«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Pace, giustizia e «unità del genere umano» Il lieto annuncio «Cieli nuovi e terra nuova» «Tra poco verrà il germoglio» Quella singolare «capacità predittiva» Una luce nei tempi oscuri
Il ripresentarsi prepotente sulla scena attuale dell’«uomo identitario» rende ancora più viva e impellente la riflessione sulla lezione di Ernesto Balducci e su quella sua visione dell’«uomo planetario» come unica possibilità di salvezza del mondo. La sua fu una instancabile promozione della «cultura della pace», intesa come pace nella giustizia, nella libertà, nella solidarietà, nella fraternità, nella condivisione, in direzione della costruzione di un’inedita dimensione del «modo globale», in una tensione verso uno stato escatologico di gioia piena, oltre gli steccati ideologici e religiosi e nel segno dell’apertura all’altro. Un tema, quello dell’alterità, che rinvia sia all’umano, che al nostro rapporto con gli altri esseri viventi, sia all’Alterità irriducibile alla mera misura umana.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
«Non si deve, in quanto esseri umani, limitarsi a pensare cose umane né, essendo mortali, limitarsi a pensare cose mortali, come si consiglia, ma, per quanto è possibile, ci si deve immortalare [ἀθανατίζειν] e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi [καὶ πάντα ποιεῖν πρὸς τὸ ζῆν κατὰ τὸ κράτιστον τῶν ἐν αὑτῷ]».
In copertina: Cornice lignea contenente come iscrizione le prime parole del libro di Aristotele, Metafisica, I, 980 a 21: «Πάντες ἄνθρωποι τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται φύσει», «Tutti gli esseri umani per natura desiderano sapere»
Arianna Fermani
Il concetto di limite nella filosofia antica
ISBN 978-88-7588-355-3, 2022, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [151].
«Non si deve, in quanto esseri umani, limitarsi a pensare cose umane né, essendo mortali, limitarsi a pensare cose mortali, come si consiglia, ma, per quanto è possibile, ci si deve immortalare [ἀθανατίζειν] e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi [καὶ πάντα ποιεῖν πρὸς τὸ ζῆν κατὰ τὸ κράτιστον τῶν ἐν αὑτῷ]».
Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b 30-34
La filosofia nasce contrassegnata dal limite. Come testimonia Diogene Laerzio,1 infatti, Pitagora, che «per primo […] usò il termine “filosofia” e si chiamò filosofo», lo fece nella consapevolezza che «nessuno […] è saggio, eccetto la divinità».2 Si narra anche che, un paio di secoli dopo, Diogene il cinico «a chi gli disse: “Tu non sai nulla e pure fai il filosofo”, rispose: “Aspirare alla saggezza, anche questo è filosofia”».3
L’assunzione delle intrinseche limitazioni dell’essere umano costituisce, pertanto, l’atto di nascita di una forma di conoscenza che intende distanziarsi immediatamente dal sapere assoluto, ovvero da quel possesso conoscitivo pieno ed esclusivo che, in quanto tale, è proprio solo della divinità. Lo stesso nome filo-sofia si colloca, quindi, nello spazio di questo “distanziamento”, come testimonia ulteriormente la celeberrima icona, offerta dal Simposio platonico, del filosofo come «amante di sapienza» e, in quanto tale, situato a metà strada tra sapienza e ignoranza:
Diotima – desideroso di saggezza [φρονήσεως ἐπιθυμητὴς], pieno di risorse [καὶ πόριμος], amante di sapienza per tutta la vita [φιλοσοφῶν διὰ παντὸς τοῦ βίου] […] a metà strada tra sapienza e ignoranza [σοφίας … καὶ ἀμαθίας ἐν μέσῳ ἐστίν]. […] Nessuno degli dèi fa filosofia, né desidera diventare sapiente – infatti lo è già – né fa filosofia chiunque altro sia già sapiente. Ma neppure gli ignoranti fanno filosofia né desiderano diventare sapienti.
Socrate – Ma allora – dissi io – chi sono coloro che fanno filosofia, se non sono né i sapienti né gli ignoranti?
Diotima – Ormai – disse – dovrebbe essere chiaro perfino ad un bambino che sono coloro che stanno a metà strada fra gli uni e gli altri [οἱ μεταξὺ τούτων ἀμφοτέρων].4
L’intento di questo breve contributo consiste, allora, nel riattraversare alcune delle molteplici curvature che la nozione di limite riceve nel pensiero greco e le sue ricadute sul versante gnoseologico, etico e politico.
***
1 Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, I, 12; in Id., Vite dei Filosofi, a cura di M. Gigante, vol. I, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 6-7.
2Ibidem.
3Ibidem, VI, 64; vol. I, p. 226.
4 Platone, Simposio, 203 d 6 – 204 b 2; traduzione mia.
Arianna Fermaniinsegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: Vita felice umana: in dialogo con Platone e Aristotele (2006); L’etica di Aristotele, il mondo della vita umana (2012); By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach (2016). Ha tradotto, per Bompiani: Aristotele, Le tre Etiche (2008), Topici e Confutazioni Sofistiche (in Aristotele, Organon, 2016).
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Il futuro, cento anni fa: Scènes de la vie future, di Georges Duhamel
Dovremmo investigare il rapporto, a livello di immaginario, tra antichi miti dell’età dell’oro e promessa capitalistica del regno dell’abbondanza
Nel 1929, in pieno proibizionismo e crisi finanziaria, il romanziere francese Georges Duhamel parte per gli Stati Uniti, spinto dall’intuizione che è là che sta incubando un nuovo modello sociale, una nuova forma di civiltà che non tarderà a conquistare il vecchio continente. Si ferma solo per alcune settimane, ma evidentemente dispone di uno sguardo profondo e sagace capace di vedere sotto la brillante superficie esibita da luoghi e persone e di un orecchio molto fine, atto a percepire, dietro il canto delle sirene che sale dalla neonata società dei consumi, la realtà brutale dell’alienazione e della disumanizzazione, pronte ad essere esportate nel mondo intero.
È questo suo intuito visionario che rende il suo resoconto di viaggio, Scènes de la vie future,1 sorprendente per attualità e prezioso per chiunque voglia leggere con lente critica il mondo in cui viviamo, quasi un secolo dopo l’esperienza americana di Duhamel. La sorpresa è anche maggiore se si considera che lo scrittore è oggi piuttosto dimenticato, relegato ad una paginetta scarsa nelle storie letterarie, vuoi come membro, accanto a Jules Romains, dell’Unanimisme,2 vuoi come esponente di un roman fleuve tenuto in gran sospetto dalla critica come retaggio ottocentesco, ciò che dimostra non tanto l’inadeguatezza di Duhamel – che in vita ricevette numerosi premi fra cui il Goncourt –, quanto il pressappochismo della critica stessa, costretta a pagare il suo tributo alle mode culturali.
Georges Duhamel nel 1930 e Jules Romains con il suo libro:”La vie unanime”.
1G. Duhamel, Scènes de la vie future, Points, Paris, 2018. I passaggi qui citati sono stati tradotti dall’autrice.
2Movimento letterario fondato agli inizi del Novecento intorno all’ Abbaye de Créteil, un falansterio artistico sul modello dell’abbazia rabelaisiana di Thélème; prende il nome dalla raccolta poetica La vie unanime di Jules Romains, secondo cui la poesia deve rendere gli uomini consapevoli della loro personalità comune, sociale che lega gli uni agli altri in un sentimento unanime.
Paradossalmente, quasi uno scherzo fatto da quel gran burlone che è il tempo, il libro che attesta il rifiuto da parte dell’autore della modernità quale si veniva disegnando negli USA e il suo radicamento nei tradizionali valori umanistici è ora diventato un testo quanto mai moderno, proprio per la sua capacità di prevedere gli sviluppi futuri di quel paradigma, sociale ma anche antropologico, che ha cambiato da cima a fondo le nostre società, fino a plasmarle nella forma che oggi conosciamo.
Degli Stati Uniti, in preda agli eccessi della civiltà industriale, il romanziere non ama quasi niente: gli ripugna il culto della velocità, dell’efficienza e del profitto, detesta l’architettura delle grandi città, rifiuta la spietata segregazione razziale, non lo convince la comodità offerta dall’automobile che, piuttosto che conquistare lo spazio, lo ha perso, denuncia nel cinema «il più potente strumento di conformismo morale, estetico e politico», percepisce dietro l’industria dell’intrattenimento l’amaro sentore di un veleno che avvilisce lo spirito, sollevandolo dallo sforzo di pensare, lo disgusta l’invadente presenza della pubblicità che finisce per deturpare gli affascinanti paesaggi del Connecticut, lo preoccupa l’interesse dell’amministrazione relativamente alle tendenze religiose e politiche dei visitatori stranieri. Lui, francese orgoglioso di quello spirito razionalistico che è una delle componenti essenziali della cultura natale, arriva a pensare che il volto della ragione potrebbe divenirgli addirittura odioso, a causa della curvatura che ha assunto in quel Paese, ovvero quella della ragione strumentale che ha assoggettato gli uomini ad un ritmo vitale in cui hanno perso il bene più prezioso: il tempo, tutto da dedicare alla produzione e all’accumulazione, salvo la parentesi prevista e consentita del divertimento che diventa, in senso pascaliano, divertissement, distrazione dalle grandi questioni dell’esistenza, quelle che consentono di attribuirle significato.
Duhamel non si limita a cogliere e a disapprovare gli aspetti più evidenti e fastidiosi di un’organizzazione sociale e di una forma di vita rispetto alle quali gli preme sottolineare la sua estraneità; non è in veste di moralista che ricusa il modello americano, anzi una delle storture che maggiormente lo inquieta è proprio il moralismo di fondo che sembra pervaderlo e che, in quel momento, trova espressione nel proibizionismo, ma che ispira anche le preoccupazioni dietetiche sul numero di calorie propinato da un pasto o l’ossessione igienista, o il divieto del fumo, o l’importuno controllo esercitato dalla burocrazia sulla vita privata dei cittadini. Senza fermarsi alla facciata più o meno folkloristica delle cose e senza incagliarsi nell’invettiva, egli afferra il nocciolo del problema, affronta l’avversario sul suo stesso terreno e lo smaschera con osservazioni fulminanti dette con un tono piano, senza pretese, nato dalla conversazione quotidiana con i suoi interlocutori, in gran parte – come non manca di precisare – ottime persone, amabili e colte. Suo bersaglio non è certo il popolo americano, ma quell’America che rappresenta l’Avvenire, un futuro già pronto all’uso su scala mondiale e decisamente allarmante.
È ai due pilastri di questa civiltà, ai suoi più conclamati motivi di vanto – la ricchezza e la libertà – che egli applica il proprio sguardo smitizzante. Quanto alla prima, la corsa al successo alla quale milioni di persone, sulla scia dei cercatori d’oro, sacrificano la propria vita gli sembra il segno perspicuo di una grande povertà che nega all’esperienza umana ogni dimensione che non sia quella materiale; d’altra parte, il sogno americano si rovescia molto spesso nell’incubo della discriminazione razziale o dell’emarginazione economica che schiaccia i perdenti.
Quanto alla libertà, essa si è capovolta in schiavitù: al suo stupefatto interlocutore, che oppone la libera Repubblica americana ad un’Europa sotto le grinfie dei regimi dittatoriali, Georges Duhamel oppone un punto di vista originale e discordante:
«Ciò che chiamate la libera America mi permette di giudicare cosa può diventare la libertà nel mondo futuro, in una società dalla quale mi immagino escluso senza troppo dispiacere. […] La dittatura politica è sicuramente odiosa e mi sembrerebbe senza dubbio intollerabile, ma, per strano che vi possa apparire, vi confesso che non occupa, nei miei timori, un posto davveroconsiderevole. La servitù politica è spesso violenta, grossolana, chiama e finisce per provocare la sommossa. Lo spirito della ribellione politica, fortunatamente, non è spento nel cuore dell’uomo.
[…] Non appena giunti ad un certo grado di cultura e a nutrire il sentimento del loro valore e delle loro speranze, gli uomini sopportano a fatica le restrizioni imposte dal tiranno nazionale o dal dominio straniero: invece, si adattano molto bene all’altra dittatura, quella della falsa civiltà, ed è questo che mi tormenta. […] Voi siete schiavi, ve lo ripeto, dei vostri moralisti, dei vostri legislatori, dei vostri igienisti, dei vostri medici, dei vostri urbanisti e persino dei vostri estetisti. Dei vostri poliziotti, dei vostri pubblicisti … che altro ancora? Siete schiavo dell’America, come il mondo intero sarà in futuro, sul vostro esempio, schiavo di se stesso».
Una schiavitù dolce e tenace che ha preso piede quasi insensibilmente ed in base a principi così ragionevoli – l’igiene, la morale, l’estetica, la protezione sociale – che opporvisi sarebbe equivalso ad opporsi a quel legittimo desiderio di sicurezza per il quale gli uomini sono disposti ad accettare una serie di limitazionie a delegare ogni potere a specialisti tanto zelanti quanto interessati. Il cittadino non solo è preda di una burocrazia che lo sottomette a controlli, indagini, censure, ma accetta di assecondare lui stesso i suoi tormentatori, di compiere una parte del loro lavoro.
Duhamel – medico ancor prima che letterato – era rimasto sconvolto, nel porto di New Orleans, dalla pratica di sottoporre i nuovi arrivati ad una sbrigativa cerimonia di controllo sanitario che gli aveva fatto intravvedere (e con quanta preveggenza possiamo oggi giudicare con cognizione di causa!) una possibile pericolosa deriva salutista delle moderne società, anche in questo caso intuendo una questione di fondo che i recenti avvenimenti pandemici hanno posto all’ordine del giorno. Al suo anfitrione, molto orgoglioso degli innegabili progressi scientifici conseguiti pure nel campo della profilassi, lo scrittore-medico fa notare che, anche qualora si possedesse, contro ogni infezione contagiosa, un vaccino da somministrarsi obbligatoriamente, si soffrirebbe non più delle malattie, ma degli obblighi imposti dalle leggi, si soffrirebbe di salute. L’obbligo alla salute come dovere civico regolamentato dallo Stato che si incarica paternamente di difendere il cittadino contro se stesso allo scopo di salvaguardare per la patria la sua condizione fisica (come rivendica l’interlocutore del romanziere, Mister Pitkin) è materia di riflessione non banale e che apre una finestra non proprio limpida su implicazioni di bruciante attualità. Infatti, l’autore si chiede se dopo avere proibito a qualcuno di bere e poi di fumare, non si passerà a metterlo nell’impossibilità di «procreare una miserabile progenie», eventualmente scoprendo e ponendo in opera dei «procedimenti di fecondazione perfettamente razionali e controllati», attraverso un istituto scientifico in grado di consegnare materia seminale «selezionata». Il medico francese si diverte provocatoriamente ad elencare i diversi tipi da proporre alle signore in cerca di un bebé su misura: il businessman innanzitutto, poi il boxeur, lo sportivo, l’intellettuale … Insomma, qualche settimana negli USA sul finire degli anni Venti del Novecento (ed una decina di anni prima dell’avvio degli esperimenti nazisti di eugenetica) era bastata al nostro per comprendere quale direzione avrebbe imboccato, in nome del progresso e del miglioramento dell’uomo, la civiltà occidentale presa in ostaggio dal primato dell’economia e della tecnica. Non a caso, Mister Pitkin, che non è uno scienziato pazzo od un politico all’inseguimento di ricette elettorali vincenti, ma una persona posata e ragionevole, un cittadino esemplare del “migliore dei mondi possibili” prende al volo l’idea suggerita sarcasticamente dal suo ospite e comincia a fare dei conti e ad abbozzare uno schizzo relativo alla parte meccanica della faccenda … Il dominio della macchina, il suo progressivo sostituirsi all’uomo, non sembrano a Duhamel premessa di un affrancamento di quest’ultimo dalla fatica del lavoro, quanto, piuttosto, negazione delle sue qualità sostanziali, di ciò che lo rende tale. La macchina che pretende di liberarlo dallo sforzo, rischia in realtà di liberarlo da tutto, vivere compreso.
È alla luce di tale minaccia che lo scrittore, con un altro scarto rispetto alle idee correnti, matura, al termine del suo sofferto soggiorno, l’opinione che questa civiltà non rappresenti affatto il prolungamento, per quanto peculiare, di quella europea, ma piuttosto una rottura. È, questo, sicuramente un giudizio storico alquanto sommario ed opinabile che non tiene in debito conto indubbi motivi di continuità anche culturale, ma che ha il pregio di sottolineare la radicale distanza che Georges Duhamel intende stabilire tra i valori in cui si riconosce – fondati sull’umanesimo – e quelli giunti a maturazione sulle sponde dell’Atlantico. Pur presago della resa imminente al modello americano che per lui riveste i tratti di una vera distopia, la fedeltà a quei valori gli sembra la sola possibilità di salvare un patrimonio spirituale e di cultura che, malgrado i suoi tanti errori, ha arricchito l’intera umanità.
Quasi cento anni più tardi e di fronte all’avvenuta conquista a tappe più o meno forzate di buona parte del globo da parte dell’American way of life, la risposta del romanziere francese ci può apparire superata od inadeguata per affrontare l’attuale fase. Resta che di fronte all’affermazione del transumanesimo come ingrediente ideologico di punta del capitalismo più innovativo, dinamico ed aggressivo, il radicamento in una plurimillenaria tradizione culturale di ampio respiro, e che ha in se stessa gli strumenti per ripensarsi, risulta a mio parere imprescindibile.
Un manifesto che pubblicizza la vendita di biglietti per vaporetti verso la corsa all’oro in California
“Un nuovo superbo clipper in partenza per San Francisco”, pubblicità per il viaggio in California pubblicata a New York negli anni 1850
Così come imprescindibile è un’altra domanda, alla quale Duhamel risponde in modo leggermente spiazzante, come nel suo stile, offrendo al lettore uno spunto interessante, ma sicuramente bisognoso di approfondimento: da dove nasce tanta capacità di penetrazione, da dove trae la sua forza e il suo successo questo sistema che, mentre sembra esaltare le potenzialità individuali, in realtà le annichilisce? La sua capacità di seduzione riposerebbe sulla sua semplicità, o meglio facilità: «Incanta le persone semplici e delizia i bambini». Risposta tutta giocata sul piano di una psicologia elementare e che non può certo accontentare chi cerca la rotellina capace di fare deragliare un meccanismo apparentemente ben rodato.
Riprendendo l’osservazione dello scrittore (tralasciando pertanto l’enorme investimento economico e militare che ha sostenuto la diffusione del modello culturale statunitense), una via feconda da percorrere potrebbe essere quella di investigare il rapporto, a livello di immaginario, tra antichi miti dell’età dell’oro e promessa capitalistica del regno dell’abbondanza.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
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Anna Magnani. Un’attrice dai mille voltitra Roma e Hollywood
Contributi di:
Nuccio Lodato (Magnanima Magnani), di Michele Maranzana (Anna: l’eclisse della persona e la verità della maschera), Enrico Cerasuolo (La passione di Anna Magnani).
In Appendice:
Pasolini e “Mamma Roma” – Anna Magnani: un difficile incontro Mia madre Anna Magnani: dialogo con Luca Magnani
«Sono trascorsi sette anni dalla prima edizione di questo libro, […] che ha rappresentato non solo la mia prima pubblicazione di critica cinematografica, ma anche un’esperienza di studio, di ricerca e di vita fondamentale, impossibile da dimenticare. Come, del resto, è impossibile scordarsi di lei, la Magnani (Nannarella, per il suo pubblico più affezionato e fedele), protagonista di una stagione neorealistica irripetibile per il nostro cinema e poi anche di una parabola hollywoodiana di breve durata, tra poche luci e moltissime ombre, che il presente volume cerca di raccontare con la maggior dovizia di particolari possibile e, sempre, con enorme stima e ammirazione per una diva riluttante, un’artista completa, portatrice di un’irrimediabile alterità nella declinazione al femminile dell’arte dell’attore».
Barbara Rossi
«La recitazione di Anna Magnani non è mai casuale e si esprime al meglio quando può anche essere libera. Una libertà che nasce dal profondo lavoro creativo sul testo e sul personaggio e dalla consapevolezza del racconto e del film nel suo complesso. In questo senso è molto interessante l’approfondimento di Barbara Rossi sull’esperienza americana di Anna. Esperienza straordinaria da un lato, che la porta ad essere premiata con un Oscar per la migliore interpretazione femminile in un ruolo recitato in una lingua che non conosceva, l’inglese, unica attrice italiana ad oggi ad esserci riuscita. Esperienza controversa dall’altro, come sottolinea Luca Magnani.
Enrico Cerasuolo
Ha anticipato i tempi. Ma li ha anticipati sia fisicamente che nel modo di comportarsi. Fisicamente perché all’epoca andavano di moda tutte queste attrici bionde, platinate, con la boccuccia a cuore, il rossetto. Lei, invece, era molto naturale… […] E poi il suo colore preferito era il nero. Insomma, non andava vestita come – invece – all’epoca, le attricette, ma anche le attrici importanti. […] Mia madre ha anticipato tutto quanto un periodo, forse anche il femminismo, in un certo senso. È una persona che si è fatta tutta da sola, che non si è mai appoggiata a nessuno se non a sé stessa. All’epoca, ma anche dopo, accanto alle attrici c’era sempre il produttore-marito, o il regista-marito. Invece con lei è avvenuto il contrario, ossia sono stati gli uomini ad appoggiarsi a lei.
Luca Magnani
Barbara Rossi,media educator e studiosa indipendente, è laureata in Storia e Critica del Cinema presso l’Università degli Studi di Torino; presidente dell’Associazione di cultura cinematografica e umanistica “La Voce della Luna” di Alessandria, con la quale propone corsi e rassegne sulla storia e il linguaggio del cinema, è vicepresidente della FIC (Federazione Italiana Cineforum). Ha organizzato incontri di formazione riservati ai docenti per il Museo Nazionale del Cinema di Torino e ha collaborato con il gruppo di ricerca “Memofilm, la creatività contro l’Alzheimer”, facente capo alla Cineteca di Bologna.
Giornalista pubblicista, ha curato la rubrica Le lune del cinema per la rivista “Cineforum”, con la quale attualmente collabora. Suoi saggi di argomento cinematografico sono stati pubblicati in diversi volumi antologici: nel 2015 è uscito, in prima edizione per l’editore Le Mani, il volume Anna Magnani, un’attrice dai mille volti tra Roma e Hollywood; nel 2019, all’interno della collana Bietti Heterotopia, Edgar Reitz. Uno sguardo fatto di tempo. Cura annualmente, in collaborazione con l’Associazione Culturale Italo-Tedesca di Alessandria, una rassegna che porta sul grande schermo il meglio della produzione cinematografica tedesca contemporanea. Ha organizzato, in collaborazione con l’Università delle Tre Età di Alessandria, la proiezione della trilogia di Heimat di Edgar Reitz. Nel 2021 Petite Plaisance ha pubblicato il suo Recitare il tempo. Le voci della Heimat di Edgar Reitz. Di imminente uscita nel 2022 la sua silloge poetica Paesaggi del tempo, Intermedia Edizioni.
Quanto prezioso e irrimediabilmente perduto sia ogni secondo della nostra vita, solo un film ce lo può mettere davanti agli occhi. Solo nel momento in cui qualcuno ci ha raccontato la nostra storia, come la storia del nostro battito del cuore, sappiamo chi siamo. […] Il tempo di solito lavora contro di noi, contrasta i nostri piani, manda a monte i progetti e pone un limite alla felicità di ognuno. L’arte cinematografica è figlia della tecnica e il prodotto di un mondo senza Dio […]: visto che viviamo nel secolo che ci ha regalato la macchina del tempo, allora vogliamo anche utilizzarla per strappare al flusso del tempo pezzi del suo bottino. Proprio in quanto uomini non religiosi, noi registi vogliamo lasciare le nostre tracce nell’universo-tempo, vogliamo conferire durata agli istanti della vita. “Verweile doch, du bist so schön” si dice con struggente desiderio nel Faust di Goethe.
Edgar Reitz, Film e tempo, 2006
Barbara Rossi
Recitare il tempo. Le voci della Heimat di Edgar Reitz
Prefazione di Henry Arnold. Introduzione di Cristina Jandelli. Postfazione di Sergio Arecco.
In Appendice: Michele Maranzana, Reitz e la macchina del tempo:appunti per un itinerario filosofico.
ISBN 978–88–7588-279-2, 2021, pp. 208, Euro 20 – Collana “Il pensiero e il suo schermo” [5].
In copertina: Un’immagine emblematica di Edgar Reitz sul set.
«La trilogia di Heimat, il romanzo familiare dal respiro epico e, insieme Bildungsroman, sterminata narrazione dove la ‘cronaca’ si intreccia alla finzione, la microstoria alla macrostoria, le memorie e i destini individuali a quelli collettivi, è anche un ineffabile palinsesto sull’arte di raccontare: quella capacità narrativa definita dal nonno ferroviere – lui non aveva una teoria per la sua arte di narrare e tuttavia era fermo nei suoi principi: i luoghi dell’azione dovevano essere reali […], i protagonisti dei suoi racconti avanzavano la pretesa di essere vissuti davvero – che Edgar Reitz ricorda con affetto, basandola su un principio di verità» (Barbara Rossi, Edgar Reitz. Uno sguardo fatto di tempo, Bietti, Milano 2019, p. 20).
Barbara Rossi, media educator e studiosa indipendente, è laureata in Storia e Critica del Cinema presso l’Università degli Studi di Torino; presidente dell’Associazione di cultura cinematografica e umanistica “La Voce della Luna” di Alessandria, con la quale propone corsi e rassegne sulla storia e il linguaggio del cinema, è vicepresidente della FIC (Federazione Italiana Cineforum). Ha organizzato incontri di formazione riservati ai docenti per il Museo Nazionale del Cinema di Torino e ha collaborato con il gruppo di ricerca “Memofilm, la creatività contro l’Alzheimer”, facente capo alla Cineteca di Bologna.
Giornalista pubblicista, ha curato la rubrica Le lune del cinema per la rivista “Cineforum”, con la quale attualmente collabora. Suoi saggi di argomento cinematografico sono stati pubblicati in diversi volumi antologici: nel 2015 è uscito, per l’editore Le Mani, il volume Anna Magnani, un’attrice dai mille volti tra Roma e Hollywood; nel 2019, all’interno della collana Bietti Heterotopia, Edgar Reitz. Uno sguardo fatto di tempo. Cura annualmente, in collaborazione con l’Associazione Culturale Italo-Tedesca di Alessandria, una rassegna che porta sul grande schermo il meglio della produzione cinematografica tedesca contemporanea. Ha organizzato, in collaborazione con l’Università delle Tre Età di Alessandria, la proiezione della trilogia di Heimat di Edgar Reitz.
«Il racconto-fiume seriale di Edgar Reitz impiega personaggi-attori che compongono la Heimat degli spettatori. Una patria di finzione disseminata di figure che si rincorrono nei primi tre cicli e infine, in Heimat-Fragmente: Die Frauen (2006), viene sostituita dalla soggettività della protagonista, Lulu, che incorpora frammenti dell’opera-mondo come atti di memoria filmica riattualizzata. Per comprendere chi sono i principali attori di Heimat e cosa fanno in questo grande ciclo, che abbraccia (e oltrepassa) l’arco cronologico 1919-2000, occorre, come fa Barbara Rossi nel suo saggio introduttivo, ricordare sia la loro formazione che ripercorrerne le biografie artistiche: tutte si definiscono infatti a partire dall’incontro con Edgar Reitz».
Cristina Jandelli
«Il tempo è un fenomeno inspiegabile. Il tempo è vita e la vita è un viaggio verso la fine del tempo. Quello che stiamo vivendo diventa qualcosa che abbiamo vissuto. Tempo si trasforma subito in tempo passato. Gone … Il film ha lo scandaloso privilegio di uscire dal tempo. Per giocarci, accelerarlo o fermarlo, a suo piacimento. Il film è tempo compresso: le lunghe 26 ore di Zweite Heimat corrispondono – in realtà – a 10 anni. Il film salta, omette e scorre in avanti, per fermarsi all’improvviso. In un momento, un attimo “così bello…”; oppure doloroso. E può fare anche di più: rende il tempo ripetibile. Detto in modo diverso, fa fermare completamente il tempo. Il ventenne Hermann Simon è ancora tra di noi. Il film non invecchia. Invecchia solo attraverso noi spettatori. Incontra in noi un‘altra vita e diventa, così, un altro film. Rimane lo stesso e tuttavia emerge sempre di nuovo. Ma deve essere visto. Se il film non viene visto, muoiono anche Maria, Clarissa o Hermann. È il grande merito di questo libro non solo evidenziare e riaccendere un aspetto essenziale della trilogia di Heimat, ma anche mantenere vivo il film. E quindi è stato un onore e un piacere per me far parte di questo libro, oggi, nell’anno 2021. Come mi ero amalgamato con la figura di Hermann Simon 30 anni fa, così sono uno spettatore oggi. Hermann può essere vivo, l’Henry Arnold di allora non esiste più. Il “tempo delle prime canzoni” è ormai passato. […] Il “buon tempo antico” è un’altra chimera. I film di Edgar Reitz, invece – così si spera – rimarranno».
Henry Arnold
Barbara Rossi, profonda studiosa del regista tedesco, nonché sperimentata didatta del linguaggio cinematografico, mette, all’inizio della sua riflessione, e fin già dal bellissimo sottotitolo della sua monografia, Uno sguardo fatto di tempo, immediatamente le carte in tavola. Il lettore deve familiarizzare senza indugi con la materia oggetto d’indagine. E deve riconoscere che un lavoro su Reitz non potrà non essere dedicato, in buona parte, all’opera monstrum della sua filmografia, a quell’Heimat che non solo lo ha fatto scoprire al mondo, ma che ha costituito, con le sue dimensioni abnormi – tre parti rispettivamente di 11, 13, 6 episodi, 15h40’ + 25h32’ + 11h32’, più un prologo, un epilogo con Heimat. Frammenti. Le donne e una quarta parte in funzione di prequel, L’altra Heimat. Cronaca di un sogno, alquanto sui generis –, un’esperienza unica, per l’autore come per lo spettatore, nonché un passaggio decisivo nella storia del cinema contemporaneo.
Sergio Arecco
Una esperienza umana fondamentale, quella del tempo: in fondo, viviamo dentro cicli e mutamenti. Qualcosa torna a noi e si ripete, come le stagioni, qualcosa scorre via in maniera irreversibile, come i giorni della nostra vita. Intuiamo collettivamente qualcosa come eterno e qualcosa come caduco, oscuramente sentendo che siamo contenuti e circondati dal tempo. Siamo impastati di tempo. Un tempo imperioso, che si impone alla nostra maniera di stare al mondo, a tal punto da renderci indispensabile pensarlo e cercare di dominarlo. Facciamo calendari e orologi, sogniamo macchine del tempo e sviluppiamo filosofie e fisiche del tempo. Eppure non riusciamo a sottrarci al suo potere, mentre la stessa sconfitta travolge il pensiero raziocinante e sistematico della filosofia e della scienza, questa medicina teoretica dell’angosciosità fondamentale della condizione umana, che nel suo pensare il tempo si scontra con aporie insanabili, dove soluzioni opposte all’interrogativo su che cosa esso sia si fronteggiano eternamente senza possibilità di vittoria. Cos’ha a che fare il cinema di Edgar Reitz con questo? Tutto. Lo ha in primo luogo in quanto cinema, quindi in quanto cinema di Reitz, regista di cui è stato detto che ha «un meraviglioso sguardo fatto di tempo, intessuto di memorie private e collettive, di racconti veri o fittizi, di storie e di Storia» (Barbara Rossi, Edgar Reitz. Uno sguardo fatto di tempo, Bietti, Milano 2019, p. 209).
ISBN 978-88-7588-221-1, 2018, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [1]. In copertina: Il giudice E. Cotton Winchell sulla cima del monte californiano a cui diede il suo nome nel 1888: incarnazione dell’autentico “uomo del Wild West”.
ISBN 978-88-7588-218-1, 2018, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [2]. In copertina: Il volto di Django Freeman (Jamie Foxx) in una scena del film Django Unchained, 2012, scritto e diretto da Q. Tarantino.
ISBN 978-88-7588-253-2, 2019, pp. 224, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [3]. In copertina: Charlie Chaplin, Charlot soldato (Shoulder Arms), 1918, fotogramma.
ISBN 978-88-7588-230-3, 2019, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [4]. In copertina: Stanley Kubrick sullo sfondo di una sequenza di 2001. Odissea nello spazio, con l’astronauta David Bowman (interpretato da Keir Dullea). In quarta: il monolito nero.
Barbara Rossi, Recitare il tempo. Le voci della Heimat di Edgar Reitz. Prefazione di Henry Arnold. Introduzione di Cristina Jandelli. Postfazione di Sergio Arecco. In Appendice: Michele Maranzana, Reitz e la macchina del tempo:appunti per un itinerario filosofico.
ISBN 978–88–7588-279-2, 2021, pp. 208, formato 140×210 mm, Euro 20 – Collana “Il pensiero e il suo schermo” [5]. In copertina: Un’immagine emblematica di Edgar Reitz sul set.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
In copertina: Cornice lignea contenente come iscrizione le prime parole del libro di Aristotele, Metafisica, I, 980 a 21: «Πάντες ἄνθρωποι τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται φύσει», «Tutti gli esseri umani per natura desiderano sapere»
Arianna Fermani
Il concetto di limite nella filosofia antica
ISBN 978-88-7588-355-3, 2022, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [151].
«Non si deve, in quanto esseri umani, limitarsi a pensare cose umane né, essendo mortali, limitarsi a pensare cose mortali, come si consiglia, ma, per quanto è possibile, ci si deve immortalare [ἀθανατίζειν] e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi [καὶ πάντα ποιεῖν πρὸς τὸ ζῆν κατὰ τὸ κράτιστον τῶν ἐν αὑτῷ]».
Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b 30-34
La filosofia nasce contrassegnata dal limite. Come testimonia Diogene Laerzio,1 infatti, Pitagora, che «per primo […] usò il termine “filosofia” e si chiamò filosofo», lo fece nella consapevolezza che «nessuno […] è saggio, eccetto la divinità».2 Si narra anche che, un paio di secoli dopo, Diogene il cinico «a chi gli disse: “Tu non sai nulla e pure fai il filosofo”, rispose: “Aspirare alla saggezza, anche questo è filosofia”».3
L’assunzione delle intrinseche limitazioni dell’essere umano costituisce, pertanto, l’atto di nascita di una forma di conoscenza che intende distanziarsi immediatamente dal sapere assoluto, ovvero da quel possesso conoscitivo pieno ed esclusivo che, in quanto tale, è proprio solo della divinità. Lo stesso nome filo-sofia si colloca, quindi, nello spazio di questo “distanziamento”, come testimonia ulteriormente la celeberrima icona, offerta dal Simposio platonico, del filosofo come «amante di sapienza» e, in quanto tale, situato a metà strada tra sapienza e ignoranza:
Diotima – desideroso di saggezza [φρονήσεως ἐπιθυμητὴς], pieno di risorse [καὶ πόριμος], amante di sapienza per tutta la vita [φιλοσοφῶν διὰ παντὸς τοῦ βίου] […] a metà strada tra sapienza e ignoranza [σοφίας … καὶ ἀμαθίας ἐν μέσῳ ἐστίν]. […] Nessuno degli dèi fa filosofia, né desidera diventare sapiente – infatti lo è già – né fa filosofia chiunque altro sia già sapiente. Ma neppure gli ignoranti fanno filosofia né desiderano diventare sapienti.
Socrate – Ma allora – dissi io – chi sono coloro che fanno filosofia, se non sono né i sapienti né gli ignoranti?
Diotima – Ormai – disse – dovrebbe essere chiaro perfino ad un bambino che sono coloro che stanno a metà strada fra gli uni e gli altri [οἱ μεταξὺ τούτων ἀμφοτέρων].4
L’intento di questo breve contributo consiste, allora, nel riattraversare alcune delle molteplici curvature che la nozione di limite riceve nel pensiero greco e le sue ricadute sul versante gnoseologico, etico e politico.
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1 Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, I, 12; in Id., Vite dei Filosofi, a cura di M. Gigante, vol. I, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 6-7.
2Ibidem.
3Ibidem, VI, 64; vol. I, p. 226.
4 Platone, Simposio, 203 d 6 – 204 b 2; traduzione mia.
Arianna Fermaniinsegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: Vita felice umana: in dialogo con Platone e Aristotele (2006); L’etica di Aristotele, il mondo della vita umana (2012); By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach (2016). Ha tradotto, per Bompiani: Aristotele, Le tre Etiche (2008), Topici e Confutazioni Sofistiche (in Aristotele, Organon, 2016).
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L’umanesimo metafisico dello psicologo russo Lev Semënovič Vygotskij.
L’essere umano non è riducibile a sola biologia o a strutture di ordine economico; le implica, ma ad esse dona senso e significato con il linguaggio. Vygotskij pone al centro la comunità e l’interazione tra il soggetto e la comunità, pertanto lo sviluppo cognitivo linguistico necessita della buona comunità, della koinè, senza la quale il soggetto è limitato e offeso nella sua evoluzione. Comunità e individuo non sono separabili. L’essere umano per sua natura è comunitario. Lo psicologo russo dimostra che senza la cura della buona comunità il soggetto non sviluppa al massimo le sue potenzialità razionali. La comunità dev’essere luogo di accoglienza e cura delle nuove generazioni.
La scienza non è neutra, i suoi dati e le sue dinamiche sono condizionate dai contesti sociali, economici e dalla formazione educativa dei suoi protagonisti. È comunque possibile estrarre ciò che supera e va oltre le contingenze con l’ausilio del logos. Le prospettive non sono realtà intrascendibili – esse sono all’interno di contingenze –, ma il logos può elevarsi verso l’universale con il metodo dialettico della filosofia. Tale metodo ha come scopo quello di delineare con sempre maggiore precisione ciò che è approssimativo: è pertanto esperienza linguistica fondante che pone al centro la comunità. Le verità filosofiche non sono calcoli, ma universali che si elevano dal tempo storico: sono immagini concettualizzate nella storia dell’eterno. Lev Semënovič Vygotskij (1) è stato non solo psicologo, ma anche pensatore con forte impronta filosofica, precorritore della metafisica umanistica. I suoi studi di psicologia cognitiva sono prossimi alla filosofia, poiché assume come centrale l’essere umano quale soggetto che dà forma al mondo, e in tal modo lo strappa dal caos percettivo, per dar forma ad un’identità storica perfettibile. Il linguaggio è l’ele˝mento che consente l’umanizzazione. Lo psicologo russo prende le distanze dalla visione botanica (secondo la quale l’essere umano si svilupperebbe spontaneamente come una pianta) e dalla visione zoologica che pone in relazione funzioni biologiche e funzioni superiori nell’essere umano come se fossero presenti in tutti gli animali. L’umanesimo metafisico dello psicologo russo riporta l’essere umano alla sua differenza qualitativa dagli altri animali non umani, poiché le funzioni superiori (pensiero e linguaggio) sono esclusive dell’essere umano. Il pensatore si differenzia dalla visione botanica che separa l’essere umano dal contesto e ritiene possibile lo sviluppo etico e linguistico in modo spontaneo. La visione botanica in realtà ha l’obiettivo di eliminare le “interferenze” sociali, le quali sono giudicate negative. Rousseau è stato il modello per lo sviluppo della tesi botanica. Lev Semënovič Vygotskij pone al centro la comunità e l’interazione tra il soggetto e la comunità, pertanto lo sviluppo cognitivo linguistico necessita della buona comunità, della koinè, senza la quale il soggetto è limitato e offeso nella sua evoluzione. Comunità e individuo non sono separabili. L’essere umano per sua natura è comunitario. Lo psicologo russo dimostra che senza la cura della buona comunità il soggetto non sviluppa al massimo le sue potenzialità razionali. La comunità dev’essere luogo di accoglienza e cura delle nuove generazioni. Il bene è, in tal modo, posto dal logos che si forma nella comunità. Il bene è la razionalità linguistica con la quale dare significato e senso all’orizzonte individuale e comunitario. Il soggetto in formazione non è semplice presenza passiva, non è orcio da riempire con dati e contenuti. Il soggetto in formazione, al contrario, usa il linguaggio e gli stimoli che gli sono stati donati in modo creativo e personale. L’anti-economicismo è palese nel pensiero e nella pratica di ricerca dello psicologo. L’essere umano non è riducibile a sola biologia o a strutture di ordine economico; le implica, ma ad esse dona senso e significato con il linguaggio. Vygotskij individua tre fasi nello sviluppo linguistico: il linguaggio interiore, il linguaggio egocentrico e il linguaggio esteriore o adulto. La prima fase si caratterizza per il linguaggio gestuale: già in questa fase il bambino, se sostenuto in modo adeguato e consapevole con sollecitazioni positive, è protagonista della trasformazione del linguaggio gestuale in linguaggio egocentrico, il quale si concretizza nei suoi monologhi in presenza degli altri. Il linguaggio egocentrico è intermedio fra il linguaggio esteriore e quello interiore. Intorno ai sette anni il bambino matura una seconda interiorizzazione. Tali passaggi non sono meccanici, non sono iscritti nella biologia, necessitano del supporto biologico, ma senza la cura sociale, possono rallentare fino al prodursi di danni cognitivi permanenti nello sviluppo e nella formazione. Dal linguaggio egocentrico, dunque, si passa al linguaggio interiore o pensiero. In Piaget l’egocentrismo non ha funzione positiva, è un limite all’evoluzione del pensiero del bambino. Secondo Vygostkij, invece, il linguaggio egocentrico è imprescindibile per giungere al linguaggio adulto. Il linguaggio è funzione che umanizza, è sostanza dell’essere umano: non a caso il suo sviluppo investe tutte le funzioni psichiche. Il linguaggio, dunque, è la casa dell’essere umano. Dove vi è linguaggio vi è l’essere umano. Il linguaggio è relazione, partecipazione politica ed ascolto. L’umanesimo che potremmo definire metafisico di Vygostkij è dunque evidente. Le ragioni dell’ostilità dello stalinismo nei suoi confronti si spiegano con il suo umanesimo metafisico, il quale non rigetta Marx, non ripudia Spinoza, ma anzi ne completa i più loro profondi concetti filosofici con la propria originale speculazione in campo linguistico ed educativo. L’essere umano – e il linguaggio prima di tutto –, dunque, avversando dialetticamente ogni riduzionismo che, in tal senso, nega il fondamento dell’umano e dell’umanesimo:
«Tutte le più alte funzioni psichiche sono processi mediati, e i segni sono i mezzi fondamentali adottati per padroneggiarli e dirigerli. Il segno mediatore è incorporato nella loro struttura come una parte indispensabile, o per meglio dire come il perno del processo totale. Nella formazione dei concetti, il segno è la parola, che da prima svolge il ruolo di mezzo nella formazione di un concetto e successivamente diventa il suo simbolo». (2)
Interazione e concetto
Il concetto è operazione linguistica, esso è strumento metafisico. Dove vi è concetto il linguaggio acquisito si evolve in modo divergente. Gli stimoli della comunità e le domande che essa pone, così come l’interrogarsi sui grandi temi, conducono all’interazione concettuale. Il concetto è l’universale con cui si risponde creativamente alle contingenze e si organizzano nuove strategie mai battute in precedenza. Senza linguaggio non vi è trascendenza critica.
Il concetto investe la comunità nella sua storia. Il concetto è condivisione olistica, in quanto esso è interazione con l’esterno e nel contempo interiorità che modifica le funzioni psichiche. Tale attività, precipuamente umana, è possibile solo in un clima di libertà corale. Il linguaggio è attività complessa nella quale vige la logica della interazione creatrice:
«La formazione del concetto è il risultato di un’attività complessa a cui prendono parte tutte le funzioni intellettuali fondamentali. Il processo, tuttavia, non può essere ridotto ad associazione, attenzione, immaginazione, inferenza o a tendenze determinanti. Queste funzioni sono tutte indispensabili, ma non sono sufficienti senza l’uso del segno e della parola, che sono i mezzi con cui dirigiamo le nostre operazioni mentali, controlliamo il loro corso e le incanaliamo verso la soluzione del problema che ci sta dinanzi. La presenza di un problema che richiede la formazione di concetti non può essere considerata di per sé la causa del processo, anche se i compiti che la società pone davanti ai giovani, quando entrano nel mondo culturale, professionale, civile degli adulti, costituiscono indubbiamente un fattore importante nella comparsa del pensiero concettuale. Se l’ambiente non pone tali compiti all’adolescente, se non gli pone nuove domande, non stimola la sua intelligenza fornendogli una serie di nuovi fini, il so pensiero non raggiunge gli stadi più elevati, o li raggiunge con grande ritardo. Il compito culturale tuttavia, di per sé, non spiega il meccanicismo di sviluppo che risulta nella formazione del concetto». (3)
L’approccio di Vygostkij è olistico: non si può separare la parte dal tutto, ma bisogna cogliere le reazioni-azioni tra il soggetto e la comunità. Quest’ultima è una rete di punti di tensione e di produzione di saperi. La qualità della comunità coincide con la capacità di far circolare parole e immagini che possano favorire la concettualizzazione e l’evoluzione psicologica del bambino.
Una comunità che pone al centro il calcolo e l’utile immediato quale paradigma valutativo è destinata, sembra dirci il pensatore russo, all’asfissia concettuale. Senza circolazione dei linguaggi non vi può che essere che la sterilità del nichilismo passivo pronto a mutarsi in violenza e negazione dell’altro. Il linguaggio è il metodo e lo strumento con cui si decodifica il mondo. Senza di esso l’essere umano si disumanizza:
«Il ricercatore deve cercare di capire i legami intrinseci tra i compiti esterni e la dinamica dello sviluppo, e vedere la formazione dei concetti come una funzione di tutto lo sviluppo culturale e sociale dell’adolescente che influenza non solo il contenuto, ma anche il metodo del suo pensiero». (4)
Ambiente e linguaggio
Il linguaggio non può essere liquido o ancipite. Una comunità deve comunicare i suoi significati in modo chiaro, non vi devono essere ambiguità. Senza la stabilità del linguaggio il bambino non può essere avviato verso il concetto. Si deve sviluppare una rete sociale positiva. La fiducia del bambino nei significati delle parole è fondamentale, egli deve riconoscere nelle persone che ne curano la formazione l’autorevolezza lessicale. Un linguaggio instabile favorisce la schizopatia linguistica, non permette ai significati di consolidarsi e di essere esplorati nelle sue possibilità significanti:
«Il linguaggio dell’ambiente, coi suoi significati stabili, permanenti, indica la via che le generalizzazioni del bambino prenderanno. Ma, pur così coartato, il pensiero del bambino procede lungo questo cammino preordinato nel modo che è peculiare al suo grado di sviluppo intellettuale. L’adulto non può trasmettere al bambino il proprio modo di pensare. Egli gli fornisce semplicemente il significato già pronto di una parola, intorno a cui il bambino forma un complesso, con tute le particolarità funzionali, strutturali e genetiche del modo di pensare per complessi, anche se il prodotto del suo pensiero è in effetti identico per il contenuto ad una generalizzazione che avrebbe potuto essere stata formata secondo un modo di pensare concettuale». (5)
La parola originaria è l’archetipo che pone le condizioni per la costruzione di quadri concettuali sempre più ampi, si dipinge con il linguaggio l’immagine del mondo. Il processo di significazione necessita della mediazione dei segni con i quali dare significato al mondo: essi sono la risposta alle stimolazioni educative della comunità in tutte le sue forme:
«La parola originaria non è un simbolo diretto per un concetto, ma piuttosto un’immagine, un quadro, uno schizzo mentale di un concetto, una breve storia su di esso – in verità una piccola opera d’arte. Nel dare un nome ad un oggetto per mezzo di tale concetto di natura pittorico, l’uomo l’unisce in un gruppo con molti altri oggetti. Sotto questo aspetto il processo della creazione del linguaggio è analogo al processo della formazione dei complessi nello sviluppo intellettuale del bambino». (6)
Il bambino dev’essere stimolato proponendogli situazioni problematiche che favoriscano lo sviluppo qualitativo della sua evoluzione.
Lo sviluppo prossimale consente di presentare problemi in linea con le capacità del bambino o dell’adolescente, ma che si trovano al limite tra la fase di sviluppo in atto e la successiva. In tal modo si evita la noia del troppo facile e nel contempo non si cade nella frustrazione del troppo difficile. La centralità è, sempre, la formazione linguistica, è il logos tradotto in filosofia. Senza la preminenza del linguaggio le città e le istituzioni divengono “non luoghi”, poiché si vive in uno stato di abbandono linguistico e metafisico.
Leggere Vygostkij è comprendere il nostro presente e il suo tradimento metafisico. L’aver posto la merce al centro, anziché il concetto, spiega le tragedie etiche presenti e l’assenza di una politica a misura di essere umano.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
immaginazione umana e fantasia, educazione , attività creatrice
«La prospettiva rivoluzionaria del futuro permette di conoscere lo sviluppo e la vita della personalità come un processo unitario, che si protende in avanti e che con una necessità oggettiva è indirizzato verso il punto finale, conclusivo, indicato dalle esigenze dell’essere sociale. […] Nel processo di questa conquista l’uomo come biotipo determinato si trasforma in uomo come sociotipo, l’organismo animale diventa una personalità umana. L’appropriazione sociale di questo processo naturale si chiama educazione. Esso non sarebbe possibile se nello stesso processo naturale dello sviluppo e della formazione del bambino non fosse insita la prospettiva del futuro».
Lev Semënovič Vygotskij, Sul problema della dinamica del carattere infàntile, 1928.
«Il cervello non è soltanto un organo che conserva e riproduce la nostra esperienza passata, ma è pure un organo che combina attraverso l’attività creatrice e che, a partire dagli elementi dell’esperienza passata, forma nuove situazioni e un nuovo comportamento.
Se l’attività umana si limitasse a riprodurre ciò che è vecchio, l’uomo sarebbe un essere rivolto unicamente al passato, un essere capace di adattarsi al futuro solo riproducendo questo passato.
L’attività creatrice dell’essere umano è proprio ciò che lo rende un essere rivolto al futuro, che crea il suo futuro e modifica il suo presente.
Questa attività creatrice, basata sulle facoltà combinatorie del nostro cervello, è denominata immaginazione o fantasia dalla psicologia.
In genere, con immaginazione o fantasia non si pensa a ciò che la scienza intende con questi termini.
Per il senso comune si chiama così tutto ciò che non è reale, tutto ciò che non corrisponde alla realtà, e che, perciò, non può avere alcun serio significato pratico.
La verità è che l’immaginazione in quanto base di ogni attività creatrice si manifesta allo stesso modo in tutti i vari aspetti della vita culturale, rendendo possibile l’attività creatrice artistica, scientifica e tecnica.
In questo senso tutto ciò che ci circonda e che è stato creato dall’uomo, tutto il mondo della cultura, all’opposto del mondo della natura, è un prodotto dell’immaginazione umana e dell’attività creatrice che si fonda su essa».
Lev Semënovič Vygotskij, Immaginazione e attività creatrice nell’età infantile, 1930.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Non c’è traccia, in chi scrive, di preclusioni nei confronti dei vaccini ma c’è ‘resistenza’ nei confronti di una visione totalitaria della risposta politica alla ‘pandemia’ Covid
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Il testo che segue è una lunga lettera aperta scritta da un missionario che opera da anni in Niger. Prende spunto dall’improvvida decisione vaticana di coniare una moneta celebrativa del vaccino e da un intervento di Civiltà cattolica entusiasticamente schierato a favore della vaccinazione per sviluppare una serie di considerazioni sulle politiche pandemiche, le quali toccano temi cruciali che, partendo dalla contingenza sanitaria, gettano una luce significativa su una temperie culturale ed antropologica che dovrebbe suscitare la massima attenzione e vigilanza. I temi toccati, con lucido e acuto giudizio illuminato da profonda sensibilità umana, sono tanti, ma arrivano a fondersi in una riflessione coerente ed unitaria, capace di offrire a chi legge spunti preziosi da riprendere ed approfondire ed un filo conduttore per orientarsi in uno scenario dove da due anni la manipolazione, dell’informazione innanzitutto, dirige il coro, delegittimando pesantemente chi rifiuta di recitare la parte assegnata o di applaudire i recitanti. L’orizzonte in cui si inserisce questo coraggioso intervento è racchiuso fra due parole, non a caso poste in apertura, già nel titolo, e in conclusione: Dissociazioni e r-esistere. Quanto alla prima, l’autore intende sottolineare la propria abissale distanza dalle posizioni assunte dall’istituzione di cui fa parte: se dissentire, non uniformarsi al pensiero dominante ha sempre garantito al refrattario una certa emarginazione, almeno dai circuiti del successo professionale e sociale, oggi è diventato (con buona pace dei valori della democrazia liberale che, paradossalmente ma non troppo, siamo chiamati a difendere lontano dalle nostre frontiere) un esercizio decisamente pericoloso che inscrive tout court chi lo pratica nella lista abietta dei nemici del bene pubblico e del genere umano. Oggetto di pesante scomunica morale, essi sono suscettibili anche di provvedimenti molto pratici, tesi ad espellerli dalla vita collettiva e a privarli della possibilità stessa di sostenersi, con allontanamento dal lavoro, o, come è successo nel democratico e progressista Canada qualche mese fa per stroncare la protesta dei camionisti, con il blocco dei conti correnti. Insomma, ai nostri tempi dissociarsi e rivendicare la propria libertà di coscienza non è più una posa da intellettuali frondeurs, con un piede nell’Accademia e l’altro nella barricata. La partita si è fatta molto dura, perché è in gioco una profonda riconfigurazione complessiva della società, funzionale al riassestamento del capitale in un contesto geopolitico molto diverso da quello del Novecento. Inoltre, dissociarsi richiede una certa capacità di leggere la realtà, un certo legame con la sua superficie impervia e scabra, con il suo cuore pungente e stratificato, al fine di evitare di scivolare sul terreno di cera della nuova Babele, dove il demone della menzogna linguistica asservito al potere inverte il significato delle parole e coltiva spericolati ossimori come il capitalismo inclusivo benedetto dal Vaticano e denunciato da Mauro Armanino con l’indignazione del cristiano consapevole che non si possono servire due padroni.[1] Dall’atto intellettuale del dissentire alla scelta morale di resistere: non solo per non rendersi complici di chi ha strumentalizzato l’epidemia da Covid 19 per ridisegnare il mondo (le élites economico-politiche e i loro cani da guardia incaricati di affinare i dispositivi ideologici), ma per custodire e valorizzare l’esistenza che è stata umiliata e negata proprio quando si è voluto farla coincidere con la nuda vita da salvaguardare ad ogni costo. E il costo è stato il sacrificio di libertà e diritti che si ritenevano consolidati e delle relazioni interpersonali su cui si è da sempre fondata la socialità umana. L’egoismo della sopravvivenza, alimentato a suon di campagne mediatiche di stampo terroristico, è stato contrabbandato per rispetto degli altri, mentre rappresentava l’estrema torsione dell’istinto individualistico a preservare il benessere personale, nel disinteresse per il dissolvimento di quanto restava di vincoli comunitari e di spazi democratici. E intanto i malati morivano soli negli ospedali, o si ritrovavano abbandonati in casa sospesi tra tachipirina e beckettiana attesa, ai morti era negato l’estremo omaggio della sepoltura (pratica nata con l’umanità stessa), i vivi non vaccinati venivano sottoposti a misure di apartheid, i vaccinati erano aizzati contro i cattivi renitenti al siero, tutti passavano sotto le forche caudine di una paralizzante operazione di infantilizzazione di massa all’insegna della paura, mentre i bimbi imparavano a (dis)conoscere il mondo tramite lo schermo di un computer o di una mascherina. Giustamente, Armanino evoca da un lato missionari e santi che, in passato, non esitarono a correre il rischio di ammalarsi per portare conforto ai sofferenti e dall’altro il transumanesimo che si affaccia asettico e performante dietro le porte ben protette di Davos. Aggiungo agli esempi di autentica solidarietà citati, tutti coloro che hanno affrontato la morte, battendosi per una causa per la quale erano convinti valesse la pena rinunciare alla vita biologica. Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà:[2] è questa una verità capace di sovvertire i calcoli meschini, di scardinare la forza di ricatto di chi comanda, di vincere la paura – e l’oscuramento della mente e del cuore che ne nasce – e di fondare la libertà ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.[3] È per scongiurare un salto antropologico radicale – con la sua pretesa di annullare millenni di cultura e di civiltà umane ormai inutili e persino d’inciampo sulla via della servitù volontaria e collaborativa che è il nuovo modello sociale messo a punto dal personale di servizio ideologico – che l’autore di questa lettera aperta chiama alla r-esistenza: resistere significa ormai difendere le condizioni stesse per continuare ad esistere, in dignità, libertà e umanità.
Fernanda Mazzoli
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Mauro Armanino
Dissociazioni vaticane
Non c’è traccia, in chi scrive, di preclusioni nei confronti dei vaccini ma c’è ‘resistenza’ nei confronti di una visione totalitaria della risposta politica alla ‘pandemia’ Covid
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La moneta vaticana
… La serie è composta da 8 monete, sul rovescio ci sono le caratteristiche tecniche uguali per tutti i paesi aderenti alla moneta unica europea. Sul dritto è raffigurato lo stemma di Papa Francesco, Sovrano dello Stato del Vaticano, la scritta “Città del Vaticano” e dodici stelle. La serie è disponibile in due versioni: la prima con la moneta da 20 euro in argento e la seconda con la moneta in oro da 50 euro. La moneta in argento da 20 euro, opera di Chiara Principe, è dedicata ad un argomento attuale che sta molto a cuore a papa Francesco: le cure per contrastare la pandemia e la necessità di vaccinarsi. Sulla moneta sono raffigurati un medico, un infermiere e un ragazzo che è pronto a farsi iniettare il vaccino. Il Santo Padre ha più volte sottolineato l’importanza della vaccinazione, ricordando che la cura della salute è “un obbligo morale” ed è importante “proseguire lo sforzo per immunizzare anche i popoli più poveri”… [4]
Ecco come è introdotta la moneta vaticana. L’immagine mi era stata segnalata da Martin Steffens, giovane filosofo francese, critico dell’attitudine ufficiale della gerarchia ecclesiastica sulle politiche riguardanti la gestione dell’epidemia Covid.[5]
Se ancora esistevano dubbi a riguardo, la moneta in questione è una rivelazione, uno smascheramento che insinua più o meno apertamente almeno tre messaggi:
♦ Adesione: mentre ancora ferve il dibattito, almeno contradditorio, tra chi vuole includere i bambini nella vaccinazione e chi ritiene che essa sia non solo inutile ma dannosa, il ‘Vaticano’ prende posizione. In virtù di un mandato che appartiene al ‘Capo dello Stato vaticano’, lo stesso che molto democraticamente obbliga i propri dipendenti a vaccinarsi pena l’esclusione dal lavoro, diritto e dovere di ogni cittadino. Nello stesso stato vaticano le organizzazioni sindacali sono vietate, malgrado l’esistenza di una ‘Dottrina Sociale’ della Chiesa che ne auspica l’esistenza e l’azione. Tramite l’immagine citata si opera un’adesione incondizionata e evidente alle politiche sanitarie ‘imposte’ da scelte la cui validità scientifica è stata messa in discussione da persone competenti e preparate.[6]
Il fatto di presentare in modo iconico il medico (la scienza), l’infermiere (la cura), il ragazzo e la siringa è inequivocabile: la salvezza è a portata di … siringa.
♦ Arroganza. Detta conclusione ‘monetaria’ appare nel contempo arrogante perché esclude ogni possibile scelta alternativa, per quanto fondata essa sia. La stessa accomodante arroganza, d’altra parte, che ha accompagnato l’adesione alle scelte dei decreti legge durante la ‘crisi’, creata o presunta essa sia stata. Vi sono state decine di dichiarazioni ufficiali, da parte di migliaia di scientifici che hanno messo in serio dubbio le politiche di gestione della pandemia. Dal confinamento, alla distanziazione sociale per passare all’uso intimidatorio delle mascherine. Tutto falsamente omogeneo e in consonanza con la scienza che invece è apparsa come la grande perdente di tutte queste operazioni. Lo ricorda l’antropologo della salute Jean Michel Dominique: la medicina non è una scienza ma un’arte che si avvale della scienza …!
♦ Manipolazione. Quasi per caso appare, nell’immagine citata, una piccola croce appena sopra il capo del ragazzo rappresentato, mascherato come gli altri due personaggi che lo attorniano. La croce che, in tutto il periodo citato, è stata usata e abusata per giustificare o proteggere le scelte governative di controllo sociale col pretesto della gestione della malattia. Una profanazione che, vista dal lontano/vicino Sahel dove ben altri sono stati i problemi di questo tempo, ha posto la ‘nuda vita’ , per dirla con l’amico Giorgio Agamben, come la nuova religione assoluta. Dov’era dunque la croce quando morivano, sole e abbandonate le persone anziane nelle case di riposo (eterno), nelle chiese sostanzialmente chiuse (neppure in guerra era accaduto) e nella ‘distanziazione sociale’ (con che coraggio leggere il vangelo nel quale il Cristo ‘tocca’ i lebbrosi?). Si tolga almeno la croce dalla moneta … già i venditori nel tempio era stati avvisati a suo tempo … Dovremmo altresì espungere, come ‘sovversivi’, i santi che si mettevano sulle spalle i malati, gli appestati o qualcuno come San Damiane de Veuster, diventato a suo volta lebbroso per non rispetto delle distanze sanitarie. Lo stesso accadde coi primi missionari che, sapendo di vivere per pochi mesi, partivano nelle zone dove la malaria o la febbre gialla li falcidiavano. Ora si muore, tristemente, di vecchiaia … con la croce del cimitero a fare compagnia.
La civiltà cattolica
Organo semi ufficiale del vaticano perché diretto dai gesuiti sotto immediata obbedienza papale. È con un notevole senso di sconcerto che, scorrendo un articolo sulla ‘vaccinazione’ si leggeva quanto segue…
… papa Francesco manifesta un approccio accogliente e costruttivo nei riguardi della scienza … mostra che il contributo della ricerca scientifica in campo sanitario, che ha consentito di mettere a punto vaccini sicuri, efficaci, con effetti indesiderati minimi e identificabili, testati cilinicamente in modo esteso e rigoroso, può essere al servizio della salute quale bene comune e globale …[7]
Le sottolineature sono mie…
Una tale leggerezza, cosciente o meno, è da considerare a-scientifica e, in fondo a-morale, al di là del numero limitato di lettori di questa rivista: è il principio, lo stesso, che viene così riconfermato. Alcune considerazione veloci:
♦ La palese falsità dell’affermazione. Si sapeva o comunque si poteva supporre che i ‘vaccini’, vista la l’origine sospetta di alcune della case farmaceutiche, la manipolazione riconosciuta dei test vaccinali, l’opacità dei contratti con gli Stati, avrebbe comportato problemi per i vaccinati. Così è stato, com’è ampiamente documentato e riconosciuto dalle statistiche ufficiali. Com’è stato riconosciuto dalle stesse ditte farmaceutiche, i test sono stati scelti, ridotti e manipolati ed i risultati più sconcertanti espunti, con cognizione di causa. La ‘civiltà cattolica’ ha così tolto la propria maschera perché quanto scritto, indebitamente, su questo tema potrebbe essere riferito anche ad altri: con quale credibilità’.
(Il database delle reazioni avverse ai farmaci dell’Agenzia europea dei medicinali (EMA) sta ora segnalando 45.752 decessi e 4.522.307 reazioni avverse a seguito dei vaccini COVID-19, mentre il sistema di registrazione degli eventi avversi del vaccino degli Stati Uniti (VAERS) sta ora segnalando 29.031 decessi e 1.307.928 reazioni avverse a seguito della vaccinazione COVID- 19.8 … Dal sito Data base Italia).
♦ La mancanza di discernimento e dunque l’imprudenza in un ambito nel quale vale il famoso motto della medicina: primo non nuocere … Un farmaco in sperimentazione che arriva di botto ad inondare il mercato farmaceutico, uno dei grandi business dell’epoca in chiave di ‘religione sanitaria’, con buona parte di politici e di comitati di gestione della crisi con conflitti di interesse). Sottacendo che fin dall’inizio sono stato trovate e proposte soluzioni alternative alla vaccinazione genica. L’uso tempestivo della idroclorochina, ivermectina … avrebbero permesso di salvare molte vite. Si è preferito, come da copione sceso (divinamente?) dall’alto di impedire ai medici di operare e si è preferito l’isolamento, l’attendismo e il paracetamol … Aberrazioni a dir poco criminali dal punto di vista etico e scientifico.[8]
♦ Connivenzadunque con la ‘doxa’ accettata, trasmessa, propagandata dai media nazionali e internazionali. Questo dovrebbe destare stupore per l’istituzione ecclesiale che si è sempre vantata di ‘essere nel mondo ma non del sistema’ … E invece, con inusuale fretta, le ‘istituzioni vaticane’, tramite il capo supremo e le conferenze episcopali, hanno facilitato il lavoro degli organi statali, come se questi ultimi cercassero davvero il bene personale e comune dei cittadini. Detta attitudine, esplicita o implicita, non ha fatto che favorire lo scivolamento verso un totalitarismo medico le cui conseguenze sull’assetto democratico sono estremamente deleterie. Una divisone tra buoni cittadini e cittadini ‘ricalcitranti’ è potuta accadere con maggiore facilità perché prima c’è stata la classificazione papale tra buoni e fedeli cristiani (vaccinati o vaccinandi) e gli altri, egoisti, superficiali o perlomeno insubordinati all’ordine pubblico ecclesiale ( i non vaccinati). L’idea, a questo proposito, di ‘religione civile’ che puntella la religione sanitaria dello stato, non è anodina ma consustanziale al ruolo che è stato affidato, ormai da tempo, alla religione. Si è contribuito a creare cittadini ‘sottomessi’ all’autorità contro i diritti umani più elementari ( di riunione, di lavoro, di culto, di movimento … di aria libera e di un volto umano).
L’Alleanza vaticano-capitalismo inclusivo
«È necessario e urgente un sistema economico giusto, affidabile e in grado di rispondere alle sfide più radicali che l’umanità e il Pianeta si trovano ad affrontare. Vi incoraggio a perseverare lungo il cammino della generosa solidarietà e a lavorare per il ritorno dell’economia e della finanza a un approccio etico…cercando modi per rendere il capitalismo uno strumento più inclusivo…». All’inizio di dicembre del 2019, papa Francesco si era rivolto con queste parole ai membri del nuovo “Consiglio per un capitalismo inclusivo con il Vaticano”… Tra i manager che fanno parte del Consiglio figurano i dirigenti di colossi come Mastercard, Allianz, Merck, CalPERS, Johnson & Johnson, State Street Corporation, Bank of America, Fondazione Rockefeller. Ma è presente anche il presidente di un colosso delle fonti fossili come British Petroleum. E perfino un membro del consiglio d’amministrazione della compagnia petrolifera saudita Saudi Aramco.
«La vostra presenza qui – ha affermato Bergoglio – è un segno di speranza, perché avete riconosciuto le questioni che il nostro mondo è chiamato ad affrontare e l’imperativo di agire con decisione per costruire un mondo migliore. Vi esprimo la mia gratitudine per il vostro impegno nel promuovere un’economia più giusta e umana». Inoltre, secondo il Financial Times, il Vaticano avrebbe anche «concesso l’uso del proprio nome».[9]
♦ Sconfessione della teologia popolare o della liberazione. Sappiamo che non si possono seguire o affidarsi a due padroni, camminare due strade differenti. Da un lato si promuovono alleanze coi movimenti popolari, coi poveri, non oggetti ma protagonisti di trasformazione, come si afferma da sempre nella teologia della liberazione e in quella popolare seguita e promessa finora, almeno nei discorsi, da Roma. E nel contempo ci si allea col ‘capitalismo inclusivo’, ossimoro, contraddizione in termini come ben si sa da sempre. Il capitalismo è nato senza cuore e non sarà certamente un innesto chirurgico, sia pure col vaticano, tutto meno che innocente in ambito finanziario, a cambiarne i connotati. Ciò è semplicemente scandaloso e malgrado le tresche passate con potere del momento, i concordati con le dittature e gli arrangiamenti coi detentori della ricchezza, non si era mai giunti a tanto. Com’è possibile andare dai poveri in pellegrinaggio, ad esempio tra i campi per profughi o migranti e nel contempo allearsi con coloro che direttamente o meno creano quanto sta accadendo in termini di esclusione sociale e di sfruttamento globale?
♦ Adeguamento al ‘sistema Davos’, nel senso che, in fondo, le politiche vaticane ‘Covid’ sono state finora sostanzialmente funzionali al piano di ‘global reset’ promosso dalla cricca che organizza i famosi vertici dell’élite economico-politica del mondo nella cittadine elvetica. Un piano che tendenzialmente azzera lo spirito umano, l’anima, i desideri più grandi del cuore umano, per appiattirsi su una rivoluzione transumanista che punta al controllo totale del mistero della vita, una sorta di reinvenzione della creatura, fatta a immagine e somiglianze delle intelligenze artificiali. Le scelte vaticane del periodo della pandemia e il post, sono funzionali a questo sistema, senza una parola di critica per favorire le lusinghiere sirene del consenso per attrarre investimeni (in vaticano?). La profezia di un mondo nuovo si identifica con le politiche vaccinali, ideologiche ed economiche che permettono finalmente la luce promessa dopo il buio dei mesi del confinamento. Nulla sarà più come prima si ripete a menadito. Si attende il mondo secondo il vangelo di ‘Davos’, fondamentalmente idolatra (Mammona, in termini profetici), perché pone al centro se stesso come unica salvezza.
♦ La svendita di un patrimonio unico antropologico al miglior acquirente è appunto ciò che sembra accadere. La persona, il volto, la relazione, la com-unione di intenti e di destino, tutto ciò è stato, in questo periodo, svenduto. Distanze, isolamento, disinfezioni, conteggio di morti … il processo si è rivelato fin dall’inizio, per i più attenti osservatori, come l’uso egemonico-patologico della paura che ha di fatto mutilato la civilizzazione e le più elementari nozioni di convivialità. La morte di persone sole e abbandonate ne è stata la metafora forse più emblematica. Com’è stato possibile rinunciare, in poche settimane e con così poca resistenza, ad un patrimonio così ricco e articolato come quello che ha contraddistinto la visione della persona come mistero di comunione e relazione con un proprio destino, legato a quello degli altri. Si è poi contrabbandato il concetto di ‘bene comune’ per l’obbligo vaccinale mentre tutto, nella società, da anni spinge all’individualismo esacerbato e consumista. Appare perlomeno sospetto che dei perfetti egoisti in economia, politica ed etica diventino, senza colpo ferire, paladini del bene comune e dell’abnegazione.
Obbligo morale?
Dal momento in cui è stato disponibile il primo dei vaccini contro l’epidemia Covid-19 un coro pressoché unanime si è levato per sostenere l’obbligatorietà della vaccinazione stessa, chi non volesse sottoporsi al trattamento verrebbe emarginato. Le stesse persone che chiedono questo in nome di un bene collettivo però devono sapere che la somministrazione di un farmaco sperimentale contro la volontà del soggetto è inequivocabilmente in contrasto con le norme del Codice di Norimberga redatto per definire la base giuridica della medicina nazista che si andava a condannare nel tribunale. (Enzo Pennetta, gennaio 2021)
♦ La libertà di coscienza. La stessa Unione europea si è affrettata ad adottare, nel giugno scorso, un regolamento (il n. 953/2021, relativo all’EU Digital Covid Certificate), il cui preambolo afferma la necessità di evitare la discriminazione diretta o indiretta dei soggetti che “hanno scelto di non vaccinarsi”. I principi e le norme in parola sono volti a salvaguardare i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo nei confronti delle applicazioni della biomedicina … Rilevano, in modo specifico, il principio del primato dell’essere umano sugli interessi della scienza e della società, nonché i principi di precauzione, di beneficenza, di non maleficenza e di equo accesso alle cure mediche.
Nella prospettiva indicata assume speciale rilevanza il dovere del medico/sperimentatore di rispettare gli obblighi professionali ispirati al rigore, alla prudenza, alla professionalità, all’onestà intellettuale e all’integrità morale non solo nella trasparenza delle decisioni adottate e nell’utilizzo delle migliori conoscenze disponibili, ma anche nella presentazione dei risultati scientifici conseguiti (art. 4 della Convenzione di Oviedo, art. 13 della Dichiarazione universale dell’UNESCO del 1997, art. 18 della Dichiarazione universale dell’UNESCO del 2005).[10]
La citazione del papa, riportata all’inizio di questa lettera aperta, facente allusione all’obbligo vaccinale
… Il Santo Padre ha più volte sottolineato l’importanza della vaccinazione, ricordando che la cura della salute è “un obbligo morale” ed è importante “proseguire lo sforzo per immunizzare anche i popoli più poveri”…
invita ad alcune considerazioni.
La più facile è quella di rilevare che i Paesi più poveri, tra questi il più povero in assoluto nel quale si trova chi scrive, il Niger, è stato solo lievemente sfiorato dalla pandemia. I tentativi di ‘facilitare’ o imporre il vaccino sono sistematicamente caduti nel vuoto. In tutta l’Africa, a parte forse il Sudafrica, il Marocco e l’Algeria colpiti in relativa misura, l’epidemia è stata ben gestita, verrebbe da dire, grazie alla non-vaccinazione! Ma il punto principale è legato, appunto, alla coscienza. Da un lato, quando conviene, si vogliono persone, cittadini, cristiani, consapevoli e responsabili e dall’altra si ‘obbliga’ pena l’esclusione virtuale e reale dal lavoro, dalla comunità una parte di coloro che cercano di prendere sul serio la libertà di coscienza. Sembra perlomeno contradditorio appellarsi al senso critico e alla maturità dei cristiani nei confronti delle ideologie dominanti della società e al contempo ‘imporre’ sotto pena di minaccia una visone unica, accomodante e funzionale al potere del momento in ambito sanitario. Come non rilevare la contraddittorietà del modo di trattare chi, per legittima scelta, ha rifiutato la vaccinazione e si trovato ai margini della Chiesa. La misericordia e l’attenzione dovuta a chi ha perso il lavoro e, spesso, la reputazione avrebbe dovuto trovare accoglienza e ascolto nelle comunità cristiane.
♦ La censura precoce di altre possibilità terapeutiche si è sviluppata fin dall’inizio e la sola prospettiva vaccinale presa come una garante di uscita dalla crisi dell’epidemia. Come già sottolineato si sono esclusi tutti i tipi di trattamento di una malattia che in sé non era sconosciuta e di cui esistevano dei protocolli di intervento. Fortunatamente, anche nel momento più forte del totalitarismo del pensiero unico sulla malattia, non sono mai mancate voci ‘furi dal coro’, come ad esempio il dottor Jean Michel Dominique, antropologo della salute che sul suo blog, ha continuato a pubblicare notizie diverse dalla doxa …
Riprende, tra l’altro, un articolo che contesta la narrazione ufficiale. Sulla gravità, meno del previsto e che tocca prevalentemente una fascia della popolazione, spesso con altre comorbidità…
… ‘La médecine c’est soigner les gens, quant à la science elle consiste principalement en l’observation… Et dans ce domaine, l’observation faite par les praticiens de terrain à travers le monde a mis en évidence plusieurs associations qui donnent de bons résultats : l’association Hydroxychloroquine/Azithromycine/Zinc ou l’association Macrolide/Céphalosporine/Zinc semblent éviter les formes graves à condition d’être prises tôt dans l’infection. Utilisée en Afrique, l’Artemisia annua semble aussi avoir une efficacité contre le covid . Aux stades plus avancés, l’on peut recourir aux corticoïdes comme la dexaméthasone, les anticoagulants pour éviter les phénomènes de thromboses, ou encore l’oxygénothérapie.[11]
♦ Correidunque di uno stato di cose che ha contribuito a trasformare una relativa semplice malattia in una pandemia ‘incontrollabile’ con lo scopo, appena larvato, di arrivare ad un certificato vaccinale europeo che permetta di ‘controllare’ ogni cittadino. Le ricadute, non è difficle, immaginarlo, potrebbero andare verso una distopia che solo la fantasia degli scrittori di scienza-fiction, potrebbero lasciar indovinare. Una pesante responsabilità nei confronti di ciò che, attraverso azioni o omissioni, mette le basi per un mondo (occidentale per ora), sostanzialmente dominato dagli interesi delle grandi ditte farmaceutiche e dei cosiddetti GAFA …
Conclusione. Che tempo fa dall’altra parte del mondo?
Chi scrive ha passato buona parte lontano dai centri di potere, come missionario apprendista in Costa d’Avorio, Argentina, Liberia e, da oltre 11 anni, nel Niger della sabbia. Chi scrive, nel mese di luglio del 1982 è stato salvato da operazioni e cure mediche nell’ospedale pubblico San Martino di Genova e non ha mai disdegnato le vaccinazioni. Chi scrive, oltre quelle dell’infanzia, ha assunto il vaccino contro la febbre gialla e, prima di partire la prima volta nel Niger nel 2011, è stato volontariamente vaccinato contro una delle forme più diffuse della meningite. Non c’è traccia, in chi scrive, di preclusioni nei confronti dei vaccini ma c’è ‘resistenza’ nei confronti di una visione totalitaria della risposta politica alla ‘pandemia’ Covid.
Infatti una cosa è la malattia e l’altra le politiche di uso della malattia per controllare, modificare e preparare un mondo diverso e funzionale all’egemonia di una élite che, per usare una metafora evangelica, sotto l’apparenza di ‘agnelli’ benefattori illuminati dell’umanità, non sono che lupi feroci. Peccato che alcune istituzioni vaticane, e non delle minori, abbiano accettato di collaborare con loro. Molti altri, pagando di persona e discriminati all’interno della stessa Chiesa e nella società come cittadini, hanno scelto di r-esistere.
Niamey, primo luglio 2022
P.S.– In tutti questi anni lo stato italiano mi ha ignorato. Per rinnovare il passaporto scaduto e con un’ambasciata a Niamey, con tanto di militari, di controllo di frontiere e migranti, sono dovuto andare fino ad Abidjan, in Costa d’Avorio…
Da casa mi si comunica che c’è in atto un procedimento amministrativo che comporterebbe una penalità di 100 euro per non compimento vaccinale. Mi è stata chiesta copia della carta d’identità e del codice fiscale. … Ecco il benvenuto in patria dopo tre anni di assenza…
Il testo di Mauro Armanino è già stato pubblicato anche sul sito di «Sinistrainrete», il 12 luglio 2022.
Note
[1] «In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza”» (Mt. 6, 24).
[10] Il testo originale del Parere è pubblicato sul sito: www.ecsel.org/cieb, fondato dall’amico Luca Marini, giurista.
[11] M. Annès Bouria, un des signataires du remarquable Appel adressé par des soignants belges à leur gouvernement. Dal testo originale in francese sul sito Anthropo-logique, di J.M. Dominique.
Alcuni libri di Mauro Armanino
Cercando il volto. L’umanità nel missionario, Ed insieme 2000
Cercare il verbo che esprime meglio la dimensione missionaria della Chiesa di oggi: essere in cammino, cercatori d’infinito, alla ricerca di un Dio che si nasconde fra le pieghe della debolezza dell’uomo. Delle piccole contraddizioni quotidiane di un’umanità spesso stanca e delusa, Egli si serve per mostrare e comunicare la ricchezza del suo amore che libera e rende felici”. (Dalla premessa di don Giovanni D’Ercole).
La storia si fa con i piedi. Diario di missione a Genova, EMI 2011
Clandestino non è l’unica parola che avrei incontrato innumerevoli volte nel lessico quotidiano. Certo è stata quella che mi ha ferito di più. Ho vissuto per vent’anni fuori dall’Italia. Al massimo mi hanno chiamato comunista, mai clandestino”. In attesa di ripartire per l’Africa, padre Mauro continua ad essere missionario anche in Italia. Negli anni trascorsi a Genova, incontra immigrati, detenuti, prostitute. Con loro spezza il pane, piange o ride, s’indigna. I suoi passi si confondono con i loro piedi.
Un dio qualunque. Sguardi e attraversamenti dal Niger, Museodei by Hermatena, 2013
Rifugiati, sopravvissuti, sfollati e dimenticati… a loro sono dedicate le lettere da Niamey, scritte da padre Mauro, che vive là, insieme a loro. Li vede ogni giorno, condividendone le sorti… Storie di ordinaria sofferenza lungo le strade che attraversano il Niger.
La nave di sabbia, Museodei by Hermatena, 2015
La vista, i poveri, l’esodo forzato degli ultimi, il commercio umano, gli angeli di carne, la maternità obbligata, le tappe al contrario del cammino natalizio che Armanino ci propone, con quel suo tocco sapiente di disincantato pittore della sua gente di “frontiera”, quotidianamente ascoltata e accolta, mai giudicata o esclusa. Forte rimane il movimento di questo cammino condiviso, anche nelle grandi solitudini sensoriali (cecità), affettive (prostituzione), economiche (guerre, carestie), dove tutti i protagonisti vengono abbracciati dallo sguardo d’amore dell’autore, consapevole che dalla periferia nasce la speranza.
La città sommersa. Il mondo altro dei migranti del mare, Museodei by Hermatena, 2017
Mare muro. Il Mediterraneo sguardato dalla parte di chi parte e non sempre arriva, Pendagora 2017
53 sguardi e altrettante riflessioni sul mondo dei migranti, inviate da Niamey (Niger) tra il 2012 e il 2017 da Mauro Armanino, prete, missionario e testimone. Armanino non parla di numeri, non si ferma agli aggettivi (profughi, sfollati, richiedenti asilo, e ancora dieci altre targhette di gran moda), ma li chiama ciascuna e ciascuno per nome, ci racconta che hanno un volto e nel bagaglio una storia, che non vengono dall’Absurdistan, ma da un luogo che anch’esso ha un nome, dove hanno lavorato o studiato, dove hanno lasciato una famiglia, una comunità di persone che hanno un nome, e poi – nome dopo nome – ci racconta di chi nel viaggio ha assaggiato l’antipasto dell’inferno e di chi non è arrivato né tornato, e ancora racconta di governi collusi, di organizzazioni compiacenti, di potenze della finanza e della politica che prosciugano le ricchezze del centro del mondo e le convogliano nella nostra periferia. Con lingua schietta, nello stesso tempo poetica e viscerale, senza sconti alla verità né alle responsabilità, questo libro parla di noi
L’ arca perduta nel Mediterraneo. Prove di naufragio di una civiltà, Museodei by Hermatena, 2019
L’ isola delle speranze rubate. Diario di bordo dal Sahel, Museodei by Hermatena, 2022
Storie di speranze perdute, navi che salpano verso isole inesistenti. Storie di ordinaria sofferenza lungo le strade che attraversano il Niger, accompagnate dal vento, dalla sabbia e dal dolore. Un diario di bordo, in un affresco unico, che narra le “avventure” di un’altra Africa. L’altra faccia di un’umanità che non conta. Testimonianze disperate di violenza e follia. Storie di corruzione e manipolazione. Storie di oggi. Nascoste tra le onde di un naufragio, nel cui sciabordio si ode la voce forte e coraggiosa di chi è indotto a lasciare una terra che sembra non appartenergli più.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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