni. Una simile pianificazione comunitaria, organizzata nei famosi Palazzi, adottata peraltro in tutte le principali città dell’isola, non poté prescindere da una grandiosa elaborazione culturale e da una rilevante condivisione politica: due condizioni essenziali che spiegano forse come, da quelle prime poleis ante litteram, iniziarono ad essere inseriti nel terreno, a mettere radici e a germogliare i primi semi della philosophia.


Quali caratteristiche
presenta
la Creta palaziale?


Ho poco fa parlato di Palazzi, ma non dobbiamo pensare – come pure i primi archeologi scopritori degli stessi, fra cui Evans, hanno lasciato intendere – a qualcosa di simile ai palazzi reali di Versailles. I cosiddetti Palazzi, nelle città minoiche, erano infatti costruzioni molto ampie in cui avevano sede le istituzioni politico-religiose-culturali della città, così come diverse attività produttive. Essi erano in effetti più simili a veri e propri quartieri, in cui erano svolte le attività economico-sociali fondamentali relative alle necessità della vita, fra cui in primo luogo lo stoccaggio e la distribuzione delle risorse alimentari, nonché l’organizzazione – la scrittura nacque verosimilmente a Creta con questo fine – della pianificazione. Erano Palazzi senza mura, aperti alla cittadinanza, non arroccati in difesa del potere. Nonostante l’immaginario collettivo pensi al mitico Minosse come ad un monarca imperialista, l’iconografia rimasta non mostra mai, a Creta, re in posizioni dominanti e sudditi con la testa bassa, come spesso accade nelle coeve civiltà orientali; mostra anzi spesso gruppi di persone felici con la testa alta. L’archeologia conferma peraltro l’iconografia, con situazioni abitative, nei nuclei urbani, tutte fra loro piuttosto omogenee. Si tratta, come dico più volte nel libro, soltanto di indizi (qui ne ho indicati alcuni), ma se tre indizi fanno una prova, nel libro ci sono anche alcune prove.


In mancanza di documenti scritti,
su quali elementi
si basa il Suo studio


Altra domanda doverosa. Mi si potrebbe infatti giustamente chiedere: essendo lei uno storico della filosofia antica – peraltro un po’ anomalo, dato che si occupa anche di filosofia morale e di filosofia teoretica –, cosa ne sa di queste civiltà anteriori ad Omero, di cui restano poco più che le pietre? Naturalmente, mi sono a lungo documentato prima di scrivere questo libro, come la bibliografia citata dimostra. Non solo: ho anche importunato, per diverso tempo, archeologi, storici, orientalisti, ecc., nella convinzione che il sapere non sia caratterizzato da compartimenti stagni. In tal senso, devo ringraziare in modo particolare due archeologi assai interdisciplinari, quali la Professoressa Daniela Lefèvre-Novaro, dell’Università di Strasburgo e il Professor Massimo Cultraro, dell’Università di Palermo, che mi hanno fornito molte utili indicazioni ritenendo, alla fine, plausibile la mia interpretazione.

Queste epoche in effetti, su cui non ci sono fonti scritte dirette – la cosiddetta Lineare A, nonché le altre scritture geroglifiche minoiche, non sono ancora state completamente decifrate; inoltre, il totale dei testi minoici di cui disponiamo ammonta a poche pagine di un attuale libro –, devono necessariamente essere indagate in maniera interdisciplinare. Occorre infatti saper mettere insieme i pezzi scoperti dai singoli specialisti, per arrivare a delineare un quadro coerente di una civiltà così meravigliosa come quella minoica. Questa attività però, oggi, la fanno ormai in pochi. I processi selettivi dell’Università obbligano in effetti ad uno specialismo estremo, tanto che se ci si lascia risucchiare dagli stessi si finisce con lo studiare una sola tesserina del mosaico per tutta la vita, senza andare oltre. Eppure, ci vuole sempre qualcuno che tenti di mettere insieme le tessere, se si desidera avere una immagine complessiva del mosaico.


  • In che modo l’indagine sugli albori della riflessione filosofica
    ci aiuta a comprendere il senso di un fine
    che la filosofia contemporanea sta progressivamente smarrendo?

Questa domanda finale è molto bella, perché condensa veramente il significato che attribuisco a tanti anni di libri e di insegnamento. Indagando le culture antiche, ho sempre cercato di far risaltare il valore comunitario della filosofia, che è appunto una ricerca comune della verità dell’intero, svolta in comune per favorire il bene comune. Il fine del fare ricerca, in filosofia, deve sempre essere l’affrontare problemi importanti per trovare soluzioni importanti, dunque anche modelli di riferimento validi. La Creta minoica, in base a quanto argomento nel libro, rappresenta un possibile paradigma di società comunitaria, pianificata in maniera armonica, in cui a nessuno mancava il necessario, la natura era rispettata e ciascuno partecipava liberamente al processo della riproduzione sociale complessiva. Non abbiamo bisogno, oggi, di un modello simile, vivendo in un modo di produzione che, strumentalizzando tutto al fine del profitto, non rispetta né gli uomini né la natura, mettendo in pericolo la stessa sopravvivenza del pianeta e lasciando nella infelicità centinaia di milioni di persone? 

Sono assolutamente consapevole dei limiti della mia ricerca filosofica, che è “roba minima”, come direbbe Enzo Jannacci. Finché, tuttavia, mi sembrerà di essere almeno un poco utile in questa direzione, continuerò a scrivere; quando capirò di non esserlo più, impiegherò la mia vita in maniera diversa, per quanto sempre con lo stesso fine.

****

Luca Grecchi insegna per le cattedre di Filosofia morale e di Storia della filosofia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Leggere i Presocratici (Morcelliana, 2020) e tre volumi della collana Questioni di filosofia antica (Edizioni Unicopli): Natura (2018), Uomo (2019) e Ricchezza (2021). Con l’editore Petite Plaisance ha curato tre importanti volumi collettivi: Sistema e sistematicità in Aristotele; Immanenza e trascendenza in Aristotele; Teoria e prassi in Aristotele (rispettivamente 2016, 2017 e 2018).

Luca Grecchi – Alcuni suoi libri


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Italo Calvino (1923-1985) – Due modi d’usare l’utopia: considerandola per quello che in essa appare realizzabile, oppure per quello che in essa appare irreducibile a ogni conciliazione, in opposizione radicale non solo al mondo che ci circonda ma ai condizionamenti interni che governano le nostre attribuzioni di valori, la nostra immaginazione, la nostra capacità di desiderare una vita diversa, il nostro modo di rappresentarci il mondo: una rappresentazione totale che ci liberi dentro per renderci capaci di liberarci fuori.

Italo Calvino - Charles Fourier

È la contraddizione tra i due modi d’usare l’utopia: considerandola per quello che in essa appare realizzabile, come il modello d’una società nuova che possa crescere in margine alla vecchia per eclissarla con l’evidenza dei nuovi valori, oppure per quello che in essa appare irreducibile a ogni conciliazione, in opposizione radicale non solo al mondo che ci circonda ma ai condizionamenti interni che governano le nostre attribuzioni di valori, la nostra immaginazione, la nostra capacità di desiderare una vita diversa, il nostro modo di rappresentarci il mondo: una rappresentazione totale che ci liberi dentro per renderci capaci di liberarci fuori.

Italo Calvino, Introduzione a Charles Fourier, Teoria dei quattro movimenti. Il nuovo mondo amoroso, e altri scritti sul lavoro, l’educazione, l’architettura nella società d’Armonia, Scelta e introduzione di Italo Calvino, Giulio Einaudi editore, Torino 1971, p. IX.


Italo Calvino (1923-1985) – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme.
Italo Calvino (1923-1985) – La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso.
Italo Calvino (1923-1985) – Cavalcanti si libera d’un salto “sì come colui che leggerissimo era”. L’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostra che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi appartiene al regno della morte.
Italo Calvino (1923-1985) – Leggere significa affrontare qualcosa che sta proprio cominciando a esistere.
Italo Calvino (1923-1985) – … il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento …
Italo Calvino (1923-1985) – Questo è il significato vero della lotta: Una spinta di riscatto umano da tutte le nostre umiliazioni. Questo il nostro lavoro politico: utilizzare anche la nostra miseria umana per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.
Italo Calvino (1923-1985) – Classici sono quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Tito Perlini (1933-2013) – la rivoluzione non è Negazione del passato, ma ciò cui essa s’oppone: Il capitalismo, che è antitetico allo sviluppo della civiltà e che mira solo a conservare se stesso. Vero conservatore non è chi difende un cattivo presente, ma chi insorge contro tale falsa conservazione.

Tito Perlini 01

Tito Perlini ha osservato acutamente che nell’atteggiamento rivoluzionario di Rosa Luxemburg si rintraccia pure un aspetto importante di conservazione:

 

«Nella Luxemburg si fondono paradossalmente le figure antitetiche del rivoluzionario integrale e del conservatore. L’impegno rivoluzionario è rivolto contro il capitale, il dominio del quale sulla società non può venir corretto, ma deve essere spezzato pena la condanna della società stessa alla rovina. Ciò che si tratta di conservare è il patrimonio civile dell’umanità che rischia di venir compromesso irreparabilmente dalla barbarie capitalistica. E’ necessario rivoluzionare integralmente il modo di produzione e la rete di rapporti che da esso derivano per impedire che la sua logica infernale distrugga la civiltà umana. Negazione del passato non è la rivoluzione, ma ciò cui essa s’oppone. Il capitalismo mira solo a conservare se stesso, facendo strame del passato, imprigionando il presente nella sua cecità, togliendo al futuro ogni prospettiva rispondente ai bisogni e alle esigenze degli uomini. Il capitalismo è antitetico allo sviluppo della civiltà. Rispetto ad essa è falsa conservazione destinata a rivelarsi come il proprio contrario, come distruzione. Vero conservatore non è chi difende un cattivo presente che fa insieme ingiuria al passato e al futuro, ma chi insorge contro tale falsa conservazione assumendo il ruolo del rivoluzionario, teso a dar luogo ad una svolta radicale della storia per impedire a questa di precipitare nell’abisso».[1]

Parole di straordinaria lucidità, queste risalenti al 1971 di Tito Perlini a commento dell’aut-aut luxemburghiano, ancor più vere oggi, nell’epoca della devastazione ambientale del pianeta intero, in cui l’abisso che si avvicina sempre più non riguarda soltanto le modalità della convivenza umana, ma la sopravvivenza stessa della specie umana e di tutti gli esseri viventi.

Franco Toscani

[1] Tito Perlini, Il ruolo della cosiddetta ‘teoria del crollo’ nel pensiero di Rosa Luxemburg, in “aut aut”, Lampugnani Nigri editore, novembre-dicembre 1971, pp. 69-70.

 


Tito Perlini (1931-2013) – «ATTRAVERSO IL NICHILISMO Saggi di teoria critica, estetica e critica letteraria», Aragno editore, 2015

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