Theodor L. Adorno (1903-1969) – L’ontologia di Heidegger finisce in una terra di nessuno. In ciò si manifesta la miseria del pensiero che vuol giungere al suo altro, e non può permettersi nulla senza timore di perdervi ciò che afferma. La filosofia diventa tendenzialmente gesto rituale. In esso però c’è anche qualcosa di vero: il suo ammutolirsi.

Theodor Ludwig Adorno - Heidegger

«Per essere conseguente l’ontologia di Heidegger finisce in una terra di nessuno. Essa deve eliminare gli elementi a posteriori, tantomeno essa deve essere logica, come dottrina del pensiero e una disciplina particolare; ogni passo del pensiero dovrebbe condurla oltre il punto, in cui soltanto le è lecito di sperare di bastare a se stessa. Alla fine, essa non osa quasi più predicare qualcosa dell’essere. In ciò si manifesta non tanto una meditazione mistica quanto la miseria del pensiero che vuoI giungere al suo altro, e non può permettersi nulla senza timore di perdervi ciò che afferma. La filosofia diventa tendenzialmente gesto rituale. In esso però c’è anche qualcosa di vero: il suo ammutolirsi».

Theodor L. Adorno, Negative Dialektik [1966], tr. it. Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 69.


Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto attinge a quel concetto che è servito sempre a sancire la violenza sociale come immodificabile.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – Una società emancipata è la realizzazione dell’universale nella conciliazione delle differenze. Una politica a cui questo stesse veramente a cuore dovrebbe richiamare l’attenzione sulla cattiva eguaglianza di oggi […] e concepire uno stato di cose migliore come quello in cui si potrà essere diversi senza paura.
Theodor L. W. Adorno (1903-1969) – È fondamentale compiere esperienze personali, non delegate dall’apparato sociale. La felicità si dà soltanto dove c’è il sogno, ed è preclusa a chi non sa più sognare, incapace di concepire scopi.
Theodor L. Adorno (1903-1969) – Il fatto che a filosofia metafisica, quale storicamente coincide in sostanza coi grandi sistemi, abbia più splendore di quella empiristica e positivistica non è un elemento meramente estetico.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Marco Revelli – Oggi è improponibile l’idea secondo cui lo sviluppo tecnologico trainerebbe con sé, in quanto tale, anche lo sviluppo sociale. L’ideologia del progresso non ha nessuna universalità e nessun universalismo

Marco Revelli 01
Savatore Bravo
Oggi è improponibile l’idea secondo cui lo sviluppo tecnologico trainerebbe con sé,
in quanto tale, anche lo sviluppo sociale.
L’ideologia del progresso non ha nessuna universalità e nessun universalismo

***

Destra Sinistra
Ricostruire l’identità della sinistra e della destra non è operazione teoretica semplice: affermazione banale, ma vera.
La teoria non è scissa dalla prassi, anzi interagisce con essa secondo il paradigma osmotico. Pertanto non vi è ricostruzione che non possa non tener nel debito conto la cornice storica in cui siamo situati. Ogni fuga all’interno di semplicismi integralistici – o nostalgie verso un passato che non ritornerà – non può che rallentare i processi di più corretto riposizionamento. La storia del comunismo ci insegna che a mutate circostanze storiche è necessario salvare i principi attraverso “adeguamenti al contesto storico”. Esempio ne sono state la NEP (1921-1928) di Lenin, come pure le innumerevoli declinazioni del comunismo alle contingenze storiche nazionali. Viviamo, dunque, come direbbe Gramsci, in un interregno: il nuovo non nasce, il vecchio non muore. In questa sospensione si consolida il Regno animale dello Spirito al punto da apparire come la “fine della storia” che coinciderebbe con la negazione dell’umano. Ma fin quando l’essere umano vivrà la storia non avrà concluso la sua corsa, sarà apertura alla speranza, corrente calda che muove verso il futuro. La distopia liberista si è strutturata anche grazie all’eclissarsi della sinistra e del comunismo, non solo come esperienza storica realizzata, ma anche come opposizione ideologica.
La sinistra è preda di processi di auto-dissolvimento, in quanto imita per opportunismo le destre, e specialmente, nega la sua identità politica. In tali circostanze gli spazi per il dibattito risultano limitati, o meglio la sinistra di potere rifiuta il confronto con se stessa per abbracciare la causa del capitalismo a cui dà sostegno nel timore di scomparire dalle scene mediatiche e, specialmente, per conservare posizioni di potere. Salva il corpo per salvare l’anima; la realtà è che ha perso entrambi, in quanto il compromesso è diventato complicità, fino a trasformarsi nella testa d’ariete del capitale: taglia i diritti sociali per divenire l’araldo dei soli diritti individuali, e incentiva la “cultura” del privato contro il pubblico. Non difende il suo popolo, ma lo consegna alle multinazionali, alla finanza ed alla cultura anglosassone. Porta a termine un’operazione filosofico-politica iniziata con il contratto di Hobbes, in base alla quale l’individuo astratto riduce ogni ente a solo mezzo compreso, lo Stato. Lo slittamento della cultura liberale nella sinistra è palese, si fa portatrice delle istanze liberiste con un mutamento privo di razionalità critica, ma che punta solo all’utile ed al risultato immediato. La sinistra post crollo muro di Berlino (1989) ha scelto la via più breve e più semplice, si è adattata al nuovo corso della storia, rimuovendo la sua ingombrante identità e ritirandosi dai territori e dalla storia. Non restano che slogan e nomi continuamente cangianti ad occultare il nichilismo nelle parole di mediocri politicanti che hanno come unica causa veloci carriere che si consumano nella ridda sempre più accelerata nel nichilismo senza prospettive. Le passioni tristi, di conseguenza, sono la normalità di un’epoca senza vitalità e senza memoria. Per poter ricostruire la sinistra bisogna congedarsi dal presente, sempre più simile ad una palude con i suoi opportunismi e “pensare il proprio tempo”, come Hegel ha insegnato.
L’attualità storica si connota per la sua temporalità vorticosa; la globalizzazione con i suoi scambi commerciali e finanziari interconnessi ha messo in atto una temporalità senza concetto ed immediata, e spesso frammentata, nella quale i soggetti politici si disperdono e mutano:

«In particolare nell’idea di temporalità che ‘divora se stessa’ che consuma la propria dimensione di ‘durata’ man mano che aumenta la propria velocità di trasformazione e finisce per destituire di senso tutte le diverse forme di consapevolezza umana basate sulla percezione del tempo (memoria, esperienza, aspettativa, identità personale e sociale ecc.), sembra ritrovarsi il tema stesso dell’auto-contraddittorietà del moderno: di una ‘modernità’, appunto, che radicalizzandosi si nega o comunque si ‘rovescia’. Così come nell’immagine di un tempo parossisticamente accelerato tanto da decostruire ogni struttura stabile dell’esperienza, e nella possibilità stessa di concepire una ‘storia’ (un racconto temporalmente ordinato), si concentra buona parte della sensazione di incertezza, volatilità, sradicamento e paura che costituisce la ‘materia prima’ delle riflessioni recenti».[1]

 Accelerazione temporale
L’accelerazione provoca dispersione e passività, ma è pur vero che questo stato di cose è favorito dal nichilismo globale e trasversale. Senza paradigmi ideologici, spogli di ogni processualità logica e concettuale ed esposti ad una temporalità divoratrice, le identità si annichiliscono, e i popoli non hanno così i mezzi per capire e riorientarsi nella precarietà strutturale del postmodernismo. Tale condizione non è una fatalità storica, ma una condizione creatasi, anche a seguito dell’omogeneizzazione della sinistra con la destra. La categoria della merce e del libero scambio senza limiti hanno inciso anche nell’organizzazione-percezione spaziale, la quale è ora senza confini e senza identità. Le frontiere si aprono ad un flusso ininterrotto di merci e di eccedenze del capitale (veri protagonisti del ‘nuovo corso della storia’) che trascinano con sé popoli ormai divenuti plebi senza volto, in quanto costretti alla migrazione perenne. Lo spazio diviene un luogo nel quale convivono sincreticamente e senza stabilità individualità plurime in disgregazione. La sinistra tace, anzi sostiene i flussi in nome dell’accoglienza umanitaria da donare al capitale ad ai capitalisti pronti a sfruttarne la disperazione.

Spazio globale e iperluogo
Lo spazio globale diviene l’inferno perenne, dove il capitale con il sostegno delle destre e delle sinistre raccoglie i suoi frutti. L’indebolirsi dello stato nazionale stigmatizzato come la fonte di ogni male, è in realtà la rifeudalizzazione su scala planetaria. Lo Stato e la nazione sono sostituiti da potentati economici che assoldano la politica per utilizzarla ai loro fini. Lo Stato come garante di diritti sociali ed identità è perennemente oggetto di pubblico ludibrio, in quanto pone dei limiti al degrado dei popoli: l’identità è il male assoluto di cui bisogna liberarsi per consegnarsi al flusso della globalizzazione, si associa l’identità comunitaria e patria al nazionalismo per strutturare pregiudizi e rifiuti emotivi non mediati dalla ragione critica:

«In effetti, nel proprio processo vertiginoso di costruzione di uno ‘spazio globale’, essa sembra imporre alla precedente ‘spazialità nazionale’ lo stesso trattamento che questa aveva a sua volta riservato alla ‘spazialità feudale’: la travolge e dissolve, ne forza i confini e li relativizza, infine, nella sostanza, la delegittima e svuota».[2]

 L’iperluogo rappresenta la nuova spazialità della globalizzazione, in cui in un solo punto sono compresenti “mondi diversi” che appaiono per dileguarsi nella globalizzazione. La sinistra che verrà deve essere capace di rispondere a tale nuova complessa condizione. Il problema è se bisogna sostenere i flussi, regolamentarli secondi i desideri del capitale, o se invece prospettare una diversa soluzione al problema. L’iperluogo è l’effetto del capitalismo finanziario che agisce per polverizzare istituzioni, lingue ed identità nazionali secolari, al loro posto vi è solo l’antiumanesimo. Il soggetto umano è preda di forze fatali che lo soverchiano, le quali “accadono” e non hanno soggetto, ma sono ipostatizzate e naturalizzate. La nuova sinistra se vuole smarcarsi dalle destre dovrebbe porre distanza concettuale, etica e politica dalla religione del capitale o continuerà ad essere parte integrante della tragedia nell’etico:

«Si spiegherebbe così – con questa trasformazione – della città da luogo di flusso o, se si preferisce, in ‘iperluogo’, in spazio in cui precipitano in un punto solo molti luoghi prima separati- l’intrinseca instabilità delle consolidate identità politiche qualificate spazialmente, come appunto ‘Destra/Sinistra’: quel loro mutare di segno, rovesciarsi nel proprio opposto, cambiare posizione relativa pur restando immobili, cui ci ha abituato l’esperienza quotidiana, così come allo sradicamento esistenziale di chi, nella liquefazione dei luoghi, sperimenta ormai sempre più spesso lo spaesamento dell’ubiquità (ciò che si prova quando a dirla con Gogol, “senza essere partiti, non si è già più là”) e l’irriconoscibilità del proprio paesaggio».[3]

 

Religione del progresso
Uno dei dogmi a cui la sinistra deve rinunciare, non senza problematizzarlo, è il dogma del progresso. La religione del progresso tecnologico, della liberazione da ogni vincolo comunitario ed etico e dell’aumento del PIL ha comportato un abbassamento inquietante della qualità delle relazioni umane. La competizione disintegra comunità e famiglie ed offre ai vincitori come ai perdenti solo una diversa solitudine. La riduzione di ogni ente a puro fondo di investimento sta rendendo il pianeta inospitale alla vita ed incentiva un individualismo astratto incapace di pensare e sentire il senso della comunità senza la quale non vi è che l’alienazione globale. La tecnica al servizio dell’accrescimento del capitale e del tenore di vita nell’Occidente in estensione all’intero globo mina ogni relazione autentica inaugurando l’antiumanesimo come nuova religione della violenza planetaria legalizzata:

«Ma così è accaduto anche per la sua variante ‘materialistica’: per il concetto di ‘sviluppo’ cui risulta sempre più difficile, per lo meno sul piano razionale (perché invece la sua apologetica continua a dominare sul piano della dogmatica ideologica), associare, com’era naturale fino a ieri, un’effettiva idea di benessere non misurato in puri termini di reddito, mentre si vanno moltiplicando le letture che tendono a coniugare, in forma finora impensabile, crescita dell’economia e diffusione del malessere sociale ed esistenziale, sviluppo economico e disgregazione sociale, aumento quantitativo della ricchezza e aumento qualitativo del disagio nelle forme insidiose dell’incertezza, della precarizzazione e improgrammabilità della propria vita, della crescente fragilità delle ‘biografie personali’ e nell’improponibilità di quelle collettive: in sostanza l’insieme di quegli elementi fattuali, ormai ben visibili nella nostra quotidianità, che spezzano irrimediabilmente la tradizionale identificazione di ‘progresso tecnico e progresso sociale’, o meglio, che rendono oggi improponibile l’idea – che era stata, fino a ieri, alla base del “consenso culturale-normativo di fondo” sull’idea di progresso e sulla politica del tecnologie da essa univocamente e acriticamente orientata – secondo cui lo sviluppo tecnologico trainerebbe con sé, in quanto tale, anche lo sviluppo sociale».[4]

Lo spazio ed il tempo della globalizzazione si trasformano sotto l’effetto della religione del progresso ultimo baluardo ideologico di una sinistra di governo complice dell’ordinaria violenza quotidiana. La nuova sinistra per rispondere a tali urgenze non può limitarsi a semplici dichiarazioni, ma deve rifondarsi su fondamenta metafisiche, deve uscire dai falsi miti ormai consunti per rimettere in atto processi razionali divergenti. Ritornare al logos e abbandonare i miti per discernere e rifondare sull’esperienza storica degli ultimi decenni comporta la necessità di introdurre nuovi fondamenti metafisici senza i quali ci si consegna al fatalismo della globalizzazione, alla religione stadiale del progresso senza prospettiva e senza umanità. L’anno zero della sinistra può essere l’inizio per uscire dall’abisso della coazione a ripetere, per intraprendere un percorso di ricostruzione critica adeguata ai tempi, ma nel solco di un’identità che non può essere granitica, ma neanche un nulla dai mille volti interscambiabili. Le facili e false dicotomie devono essere sostituite da valutazioni sui contenuti senza negare i principi costitutivi, solo in questo modo è possibile un nuovo inizio in nome della complessità consapevole:

«L’intelletto astratto ama le dicotomie, vive di dicotomie, si nutre di dicotomie, e la ragione sta in ciò, che per loro natura le dicotomie sono paralizzanti, portano a ciò che si chiama in filosofia “antinomie”, in modo che la manipolazione classista dell’irrigidimento antinomico porta alla conclusione che non c’è niente da fare in pratica, in quanto qualunque azione sarebbe unilaterale, e porterebbe da Scilla a Cariddi. Una di queste antinomie è l’opposizione frontale fra il progressismo ed il tradizionalismo. Se il comunitarismo vuole essere qualcosa, deve cominciare ad essere un superamento reale della dicotomia Progresso/Tradizione. L’ideologia del progresso era estranea agli antichi ed ai medioevali, almeno come la conosciamo noi, ed è un prodotto integrale delle origini della egemonia borghese e del mondializzarsi del mercato capitalistico. L’ideologia del progresso non ha nessuna universalità e nessun universalismo, ma nel suo insieme rappresenta la razionalizzazione falsamente universalistica delle pretese di estensione a tutto il mondo dell’occidentalismo individualistico e capitalistico. Il fatto che il movimento operaio, socialista e comunista abbia adottato l’ideologia del progresso, limitandosi a collocare il capitalismo alla penultima stazione ed il comunismo all’ultima, con la conseguenza di assorbire la secolarizzazione messianica della fine della storia, deve essere visto come un sintomo della inguaribile subalternità filosofica di questo soggetto sociale. Ed a sua volta la subalternità ideologica, politica e storica. Il secolo 1890-1990 è stato purtroppo lo scenario teatrale di questa incurabile subalternità. Rispondere a questa subalternità presuppone la coerentizzazione e la rigorizzazione di una concezione comunitaria del comunismo, a sua volta esito della comprensione del fatto che il semplice collettivismo (coatto) si rovescia necessariamente in individualismo (anomico)».[5]

 

L’atto di nascita di un’ipotetica sinistra è fondamentale per comprenderne destini e programmi. La sinistra di cui necessitiamo dev’essere partecipata, deve riattivare la potenza del concetto contro la tecnocrazia che produce movimenti e partiti all’occorrenza per scioglierli in base agli interessi dei nuovi signori feudali. L’imprinting iniziale determinerà la storia della sinistra che, ora, non c’è.

Salvatore Bravo

[1] Marco Revelli, Sinistra Destra. L’identità smarrita, Laterza, Bari 2009, pag. 173.

[2] Ibidem, pag. 184.

[3] Ibidem, pp. 198-199.

[4] Ibidem, pp. 154-155.

[5] Costanzo Preve, Filosofia e politica del comunitarismo. Riforma, rivoluzione e conservazione, pag. 3.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Giorgio Agamben – I sogni e i desideri inadempiuti dell’umanità non dormono chiusi in preziosi mausolei, ma stanno confitti come astri viventi nel cielo remotissimo del linguaggio, di cui appena decifriamo le costellazioni. E questo – almeno – non l’abbiamo sognato. Saper afferrare le stelle che come lacrime cadono dal firmamento mai sognato dell’umanità è il compito del comunismo.

Giorgio Agamben 03

«Apparirà, allora, che il mondo possiede da lunghissimo tempo il sogno di una cosa, di cui esso deve solo possedere la coscienza per possederla veramente». Certamente – ma come si possiedono i sogni, dove sono custoditi? Qui non si trana, naturalmente, di realizzare qualcosa – nulla è più noioso di un uomo che abbia realizzato i propri sogni: è l’insulsa buona lena socialdemocratica della pornografia. Ma nemmeno si tratta di custodire intangibili in camere di alabastro, coronati di gelsomini e di rose, ideali che, diventando cose, si sfracellerebbero: è il segreto cinismo del sognatore.
Bazlen diceva: quel che abbiamo sognato, lo abbiamo già avuto. Tanto tempo fa, che nemmeno ce ne ricordiamo. Non in un passato, quindi – non ne possediamo i registri. Piuttosto i sogni e i desideri inadempiuti dell’umanità sono le membra pazienti della resurrezione, sempre in atto di risvegliarsi nell’ultimo giorno. E non dormono chiusi in preziosi mausolei, ma stanno confitti come astri viventi nel cielo remotissimo del linguaggio, di cui appena decifriamo le costellazioni. E questo – almeno – non l’abbiamo sognato. Saper afferrare le stelle che come lacrime cadono dal firmamento mai sognato dell’umanità è il compito del comunismo.

Giorgio Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 2020, p. 61.



Angelo Magliocco – Il dualismo bìos/zoè e lo stato d’eccezione in Giorgio Agamben.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Per non dimenticare Costanzo Preve (1943-2013) – Il politicamente corretto è il dispositivo interdittivo del capitalismo. Non indossate l’abito del «Politically correct». Serve a necrotizzare il concetto e sostituirlo con la chiacchiera.

Costanzo Preve - Politically correct
Costanzo Preve

Elementi di Politicamente Corretto

Studio preliminare su un fenomeno ideologico sempre più invasivo.

indicepresentazioneautoresintesi
Il politicamente corretto è il dispositivo interdittivo del capitalismo.
Non indossate l’abito del «Politically correct».
Serve a necrotizzare il concetto e sostituirlo con la chiacchiera

Politicamente corretto
Ogni organizzazione sociale ha le sue interdizioni: senza di esse non vi è comunità che regga. Il capitalismo assoluto cela le sue interdizioni pur rappresentandosi come la società più libera che la storia umana abbia conosciuto.

Il politicamente corretto è il dispositivo interdittivo del capitalismo assoluto.

Per necrotizzare il concetto e sostituirlo con la chiacchiera si opera secondo modalità plurali. La chiacchiera è il distrattore di massa del capitale: l’etere è occupato dal continuo flusso di informazioni, e di gossip, che funzionano per distrarre i popoli, che si vogliono plebi, dalla durezza del reale e trasportarlo in un mondo onirico di desideri e sogni derealizzanti. La chiacchiera è la nuova religione del capitalismo assoluto, religione nichilista in cui mediocri personaggi di nessun talento raccontano il loro privato. Il dispositivo opera per sostituire il concetto (Begriff) con la chiacchiera (Gerede). I santi, i letterati e gli scienziati che nella fase precedente del capitalismo erano i modelli dialettici e critici del capitalismo, sono sostituiti dalla mediocrità dei narcisi dello spettacolo, dai loro racconti “tutti simili” come le loro fisicità e che convergono sulla cultura del privato e dell’indifferenza verso il pubblico. Sono vere armi per veicolare il capitalismo assoluto nella forma infantile ed innocente del narcisismo incentrato sul corpo da esporre e della parola da annichilire. La differenza, e l’identità dialettica sono respinte, poiché qualsiasi intelligenza media può ben rendersi conto che le storie e le aspirazioni raccontate sono tutte “drammaticamente” eguali. L’attenzione è volta unicamente al proprio privato che riproduce mediante gli automatismi della chiacchiera i modelli socialmente imposti.
La gabbia d’acciaio ha le sbarre invisibili, perché costruite con gli atti fonatori senza prospettiva e senza logos. Il potere non cala dall’alto, ma si diffonde mediante le stesse vittime: è nella loro carne, vi si installa per renderli automi nei quali convive la vittima con il carnefice. I diritti individuali sono negati, benché siano la bandiera ideologica e violenta del grande capitale. Il diritto alla parola non è il diritto alla chiacchiera, ma al concetto, alla riflessione; pertanto la chiacchiera interdice il pensiero e neutralizza il diritto alla parola, al libero concetto e alla pratica del logos. Il dialogo decade a pura emissione di dati e di immagini, nega se stesso, è sostituito con un suo surrogato. Il circo mediatico, mentre spinge a parlare di tutto, ad usare un linguaggio senza filtri opera per impedire l’esperienza critica comunitaria, la quale non può che concretizzarsi con il linguaggio significante.
La chiacchiera è veicolo della reazione, della conservazione senza speranza e senza pensiero. La chiacchiera allarga i suoi spazi per occupare la temporalità delle menti. È associata all’immagine fino a confondersi con essa, dato che la semplicità lessicale diviene la copia dell’immagine, l’una non aggiunge nessuna informazione all’altra, ma entrambe destabilizzano l’attenzione, attaccano il pensiero nella sua genealogia. Gli automatismi irriflessi divengono la forza del capitale che desoggettivizza, e riduce le identità a semplici presenze gettate nella ridda degli stimoli senza mediazione concettuale. L’interdizione è tanto più violenta tanto più è occultata dall’ideologia della chiacchiera, la quale è l’arma con cui si conquistano “le nuove colonie” per il capitale. Ogni vivente è un regno da usare e da occupare. Il politicamente corretto è la forma del nuovo dispositivo di controllo. La tragedia attuale è il passaggio della sinistra sconfitta nell’impero della chiacchiera degli pseudo diritti individuali. La frontiera del politicamente corretto con le sue interdizioni ha trovato nella “sinistra” il mezzo di consolidamento del capitale. Dopo la caduta del comunismo ed il dissolvimento del partito comunista, la “sinistra” di potere ha ritrovato un suo nuovo ruolo nell’ideologia dei soli diritti individuali, appare come il salvagente a cui aggrapparsi per salvarsi, ma che in realtà l’ha fatta affondare. Il naufragio ed il timore di perdere posizioni di potere hanno favorito un ribaltamento tanto veloce quanto opportunistico. Il nichilismo rende adattivi, per cui la “sinistra” recava in sé tale matrice che ora si svela nella sua verità. Il nuovo mantra della nuova “sinistra”, come rileva Costanzo Preve, è l’acquisizione dogmatica e preconcetta della liberalizzazione dei costumi e dei consumi:

«In primo luogo, la genesi vera e propria. Si tratta di un episodio interno alla cultura radicale di estrema sinistra negli USA, dalla Vecchia Sinistra (old left), ancora socialista e comunista di tipo europeo, alla Nuova Sinistra (new left), postsocialista e postcomunista, sconfitta a livello di “struttura”, e che cerca una rivincita al livello del costume, dei modi di pensare e della “sovrastruttura”, in particolare per quanto concerne i quattro punti del sessismo maschilista, dell’omofobia, dell’antisemitismo antiebraico e del razzismo contro i “diversamente colorati” (neri, amerindi eccetera). In secondo luogo si tratta di una generalizzazione dell’intera società “ufficiale” di questo movimento, generalizzazione resa possibile e necessaria da un mutamento di natura dell’intera società capitalistica globale, r cioè caratterizzata dalla dicotomia Borghesia/Proletariato, ad una fase speculativa, e cioè post-borghese e post-proletaria, deve far cadere e rendere obsoleti i vecchi modelli razzisti, sessisti ed omofobi».[1]

 

Semplicismo del politicamente corretto
La “sinistra” ha abbracciato la causa della liberalizzazione dei costumi, ha rinunciato al pensiero critico e comunitario con il risultato che è diventata parte del politicamente corretto. Con la rinuncia alla dialettica in favore dell’individualismo narcisistico la lettura complessa e profonda dei fenomeni politici è sostituita da un semplicismo povero di idee e di ideali. Il femminismo e la lotta contro i razzismi sono diventati il mezzo più efficace per rafforzare il sistema capitale. La “sinistra arcobaleno” favorisce l’assimilazione nella società dei consumi, libera per poter mettere ai ceppi i “liberati”. Nel regno animale dello Spirito c’è spazio per chiunque, perché al capitale non importa il genere di appartenenza o l’identità di provenienza, il suo scopo è trasformare ciascuno in consumatore senza limiti e in adoratore idolatra del plusvalore. Il capitale è flessibile, è “rivoluzionario”, è un buco nero che attrae energia e materia per ridurla in “niente”. Le differenze sono rese irrilevanti in nome del consumo; pertanto a ciascuno è concesso di dichiarare la propria differenza, purché non si sottragga ai consumi ed all’individualismo dall’io minimo. Il capitale vive di ossimori, pertanto l’individuo è ammesso, ma solo se si connota come personalità minima. Si interdice la formazione personale ed identitaria in nome del “divino consumo”:

 

«In breve: la “sinistra” (nulla a che fare con le severe analisi strutturali di Marx) crede che il keynesismo in economia e la liberalizzazione dei costumi nella cultura siano tappe di avvicinamento progressivo (e di fatto “stadiale”) ad una società socialistica e comunistica (in senso umanistico ed antistaliano), in quanto crede che per sua stessa insuperabile natura il capitalismo si fondi su di un profilo razzista, omofobico, maschilista, sessista, autoritario, eccetera. Di fronte al fatto inatteso, invece, che il capitalismo per sua stessa natura riproduttiva tende a superare il suo primo momento di instaurazione, effettivamente razzista, maschilista, omofobico, sessista eccetera, per poter allargare le sue basi di consenso e di gestione attiva, includendovi appunto i neri, le donne, gli omosessuali, eccetera, non sapendo neppure più dove porre le sue basi culturali identitarie».[2]

 

Fascismo sempre alle porte
Il politicamente corretto per interdire la discussione su alternative potenziali e sulla verità del presente utilizza abilmente timori e paure del passato. Si fa appello al fascismo in assenza di fascismo. Si mette in atto un’operazione di derealizzazione, si proietta l’aggressività verso un nemico immaginario. Si legittima il presente con la religione dell’olocausto, per cui il sistema capitale è idolatrato per contrasto con i crimini del nazifascismo, ma naturalmente si occultano i crimini del capitalismo del passato come del presente. La religione dell’olocausto con la sua immensa produzione libraria e mediatica inonda il mercato ed unisce al profitto lo strutturarsi ossessivo e delirante della minaccia del nazismo alle istituzioni democratiche. Il pericolo inoculato nei popoli è lo strumento per tenerli docilmente alla catena:

 

«La religione olocaustica è quindi bivalente, in quanto serve sia all’asservimento simbolico dell’Europa, chiamata ad espiare per sempre, sia alla giustificazione indiretta delle atrocità razziste del sionismo colonialistico. Il capitalismo ha superato da tempo lo stadio ascetico-weberiano dell’accumulazione e lo stadio freudiano della necessità del Super-Io paterno baffuto, barbuto e peloso con completamento amoroso materno in busto a stecche soffocanti, ed in questo modo ha soltanto una fondazione individualistica e consumistica».[3]

 

L’antifascismo funziona come catalizzatore per una società disgregata, per impedire che l’individualismo divori se stesso si produce un artificio valoriale con cui unire all’occorrenza gli individui in perenne lotta e competizione. La religione dell’olocausto funziona, anche perché è una religione senza responsabilità verso il presente e che si limita a brevi liturgie da attivare nei momenti di crisi:

 

«L’antifascismo in assenza completa di fascismo è in realtà un meccanismo ideologico pestifero per impedire la valutazione dei fatti attuali. La costituzione italiana è stata distrutta nel 1999 con i bombardamenti sulla Jugoslavia, e da allora l’Italia è senza costituzione, e lo resterà finché i responsabili politici di allora non saranno condannati a morte per alto tradimento (parlo letteralmente pesando le parole), con eventuale benevola commutazione della condanna a morte a lavori forzati a vita».[4]

 

La religione dell’olocausto giustifica l’occupazione americana dell’Europa e con essa la sua colonizzazione.

 

 

La quarta guerra mondiale
Il capitalismo assoluto produce surrogati per compensare l’inquinamento dei bisogni autentici ed eterni dell’essere umano (religione, filosofia, arte e scienza). Ogni surrogato non è che un prodotto che non potrà rispondere alle autentiche esigenze assiologiche ed ontologiche dell’essere umano, ciò malgrado la religione dell’olocausto, del femminismo in carriera, delle famiglie arcobaleno e dell’uguaglianza come irrilevanza sono diventati i valori della sinistra che pratica il politicamente corretto senza prospettive:

 

«L’Antifascismo Senza Fascismo è stato quindi la religione di compensazione di un mondo che stava disgregando i precedenti valori comunitari. Si è trattato di una vera e propria “religione laica” o meglio di un surrogato laico della vecchia religione, e questo spiega perché i cosiddetti “fascisti” sono diventati l’equivalente degli intoccabili e degli immondi delle vecchie religioni tribali».[5]

 

Il politicamente corretto coincide con la quarta guerra mondiale, ovvero con l’americanizzazione del pianeta, con l’omogeneizzazione di popoli, lingue e culture. Il politicamente corretto cela la guerra in corso, la quale è un’azione belligerante continua contro ogni identità che si oppone al dominio messianico ed imperiale americano. Le responsabilità della sinistra divengono inquietanti dinanzi a tali crimini:

 

«Il progetto egemonico del nuovo impero americano si fonda su di una omogeneizzazione oligarchico-plebea dell’intera umanità. Al posto della ricca compresenza di nazioni, popoli e classi del mondo, si avrebbe un’unica piramide sociale omogeneizzata composta di individui preventivamente sradicati e poi risocializzati su basi consumistiche (ovviamente, basi consumistiche non egualizzate, ma a differenziati gradi di potere d’acquisto)». [6]

 

Contro il politicamente corretto bisogna operare riaprendo la catena dei perché, e trasformare la domanda in prassi. La resistenza è possibile, e l’emancipazione personale deve diventare potenza comunitaria per la liberazione culturale ed economica. Nessuna emancipazione può concretizzarsi con azioni singolari, ma l’impegno critico nel quale il concetto è il protagonista è la premessa per ogni trasformazione e prassi:

 

«Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido».[7]

 

La filosofia come talpa e civetta
La filosofia lavora non per l’immediato, essa è a volte come la talpa di Hegel il cui lavoro carsico prepara l’emancipazione ed il volo della civetta. Costanzo Preve è stato consapevole di aver lavorato per un futuro non determinabile. La sua dedizione alla filosofia diviene eguale alla passione dei grandi filosofi che hanno pensato il passato per capire il presente e preparato il futuro. La filosofia è, anche, dono di sé e questo i sofisti del politicamente corretto non possono comprenderlo:

 

«Passiamo al lungo termine. Dal momento che sono un pessimista generazionale ed un ottimista storico, e sono abituato a studiare i secoli ed i millenni, dò per scontato che questa abietta formazione ideologica del Politicamente Corretto certamente sparirà. Ma quando? Sospetto che questo non solo riguardi me, ma neppure gli attuali ventenni».[8]

 

Costanzo Preve ha pagato con l’impegno e l’auto-marginalità la sua lotta contro il politicamente corretto, il suo nome sarà sempre legato alla passione filosofica (Bestimmung) la quale non può che essere attività politica comunitaria. Può essere un esempio scomodo, ma ogni grandezza ci scopre impreparati ed inadeguati, ciò malgrado che ognuno salga sul suo asinello e scenda dal dorso dei grandi, come era solito affermare, poiché solo il coraggio di deviare dal cammino tracciato dalle potenze del nichilismo può rendergli onore. Non siamo vocati a diventare eroi, ma ognuno può trovare il modo di impegnarsi a suo modo sul solco dei dissenzienti del concetto, bisogna tradurre la società dello spettacolo in concetto per sperare nella prassi collettiva:

 

«Nella produzione televisiva della comunicazione il mezzo determina il contenuto del messaggio, scegliendo sistematicamente gli aspetti più superficiali ma anche più “visivi”, e dunque impressionanti, dell’evento riprodotto. In questo modo, ad esempio, la CNN americana, che è lo strumento televisivo dell’impero, sceglie di rappresentare le “atrocità” che poi serviranno da legittimazione pubblica alla risposta dei bombardieri americani. Tutto questo è rivestito da un’aura di presunta imparzialità ed autenticità che sembra non nascondere niente mentre nasconde tutto, dagli interessi economici in gioco ai precedenti storici. Lo voglia o meno, il giornalista televisivo è al servizio di questo meccanismo di eccezionalità visiva, che gira sempre intorno a tre forme archetipiche di spettacolo, lo spettacolo sportivo, lo spettacolo porno e lo spettacolo di morte in diretta».[9]

 

In questi giorni cade la data della sua morte (23 novembre),[10] ma ogni grande pensatore non muore mai; le verità che un pensatore ha svelato sono il lascito, a volte scomodo, con cui bisogna dialetticamente confrontarsi.

Salvatore Bravo

[1] Costanzo Preve, Politically correct, Petite Plaisance Pistoia 2020, pag. 21.

[2] Ibidem, pag. 25.

[3] Ibidem, pag. 40.

[4] Ibidem, pag. 47.

[5] Costanzo Preve, La quarta guerra mondiale, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008, pag. 91.

[6] Ibidem, pagg. 174-175.

[7] Costanzo Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia 2004, pag. 6.

[8] Costanzo Preve, Politically correct, Petite Plaisance, Pistoia 2020, pag. 58.

[9] Costanzo Preve, La crisi culturale della terza età del capitalismo, in «Comunismo e Comunità», 25 ottobre 2019.

[10] Costanzo Preve (Valenza, 14 aprile 1943 – Torino, 23 novembre 2013).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Victor Klemperer (1881-1960) – Il potere conosce perfettamente la psicologia della massa che non pensa e va mantenuta incapace di pensare. La sua lingua vuol dirigere il mio sentire, e indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. Le sue parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere più effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico.

Victor Klemperer 01

Salvatore Bravo

Il veleno del nuovo campo semantico concentrazionario

Il potere conosce perfettamente (e ne tiene conto costantemente) la psicologia della massa che non pensa e va mantenuta incapace di pensare.
La lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. E se la lingua colta è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi? Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere più effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico.

V. Klemperer

Potere e linguaggio
Il potere possiede, dei popoli, prima le parole e quindi la vita. Per attuarsi il biopotere necessità di una precondizione: possedere le parole, operare sul linguaggio, introdurre nuovi significati, ridurre le prospettive di senso e di significato mediante il progressivo restringimento, l’esemplificazione, del linguaggio e ridurlo ad organo attivo della trasmissione del potere.
I totalitarismi della contemporaneità si infiltrano nel pensiero, orientano la direzione dello sguardo ed il sentire con il tamburellare ossessivo delle parole. Le parole del capitale orientano verso la dimensione della quantità, neutralizzano ogni valutazione etica per favorire la sola componente legata al plusvalore.
Il capitalismo fonda una nuova lingua per ri-orientare la natura dell’essere umano. Nel linguaggio quotidiano e mediatico le parole hanno un nucleo catalizzante: il plusvalore, dal quale a raggera si strutturano le altre parole e ne diventano la logica conseguenza. Le parole entrano nel corpo vivo, e ridispongono pensieri e sentimenti secondo l’ordine linguistico totalitario. Le parole straniere-anglofone – che i media esaltano come una forma di meticciato linguistico – sono tipiche di ogni totalitarismo. Attraverso di esse si indicano provvedimenti che normalmente non sarebbero popolari, ma la fascinazione magica della parola straniera consente il passaggio e l’accoglimento di provvedimenti che altrimenti potrebbero essere messi in discussione e, forse, razionalmente rifiutati. I popoli sono ridotti a plebi prima ancora che dalla sussunzione digitale, dalla sussunzione linguistica che riduce gli spazi temporali e progettanti per inchiodarli ad un presente senza futuro.
Victor Klemperer, attraverso l’analisi filologica da lui compiuta sul linguaggio nazista (con i suoi acronimi, con la sua perversione dei significati, con il suo semplicismo aggressivo), ci è di ausilio per comprendere il presente, per cogliere nelle modificazioni introdotte oggi nella lingua che usiamo quotidianamente la diffusione del potere, e dunque, per capire che il potere non alberga in un “fuori”, ma vive nel soggetto parlante. Il soggetto è parlato dal potere, è de-soggettivizzato:

«Si farebbe però torto al Fürher se si attribuisse la sua preferenza per le parole straniere solo alla vanità e alla coscienza delle proprie deficienze. Hitler conosce perfettamente (e ne tiene conto costantemente) la psicologia della massa che non pensa e va mantenuta incapace di pensare. La parola straniera fa impressione, tanto più quanto meno viene compresa; proprio perché non viene compresa fuorvia, stordisce, soverchia il pensiero».[1]

 

La lingua del potere come arsenico
La lingua del potere pensa per noi, le parole pensate dal potere determinano visuali ed azioni. La perenne attività del potere è un’operazione che si delinea mediante la selezione delle parole che devono circolare. Il veleno del condizionamento è nell’etere, nello scambio linguistico che diviene consolidamento del potere.
L’automatismo linguistico è anti-dialettico. Le parole si comunicano senza mediazione concettuale, senza autocoscienza. La ripetizione del gesto come della parola diviene la nuova disciplina che orienta la vita. La nuova lingua deve formare l’homo œconomicus. Pertanto ogni “sospiro” deve essere sostenuto da parole di ordine economico, spesso anglofone, che marcano la vita dei soggetti sussunti.
Le parole possono essere logos che emancipa o dosi di arsenico quotidiano, di cui ci si nutre e che riducono la vita dei popoli nella strettoia della gabbia d’acciaio di cui non si vedono le sbarre, perché sono le parole ad essere le sbarre d’acciaio invisibili entro cui si è confinati. Il campo di concentramento è stato allocato nella mente di ognuno:

«Ma la lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. E se la lingua colta è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi? Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere più effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico».[2]

 

Nuovi eroismi
Kemplerer analizza le parole. Un esempio di manipolazione è la trasformazione che il regime nazista ha fatto della parola eroe. L’eroismo per suo significato originario è il coraggio di mettere in pericolo la propria via per l’umanità. Il nazismo trasforma il significato della parola, la svuota del suo intrinseco umanesimo, per fare dell’eroe un assassino in nome del sangue e del suolo:

«Eroismo non è soltanto il coraggio e il mettere a repentaglio la propria vita, perché di questo è capace anche qualsiasi attaccabrighe o qualsiasi criminale. Originariamente è eroe chi compie delle azioni che promuovono l’umanità. Una guerra di conquista, tanto più una caratterizzata da tante atrocità come quella hitleriana, non ha nulla a che vedere l’eroismo». [3]

L’esaltazione dell’imprenditore come eroe dei nostri giorni, come datore generoso di vita, perché assume e permette la sopravvivenza di impiegati ed operai è un esempio della nuova manipolazione in atto. Il grande imprenditore è rappresentato dal circo orante asservito come il nuovo corpo divino che vivifica la nazione, come la mente da cui dipende il futuro dei popoli incapaci e “naturalmente inferiori”. Si cela del nuovo eroe la concretezza della sua ricchezza, che va dall’evasione fiscale, all’occupazione di ogni spazio mediatico, alla incultura dell’illimitato che attraverso di lui penetra nelle menti e diventa la religione laica del consumo e dell’individualismo violento. Il nuovo eroe è trattato come il santo della nuova religione che pratica la distruzione delle menti e dell’ambiente, ma specialmente è il feticcio con cui si insegna ai popoli a dipendere, ad essere comparse nel turbinio della storia.

 

Nichilismo e lingua in Tucidide
Nel clima conflittuale vissuto quotidianamente, nel nichilismo violento quale nuova pratica del potere, le parole perdono il loro autentico significato. Le parole, per loro cornice naturale, sono collanti sociali e solidali, ma se la diffidenza si impossessa di un popolo, si instaura un clima di sfiducia, in cui le parole non sono altro che emissione fonatoria di nessun valore. Tucidide (in Storie, III, 83) ben descrive l’effetto della guerra e della violenza sul linguaggio vivo: le parole perdono significato, si svuotano del loro senso, non resta che il regno della forza a determinare vincitori e perdenti. Senza il logos non resta che la violenza a determinare la vittoria; gli esseri umani agiscono come creature in una giungla:

«Dunque, al seguito delle sommosse civili, l’immoralità imperava nel mondo greco, rivestendo le forme più disparate. La semplicità limpida della vita che è il terreno più fertile per uno spirito nobile, schernita, s’estinse. Dilagò e s’impose nei personali rapporti, in profondo, un’abitudine circospetta al tradimento. Non valeva il sincero impegno verbale a distendere i cuori, né il terrore di violare un giuramento. Ognuno, quando aveva dalla sua la forza, vagliando volta per volta il proprio stato, certo che nessuna garanzia di sicurezza era degna di fiducia, con fredda meticolosità si disponeva piuttosto a munirsi in tempo d’adeguata difesa che concepire, sereno, d’aprir l’animo suo agli altri. Ed erano gli intelletti più rudi a conquistare, di norma, il successo. Attanagliati dalla paura che il loro breve ingegno soccombesse all’acume dei propri antagonisti, alla loro destrezza di parola, nell’ansia d’esser trafitti prima d’avvedersene, dalla loro insidiosa mobilità inventiva, si slanciavano all’azione, con disperato fervore. I loro avversari invece, colmi di sdegnoso sprezzo, certi di prevenire ogni mossa nemica con una percezione istintiva, ritenevano superflua ogni concreta tutela fondata sulla forza fisica, e così scoperti perivano, fitti di numero».

 

Il potere vuole ridurre la formazione a semplice formazione professionale negando la formazione integrale degli esseri umani. In questo modo la lingua è ulteriormente ristretta nei suoi significati: il nuovo campo semantico concentrazionario diviene lo spazio-prigione entro cui, soltanto, ci si può muovere. Complementare alla sola formazione professionale è l’esaltazione dell’irrobustimento fisico, della bellezza fisica. Si predilige una dis-educazione che oscilla solo tra “lavoro” e “fisicità aggressiva”. L’educazione umanistica, la paideia, è secondaria, anzi pericolosa, e dunque tacitamente evitata.
Si favorisce il movimento di uniformità linguistica globale, cosicché ovunque le parole abbiano a significare il mondo nella stessa spiritualmente povera maniera.
La crisi dell’Occidente globalizzato è crisi linguistica, la cui causa profonda è il possesso delle parole e dei concetti da parte di taluni poteri che schiacciano i popoli solo sull’empirico della merce visibile e sulla quantificazione.
Un nuovo umanesimo è possibile, poiché l’Occidente ha nella sua storia le lingue e le parole della liberazione, a partire dalla tradizione classica.
Il potere è oggetto di frequenti crisi. Proprio perché globale, la sua forza imperiale è anche la sua debolezza. Sulle sue crisi bisogna agire anche con il logos della cultura classica. Il valore di una formazione comunitaria integrale è oggi più vero che mai. La barbarie della violenza che avanza anche nella neo-lingua imperiale non è un destino ineluttabile.

 

Salvatore Bravo

[1] Victor Klemperer, LTI. La lingua del terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, Firenze 2011, p. 302.
[2] Ibidem, pp. 111-112.
[3] Ibidem, p. 20.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Nicolò Cusano (1401–1464) – Umanesimo è non tanto la centralità dell’uomo nel pensiero, quanto la sua ricerca di compiutezza. L’accrescimento dell’apprendimento del vero non si esaurisce mai. Se la nostra mente è principio di distinzione, proporzione e composizione, l’intelletto ricorda alla ragione che l’esattezza ha il suo senso, ma non è tutto e non può tutto, ma deve confrontarsi con la verità.

Nicola Cusano
Salvatore Bravo
Umanesimo è non tanto la centralità dell’uomo nel pensiero, quanto la sua ricerca di compiutezza. L’accrescimento dell’apprendimento del vero non si esaurisce mai. Se la nostra mente è principio di distinzione, proporzione e composizione, l’intelletto ricorda alla ragione che l’esattezza ha il suo senso,
ma non è tutto e non può tutto, ma deve confrontarsi con la verità.

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Umanesimo filosofico
L’umanesimo filosofico si connota per la pluralità dei metodi di indagine e specialmente ha lo scopo di favorire la messa in atto della natura umana, la quale – nella comunità – concretizza la fioritura di ogni singola personalità nella sua specificità irripetibile. L’universale ed il concreto sono, in tal modo, in feconda tensione. Solo il vivere comunitario, la relazione dialogica, socraticamente intesa, può umanizzare nella consapevolezza della relazione dialettica tra finito ed infinito. L’accrescimento dei saperi, nell’umanesimo filosofico, è sottratto al mero utilitarismo per essere invece parte del percorso di autocoscienza collettiva del limite. La filosofia è un viaggio nell’umano. Non a caso sin dal suo esordio in Parmenide, nel proemio della sua opera Περί Φύσεως (Sulla natura), si ritrova l’immagine della “via” quale metafora del percorso filosofico. Filosofare è vivere il percorso, incontrare faglie non oltrepassabili, e sperimentare modalità non empiriche per capire ed intuire la verità. È solo nella filosofia che il finito incontra l’infinito, la verità l’esattezza, ed il limite è pensato come una conquista, in quanto traccia nuovi campi di esperienza e definisce ciò che è umano dall’inumano.
In questi decenni in cui l’umano è esposto alla sua negazione, la filosofia ci conduce verso la consapevolezza del limite come possibilità plurale di vivere la nostra umanità.
Nicolò Cusano, cardinale e filosofo, il cui nome non latinizzato è Nikolaus Krebs von Kues o Nikolaus Chrypffs (Kues, 1401 –  Todi, 11 agosto 1464) è pensatore che ha vissuto la sua parabola filosofica tra Medioevo e Rinascimento. È stato protagonista del passaggio non facile tra due epoche con enfasi creativa, ha guardato il mondo in modo nuovo, ma nel solco dell’umanesimo greco, ha conciliato senza forzature fede e razionalità, finito ed infinito.

Il mito ideologico del progresso pone la storia secondo un facile schema di progresso fatale, e, dunque giudica più evoluto ciò che viene dopo rispetto a ciò che è stato pensato e teorizzato prima. Cusano smentisce il facile dogma della contemporaneità, che può essere valido per le scienze esatte, ma non per ogni campo del sapere. Il filosofo della “Dotta ignoranza” dimostra che il pensiero umano deve accettare che può conoscere l’empirico, misurarlo, ma la realtà empirica quantificata resiste al suo mistero, e dunque finito ed infinito convivono. Ogni ente raggiunge il massimo nel minimo, ovvero porta a compimento dalla potenza (minimo) l’atto (massimo). Ma benché si possa misurare con una comparazione il noto allo sconosciuto, l’ente resta a noi un mistero, perché ogni massimo conserva il suo segreto, la sua meraviglia dinanzi alla quale è necessario sospendere le categorie usuali. La dotta ignoranza di socratica memoria è nella consapevolezza del limite che apre all’infinito.

 

Pensare per congetture
L’apprendimento non si esaurisce mai, ogni ipotesi è un congetturare che dimostra che l’umanità è interna ad un limite dinamico e mobile, il congetturare è conoscere per ipotesi argomentate e probanti, ma non definitive:

 

«L’accrescimento dell’apprendimento del vero, infatti, non si esaurisce mai. Donde, poiché la nostra scienza attuale non ha nessuna proporzione con la scienza massima, inattingibile per l’uomo, il procedere incerto del nostro debole apprendimento, lontano dalla verità pura, fa che le nostre affermazioni siano congetture. L’universo della verità inattingibile si conosce con l’alterità della congettura; e con la congettura stessa dell’alterità, nella unità semplicissima della verità, avremo l’intuizione più chiara della nozione di congettura».[1]

La mente umana dà ordine al mondo, è attività creatrice. Cusano la compara alla mente di Dio che crea in verità, mentre l’essere umano può creare solo congetture. Il sapere umano procede per ipotesi perfettibili, e dunque necessita del logos dialogante e significante e di raccordarsi all’alterità orizzontale e verticale. Il congetturare necessita della verità come meta ideale a cui approssimarsi senza la quale non vi sarebbe la consapevolezza che la conoscenza è un cammino irto di ostacoli e conquiste. A livello orizzontale si rafforzano le relazioni con gli altri esseri umani, poiché solo in tal maniera è possibile aumentare qualitativamente le conoscenze ed affinare i concetti. A livello verticale comparare l’Assoluto alla conoscenza umana dona il senso della misura e della verità all’umano congetturare. La “dotta ignoranza” è crescita per negazione; l’ampliamento delle conoscenze rileva la pochezza del sapere umano; si vive in un mondo di ombre da cui possono apparire sprazzi di luce:

 

«La mente umana è forma congetturale del mondo, come quella divina è forma reale. Come la divina entità assoluta è tutto ciò che è in ogni cosa che è, così l’unità della mente umana è l’entità delle congetture».[2]

Cusano riflette e codifica il modo in cui l’essere umano conosce. Comincia con lui l’avventura filosofica che porterà a Kant, poiché l’essere umano è posto al centro della sua indagine con l’analisi sulle modalità con cui può conoscere:

 

«La nostra mente, dunque, è principio di distinzione, proporzione e composizione».[3]

 

Intelletto e ragione
Cusano distingue la ragione dall’intelletto. La prima opera aristotelicamente nell’empirico, utilizza il principio di non contraddizione per paragonare il noto allo sconosciuto. La ragione resta impigliata nell’empirico, accumula conoscenze, non le connette tra di loro, resta all’interno dello spazio e del tempo ed ha una sua nobile funzione. La ragione è l’umana misura di tutte le cose:

 

«La ragione sola, infatti, è la misura della molteplicità, della grandezza e della composizione, sicché, se fosse tolta, non potrebbe sussistere nulla di questo; come, negata l’entità infinita, sono negate anche le entità di tutte le cose. L’unità della mente complica, pertanto, in sé ogni molteplicità e la sua uguaglianza ogni grandezza, come la connessione complica la composizione».[4]

La ragione non usa la categoria della totalità, le è estranea la verità, si limita a registrare e misurare l’empirico con metri da essa stabiliti. L’umano, per portare a compimento la sua natura, deve utilizzare anche l’intelletto, ovvero l’intelligenza con cui cogliere la verità, il fondamento di ogni ente che pur essendo indefinibile, c’è, e va ricercato. L’umanità della sola ragione è un’umanità ad una dimensione, che nega la sua aspirazione alla verità e con essa la sua natura che prevede la ricerca nell’empirico, ma anche il fondamento dello stesso con metodi di indagine e capacità differenti. Ragione ed intelletto si completano, non sono tra di loro in antitesi aggressiva. L’essere umano è tale, se le due modalità sono compresenti:

 

«La ragione risolve tutto in molteplicità e in grandezza. L’unità è il principio della molteplicità, la trinità della grandezza, come il triangolo lo è dei poligoni. Secondo l’indirizzo della ragione, dunque, il principio di tutto è uno e trino, anche se non nel modo in cui l’unità e la trinità sono una pluralità (perché l’unità è il principio della pluralità), ma nel modo in cui esse sono l’unità che è la trinità. L’intelligenza, accorgendosi della inadeguatezza dei termini della ragione, si sbarazza di questi termini e concepisce Dio al di sopra dei loro significati come il principio che li complica».[5]

L’intelletto ricorda alla ragione che l’esattezza ha il suo senso, ma non è tutto e non può tutto, ma deve confrontarsi con la verità, senza la quale l’essere umano è solo una creatura parziale, rinchiusa in se stessa e che coltiva una patologica ipertrofia dell’ego:

 

«La ragione, che non comprende il numero senza la proporzione e ammette il massimo in atto, suppone di avere un metodo per procedere da ciò che conosce a ciò che non conosce. L’intelletto, che è consapevole della debolezza della ragione, disprezza le sue congetture affermando che esse sono numeri proporzionali e insieme non proporzionali, perché la precisione delle cose nella loro totalità e singolarità rimane nascosta, essendo essa Dio benedetto. La ragione è, tuttavia, una certa precisione del senso».[6]

 

Titanismo dell’essere umano ad una dimensione
Cusano rammenta a noi contemporanei che limitare la conoscenza al solo empirico significa non solo negare la natura umana, ma specialmente incorrere in pericoli che la contemporaneità sta vivendo nella sua drammaticità, poiché ha mitizzato la sola ragione. Se si smette di ascoltare la voce interiore degli enti, l’essere umano si trasforma in un essere privo della capacità di ascolto e partecipazione per divenire ente tra gli enti. Solo la chiarezza sulla natura umana può emancipare da chiusure e titanismi:

 

«L’intendere è la vita dell’intelletto, e questo è ciò che egli desidera. Con il suo solo lume l’ignorante non può ascendere all’apprendimento della sapienza. Chi è nel bisogno, ha bisogno di ciò di cui è privo. È necessario, dunque, che chi è nel bisogno sappia di esserlo e si rivolga con ardore a chi può soddisfare il suo bisogno».[7]

 

Umanesimo greco
La ricerca della verità è un bisogno insopprimibile della natura umana, l’essere umano può anche decidere di non ascoltare questo bisogno, ma resta un essere incompleto, pericoloso e manipolabile. Un essere umano che non dà risposte autonome, libere e consapevoli rispondenti alla sua natura complessa, in quanto creatura dimezzata è facilmente manipolabile e controllabile. Pertanto il laicismo attuale risponde ai bisogni del sistema e non della persona. Vi è umanità dove vi è compimento della sua natura come ha insegnato l’umanesimo greco. Scrive in proposito Luca Grecchi:

 

 

«Sul piano teoretico, dunque, per umanesimo si intenderà qui non tanto la centralità dell’uomo nel pensiero, quanto la sua ricerca di compiutezza. In questo modo sarà facile mostrare come alle radici della Grecità vi sia proprio l’umanesimo. Non è infatti possibile negare che la Grecità sia stata la patria originaria della educazione dell’uomo verso la ricerca della propria perfezione razionale, morale e simbolica. Proprio tale ricerca ha dato luogo in Grecia alla nascita delle strutture onto-assiologiche della filosofia, che raggiunsero il loro apice con la metafisica di Platone».[8]

 

L’uomo ad una dimensione è la verità della nostra epoca.
Occorre saper rispondere con un diverso modello culturale nel quale scienza ed economia sono messe al servizio dell’umanità. Solo trascendendo il totalitarismo dell’economicismo l’umanità può riprendere il suo cammino.

Salvatore Bravo

 

 

***

 

[1] N. Cusano, Le congetture, in N. Cusano, Opere filosofiche, a c. di G. Federici Vescovini. Scritti filosofici, testo latino e trad. it., a c. di G. Santinello, Utet, Torino 1972, pag. 206.

[2] Ibidem, pag. 208.

[3] Ibidem, pag. 209.

[4] Ibidem, pag. 208.

[5] Ibidem, pag. 223.

[6] Ibidem, pag. 231.

[7] N. Cusano, Il Dono del Padre dei lumi, in N. Cusano, Opere filosofiche, op. cit., pag. 356.

[8] L. Grecchi, L’umanesimo dell’antica filosofia greca, Petite Plaisance, Pistoia 2007, pag. 10.

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) – La «lettera a Johann G. Fichte». La filosofia è l’aureola dell’umano, è un viaggio intorno all’essere umano. Non può strapparmi questo cuore dal petto per mettere al suo posto il puro istinto della semplice egoità. Non permetto che mi si liberi dalla dipendenza dell’amore per conoscere la beatitudine solo con l’orgoglio.

Jacobi Friedrich Heinrich 01 Fichte

Salvatore Bravo

La lettera di Friedrich Heinrich Jacobi a Johann Gottlieb Fichte

 

Rileggere la Lettera di Friedrich Heinrich Jacobi (Düsseldorf, 25 gennaio1743 – Monaco di Baviera, 10 marzo 1819) a Fichte è un’importante esperienza filosofica per comprendere talune criticità dell’Idealismo. L’Idealismo identifica l’essere col pensiero; l’essere è posto dal pensiero (Gegenstand) per cui, la realtà storica, i significati, la qualità del vivere trova nel soggetto la sua verità. Fichte definiva l’Io come assoluto, libero. Si può ipotizzare che esso sia la metafora dell’umanità in cammino nella storia. L’Io assoluto è la verità della storia, la pone e la può trasformare (prassi), ma l’Io può anche abdicare alla sua funzione germinatrice di storia, per fatalizzare il presente, può deresponsabilizzarsi e ipostatizzare la storia. La fatalizzazione della storia non accade semplicemente, ma è l’Io responsabile del suo ritrarsi dalla storia. Fichte, dunque, coglie la verità della storia, la riporta alla responsabilità umana. L’oggettività, la realtà esistente a prescindere dal soggetto è solo dogmatismo funzionale a caratteri e gruppi sociali ed alle loro posture ideologiche. L’obiectum[1] è una necessità dei caratteri dogmatici che devono porre l’ipostasi per deresponsabilizzarsi, e scelgono volontariamente la reclusione nella caverna. Con una bella metafora Fichte paragona costoro ad un pezzo di lava sulla luna, la loro coscienza vive come congelata: ha smesso di confrontarsi con il non io, con la storia, con la prassi, per cui si sono allontanati dalla storia e dall’umano. Sono sideralmente lontani.

La bella immagine ci parla dell’attualità, del mondo digitale, in cui tutto è movimento, ma senza prassi, vige la perenne riproduzione del sistema. I meriti di Fichte sono indubitabili, eppure Jacobi coglie un rischio, un grande pericolo insito nell’Io creatore e dissolutore di mondi, ovvero ne teme il titanismo meccanico con il quale l’Io si afferma per nullificare e nullificarsi senza limiti:

«Ma lo spirito può essere creatore di se stesso esclusivamente alle condizioni generali indicate, deve annientarsi nell’essere per rinascere e possedersi solo nel concetto: nel concetto di un’origine e una fine pure, assolute, originariamente da nulla, verso nulla, per nulla, nel nulla, o nel concetto di un moto pendolare che, in quanto moto pendolare, si pone necessariamente dei limiti in generale. Tuttavia ha limiti definiti solo in quanto moto particolare, prodotto da un’inspiegabile limitazione, secondo l’analogia della forza centrifuga e centripeta della materia».[2]

 

La maglia di Jacobi
La metafora della maglia utilizzata da Jacobi è utile per esplicitare il pericolo da lui scorto. L’Io sovrano della prassi è come il ferro da uncinetto: crea la maglia, le dona i colori, le immagini, in un movimento ritmico incessante. L’incessante attività creatrice e disgregatrice prende il sopravvento, fino a diventare attività meccanica che col suo andirivieni acquisisce il senso della propria onnipotenza, diventa Dio in Terra, il padrone della storia. Il pericolo descritto da Jacobi è reale, e può concretizzarsi e degenerare nell’individualismo narcisistico di cui siamo testimoni nel tempo del capitalismo assoluto. Prevale il movimento sul fine, sulla teleologia. In questo modo l’attività trascende il fine per naufragare in un attivismo senza prassi, in un illimitato agire senza scopo:

«Per farsi un’immagine diversa da quella empirica abituale del generarsi e prodursi di una maglia fatta a mano, basta sciogliere il capo della maglia e lascia lo scorrere sul filo dell’identità di questo soggetto-oggetto. Allora si vede chiaramente come questo individuo giunga a realizzarsi per il semplice movimento di andata e ritorno del filo, ossia per l’incessante limitazione del suo movimento e l’impedimento a proseguirlo all’infinito, senza che nulla d’empirico intervenga nella trama o si mescoli e s’aggiunge qualcos’altro. In questa mia maglia faccio raggi, fiori, sole, luna e stelle, tutte le figure possibili, e riconosco che il tutto non è altro che il prodotto dell’immaginazione produttiva delle dita, oscillante tra l’Io del filo e il non-Io del ferro. Considerate dal punto di vista della verità, tutte queste figure insieme alla maglia sono soltanto semplici fili nudi».[3]

 

Nichilismo
Jacobi utilizza il termine nichilismo per denotare l’Idealismo di Fichte. Poiché l’Io diviene attività senza fondamento, manca lo scopo, è preso dalla produzione di mondi, è reso passivo, poiché l’iperattività gli impedisce di porre un limite a se stesso, di definire delle geometrie di senso. Prevale il nulla, ogni senso etico e storico collassa nell’ipertrofia dell’Io che si espande fino a perdersi. Jacobi utilizza la parola “nichilismo” per descrivere il disperdersi dell’Io nella sua espansione spaziale:

«Sinceramente caro Fichte non mi turberei se Lei o chiunque altro volesse chiamare chimerismo ciò che oppongo all’idealismo, che io accuso di nichilismo. In tutti i miei scritti ho manifestato il mio non-sapere, mi sono così vantato di essere scientemente tanto ignorante, perfettamente e minuziosamente in così alto grado, da poter disprezzare il comune scetticismo». [4]

 

L’Io lasciato a se stesso si consuma nella vacuità dell’autocontemplazione, non vede altro che se stesso, rapporta tutto a se stesso, si caratterizza per la sua voracità produttiva. Jacobi allarga lo strale non sono a Fichte, ma anche a Kant, in quanto la filosofia trascendentale di Kant è la premessa dell’Idealismo. Fichte ne completa il percorso. Il pericolo del nichilismo era già in embrione in Kant ed è esplicitato da Fichte:

«La filosofia trascendentale non può strapparmi questo cuore dal petto per mettere al suo posto il puro istinto della semplice egoità; non permetto che mi si liberi dalla dipendenza dell’amore per conoscere la beatitudine solo con l’orgoglio. Se la cosa suprema su cui riflettere e che posso contemplare è il mio vuoto, puro, nudo e semplice Io, con la suo autonomia e libertà, allora l’autocontemplazione riflessa, la razionalità, sono per me una maledizione e io maledico la mia esistenza».[5]

 

La risposta di Fichte al nichilismo
Jacobi è valutato un autore secondario nella storia della filosofia, eppure ha posto un problema “drammaticamente vero”, che ha attraversato la filosofia ed ha trovato risposta nel comunitarismo. L’Io assoluto rischia di ribaltare la prassi in attivismo, di perdersi in una dimensione priva del limite e, quindi, di etica. L’ultimo Fichte, con la teoria giovannea e la missione del dotto, già accoglie i dubbi di Jacobi, poiché l’Io del dotto trova il suo senso e il suo limite etico nella libertà interpretata come servizio alla comunità, in cui si è radicati ed all’umanità: il dotto insegna ad essere liberi. Il comunitarismo riesce a rispondere a Jacobi palesando la necessità della prassi nella comunità, ovvero l’Io esplica la propria libertà non in astratto, ma nella famiglia, nei corpi medi della democrazia, nel lavoro e nello Stato. La prassi dell’Io è un percorso, in cui si ritrova il fine, che strappa dalle spire del nichilismo, poiché la libertà non è una forma di solipsismo creatore, ma incontro, relazione nella quale non solo ci si autodefinisce, ma specialmente si scopre che si è parte vivente di una comunità, per cui il fine dell’agire umano è la libertà non competitiva, ma comunitaria.
Senza l’altro non vi è auto-riconoscimento di sé e dell’altro. Pertanto il fine della libertà è conoscere se stessi attraverso l’altro. Ogni libertà solipsistica che prolifera nell’indifferenza verso l’altro è solo negazione di sé, dell’altro e della libertà. Essa non è negazione della propria identità culturale e linguistica e dell’altrui, ma libertà di riconoscersi nell’incontro tra identità diverse.
Un concetto tanto alto ed etico della libertà necessita dell’adeguata struttura economica. Non a caso Fichte comprende che l’economico sta per prevalere sul politico, e si profila il regno dell’assoluta peccaminosità.
Jacobi e Fichte si ritrovano, alla fine. Entrambi temono il profilarsi dell’ipertrofia dell’Io, della patologia dell’Io che conosce solo i propri desideri nell’ignoranza dell’alterità.
Fichte accoglie la critica di Jacobi, e la trasforma in una possibilità di crescita critica della sua teoretica.

 

Filosofia e “critica dialogante”
La filosofia è attività corale. Il dubbio, la critica possono anche essere profonde, ma se sono svolte con l’intento di allargare l’orizzonte di comprensione divengono materiale per nuovi salti quantici creativi. La filosofia è l’aureola dell’umano, è un viaggio intorno all’essere umano. Pertanto i filosofi ci insegnano l’ascolto dei problemi teoretici ed i problemi relativi, e dunque le critiche non sono che mezzi per umanizzarsi nell’incontro con i propri limiti umani e concettuali e ritrovarsi: la filosofia conosce i concetti (Begriff) e non la chiacchiera (Gerede):

«La filosofia non è una materia di insegnamento, non è un campo del sapere che si trovi da qualche parte fuori dell’essere umano essenziale. La filosofia è intorno all’uomo giorno e notte, così come lo sono il cielo e la terra, anzi ancor più vicini di questi, allo stesso modo del chiarore che sta tra cielo e terra, ma che l’uomo quasi sempre trascura di vedere perché ha a che fare solo con ciò che gli appare nel chiarore. Talvolta, quando fa buio, l’uomo fa esplicitamente attenzione al chiarore intorno a lui. Ma proprio allora non se ne cura più, perché sa che il chiarore ritornerà». [6]

 

La filosofia è Streben (Sforzo), è tendere faticosamente al concetto, ma per condividerlo e ritrovarsi più autentici e veri.

 

Salvatore Bravo

 

 ***

 

[1] Obiectum, objicere, composto dalla preposizione ob-, davanti, e dal verbo jacere, gettare, e in particolare al suo participio perfetto objectum, da cui deriva anche oggetto.
[2] Friedrich Heinrich Jacobi, Fede e nichilismo. Lettera a Fichte, Morcelliana, Brescia 2001, pp. 41-42.
[3] Ibidem, pp. 45-46.
[4] Ibidem, pp. 59-60.
[5] Ibidem, pag. 57.
[6] Martin Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, Bompiani, Milano 2018, p. 45.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Pavel A. Florenskij (1882-1937) – Cultura è lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte. Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano.

Pavel Aleksandrovič Florenskij 03

Salvatore Bravo

Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano


Il titanismo dei nostri giorni non è che una forma di riduzionismo.
Alla verità, ed alla sua multifocalità, si è sostituita la derealizzazione dell'essere umano.
Si irride alla filosofia teoretica, perché pone quesiti non risolvibili con algoritmi, e perché pone in discussione i postulati dello specialismo.
La filosofia ricerca la totalità e insegna a vivere la totalità.
Lo specialismo necrotizza ogni risvolto etico dell’agire per rafforzare la sola logica del risultato e dell’efficienza.
Il potere non tollera la verità.
Lo sguardo narcisista vorrebbe dominare il reale con la tecnica.
Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo valorizzazione della merce e svalorizzazione dell’essere umano.
La verità esige il coraggio di “ritornare alle cose stesse”.
Vi è cultura dove l’essere umano è il centro ed il fine della ricerca, dove la chiarezza ontologica si coniuga con la prassi assiologica.
Cultura è  lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte.


Totalità titanismo e totalitarismo
Il titanismo dei nostri giorni non è che una forma di riduzionismo. Mediante la matematica e l’applicazione di calcoli matematici e algoritmici ci si difende dalla realtà, per dominarla attraverso previsioni e ricostruzioni astratte. Alla verità, ed alla sua multifocalità, si è sostituito l’astratto e la derealizzazione. Il titanismo è l’effetto della rinuncia alla ricerca della verità: lo scambio dell’astratto con il concreto produce “mostri”. La pratica del titanismo è quotidiana, il suo epifenomeno è plurale, si materializza col narcisismo atomistico ed il saccheggio perenne delle risorse naturali ed umane. La rinuncia alla verità è il fondamento del titanismo globale. Dalla verità ci si difende con il rifugiarsi nel delirio collettivo di grandezza. Il linguaggio è pervasivamente infettato da tale atteggiamento, dalla pubblicità al linguaggio ordinario e culturale. Ovunque, si insinuano parole come: “alla grande”, “successo”, “godimento senza fine”. Più l’io diventa minimo tanto più il titanismo occupa i sogni distopici dell’ultimo uomo, secondo la definizione di Nietzsche nella Gaia scienza (aforisma 125).

“Il cretinismo della specializzazione” fa in modo che nelle accademie si rinunci alla verità. Si irride alla filosofia teoretica, perché pone quesiti non risolvibili con algoritmi, e specialmente pone in discussione i postulati dello specialismo.

La verità è un iter conoscitivo: orienta i nostri comportamenti senza esaurirne la sua profondità.
La verità è il fondamento che conserva le brecce per il suo autoripensamento.
Lo specialismo coglie frammenti di verità, ma senza la sua integrazione nella complessità esso non è che una forma aggressiva di totalitarismo che vorrebbe imporre una visuale unica, un’unica prospettiva respingendo la categoria della totalità per affermare il totalitarismo del pensiero unidirezionale.
Il totalitarismo è agorofobico, vuole solo spazi chiusi, senza tempo.
La totalità è la verità con i suoi piani sincretici che necessitano – per il suo disvelamento – di una pluralità di metodi e di modalità conoscitive. La Filosofia è la disciplina che non solo integra i piani, ma ricerca la totalità, essa insegna a vivere la totalità. Lo sguardo filosofico intenziona le parti integrandole, trascendendo la notte degli specialismi per coglierne la sostanza che vivifica la totalità e le dà organicità e senso.
Il totalitarismo, invece, è il riduzionismo per eccellenza, poiché una sola prospettiva diventa l’elemento preponderante che annichilisce la complessità. Lo specialismo si irrigidisce in sistema conchiuso in se stesso. Non vi sono aperture verso altri percorsi, ma solo la gravità unidirezionale che neutralizza il concetto per normalizzare il silenzio dove regnava il logos nella sua pluralità dialogante. Si ha l’adiaforizzazione, ovvero si necrotizza ogni risvolto etico dell’agire per rafforzare la sola logica del risultato e dell’efficienza.

 

La Verità in Pavel Florenskij
Pavel Florenskij ha indagato «il mondo come un intero»: questa, e solo questa,  «è stata la sua colpa». [1] Il potere non tollera la verità. Per eternizzarsi forma i sudditi allo specialismo con il quale ogni orizzonte veritativo è cancellato dalla finalità formativa e di ricerca.
I piani di verità si integrano verso la trascendenza, la quale non ha confini definitivi, ma le è consustanziale il movimento dialettico. Ogni sistema totalitario non ammette che l’imperio di un solo volto del reale, che in tal modo diviene irrazionale, incomprensibile. L’ambizione di ogni totalitarismo è l’ipostatizzazione del presente. Si ha, di conseguenza, il caos della derealizzazione, la scollatura tra il reale ed il concetto. Ciò non può che comportare la solitudine e la violenza:

 «”Che cosa ho fatto per tutta la mia vita?”, si chiese. Ho indagato il mondo come un intero, come un singolo quadro e una singola realtà. Ma feci questa indagine in ogni dato momento, o più precisamente in ogni periodo della mia vita, da un particolare angolo o prospettiva. Indagavo le relazioni del mondo sezionandolo in una direzione particolare, su di un piano particolare, e mi sforzavo di comprendere la realtà del mondo da questo piano che mi interessava. I piani erano differenti, ma uno non negava l’altro, bensì lo arricchiva. Ciò produceva una perpetua dialettica di pensiero, “lo scambio dei piani di osservazione”, mentre allo stesso tempo vedevo il mondo come un tutto unico».[2]

 

Totalitarismo esiziale
Il totalitarismo nega la ricerca della verità per omologare i popoli in masse, in plebi che devono obbedire restando inchiodati nella caverna, con lo sguardo ed il corpo vissuto teso verso gli imperativi di regime. Il totalitarismo trasforma un aspetto del reale in feticcio da adorare, in liturgia prosaica ripetitiva e priva di ogni fine ontologico: è il ritrovarsi in un guscio vuoto che incapsula e necrotizza la creatività di ciascuna persona. La cultura e la creatività non sono espressioni immediate, semplici automatismi, ma esigono impegno, disciplina, capacità di donarsi. L’inganno del totalitarismo – nella forma del capitalismo assoluto – è rappresentare la cultura e la creatività in modo gaudente e caotico. In tal modo neutralizza la temuta (per il capitalismo) pericolosità del pensiero critico, declassando la creatività a prodotto di facile produzione e consumo. La contemporaneità, malgrado le grandi conquiste tecnologiche, è nel segno della negazione della cultura:

«La cultura è la lotta consapevole contro l’appiattimento generale; la cultura consiste nel distacco, quale resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è la contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte».[3]

 

L’ipertrofia della soggettività
La prospettiva rinascimentale nella ricostruzione genetica di Pavel Florenskij è il trionfo della soggettività e del relativismo, essa prepara la matematizzazione del reale. Se la soggettività resta avviluppata su se stessa, se riduce il reale a semplice costruzione euclidea, si ritira dal reale per vivere l’esperienza dell’astratto, al punto che la soggettività non vive il reale in cui è immersa, ma mediante calcoli matematici produce rappresentazioni senza la necessità di ascoltare la vita. Si tratta di un’immensa rete geometrica e matematica che ingabbia il reale, lo tumula sotto il peso dei calcoli, scambiando la rappresentazione matematico-geometrica per realtà. È un processo di allontanamento dalla vita che implica il disancorarsi dalla verità per trasformare l’io calcolante in una divinità che tutto deve sussumere a se stessa. La prospettiva nell’arte, quindi, con il suo tecnicismo, prepara la rivoluzione copernicana e lo scientismo totalitario:

«In secondo luogo: a dispetto della logica e di Euclide, ma ormai nello spirito della concezione del mondo kantiana, con il suo soggetto trascendentale che regna sul mondo illusorio della soggettività (e, ciò che è peggio, lo fa in maniera coercitiva), il nostro artista, fra tutti i punti dello spazio infinito (che in Euclide sono rigorosamente uguali), ne sceglie uno solo, esclusivo, unico, che si distingue da tutti gli altri per il suo valore, un punto monarchico, se così si può dire, ma la cui unica prerogativa è di essere il luogo in cui si trova l’artista stesso o, per essere più esatti, in cui si trova il suo occhio destro, il centro ottico del suo occhio destro. Tutti i luoghi dello spazio, alla luce di un simile modo di pensare, sono luoghi privi di qualità e ugualmente incolori, eccezion fatta per quest’unico luogo che domina su tutti gli altri, in quanto ha ricevuto il privilegio di essere sede del centro ottico dell’occhio destro dell’artista. Questo luogo viene proclamato centro del mondo e pretende di proiettare spazialmente il carattere gnoseologico, assoluto, kantiano dell’artista. In verità egli guarda la vita “da un punto di vista”, ma senza alcuna precisazione ulteriore, perché questo punto, innalzato a vero e proprio assoluto, non si distingue in nulla da tutti gli altri punti dello spazio, e la proclamazione della sua superiorità rispetto agli altri non solo non è motivata ma, se si considera la sostanza dell’intera concezione del mondo qui esposta, è anche immotivabile».[4]

 Lo sguardo narcisista vorrebbe dominare il reale con la tecnica, estromettere la coscienza dalla relazione con il mondo e viceversa. Il risultato è solo impoverimento dell’esperienza. La verità esige il coraggio di “ritornare alle cose stesse”, e di problematizzare, in primis, la soggettività ed il suo ruolo nell’occultare la verità.

 

Paura del reale e della verità
Nella pratica dell’esemplificazione totalitaria si cela il bisogno di difendersi dalla verità, la quale sgretola le false certezze in cui ci si rifugia. La realtà è come una linea retta, secondo il filosofo e mistico russo. Si può decidere di osservare un punto della retta, o di capire che la retta è fatta di punti indissociabili. Cultura è sguardo che non arretra innanzi all’insieme ed alle sue connessioni. Rappresentarsi un mondo storico e naturale incapsulato in sistemi e formule favorisce il sogno d’onnipotenza che sempre è riposto tra le pieghe della conoscenza che abiura la filosofia teoretica. I regimi totalitari – riconosciuti o meno in quanto tali – fanno “buon uso” delle paure ataviche degli esseri umani, come del delirio d’onnipotenza. La cultura è lotta, in quanto è confronto con tali paure e delirii. Essa permette di attraversare i deserti interiori e collettivi per tracciare nuovi inizi senza rimozioni e nostalgie. Se non ci si confronta con tali dinamiche non vi è cultura, ma solo pratica per imbalsamare il reale:

«In quinto luogo: tutto il mondo viene pensato come completamente immobile e assolutamente immutabile. In un mondo soggetto a rappresentazione prospettica non può e non deve esserci spazio né per la storia, né per la crescita, né per i cambiamenti, né per i movimenti, né per la biografia, né per lo sviluppo di un’azione drammatica, né per il gioco delle emozioni. In caso contrario, ancora una volta l’unità prospettica del quadro si sfalderebbe. È un mondo morto o avvinto in un sonno eterno: è sempre, immutabilmente, lo stesso identico quadro, pietrificato nella sua gelida immobilità».[5]

La cultura è a un bivio. Pavel Florenskij nel gulag ha vissuto la violenza del riduzionismo prospettico. Sta a noi cogliere “la verità della sua testimonianza”, dinanzi all’avanzare di un mondo unidirezionale, incapace di guardare gli effetti e la violenza dell’economicismo che – con il saccheggio delle risorse – sta inchiodando l’umanità ed il pianeta nell’immobilità della coazione a ripetere. Vi è cultura dove l’essere umano “abbandona il proprio trono” per avventurarsi nella dialettica, per instaurare l’intersoggettività che lo accompagna verso la verità. Perché ciò avvenga bisogna congedarsi dai miti e disporsi nella concretezza dell’ascolto e della parola:

«In quarto luogo: il suddetto legislatore viene concepito come incatenato per sempre e indissolubilmente al proprio trono: se lascia questo luogo assolutizzato o se vi fa anche soltanto il più piccolo movimento, immediatamente tutta l’unità delle costruzioni realizzate seguendo le leggi della prospettiva viene meno, e tutta la prospettiva che le regge crolla. In altre parole, in una simile concezione, l’occhio che guarda non è l’organo di un essere vivente che vive nel mondo e vi lavora, ma la lente di vetro di una camera oscura».[6]

 

Dove regna l’intercosalità (Massimo Bontempelli), non vi è cultura, ma solo valorizzazione della merce e svalorizzazione dell’essere umano. L’intercosalità sostituisce il logos, l’agire politico con lo scambio di merci, di informazioni e di seduzioni. Il fine dell’intercosalità è la morte dell’essere umano. Il bivio di fronte a cui si trova la cultura è la scelta tra l’umano ed il dis-umano. Tutti noi siamo implicati in tale scelta. Publio Terenzio Afro ci aiuta a definire ciò che è, per l’uomo, vera cultura:

«Homo sum, humani nihil a me alienum puto».[7]

Vi è cultura dove l’essere umano è il centro ed il fine della ricerca, dove la chiarezza ontologica si coniuga con la prassi assiologica. La cultura è libertà dell’agire e dell’incontro per elevarsi nell’universale concreto nel quale si coniugano metafisica ed assiologia.

Salvatore Bravo

***

[1] Pavel Florenskij condannato nel 1933 a dieci anni di servitù in un campo di concentramento; fu inviato in seguito nell’isola di Solovki; morì il 15 Dicembre nel 1943.
[2] Pavel Florenskij, Lettera dal campo di concentramento di Solovki, 21 Febbraio 1937; in Un filosofo nel gulag. Arte e letteratura in Pavel A. Florenskij, dall’Accademia teologica di Mosca ai campi di concentramento sovietici, Jouvence, Milano 2020.
[3] Tratto dal libro di Pavel Florenskij, Bellezza e liturgia. Scritti su cristianesimo e cultura, SE, Milano 2020.
[4] Pavel Florenskij, La prospettiva rovesciata, a cura di Adriano Dell’Asta, Adelphi, Milano 2020, pag. 74.
[5] Ibidem, pag. 75.
[6] Ibidem.
[7] «Sono un essere umano, niente di ciò che è umano mi è estraneo», in Publio Terenzio Afro, Heautontimorùmenos, Atto I.


Pavel Florenskij (1882-1937) – «La prospettiva rovesciata». Ci sono solo due tipi di rapporto con la vita: quello interiore e quello esteriore, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica.
Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937) – Verità, bene e bellezza: questa triade metafisica è un unico principio. Nella vita ci sono molte cose mostruose, malvage, tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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José Ortega y Gasset (1883-1955) – Nel turbamento l’uomo perde la possibilità di meditare, di raccogliersi in se stesso e definire ciò che crede e ciò che non crede; quello che veramente stima e quello che veramente detesta. Il nervosismo lo obnubila, lo acceca, lo obbliga ad agire meccanicamente in un frenetico sonnambulismo.

J. Ortega Y Gasset03

«Quasi tutto il mondo è turbato e, nel turbamento, l’uomo perde la sua caratteristica essenziale: la possibilità di meditare, di raccogliersi in se stesso, per porsi d’accordo con se stesso e definire ciò che crede e ciò che non crede; quello che veramente stima e quello che veramente detesta. Il nervosismo lo obnubila, lo acceca, lo obbliga ad agire meccanicamente in un frenetico sonnambulismo. Da nessun’altra parte all’infuori del giardino zoologico, davanti alla gabbia dei nostri antenati, le scimmie, ci rendiamo meglio conto del fatto che la facoltà di meditare è in effetti la caratteristica essenziale dell’uomo. Il passero e il crostaceo sono forme di vita abbastanza distanti dalla nostra, perché, confrontandoci con essi, possiamo percepire qualcosa d’altro che grosse differenze, astratte, vaghe, puramente eccessive. La scimmia però assomiglia tanto a noi che ci invita ad esaminare il paragone, a scoprire differenze più concrete e produttive. Se siamo in grado di rimanere un momento quieti a contemplare passivamente la scena scimmiesca, subito risalterà, come spontaneamente, una caratteristica che giunge a noi come un raggio di luce. È che quelle diaboliche bestiole sono costantemente attente, in perpetua inquietudine, guardando, ascoltando tutti i segnali che arrivano da ciò che le circonda, attente senza sosta al contorno, come se temessero che da lì possa arrivare sempre un pericolo al quale è doveroso rispondere automaticamente o con la fuga o con un morso, nello scatto meccanico di un riflesso muscolare. La bestia, in effetti, vive in perpetua paura del mondo, e a volte nella perpetua brama delle cose che in esso ci sono e che in esso appaiono, una smania indomabile che si sprigiona anche senza freno, nè possibili inibizioni, lo stesso che il timore».

José Ortega y Gasset, Concentrazione e Alterazione, ousia, p. 4



José Ortega y Gasset (1883-1955) – La scienza necessita di un lavoro di ricostruzione. Ciò richiede uno sforzo di unificare, ogni volta più difficile, regioni più vaste del sapere totale.
José Ortega y Gasset (1883-1955) – La filosofia è un grande desiderio di trasparenza e una risoluta volontà di mezzogiorno. La filosofia è parola, scoprire nella più grande nudità e trasparenza della parola l’essere delle cose, dire l’essere.
Salvatore Bravo – José Ortega y Gasset ci aiuta a riscoprire la concentrazione, il «theoretikós bíos» dei greci, la theoría. Così l’uomo si sottrae alla pervasività dell’eccesso di stimoli, ritorna a vivere la pienezza del tempo del pensiero, ad immergersi nel mondo per agire in esso secondo un progetto.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Michail A. Bakunin (1814–1876) – Lottiamo per il pieno sviluppo e il completo godimento da parte di ognuno di tutte le facoltà e potenzialità umane realizzate attraverso l’educazione, l’istruzione e la prosperità materiale.

Mihail Aleksandrovič Bakunin 02

Solidarietà ed individualità
In un’epoca dominata dalla massificazione rileggere i classici della filosofia è un atto che diventa parola e che consente di osservare criticamente il presente. Per comprendere l’attuale dispositivo censorio – che agisce senza apparire –, bisogna prendere in esame autori messi al bando dalle accademie culturali e dalla industria mediatica. Nulla è neutro, ad ogni scelta è sottesa una determinata visione del mondo (Weltanschauung), in particolare quella finalizzata a sostenere la conservazione. Gli autori presenti nelle “vetrine” mediatiche correnti sono, in media, utilizzati per confermare l’individualismo astratto e mercantile. Il nulla avanza sulla punta di baionetta dell’industria culturale, il cui scopo è sostenere il potere ed i suoi dispositivi di controllo. Per la struttura economica del capitalismo il soggetto è un atomo che deve produrre e consumare in una sostanziale solitudine. Alla concretezza, al vincolo solidale, alla crescita delle potenzialità umane si sostituisce la miseria dell’atomismo del Regno animale dello Spirito (G.W.F. Hegel), in cui l’individualità si dissipa nella competizione fino ad evaporare, ed a configurarsi nell’io minimo (C. Lasch) addomesticabile ed innocuo per gli equilibri economici e politici consolidati. Ma se siamo capaci di attivare un riorientamento gestaltico è possibile verificare l’esistenza di altri modelli di individualità qualitativamente differenti. Michail Bakunin (1814-1876), ostracizzato dall’industria culturale, nei suoi scritti mostra che l’individualità è per sua natura concreta e solidale; anzi, non vi può essere individualità senza solidarietà e partecipazione alla vita comunitaria nella poliedricità dei suoi aspetti. Ogni essere umano, per metter in atto le sue potenzialità, necessita di comunità solidali ed accoglienti che, pur condizionando determinati comportamenti nella ricerca del bene comune, tengano fermo il principio del rispetto della specificità irripetibile di ciascuno. Senza solidarietà non vi è individualità, ma solo regressione umana:

«L’individuo umano, prodotto della solidarietà, cioè della società, pur se sottomesso alle sue leggi naturali può benissimo, influenzato da sentimenti provenienti dall’esterno, in special modo da una società straniera, reagire contro la sua fino a un certo grado, e tuttavia non sarebbe capace di uscirne senza entrare subito in un altro ambiente solidale sottoponendosi così a nuove influenze. Perché per l’uomo la vita al di fuori di ogni società e di ogni influenza umana, l’assoluto isolamento, è la morte intellettuale, morale e anche materiale. La solidarietà non è solo un prodotto ma la madre dell’individualità, e la personalità umana può nascere e svilupparsi soltanto nella società umana. La somma delle influenze sociali dominanti, espressa dalla coscienza solidale o generale di un gruppo umano più o meno vasto, si chiama opinione pubblica. E chi non conosce l’azione onnipotente esercitata dall’opinione pubblica su tutti gli individui? L’azione restrittiva delle leggi più draconiane non è niente al suo confronto. È dunque questa l’educatrice per eccellenza degli uomini. Da qui risulta che al fine di moralizzare gli individui occorre prima di tutto moralizzare la società stessa, umanizzarne l’opinione o coscienza pubblica».[1]

 

L’astratto
L’astrazione avanza legittimata dalla scienza. Michail Bakunin evidenzia che la scienza, per sua costituzione epistemica è astratta. Essa si occupa di leggi generali, e non delle contingenze particolari, questo non è un male in sé, poiché risponde ad un metodo di studio e conoscenza. Il pericolo è trasformare tale metodologia d’indagine in totalitarismo culturale, per cui l’astratto è istituzionalizzato dall’aurea sociale della scienza. La religione del progresso non è meno pericolosa della religione dell’economia. L’astratto scientifico può trasformarsi in tecnocrazia elitaria alleata con l’economia che manipola i popoli riducendoli in masse che obbediscano ai nuovi dogmi. Per sviluppare personalità solidali, dunque, bisogna formare ad un senso critico capace – dinanzi ad ogni disciplina, istituzione o sapere – di metter in moto la catena dei perché, la quale, se è interrotta, pone le premesse per nuovi dogmatismi non riconosciuti:

 

«Le astrazioni non hanno gambe per camminare e camminano solo quando sono portate dagli uomini reali. Ma per questi esseri reali fatti non solo di idee, ma concretamente di idee, di carne e di sangue, la scienza non ha cuore. Essa, tutt’al più, li considera come carne intellettualmente e socialmente sviluppata. Che le importano le condizioni particolari di Pietro e di Giacomo? Essa si renderebbe ridicola, abdicherebbe alla sua autorità, si annienterebbe se volesse valersene altrimenti che come esemplificazioni in appoggio delle sue teorie eterne. E sarebbe grottesco serbarle rancore per ciò, giacché la sua missione non è questa. Essa non può afferrare il reale; essa può muoversi soltanto nelle astrazioni. La sua missione è di occuparsi delle situazioni e delle condizioni generali dell’esistenza e dello sviluppo, sia della specie umana nel suo insieme, sia di questa o quella razza, di questo o quel popolo, di questa o quella classe e categoria di individui. È di occuparsi altresì delle cause generali della loro prosperità o della loro decadenza, e dei mezzi generali per farli avanzare in ogni sorta di progresso. Se essa compie estesamente e razionalmente questo lavoro, ha fatto tutto il suo dovere e sarebbe veramente ridicolo e ingiusto chiederle di più».[2]

 

“Dittatura del proletariato” e potere
Michail Bakunin fu espulso dal V Congresso dell’Internazionale dell’Aja (2-7 settembre 1872), poiché era entrato in collisione con Marx ed i marxisti, malgrado i numerosi punti di convergenza. Li dividevano le problematiche annesse alla “dittatura del proletariato”. È importante evidenziare le ragioni critiche dell’ostilità di Bakunin. Libertario ed anarchico, temeva che la “dittatura del proletariato”, malgrado le ragioni teoriche che supportavano tale passaggio verso il comunismo, potesse assumere una nuova forma di perenne potere di una minoranza su una maggioranza. La storia ha dato ragione a Bakunin, ma ancora una volta emerge il carattere critico della testimonianza di Bakunin, il timore consapevole che lo spettro del potere e dell’oppressione si potesse ripresentare in forme nuove. La sua lezione consiste nella consapevolezza che la libertà è prassi quotidiana, la democrazia dal basso non deve delegare, ma controllare in modo critico e partecipato il potere ed i modelli culturali:

 

«Io credo che il signor Marx sia un rivoluzionario serio, anche se non sempre molto coerente, e che veramente desideri la rivolta delle masse. E mi meraviglia come non riesca a vedere che l’attuazione di una dittatura universale, collettiva o individuale – una dittatura che agirebbe come una sorta di ingegnere capo della rivoluzione mondiale, regolando e dirigendo, più o meno come si conduce una macchina, il movimento insurrezionale delle masse di tutti i paesi – sarebbe in sé sufficiente a uccidere la rivoluzione, a paralizzare ogni movimento popolare. Dov’è l’uomo, dov’è il gruppo di individui, per quanto geniali siano, che oserebbe vantarsi di essere in grado di comprendere e interpretare la moltitudine infinita dei variegati interessi, tendenze e attività in ogni singolo paese, provincia, regione, località, professione e mestiere, che nel loro immenso aggregato sono uniti, ma non irregimentati, da alcuni principi fondamentali e da una grande aspirazione comune, la stessa aspirazione – uguaglianza economica senza perdita di autonomia – che, radicata in profondità com’è nella coscienza delle masse, costituirà il futuro della Rivoluzione sociale?».[3]

 

Riduzionismo economicistico
L’economicismo è un pericolo insito non solo nella cultura liberale, ma anche nei movimenti e partiti di “sinistra”. Il riduzionismo economicistico non favorisce lo sviluppo di personalità complete, né di sistemi sociali e politici rispettosi delle individualità, perché ignora le contingenze materiali, in cui ogni individuo si forma e le strutture culturali che eredita; pertanto non si possono applicare le stesse soluzioni a culture e popoli diversi. L’economicismo, come ogni forma di riduzionismo, è astratto e dunque violento. L’economicismo nel comunismo prepara “il capitalismo di Stato”; Bakunin intravede in ciò la negazione del comunismo e specialmente, malgrado le intenzioni di Marx, il profilarsi di nuove forme di totalitarismo:

 

«A risultati diametralmente opposti giunge il signor Marx. Prendendo in considerazione la sola questione economica, egli afferma che i paesi più progrediti, e di conseguenza più idonei a compiere la rivoluzione sociale, sono quelli in cui la produzione capitalistica moderna ha raggiunto il più alto grado di sviluppo. Solo questi paesi sono civili, ed essi soltanto sono chiamati a iniziare e guidare la rivoluzione. La rivoluzione consisterà nell’espropriazione, sia graduale sia violenta, degli attuali proprietari e capitalisti e nell’appropriazione di tutte le terre e di tutto il capitale da parte dello Stato, che, per poter assolvere la sua grande missione economica e politica, dovrà essere necessariamente molto potente e centralizzato. Lo Stato amministrerà e dirigerà la coltivazione delle terre tramite tecnici stipendiati a capo di armate di lavoratori agricoli organizzati e disciplinati per questo tipo di lavoro. Analogamente, esso costituirà sulla rovina di tutte le banche esistenti una banca unica che accentrerà l’intero lavoro e l’intero commercio internazionali»[4]

 

Rileggere Bakunin è un’esperienza culturale importante, poiché ci offre categorie interpretative e contenuti validi non solo per leggere il presente e per non subirlo passivamente; nei suoi scritti si può cogliere la passione pedagogica per la libertà che lo porta ad assumere una postura critica ed attiva verso ogni forma di cristallizzazione del potere. Ci insegna che la libertà è un processo mai concluso, essa è conquista collettiva quotidiana di cui tutti si è contemporaneamente docenti ed alunni:

 

«Nella libertà si possono distinguere tre momenti di sviluppo, tre elementi, il primo dei quali è di carattere decisamente positivo e sociale: esso consiste nel pieno sviluppo e nel completo godimento da parte di ognuno di tutte le facoltà e potenzialità umane realizzate attraverso l’educazione, l’istruzione scientifica e la prosperità materiale, tutte cose che l’uomo può acquisire solo con il lavoro collettivo, fisico e intellettuale, muscolare e nervoso, di tutta la società. Il secondo elemento o momento della libertà è negativo. È il momento della rivolta dell’individuo contro ogni autorità divina e umana, collettiva e individuale».[5]

Salvatore Bravo

***

[1] Michail Bakunin, La libertà degli uguali, a cura di G.N. Berti, Elèuthera, Milano 2017, p. 127.
[2] Ibidem p. 142.
[3] Ibidem p. 155.
[4] Ibidem pp. 159-160.
[5] Ibidem, p. 81.


Michail A. Bakunin (1814–1876) – Cercando l’impossibile, l’uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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