Gilles Lipovetsky e la società della seduzione. Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative. Se la Filosofia si limita ad una critica sociologica e non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti.

Gilles Lipovetsky 01
Salvatore Bravo

Gilles Lipovetsky e la società della seduzione

Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative. Se la Filosofia si limita ad una critica sociologica e non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti.

Capitalismo immateriale
Il capitalismo si autofeconda mediante un movimento perennemente innovativo. Non solo è capace di adattarsi alle circostanze storiche, ma fagocita i movimenti di emancipazione e di liberazione riducendoli a merce, e abbattendo persino le frontiere che esso stesso ha creato. Siamo dinanzi ad una nuova fase che rende il capitalismo certamente non diverso dalla sua essenza, ma con effetti amplificati dai mezzi utilizzati. Le fasi del capitalismo rivelano, in modo sempre più esponenziale, la sua intrinseca natura: si installa nelle relazioni umane, entra nella vita degli uomini per trasformarla in plusvalore, sostituisce il concetto con la gestualità seduttiva. La fase attuale è “rivoluzionaria”, perché accelera tale automatismo. Il capitalismo immateriale utilizza il digitale e gli algoritmi non solo per produrre, ma per orientare le scelte e la vita dei soggetti sussunti al suo invisibile potere.

L’incanto
L’incanto del capitalismo immateriale è nella narrazione che esso fa di se stesso: promette la pienezza, producendo a ciclo continuo – con sogni di onnipotenza narcisistica – una nuova percezione del tempo incentrata sul bisogno-desiderio. I bisogni-desideri sono l’incanto della speranza mondana, il tempo dura quanto è necessario per desiderare e consumare, il disincanto è subito compensato da un nuovo sogno. È l’eterno ritorno nella prospettiva dell’homo consumericus. La forza dell’incanto del capitalismo immateriale è nel non lasciare tempo al consumatore; non vi devono essere archi temporali vuoti, in cui il pensiero può concettualizzare con profondità, giustapporre i sogni ed i disincanti in modo sempre più veloce consente il radicamento dell’incantatore e lo sradicamento da se stesso, dal logos e dalla comunità del soggetto. L’homo consumericus vive su un palcoscenico il cui copione è stato scritto da altri, ma ha l’illusione di essere l’attore principale dello spettacolo, lo si coinvolge nella rappresentazione del prodotto da vendergli, gli si danno informazioni, lo si porta sui luoghi di produzione, assapora la storia dei prodotti, assiste alla spettacolarizzazione della vendita, l’emozione gradualmente lo distoglie dal logos, la pedina si autopercepisce come il sovrano delle merci tra le merci:

«Il capitalismo contemporaneo è stato definito “capitalismo immateriale”, intendendo con tale espressione il ruolo primordiale che rivestono oggi nell’economia le tecnologie digitali al pari dei servizi, del “capitale umano”, del “capitale di conoscenze”, del “capitale di conoscenze”. Siamo in un’economia immateriale nel senso che le risorse della creazione di valore si basano su fattori immateriali come le conoscenze, le qualità del comportamento, l’innovazione, l’invenzione. Il punto da sottolineare è che più il capitalismo diventa “immateriale” e più si confonde con il capitalismo incantatore. Il che significa che il capitalismo immateriale non designa soltanto un “capitalismo cognitivo” centrato sugli algoritmi, i dati digitali, i saperi astratti e matematizzati, ma anche un sistema che si adopera per stimolare i desideri, le emozioni, i sogni e il cui obiettivo è creare e rinnovare prodotti e servizi che piacciano al consumatore e li colpiscano (racconti, musiche, svaghi, divertimenti, stili, ecc.). Di conseguenza, il capitalismo immateriale è anche, paradossalmente, un capitalismo emotivo ed artistico».[1]

Si deve emozionare per favorire processi di regressione di massa: le piccole emozioni che lo spettacolo della merce offre invitano al sogno ed alla fuga dalla storia. La manipolazione dei significati è tale che la parola cultura – che per tradizione e significato si connota per essere il processo di liberazione dalla superstizione e dalla sudditanza per eccellenza – è associata allo spettacolo. Ogni attività culturale dev’essere economicamente proficua e nel contempo deve emozionare: luci, spettacoli, postazioni mediatiche sono la nuova esca con cui incantare lo spettatore-consumatore. La stimolazione sensoriale in continua ascesa – sempre più intensa negli eventi provoca meraviglia, stupore, inebetimento che prepara all’acquisto. Il pensiero è così sostituito dall’incanto, dalla fugace emozione; si viaggia in ogni parte del globo, si visitano monumenti, per tornare a casa con esperienze sensoriali velocemente sostituite da ulteriori emozioni. Il corpo è diventato il luogo sul quale affluiscono momenti emozionali, i quali non sono oggetto di riflessione, ma di veloce godimento. Il corpo è il luogo della guerra, della conquista, è solo carne da mercato.

Il sogno
Il consumatore coltiva i sogni di grandezza, vive il sogno nella forma del destino personale e privato, può essere parte di una famiglia o di una comunità, ma le vive come estranee, distanti, un limite al suo narcisismo. Si afferma l’astrazione in forme sempre più radicali, la vita reale, il contesto storico, sono cancellati in nome dell’incanto di una promessa che riguarda il soggetto stesso, che – ormai slegato da ogni ambito – vive il delirio regressivo del diritto a tutto e specialmente la possibilità che il “tutto” si realizzi solo per lui. Il ritmo veloce dei bisogni-desideri del consumatore causa uno scollamento sempre più incolmabile tra il principio di piacere ed il principio di realtà. Il capitalismo immateriale fa del popolo una massa di seduttori in posa per uno sguardo, per un licke. La seduzione sterilizza i popoli, i quali – svuotati dalle loro tradizioni culturali, dallo spirito della lingua materna – non hanno nulla da trasmettere alle nuove generazioni. L’irrilevanza è il nuovo paradigma. Non resta che la seduzione con le sue miserie, in cui l’altro è solo un mezzo per soddisfare il proprio narcisismo:

«Una seduzione che non dipende più né dalla politica, né dal sacro, né dall’ideologia, ma da un’offerta concreta, multiforme, continuamente cangiante, che si rivolge all’individuo privato e ai suoi piaceri: alla seduzione-politico-ideologica è subentrata una seduzione privatizzata ed esperienziale centrata sul rapporto con se stesso. Una forza di attrazione sostenuta non dall’immaginario di un futuro migliore per l’umanità, ma dalle promesse di godimenti immediati dell’individuo».[2]

 

La seduzione
Il gioco esiziale della seduzione non esclude nessuno. Il modo di produzione capitalistico si installa ovunque ed in chiunque, per cui la seduzione – ultima frontiera della sussunzione – è trasversale, riempie il vuoto dei concetti. Con il ritrarsi del logos, il vuoto è abitato dalla seduzione, dall’apparire autoidolatra.
Ci troviamo innanzi ad una nuova forma di seduzione: alla relazione duale del gioco della seduzione tradizionale si sostituisce l’atomismo seduttivo, in cui l’altro è l’oggetto che deve confermare il fascino del seduttore. Ai contenuti, alla passione che guida all’ascolto dell’altro subentra la solitudine del piacere privato, alla parola significante subentra il gesto. Anzi il linguaggio è sempre più elementare, deve parlare la fisicità, la posa che mentre proclama la libertà, in realtà desidera sedurre e dominare:

«Meno i politici hanno grandi idee, più si sforzano di acquisire una grande visibilità e sono presi dal panico all’idea di rimanere o diventare sconosciuti. Quando le grandi ambizioni di cambiare il mondo scompaiono, resta la magia della celebrità, poiché permette di provare la giubilazione di farsi vedere, mostrarsi, provare il godimento narcisistico della divinizzazione di sé. Poiché la visibilità sociale modifica la percezione di sé, aumenta il senso del proprio valore, lusinga l’ego e la stima di sé: essa è uno strumento di autoseduzione che intensifica il sentimento di esistere e di essere “importanti».[3]

Il grande seduttore è oggetto della forza che vorrebbe esercitare, la frustrazione e l’alienazione sono parte della sua esperienza, ma la velocità con cui vive e consuma i suoi gesti, i desideri, i bisogni indotti lascia che il malessere muto resti sullo sfondo: si possiede tutto, ma non si vive nulla, il mondo diviene in tal modo un accumulo inaudito di merce e possibilità senza sapore. Il narcisismo seduttivo dell’homo consumericus si ribalta in frigidità sostanziale, la velocità con cui le emozioni si susseguono lasciano il vuoto. Non vi è memoria, non vi è traccia, per cui i piaceri e le emozioni sono sempre più forti e pericolosi, in modo da avere l’illusione di vivere con pienezza:

«Il senso di alienazione di sé rimanda al fatto che viviamo in un mondo di velocità sfrenata il quale ci diventa sempre più estraneo, impenetrabile, insoddisfacente poiché cancella ogni vera appropriazione personale. Possediamo sempre più libri o DVD, ma non ci prendiamo il tempo di “digerirli”; navighiamo rapidamente sulle pagine della rete senza leggere nulla fino in fondo; facciamo zapping su qualunque cosa; guardiamo la televisione per ore senza trarne veramente piacere; non ci prendiamo il tempo di imparare perché questo tempo divora troppo tempo; ci sentiamo impotenti di fronte alla complessità degli oggetti tecnologici i cui modelli cambiano in continuazione».[4]

Pedagogisti dell’edonismo
La pedagogia alimenta la didattica veloce, i saperi minimi, l’offerta formativa, esperienze da vivere e vendere su un mercato del lavoro in perenne metamorfosi e che esige il continuo sacrificio dei suoi lavoratori. Pedagogia complice del sistema, gli economisti sono affiancati da “esperti della didattica”, che invitano a sostituire i contenuti con esperienze didattiche incentrate su obiettivi minimi, perché nulla deve fermare l’incanto dei consumi: il tempo utilizzato per capire è sottratto al consumo, per cui gli appelli degli esperti a non dare troppi compiti, a non traumatizzare debiti (rimandare a settembre nella neolingua dell’economicismo), a non dare compiti per le vacanze, al sabato libero, a posticipare l’inizio delle lezioni, altrimenti il sistema potrebbe incepparsi nel pensiero e nel contenuti. Il liceo classico è sconsigliato, perché astratto, perché il vecchiume delle lingue morte potrebbe disorientare nella scelta universitaria che dev’essere “libera”, ma orientata verso le facoltà produttive, ovvero tecniche. Sono i nuovi oratores che circolano nelle istituzioni per mutarne la natura, per asservirle alle logiche del mercato.
Lipovetscky, dinanzi all’avanzare del nuovo capitalismo immateriale, ritiene che l’unico argine sia la cultura. L’istituzione scolastica deve arginare l’inebetimento con la formazione critica:

«Che cosa modificherà l’ethos consumistico? La riduzione dell’inebetimento di massa passa attraverso una formazione scolastica e artistica di qualità. È su questa che la nostra epoca deve investire affinché le sirene consumistiche rimangano al posto che spetta loro».[5]

 

Ipermodernismo
Lipovetsky si dichiara ipermodernista. Constata la fine delle grandi narrazioni, l’affermarsi del potere seduttivo che tutto pervade, e giudica la formazione il luogo dove tale deriva può essere letta ed arenarsi. Lipovetsky pecca di astrazione. Le istituzioni formative sono interne al sistema, così come i suoi operatori. Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative e con esse il logos. Se la Filosofia ha rinunciato alla verità e si limita ad una critica sociologica che, per quanto acuta, non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti. Naturalmente gli appelli alla formazione non possono che restare tali, o anche essere accolti per colte discussioni-spettacolo. Il teatrino della democrazia formale è sempre in attività.
Un nuovo inizio è sempre possibile, è una scommessa, ma non può che avere l’abbrivio dalla metafisica che deve arginare il relativismo e la cultura dell’irrilevanza che legittima la riduzione a spettacolo di ogni manifestazione culturale e dell’essere umano.
Il pensiero debole non può che essere fonte di conferma dello stato attuale. Bisogna constatare il fallimento del postmodernismo con i suoi alfieri, per rimettere in cammino la storia con la sua verità. Il postmodernismo e l’ipermodernismo descrivono il capitalismo nella sua effettualità, il quotidiano vissuto entro il confine dell’utile, ma restano interni ad essi, perché non escono dalla gabbia del relativismo:

«L’antico principio secondo il quale l’acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione (Bildung) dello spirito, e anche della personalità, cade e cadrà sempre più in disuso. Questo rapporto fra la conoscenza ed i suoi fornitori ed utenti tende e tenderà a rivestire la forma di quello che intercorre fra la merce ed i suoi produttori e consumatori, vale a dire la forma valore. Il sapere viene e verrà prodotto per essere venduto, e viene e verrà consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi, per essere scambiato».[6]

L’oblio della verità e dei perché
L’oblio della verità, la rinuncia ad essa, non permette di uscire dal paradigma dell’utile. Si constatano gli effetti del capitalismo, ma lo si ipostatizza, in quanto ogni progettualità alternativa è annichilita dal vuoto ontologico e metafisico. Pertanto gli appelli rivolti alla formazione ricadono su stessi, non interrompono, né deviano il capitalismo dal suo onnipotente radicarsi. Il postmodernismo si aggira tra le rovine della dialettica marxista, l’impossibilità di prevedere la storia ha portato via con sé ogni metafisica della verità consegnando la filosofia ad un ruolo ancillare rispetto alle scienze ed all’economia. Per uscire dal postmodernismo ed approssimarsi alla verità è necessario, in primis, riattivare la catena dei perché senza i quali la storia è consegnata alla palude del relativismo nella quale il capitalismo immateriale può proliferare, in quanto non incontra alcun limite. La catena dei perché riporta in scena con la filosofia la speranza che mai è scissa dalla verità:

«È necessario dunque “riaprire la catena dei perché”. Prendo a prestito questa espressione del defunto Franco Fortini, che mi onorava della sua stima e della sua amicizia (e che non avrebbe quasi sicuramente condiviso né la lettera né lo spirito di questo saggio). Quando nel 1956 il sinedrio dei gran sacerdoti del comunismo, capitanati dal mediocre contadino ucraino Nikita Krusciov, decise di detronizzare il papa georgiano defunto Giuseppe Stalin, Franco Fortini scrisse che bisognava “riaprire la catena dei perché”, a cominciare ovviamente dai perché fondamentali rimossi, ed aprire un dibattito liberatore fra tutti coloro che praticavano il marxismo, sostenevano il socialismo e credevano nel comunismo».[7]

Senza le grandi domande non vi sono che piccole risposte, pertanto è necessario porre in epochè il relativismo.
Il linguaggio attuale è puramente descrittivo. Si utilizza il registro linguistico positivistico in ogni ambito, si vuole neutralizzare la domanda sostituendola con la descrizione senza spiegazione profonda. Il linguaggio neutro dev’essere smascherato nel suo vacuo spessore ideologico: si presenta come neutro ciò che in realtà non è che espressione degli interessi di parte. Il linguaggio anonimo vorrebbe convincere dell’oggettività delle decisioni politiche per inibire ogni domanda. La lingua inglese, lingua dei vincitori, insidia le patrie, logora le comunità ed erode la domanda filosofica, in quanto non solo sostituisce la creatività della lingua madre, ma specialmente è lingua utilizzata per le sole comunicazioni commerciali e tecniche. Lingue anonime, senza profondità, formano soggetti irrilevanti che credono nel destino degli eventi storici.
I perché fanno fatica ad emergere sotto la cappa della lingua alienata. La sfida è far riemergere, con i perché, un’altra lingua, un altro pensiero che possa leggere la lingua del capitale per trascenderla. Senza verità non vi è radicamento, né progetto: la filosofia senza la verità non è che parte dello sradicamento globale e del meccanicismo economicista.

Doppio furto
È necessaria la critica filosofica forte per mostrare in modo radicale che mentre si proclama la morte delle ideologie, si cela il dato essenziale: il capitalismo immateriale è ideologia che tutto pervade, ma non vuole essere sottoposto al giudizio dei singoli, delle comunità, dei popoli, per rendere il suo trionfo indiscutibile. Senza verità non vi è radicamento, né progetto. La filosofia senza la verità non è che parte dello sradicamento globale e del meccanicismo economicista. Con il capitalismo immateriale si commette un doppio furto: la proprietà e la verità. Ogni concetto di proprietà pubblica, in cui la comunità ritrova se stessa, è stato occultato e criminalizzato in nome dell’utile privato. I monumenti in cui è conservata la memoria dei popoli divengono “petrolio” per il plusvalore, ma specialmente la verità è il furto per eccellenza. E questo furto si perpetua ogni giorno a danno dei popoli. Senza verità non vi è consapevolezza, né politica, ma solo eterno tatticismo, finzione della partecipazione. Senza verità i popoli divengono plebe nel pascolo del capitalismo. L’urgenza, non solo filosofica, è la verità. Essa risorgerà al di fuori degli ambienti accademici. Solo con la verità vi può essere un nuovo inizio.

Salvatore Bravo

[1] Gilles Lipovetsky, Piacere e Colpire. La società della seduzione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019, pp. 217-218.

[2] Ibidem, pp. 218-219.

[3] Ibidem, p. 267.

[4] Ibidem, p. 347.

[5] Ibidem, pp. 387-388.

[6] Jean François Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 2019, p. 12.

[7] Costanzo Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia 2004, p. 5.

Erling Kagge – Solvitur ambulando. Camminare è un gesto sovversivo. È metafora del pensare. Camminare è sapere.

Erling Kagge 01

Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.

K. Kavafis

Salvatore Bravo
La metafora del camminare

Camminare, in molte culture, è metafora del pensare. Chi cammina ha una meta, vive un’esperienza, elabora immagini e stimoli: con le immagini si configurano i concetti.
Si cammina con gli altri: il cammino è un incontro, è il rivelarsi dell’altro alla nostra presenza, ci si conosce ed auto-riconosce nello spazio pubblico nel quale si cammina. L’astratto è trasceso dal concreto nell’atto del camminare. Si cammina in uno spazio pubblico, si condivide lo spazio con il camminare e si impara a convivere in uno spazio dato. Nel camminare ci si riappropria dello pubblico spazio, si osserva la vita della propria comunità, si partecipa alle sue metamorfosi.
Camminare non è corsa fugace tra cose ed esseri umani: camminare è conoscenza. La storia di ogni comunità vive nei gesti del quotidiano: imparare a camminare, vivere lo spazio pubblico è esperienza di consapevolezza delle possibilità e delle potenzialità della comunità. In molte culture vivere è camminare. È immagine di un percorso con i suoi bivi. Nella sua dinamicità accade che il caso è sostituito gradualmente dal cammino verso un fine. Camminare svela la multilinearità dei percorsi, rivela la finitudine dinanzi all’immenso: anche Eraclito affermava che per quanto si cammini nella propria anima i confini non saranno mai raggiunti (fr. 45).
Lo spazio ed il tempo, il senso interno ed esterno sono dunque speculari:

«Le lingue create dagli uomini rispecchiano l’idea che la vita sia una lunga camminata. In sanscrito, una delle lingue più antiche al mondo e originaria dell’India, il concetto di passato è espresso con il termine gata, “quel che abbiamo camminato”, mentre il futuro si chiama anagāta “quel che non abbiamo ancora raggiunto”. Il termine gata è imparentato con il norvegese gått (“andato”). Come è naturale, in sanscrito il presente è associato al significato di “quel che si manifesta proprio di fronte a noi”, pratyutpanna».[1]

Mentre si cammina lo spazio ed il tempo seguono il ritmo del passo, se si accelera lo spazio ed in tempo si contraggono in segmenti brevi e tutto sfugge all’attenzione, ma se si rallenta il mondo entra in contatto con noi, i volti degli altri non hanno solo un profilo, comunicano con i loro gesti la loro storia, gli sguardi e i gesti sono simili a testi che invitano alla decodifica, all’ermeneutica senza la quale non vi è che un passaggio veloce in cui inizio e fine del percorso sono uguali. L’accelerazione dei ritmi, la corsa in funzione del “benessere fisico”, il giudizio sprezzante verso la lentezza è indicativo di forme di alienazione che si concretizzano in ritmi sempre più veloci: le tecnologie, le comunicazioni, la brevità dei testi con i msg, rafforzano i poteri che si installano nelle relazioni (Gestell). Il soggetto è cosi una cosa (Ding) dal ritmo veloce. Chi sa camminare sa studiare, sa emanciparsi, e ciò necessita dell’ascolto del proprio e dell’altrui ritmo.

 

L’esperienza del concreto
La cultura dell’astratto insegna la divisione, a parcellizzare senza sintesi. La Filosofia con il suo metodo genetico genealogico non enumera parti, ma le ricongiunge al fine di individuarne il fondamento. Il camminare non si può ridurre ad una semplice azione dipendente da una serie di organi, è piuttosto l’immagine dell’unità, dell’interazione dell’esterno e dell’interno: ogni gesto, ogni parola, ogni passo è relazione biunivoca col mondo, col contesto in cui la vita è in atto. La cultura dell’analisi, dell’atomizzazione non riguarda solo il sociale, ma è struttura cognitiva trasversale per cui ogni comportamento umano è diviso, analizzato nelle funzioni anatomiche, si perde in tal maniera il senso del gesto:

«I piedi sono in comunicazione con gli occhi, le orecchie, il naso, le braccia, il busto e le sensazioni, in un dialogo spesso troppo rapido perché la mente riesca ad afferrarlo. I piedi ci portano avanti con precisione. Percepiscono il suolo e tutto ciò con cui la zona plantare viene a contatto. Registrano impressioni e poi fanno un passo in avanti o di lato. I piedi sono strutture meccaniche forti e complesse. Con ventisei ossa, trentatré articolazioni e più di cento tendini, muscoli e legamenti, tengono il corpo eretto e in equilibrio. Hanno cominciato a svilupparsi prima che i nostri antenati assumessero la posizione eretta. Queste trasformazioni dipendevano dalla necessità di adeguarsi all’ambiente circostante per poter sopravvivere, ma nel corso del tempo – in oltre due milioni di anni – quel che una volta i norvegesi facevano per necessità è diventato un piacere. Non avendo più bisogno di farlo, attraversare un campo a piedi, scalare una montagna, inerpicarsi su una rupe o addentrarsi in un bosco alla ricerca di un posto per accendere un fuoco sono diventate attività di svago. I piedi, che hanno avuto il compito di aiutare l’uomo a sopravvivere e sono ancora importanti per la sopravvivenza in gran parte del mondo, oggi sono diventati i nostri mezzi per trovare una buona postazione in spiaggia, prendere una scorciatoia per tornare a casa, infilarsi in camera da letto o passeggiare per allontanare i problemi».[2]

 Contro ogni cultura dell’astratto, camminare rivela che si pensa con la totalità del corpo vissuto, ogni dualismo si annichilisce dinanzi all’osservazione fenomenologica. Pensare è camminare, i concetti prendono forma al ritmo del passo, al contatto con il mondo, le parole emergono nella concretezza della relazione. Socrate, nel Menone, cammina sulla spiaggia con lo schiavo; mentre camminano dialogano, si fermano: il dialogo sul teorema di Pitagora raffigurato sulla sabbia permette la concettualizzazione della teoria della reminiscenza. Merleau-Ponty nega l’esistenza della diade “esterno interno”, pensare implica la totalità concreta dell’essere umano, le scissioni sono elaborazioni posteriori:

«Socrate fu posto di fronte a un problema simile: “E come cercherai quello che tu ignori pienamente?”. Per duemilaquattrocento anni i filosofi si sono interrogati su questo dilemma – anche chiamato Paradosso di Menone, dal nome del sofista che avrebbe fatto la domanda a Socrate. Nel 1942 il filosofo Maurice Merleau-Ponty propose quella che secondo me è una buona risposta, nella quale può riconoscersi chiunque cammini molto: l’uomo pensa con tutto se stesso. Sia con la testa sia con il corpo. Merleau-Ponty partiva dal presupposto che il corpo non sia solo un insieme di atomi che compongono carne e ossa. Noi conosciamo, custodiamo i ricordi e riflettiamo con le dita dei piedi, i piedi, le gambe, le braccia, la pancia, il petto e le spalle. Non solo con la mente e con l’anima, sulle quali si era soffermato Socrate. Merleau-Ponty aveva afferrato qualcosa su cui in seguito si sono concentrati anche neurologi e psicologi: nella sua interezza l’uomo intrattiene un dialogo costante con quel che lo circonda. “Non v’è uomo interiore: l’uomo è nel mondo, e nel mondo egli si conosce”. Per elaborare quel che stiamo vivendo quando guardiamo, annusiamo o ascoltiamo qualcosa, utilizziamo informazioni che sono già immagazzinate nel corpo».[3]

 Socrate dialogava con tutti nell’agorà, era il tafano che infastidiva con le sue domande, ma le grandi domande esigono il vuoto del tempo, la sospensione dell’homo faber, il camminare è esperienza della lentezza della concettualizzazione. Kierkegaard viveva il pungolo nella carne nelle strade di Copenaghen:

«Quando il filosofo greco Diogene fu messo di fronte al paradosso che il movimento non esiste, rispose solvitur ambulando, ovvero: “Si risolve camminando“. Socrate se ne andava in giro per Atene, poneva domande, dialogava. Charles Darwin si metteva in moto due volte al giorno e aveva persino il suo thinking path, «percorso del pensiero». Come Socrate, anche Søren Kierkegaard era un filosofo della strada. “Camminando ho incontrato i miei pensieri migliori”, scrisse. Vagava per Copenaghen, interrogava i passanti, gli metteva un braccio sulle spalle e li seguiva per un pezzo, aspettava le risposte, poi li lasciava andare e proseguiva per conto suo. Alla fine se ne tornava a casa, dove invece non faceva entrare nessuno, e riversava nei libri le impressioni raccolte fuori». [4]

 

Seduti
Il mondo è organizzato per impedire l’autoriflessione, il pensiero concettualizzato. Dietro l’accelerazione dello spazio e del tempo, nella retorica del viaggio “a qualsiasi costo”, al girovagare interminabile per il pianeta per acquisire immagini da mostrare come trofei di caccia, vi è un valore aggiunto: non è solo l’economicismo a spingere verso il viaggio perenne in cui consumare se stessi ed il pianeta, ma specialmente è il pensiero, il concetto ad essere inibito. Viaggi organizzati contro ogni inconveniente, il mondo smart, è il mondo in cui, mentre ci si muove perennemente si sta seduti, si guarda il mondo, spettatori della società dello spettacolo. Il mondo è un grande spettacolo a cui si assiste passivamente nell’accadere degli eventi, liberi dalla responsabilità etica. Notoriamente lo spettatore è seduto anche quando sgambetta. L’ultimo uomo ha trovato la sua espressione massima nel capitalismo assoluto: deambulare per consumare, il diritto individuale contro ogni universale. Le navi da crociera all’arrembaggio di Venezia testimoniano che ci si può muovere, ma stare seduti, e quindi l’atto del creare concetti rallenta con l’aumentare del velocità:

«Il mondo è organizzato in modo da tenerci il più possibile seduti. L’invito alla posizione seduta è legato, da una parte, al desiderio delle autorità che tutti contribuiamo al prodotto interno lordo e, dall’altra, al bisogno delle imprese che, quando non produciamo, consumiamo».[5]

Camminare invece è rivoluzionario. Si impara a stare al passo con gli altri. Camminare è sintesi di individuo e collettività. La Rivoluzione francese è un camminare teleologico, la trasformazione del reale concettualizzato. Ghandi, con la marcia del sale, dimostra che un popolo in cammino non si può fermare, che il camminare è il concetto che diventa agire ed il potere teme la circolazione delle idee sui piedi molto più delle armi.

Ogni grande azione, trasformazione, prassi, inizia col camminare. Nella storia il camminare significa fendere le resistenze, trascendere le contraddizioni, dare avvio ad un nuovo inizio nel rispetto della memoria storica. Camminare è sapere:

«In sanscrito camminare non è solo una metafora del tempo, ma anche del “sapere”: gati. La metafora resiste anche in norvegese, in cui passare (gjennomgå) per qualcosa significa conoscerla. Chi ha creato la lingua sanscrita, tuttavia, ha voluto che il messaggio fosse ancora più chiaro e ha stabilito una regola: sarve gatyarthā jñānārthāś ca, tutte le parole che cominciano con “andare/camminare”, hanno anche il significato di “sapere”».[6]

 

Camminare con la dialettica

In Marx il rovesciamento della dialettica hegeliana, è riportare al centro il concreto. Ogni essere umano è all’interno di un determinato modo di produzione, appartiene alla sua storia. Le idee che lo attraversano, che lo definiscono, sono la sovrastruttura, ma struttura e sovrastruttura se gli danno concretezza, non esauriscono le possibilità umane. La dialettica è il cammino che trascende il livello ideologico per donargli l’universale. Nel Capitale Marx fa della dialettica il fondamento di una rivoluzione che ha il suo fondamento nella storia:

«Ho criticato l’aspetto mistico della dialettica hegeliana ormai trent’anni fa, quando appunto essa era ancora di moda. Ma Hegel non cessa dall’essere stato il primo ad esporre il movimento complessivo. In Hegel essa (la dialettica) cammina sulla testa; basta rimetterla in piedi per darle una fisionomia completamente ragionevole».

 

Senza cammino non c’è rivoluzione
Il quarto stato (1901) di Pellizza è un dipinto che raffigura la storia in cammino, l’atto del progredire attraverso l’avanzare del popolo non più plebe. Non si deve confondere il movimento con il camminare. Il movimento è il camminare depotenziato di ogni fine e concetto. Se soltanto ci si muove si è eterodiretti. Al movimento bisogna contrapporre l’autonomia del camminare. Le rivoluzioni cominciano con cammini lenti e solitari.
Camminare è un gesto sovversivo, senza il quale non vi è alcun inizio.

Salvatore Bravo

[1] Erling Kagge, Camminare. Un gesto sovversivo, Einaudi, Torino 2018, p. 10.

[2] Ibidem, p. 36

[3] Ibidem, pp. 43-44.

[4] Ibidem, p. 51.

[5] Ibidem, p. 53.

[6] Ibidem, p. 86.

Pierre Zaoui – L’arte della discrezione dipende da un gesto autenticamente metafisico. Fare filosofia oggi significa innanzitutto rinunciare all’apparizione e orientare i propri pensieri su ciò che è vivo, ben lontani dal circo mediatico.

Pierre Zaoui 01

 

Salvatore Bravo

Lo spirito del tempo (Zeitgeist) si rivela solo nella discrezione, nel sospendere l’attività meccanica ed automatica dello stimolo-risposta: il filosofo deve vivere la discrezione, deve essere la parola viva della discrezione che rompe la violenza del circo mediatico dei nuovi oratores.

 

 

La discrezione
La società dei bisogni senza comunità è il luogo dell’eccesso: ogni misura è negata, messa al bando. Il consumatore – come la merce – deve apparire, essere visibile: lo splendore del patibolo (il mercato) non può che essere atto di infinita potenza. La società pornografica deve esporre, vendere, apparire: nulla deve restare implicito, nulla deve sfuggire alle maglie del controllo mediatico. In tale maniera si ottiene un duplice effetto: il mercato, come sovrano assoluto, è sempiterno, si riproduce spinozianamente nei sudditi consumatori; nello stesso tempo il suddito è perennemente sottoposto alla vigilanza del consumo. Il modo di produzione capitalistico si autogenera nei sudditi. La democrazia liturgica, suo sgabello, forma il suddito imprenditore che vota per confermare la condizione di gettatezza di ciascuno. La formazione è minima e veloce come le relazioni umane: nulla deve interrompere il ciclo di produzione ed autoproduzione dell’angloglobalizzazione (Costanzo Preve). L’esporsi continuo al mondo e nel mondo è l’altro volto del declino di una virtù che permette lo spirito di scissione (Gramsci): la discrezione. Per discrezione si intende la virtù dello scomparire, del ritrarsi dal mondo e dai suoi stimoli, per pensare, per appartenersi mediante il concetto (Begriff). L’esperienza del pensare è paragonata da Platone all’esercizio della morte (Fedone, 64A-65A; 65B-E), perché attraverso di essa ci si sottrae al mondo, per pensare, per concettualizzare. Lo scomparire (discrezione) è dunque capacità non solo di pensare, ma è di ausilio al pensiero altrui: ogni comunità solidale ed autentica (Gemeinschaft) non può che apprezzare ed educare alla discrezione, poiché il ritrarsi è lasciare spazio all’altro perché possa elaborare un percorso maieutico. L’apparire continuo, la trasparenza, l’esposizione all’abbaglio mercantile ed all’essere tracciato è un modo per rendere nulla la possibilità del pensare, è la messa in atto, con l’esca del narcisismo, dei processi di alienazione (Entfremdung). L’essere umano estraneo a se stesso ed alla comunità è così più facilmente dominabile:

«La seconda, più profonda, perché l’idea stessa di una discrezione continua costituisce quasi una contraddizione in termini. Nel suo significato etimologico, infatti, discrezione viene dal latino discretio, che significa «discernimento, separazione, distinzione», cosa che si sente ancora nell’inglese discretion, e che ha stabilito il significato matematico di discontinuo. Non potremmo dunque essere costantemente discreti, dal momento che la discrezione stessa presuppone una dialettica più sottile dell’apparizione e della scomparsa, della mostrazione e del riserbo. In ogni caso, è in questo senso che l’arte della discrezione ci sembra dipendere da un gesto autenticamente metafisico, se non addirittura all’origine teologico, che mira a costituire il suo concetto differenziandolo da esperienze prossime ma distinte tra loro: quelle antiche e mondane del tatto, del pudore, del contegno, della cortesia, e quelle religiose dell’umiltà, del distacco o del ritiro dal mondo».[1]

 

Senza discrezione non vi è che la società dei bisogni (Gesellschaft), il regno animale dello spirito nel quale ogni atomo è in preda al desiderio compulsivo di apparire-accumulare per togliere spazio vitale all’altro.

 

Totalitarismi
I totalitarismi sono sistemi in cui alla politica, alla partecipazione, alla decisione da esplicarsi nei luoghi istituzionali si sostituisce l’ossessione del controllo: ogni cittadino è un potenziale oppositore, per cui è necessario individuare modalità con cui tracciare il pensiero, orientarlo verso un obiettivo, deviarlo dal soggetto per muoverlo verso obiettivi “graditi” ed “innocui”: microfisica del controllo, trionfo della tecnocrazia.
Il totalitarismo che stiamo vivendo, il capitalismo assoluto, quantifica ogni gesto, lo misura, lo archivia per studiarne le possibilità di sublimazione mercantile, pertanto invita a parlare, a mettersi continuamente sotto i riflettori, mette in campo la filologia delle espressioni per entrare nella mente ed impiantare il desiderio del sistema capitale (Gestell). Al soggetto non deve restare nulla, solo la liturgia, il velo di Maya della democrazia formale. Senza discrezione lo spazio pubblico, che si definisce tale rispetto alla discontinuità dell’apparire, non è più tale, e dunque non vi è politica, ma solo la violenza dell’atomismo sociale:

«I totalitarismi si sono spinti al punto di dare la caccia ai segreti di ciascuno fin dentro il suo organismo (con tutta una nuova farmacopea: siero della verità ecc.), fin nei suoi sogni (manipolandone il sonno). Certo, sono avvenute cose più terribili: le sevizie passate sotto silenzio, i massacri di massa, Auschwitz e Kolyma. Ma nell’ordine dell’infamia, può essere che questa impossibilità di nascondersi venga subito dopo questi orrori sconvolgenti. Perché una vita senza segreto, senza mistero, senza zone d’ombra, senza spazi interstiziali tra sé e gli altri, così come tra sé e sé, è una vita destinata al terrore assoluto e senza limiti, che alla fine distrugge in noi ogni residuo di umanità. Hannah Arendt l’aveva già capito molto bene sin dalla fine degli anni Quaranta: “Premendo gli uomini uno contro l’altro, il terrore totale distrugge lo spazio tra essi”. Ora, questo «spazio tra», questo Zweiraum, è lo spazio minimo della libertà, che permette di avvicinarsi e allontanarsi in modo alternato, di parlare e tacere, di farsi vedere e nascondersi, ed è uno spazio molto più vitale dell’immondo Lebensraum hitleriano. È in questo senso, d’altronde, che i sistemi totalitari si distinguono dalle semplici tirannie “ordinarie”: queste si accontentavano di eliminare gli oppositori politici palesi e la vita politica libera, ma lasciavano il resto della popolazione in una penombra più o meno tranquilla, mentre i sistemi totalitari fanno di ogni cittadino un potenziale oppositore o traditore, che va quindi sorvegliato e controllato costantemente. Le tirannie distruggevano ogni spazio e ogni tempo pubblico, i totalitarismi colonizzano e distruggono ogni spazio e ogni tempo, di tutti e di ciascuno. Le tirannie obbligano tutti alla discrezione, a ritirarsi dalla vita pubblica, ma i totalitarismi si spingono fino a distruggere la possibilità stessa della discrezione – quella che Hannah Arendt chiama desolazione (loneliness), ovvero una solitudine radicale e senza alcuna apertura possibile al di fuori di sé».[2]

I totalitarismi esigono che vi sia l’olocausto (hòlos, “tutto intero”, e kàiō, “brucio”) della discrezione, puntano sulla colonizzazione della mente, sulla separazione, sulla frammentazione. I processi di individualizzazione e soggettivizzazione sono finalizzati a rendere impossibile l’opposizione, a ridurla ad una presenza marginale e silenziosa, le luci del narcisismo di massa soverchiano lo spirito di scissione, lo rendono un’inutile variabile del sistema capitale.

 

Discrezione e filosofia
L’opposizione, il no concettualizzato, malgrado tutto esiste, perché se si crede nell’essenza della natura umana (Gattungswesen), non si può che agire e sperare, affinché la vita umiliata ed offesa possa riconoscere e razionalizzare lo stato presente. Il filosofo, per essere tale, deve sottrarsi al gioco dell’apparire per coltivare la discrezione, virtù del pubblico; la parola del filosofo e degli amici della conoscenza devono circolare, perché possa formarsi la consapevolezza pubblica, per la quale sono necessarie le contingenze storiche ed i concetti:

«Certo, Deleuze e Hegel sostengono filosofie antagoniste, ma è giocoforza constatare che sono d’accordo almeno su un punto, forse uno solo, però in concordanza assoluta: il grigio è il vero colore della vita dello spirito. Perché non bisogna lasciarsi imbrogliare dalla finta malinconia di Hegel: in verità, non rimpiange nulla degli ori e dei colori del passato, di un’arte del bello che non ha più nulla da dirci, ama il grigio, la secchezza del concetto, la riduzione di ciò che appare variopinto a ciò che scompare nella propria verità. E, altrettanto, non bisogna lasciarsi ingannare dall’apologia di Deleuze e Guattari in favore di tutti i desideri, di tutte le forme di vita: in verità, sono anch’essi sedotti quanto Hegel dall’asciuttezza e dalla spoliazione del pensiero, tanto da arrivare a sostenere, nell’Anti-Edipo, che non sopportano i marginali perché «danno troppo nell’occhio». Il punto è questo: dall’inizio del XIX all’alba del XXI secolo, i filosofi, anche i più distanti tra loro, hanno condiviso la passione per il discreto, l’impersonale, il non appariscente, vale a dire per il pensiero più che per il mostrato, e hanno anche mandato completamente in frantumi il modello antico e medievale che voleva che ogni non-apparizione, discrezione apparente, non lo fosse che in nome di un’apparizione più reale, in sé (ai propri occhi) o a venire (agli occhi di tutti, un giorno, nella posterità). La discrezione ha smesso di essere pensata e vissuta come l’attesa del suo contrario, è diventata affermazione di se stessa. Da un simile punto di accordo, si può trarre forse un unico insegnamento, ma di grande peso: fare filosofia oggi, quali che siano il suo livello e le sue pretese, significa innanzitutto rinunciare all’apparizione. Non tanto perché sarebbe un male in sé, ma perché vorrebbe dire rinunciare a pensare lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, che si trova appunto nella scomparsa, la discrezione. Da questo punto di vista, non bisogna dunque formalizzarsi troppo rispetto a tutti quelli che, ancora oggi, si lasciano reclutare nel circo mediatico o sociale: non sono colpevoli, stanno semplicemente dalla parte di uno spirito che è morto. Si tratta unicamente di orientare i propri pensieri su ciò che è vivo: tutto ciò che si vive, si crea, si pensa, si condivide oggi è ben lontano da un simile circo».[3]

 

Lo spirito del tempo (Zeitgeist) si rivela solo nella discrezione, nel sospendere l’attività meccanica ed automatica dello stimolo-risposta: il filosofo deve vivere la discrezione, deve essere la parola viva della discrezione che rompe la violenza del circo mediatico dei nuovi oratores.

Salvatore Bravo

[1] Pierre Zaoui, L’arte di scomparire. Vivere con discrezione, il Saggiatore, Milano 2015, pag. 18.

[2] Ibidem, pag. 55.

[3] Ibidem, pag. 64.

Andrea Tagliapietra – «La metafora dello specchio». Lo specchio, mostrando ciò che non può essere significato, cioè l’essere riflesso del riflesso, è testimone della verità dell’apparire in quanto darsi veritiero della menzogna.

Andrea Tagliapietra 01

Specchio ed auto-riconoscimento

Riflessioni di Salvatore Bravo


 I miti greci ci parlano, continuano a raccontare di noi, della eterna lotta per trascendere la soglia dalla caverna. I miti, relegati a sapere secondario, se ascoltati ci raccontano della condizione umana e della prassi, dell’agire della coscienza per uscire dal dominio dell’immagine irriflessa. Il testo di Andrea Tagliapietra, La metafora dello specchio, insegue il significato simbolico dello specchio – e dei miti afferenti – per rivelarci i processi di consapevolezza attraverso i significati custoditi nei simboli dei miti. Solo attraverso il processo di auto-riconoscimento allo specchio, colui che guarda può riconoscersi e riscoprirsi in una soggettività non più gettata o situata, ma pensata mediante la chiarezza del concetto e del linguaggio.
Lo specchio è metafora della verità e della necessità: si giunge al logos, alla ragione, mediante un processo concreto che parte dall’immediatezza dell’astratto ed arriva al concreto, nel quale il soggetto che si specchia si scopre implicato nel tutto, nei segni che si riflettono nel soggetto che guarda. Lo specchio è così immagine archetipica e metaforica di una crescita, di un passaggio senza il quale l’astratto prevale, annichilendo il soggetto nella trappola della doxa (δόξα). L’immagine che si mostra dev’essere interpretata, i segni devono essere correlati, la tela del mondo dev’essere ripensata e riscritta dal soggetto: senza tale attività il soggetto vive il silenzio dell’immediatezza, resta sulla soglia del logos. Lo specchio dona all’interpretante che oltrepassa la soglia dell’immagine la consapevolezza dell’illusione ed indica la via che porta alla verità, la svela (ἀλήθεια). Ciò che appare, il fenomeno (ϕαινόμενον), non è la verità, la filosofia è, dunque, attività che toglie all’immagine la sua illusione per restituire la verità. La filosofia guarda dietro l’immagine, non affonda nell’immagine, ma scopre che l’immagine riflessa è parte del soggetto; ogni feticismo cade per donare la complessità relazionale del segno:

«Lo specchio è la presenza del mondo a se stesso e, quindi, quello stesso specchio può solo mostrare la presenza, manifestarla, non dirla secondo i modi della rappresentazione, secondo il gioco dei significanti e dei significati. Lo specchio è la soglia del mondo dei segni e della mediazione, perciò è immediato e non si può significare. Lo specchio restituisce ciò che appare ma, insieme, mostra l’essere di ciò che appare, di ciò che è segno potenzialmente menzognero, indica la verità del suo essere altro da ciò che nel mondo dei segni appare. Nell’esprimere l’illusorietà della conoscenza lo specchio di Dioniso manifesta la conoscenza dell’illusione. Il mondo che appare è altro da ciò che vuole apparire: lo specchio, mostrando ciò che non può essere significato, cioè l’essere riflesso del riflesso, è testimone della verità dell’apparire in quanto darsi veritiero della menzogna».[1]

Lo specchio è anche metafora di una tragica verità, ci parla della regressione ad uno stato mitico nella contemporaneità. Ciò che appare sulla parete della caverna mediatica è accolta non solo come verità, ma specialmente come accade nel mito l’immagine riflessa reca una cesura tra il soggetto e l’oggetto, per cui non resta che il silenzio del logos, ciò che il soggetto guarda, quindi, non ha altro significato che l’immediato accadere. La fatalità ha il sopravvento sui processi di decodifica e responsabilità.

L’autoriconoscimento
L’autoriconoscimento deve passare per il doppio, ci si deve specchiare, guardarsi, riconoscersi, scindersi per arrivare alla consapevolezza di sé; senza lo sdoppiamento ed il pericolo di perdersi in esso, non è possibile attivare la consapevolezza che il soggetto pone il mondo, e dunque è implicato in esso, ne è responsabile con le sue azioni, con il suo agire, con il suo linguaggio. Il soggetto non può effettuare la sua catabasi, la sua discesa (κατάβασις), senza l’esperienza tragica ed emancipatrice del doppio. Se siamo parte del tutto, non ci si può esimere dalla responsabilità etica e politica. La morale emerge all’interno dei processi di rispecchiamento e riflessione su di esso; con la morale si delinea la politica: non siamo essere astratti, avulsi dal tutto, ma siamo all’interno di un mondo di significati che contribuiamo a formare:

«Tuttavia lo specchio di Dioniso insegna l’eccedenza: il dio che si specchia è parte di quel tutto mondo specchiato in cui, appunto, accade anche l’individuazione del dio che si specchia. Davanti allo specchio non più la violenza dell’Uno, non più la pretesa dell’Originale, bensì “tessere spezzate”, semplici metà, in una parola simboli: la metà è insieme l’unità e il doppio, se stessa come Uno e come metà dell’Uno, evocando l’unità della coppia, il maschile/femminile della bisessualità originaria che riunifica Eco la parola senza corpo al corpo del desiderio, al corpo di Narciso, ancora muto come il “segno” di un fiore».[2]

 

La medusa
Nel volto della medusa il mortale (βρότος), l’essere umano vive l’esperienza estrema, nel volto della medusa è riflessa l’alterità assoluta: il nulla. La medusa ha gli occhi cavi, nelle orbite non vi è che il buio del nulla. L’esperienza della medusa mostra al mortale la verità da cui l’essere umano fugge: il limite ontologico della morte. Solo la mediazione del logos può portare fuori il mortale dalla tragedia del nulla, il logos razionalizza il limite, lo ribalta in progetto e prassi pertanto lo trasforma, lo ricrea con il concetto, in tal modo le orbite della medusa non annichiliscono il mortale, ma il linguaggio con cui trascende il nulla gli consente di dare una forma al limite, di attribuire al tempo limitato il suo senso, strappandolo dall’angoscia del nulla che tutto fagocita e che trasforma in statua di sale:

«Il volto della Medusa cattura lo sguardo poiché lo isola dal tutto. Nello specchio di Dioniso il dio-fanciullo vedeva riflesso il mondo, qui, nella maschera della Gorgone, è il mortale che è chiamato all’esperienza più radicale di sé. Nello specchio del volto di Medusa l’uomo appare come mortale, facendo affiorare quell’arcaica esperienza del nulla a cui gli uomini ancora non danno i nomi dell’essere e del non essere».[3]

 

Narciso
Narciso si specchia nelle acque, scambia per corpo ciò che è acqua, ciò che è fugace. Narciso è il simbolo di un’autonomia impossibile, dell’atomizzazione che impedisce i processi di riconoscimento: ci si conosce nello sguardo dell’alterità, nella relazione concreta che ci rende gradualmente consapevoli della nostro sé rispetto all’altro e delle nostra potenzialità: senza l’intenzionalità concreta e reale ci si rinchiude in un vortice di autoreferenzialità che porta alla morte, all’alienazione perenne per cui si vive nell’inautentico, si vive la morte:

«Narciso scambia per un corpo ciò che è acqua (corpus putat esse quod unda est), non si accorge affatto dell’inconsistenza dell’oggetto del suo desiderio (spem sine corpore amat), né tantomeno che l’immagine della sua mira è una proiezione di quel corpo che, all’inizio del mito, si dichiarava interdetto a qualsiasi amante. Così il desiderio, per raggiungere il miraggio di una perfetta autonomia deve chiudersi in una “circolarità viziosa”, dove l’oggetto desiderato fa tutt’uno con il soggetto desiderante, e ciononostante viene simulato un andamento a spirale che impedisce il riconoscimento a vantaggio della peripezia infinita degli specchi». [4]

Il mito di Narciso è tra di noi, alla relazione con l’altro il sistema liberal sostituisce il desiderio immediato, per cui l’altro dev’essere l’eguale, dev’essere riportato al nostro desiderio. La categoria del medesimo di Levinas è il volto operativo della negazione dell’altro e dunque di noi stessi. Il narcisismo è il nulla che entra nel quotidiano e paralizza ogni prassi.

 

Marx e lo specchio
Le produzioni umane sono specchi, sono possibilità di decodificare il mondo in cui siamo, attraverso lo sguardo razionale che riflette e pensa, ciò che è separato è ricostruito nella sua genesi. In quello che produciamo c’è il segno del soggetto che opera, nell’azione produttiva il soggetto si scopre negato, alienato, costretto ad attività che non rispecchiano la sua essenza. Il passaggio è imprescindibile bisogna passare per le nostre produzioni per scoprire la rete relazionale che ci avvolge, i processi di disintegrazione ed alienazione mediante i quali il soggetto può ritrovare se stesso o perdersi:

«Troviamo questa metafora, alla lettera, nel testo marxiano, ove si legge “che le nostre produzioni sarebbero proprio come molti specchi [viele Spiegel], di cui la nostra essenza [Wesen] di rimando verrebbe illuminata [entgegenleuchtete]”. Qui l’essenza specchiata e rispecchiata sul piano degli oggetti mondani che non se ne stanno mai come “nature” isolate al di fuori della relazione teorico-pratica che istituisce il mondo conduce a un gioco tale la metafora da suggerire un oltrepassamento della parzialità che distingue cosa vera e immagine adeguata […]».[5]

Specchio in Marx sono le merci: ogni merce è specchio del plusvalore, il feticismo delle merci in cui l’umanità può alienarsi se non supera la divisione, la scissione, se non strappa la realtà in cui si muove alla naturalizzazione per scoprire che la realtà è posta dal soggetto, solo il soggetto consapevole può mettere in atto processi di liberazione.

 

Le gallerie dei passages
L’abbondanza delle merci si specchia nelle gallerie, le passeggiate non sono esperienza per ritrovarsi, nelle gallerie commerciali la merce si riflette ovunque, esse hanno un loro sguardo, mirano il passeggiatore lo avvinghiano con le luci degli specchi, lo avvolgono, gli tolgono il logos e la parola fino ad avere la potenza di ridurlo ad una appendice dell’abbondanza barocca delle merci, l’eccesso trabocca dalle vetrine e rompe ogni limite per dirigersi verso il passeggiatore:

«Le gallerie di specchi dei passages, che cominciano a disorientare il passante con la vertiginosa figa delle loro prospettive di cristallo e con l’incertezza barocca degli spazi delle strade cittadine, che si fanno interni, e degli interni che si aprono alla dimensione urbana, ospitano un doppio movimento per cui le cose, specchiandosi, sembrano possedere uno sguardo e gli sguardi degli occasionali spettatori di queste fantasmagoriche esposizioni di merci, posandosi sulle superfici riflettenti, vengono restituiti, nell’indifferenza, come oggetti accanto ad altri oggetti. Uomini e merci, esseri viventi e cose inanimate, messi in questo modo sullo stesso piano, vengono coinvolti in un movimento progressivo di dissoluzione ontologica che li trasforma, oltre l’intenzionalità degli sguardi, in una uniforme sequenza di sguardi».[6]

 Si arredano i locali pubblici in modo da farli apparire come superfici riflettenti; si è così avvinti nel bagliore, ogni distinzione tra esterno ed interno diviene labile in modo che il passeggiatore sia sempre all’interno di uno spazio fiabesco in cui l’essere ed il nulla, la verità e la menzogna siano indistinguibili.
Lo specchio nelle considerazioni di Benjamin, prepotentemente, ci parla dell’attualità: l’essere umano nella trappola delle merci rischia di essere egli stesso merce, di essere parte dell’indifferenziato, il regno delle merci è il luogo della quantità, l’essere umano in un mondo di soli merci diviene parte di un tutto da cui non si distingue, precipita tra le merci.

La metafora dello specchio nella sua vitalità significante ci svela il valore della cultura umanistica e la sua autonomia rispetto alla cultura tecno-scientifica, ma specialmente se si vuole vivere in un mondo umano la cultura umanistica è ambito culturale e formativo non contrattabile dei processi di umanizzazione. Il mito ci insegna a difenderci dagli specchi, dalla regressione, dal sonno del logos senza il quale si resta sul limitare dell’umanità.

 

Salvatore Bravo

[1] Andrea Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica [1991], Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 33.

[2] Ibidem, p. 131.

[3] Ibidem, p. 59.

[4] Ibidem, p. 90.

[5] Ibidem, p. 330.

[6] Ibidem, pp. 333-334.

Georg Simmel (1858-1918) – la sua analisi del denaro, della società ridotta a sterminato campo d’azione per la circolazione del denaro, del calcolo, del solo mezzo è già profetica degli stermini che verranno

Georg Simmel 01

 

La filosofia nichilistica del denaro

di Salvatore A. Bravo

 

Filosofia e pensiero radicale

Il pensiero filosofico dev’essere radicale, ovvero deve cogliere il fondamento del movimento fenomenico: solo con tale lavoro concettuale la filosofia raggiunge con lo scandaglio della filosofia la verità immanente della storia. La filosofia per sua disposizione cognitiva è amica della verità: verità eterna nella storia, e verità nella contingenza, nella congiuntura storica in cui gli esseri umani sono situati. La filosofia relativista è una contraddizione epistemologica, perché essa cerca la verità nelle sue espressioni polimorfe, nelle sue forme storiche, la insegue per un orientamento gestaltico di cui l’umanità ha sempre bisogno. La filosofia vive con gli esseri umani, è eterna come la verità. Gli esseri umani cercano la verità. L’umanità vive in tensione con la verità, dunque dove vi è filosofia, vi è umanità e verità.

 

Il mercato come religione dello spavento

L’attuale congiuntura storica caratterizzata dal capitalismo assoluto vorrebbe sostituire la verità e l’esercizio della ragione con il mercato, sostituire la ricerca della verità con la ricerca del mercato e per il mercato significa rompere gli ormeggi con la tradizione, per consegnarsi alla tempesta di un’impossibile navigazione. A tal fine il mercato dev’essere velato dal velo di Maya dell’ignoranza. Si deve essere servi, e per servire il padrone è necessario renderlo incomprensibile, ipostasi, altare su cui sacrificare il logos e la verità in nome del PIL. L’imperativo categorico del mercato impone di vivere da stranieri-migranti, da creature marginali, servi che adulano il mostro che potrebbe divorarli. Il mercato, per velarsi, si pone come religione cosmica e pagana: tempo ciclico in cui il futuro è assente, ma l’attimo ritorna eternamente nella forma della quantità come qualità sottratta, e timore reverenziale verso il dio sconosciuto che tutto può ed a cui tutto si deve. La religione dello spavento è la condizione del mercato a briglia sciolta, la deregulation è il ricatto a cui i popoli sono sottoposti.

 

Georg Simmel e la Filosofia del denaro

Georg Simmel (1858-1918) è un autore oggi quasi sconosciuto, poiché il mercato silenzia chi sa guardare oltre il velo di Maya, che fanno un passo innanzi verso la verità. Ha analizzato i processi di trasformazione messi in atto dal denaro.

La pecunia non è l’elemento neutro che il mercato rappresenta, ma pone in essere processi di trasformazione delle personalità. La filosofia è radicale, quando raggiunge la verità che spiega i processi empirici: essa è dunque meta-fenomenica. Il denaro, la verità del denaro, è lo strutturarsi di personalità affette da patologia indotta. L’uso del denaro, elemento astratto avulso da ogni contesto e limite, favorisce un senso di onnipotenza, e rende stabile solo l’asimmetria dei soggetti in lotta, poiché la ricchezza concreta ha in se stessa il limite, mentre il denaro in quanto astratto può comprare tutto ed usare se stesso per acquisire ricchezze che a loro volta sono un mezzo per altro. Col denaro si può tutto, la finanza converte ogni bene materiale in denaro, non ponendo limite all’accumulo come alla trasgressione di ogni legge. La borghesia del denaro … si diceva … – ma oggi è rimasto solo il denaro – … è rivoluzionaria, perché il denaro consente di trascendere i limiti nell’uso di ogni bene materiale, si converte nella volontà di potenza dell’astratto, cambia, così, la percezione che il soggetto ha di sé. Da essere limitato si auto-percepisce come il signore ed il padrone del creato:

«Al proprietario terriero garantisce che nessuno al di fuori di lui può raccogliere frutti dal suo campo, che egli soltanto può farlo coltivare o tenerlo a maggese, al proprietario di boschi il diritto di tagliare gli alberi e di cacciare la selvaggina. Ma se si tratta di denaro, il proprietario può acquistare grano, legna, selvaggina, ecc. Il denaro permette così il massimo potenziamento del concetto generale di proprietà: un potenziamento tale che già nella costituzione giuridica viene dissolto il carattere specifico di ogni altro possesso materiale e l’individuo che possiede denaro viene posto davanti ad un’infinità di oggetti, il cui godimento gli è parimenti garantito dall’ordine pubblico: il denaro dunque non pone confini alla propria utilizzazione e al proprio sfruttamento, come avviene invece nel caso di oggetti specificamente determinati. Per il possesso di denaro non vale in modo assoluto ciò che è stato detto degli Stati: che essi possono venir mantenuti soltanto con gli stessi mezzi con cui sono stati fondati. Questo vale invece per moltissime altre proprietà, soprattutto per quelle spirituali, ma anche per il possesso di numerose cose diverse ottenuto con il denaro, possesso che può essere mantenuto esclusivamente se rimane vivo il medesimo interesse che ha portato alla loro acquisizione. La completa indipendenza del denaro dalla sua genesi, il suo carattere eminentemente astorico, si rispecchia nell’assoluta indeterminatezza del suo impiego».[1]

 

Denaro e pensiero magico

Il denaro è indipendente da ogni misura, trasforma ogni limite materiale in una possibilità trascesa, si rafforza il senso di onnipotenza dell’io, fino ad indurlo a vivere in uno stato magico, per cui ritiene che ogni desiderio, in presenza del denaro, sia possibile: chi lo utilizza, entra nel regno della superstizione magica. L’illimitatezza è il mito del denaro. La rincorsa verso il mercato, la sudditanza religiosa verso di esso trae la sua ragion d’essere tra le pieghe della razionalità della finanza, tra le piaghe di cui è portatrice vi è il sogno dell’onnipotenza che coincide con il sonno della ragione:

«Nel complesso la volontà si adatta a tal punto alle nostre condizioni di vita da non pretendere dalle cose ciò che non possono dare, per cui la limitazione della nostra libertà dovuta alle leggi proprie del possesso non raggiunge una percezione positiva. Si potrebbe tuttavia costruire una scala di oggetti in base alla misura in cui la volontà può impadronirsi di essi, chiedendoci a partire da quale punto essi le divengono impenetrabili e in quale misura dunque possono veramente essere “posseduti”. Il denaro rappresenterebbe il gradino estremo di tale scala. In esso quel lato inattingibile, che gli oggetti riservano per così dire a se stessi e che non si piega nemmeno al possesso senza limiti, è completamente sparito. Manca completamente al denaro quella struttura propria in base alla quale gli altri oggetti, qualificati in modo determinato, si negano alla nostra volontà anche se li possediamo in senso giuridico. Obbedisce facilmente e indifferentemente a qualsiasi forma e a qualsiasi fine che la volontà voglia imprimergli; solo le cose che gli stanno dietro possono erigere degli ostacoli; in sé stesso il denaro si piega ad ogni direttiva, sempre indifferente a qualunque oggetto, a qualunque misura di distribuzione, a qualsiasi tempo del dare e del conservare. Esso concede così all’Io il modo più deciso e più completo di dispiegarsi in un oggetto, almeno nei limiti fissati dal fatto che è privo di caratteri qualitativi. Si tratta tuttavia di limiti puramente negativi, che non traggono origine, come per tutti gli altri oggetti, dalla sua natura positiva». [2]

 

Denaro e distanza

Simmel elabora «la psicologia del denaro»: il denaro non solo favorisce un astratto ed impossibile delirio di onnipotenza del denaro, ma specialmente diseduca alla vicinanza. L’uomo di borsa, il capitalista come l’aspirante alla scalata finanziaria imparano attraverso il denaro a mettere distanza tra sé ed il mondo, tra sé e gli effetti delle azioni finanziarie. La genealogia dell’indifferenza si fa spazio in modo spontaneo, giorno dopo giorno le relazioni mediate unicamente dal denaro costruiscono barriere emotive e razionali, fanno apparire come normali relazioni finalizzate all’interesse personale. L’essere umano diventa così “il legno storto” della definizione di Kant. La filosofia scongela con la razionalità le ipostasi per consentire altre visuali, introduce i processi genetici dove regnava l’ingenuità dell’astratto:

«Se analizziamo il ruolo del denaro in questo processo di differenziazione, ci colpisce in primo luogo il fatto che quest’ultimo si colleghi alla distanza spaziale tra il soggetto e la sua proprietà. L’azionista, che non ha assolutamente niente a che fare con la direzione degli affari della società, il creditore dello stato che non ha mai messo piede nel paese che è in debito con lui, il grande proprietario terriero che ha dato in affitto le sue terre, cedono la loro proprietà ad un’impresa puramente tecnica, di cui raccolgono i frutti, ma con la quale in sé e per sé non hanno assolutamente niente a che fare. Ciò è possibile esclusivamente mediante il denaro. Solo quando il guadagno dell’impresa assume una forma di assoluta trasferibilità, esso consente ad entrambi, con il distanziarsi della proprietà dal proprietario, quell’alta misura di indipendenza e, per così dire, di movimento proprio. Alla prima fornisce la possibilità di venir amministrata esclusivamente in base ad esigenze interne all’attività stessa, al secondo quella di dirigere la propria vita senza tener conto delle esigenze specifiche della proprietà. L’effetto a distanza del denaro permette alla proprietà e al proprietario di separarsi a un punto tale che ognuno può seguire le proprie leggi in maniera completamente diversa rispetto a quando la proprietà si trovava in rapporto di interazione immediata con la persona, ogni impegno economico era contemporaneamente un impegno personale, ogni mutamento nelle direttive o nella posizione personale significava contemporaneamente un mutamento negli interessi economici».[3]

 

Il grande livellatore

Il denaro è il grande livellatore, come la morte, riduce ogni qualità a quantità secondo le regole del mercato. Il denaro desacralizza, svuota il mondo, la natura, gli esseri umani di ogni fine metafisico. La perversione metafisica del denaro è nel trasformare ogni fine in mezzo, fino ad eguagliare il mezzo ed il fine in nome dell’interesse privato. Secoli di metafisica sono così abbattuti nel segno del denaro omologante. Per poter livellare, il denaro deve sottrarre al mondo ogni limite ed etica. Assiologia e finanza sono evidentemente incompatibili. La misura e la metafisica pongono limiti, il denaro per poter vivere il sogno dell’impossibile delirio di onnipotenza deve rompere ogni limite etico, deve desacralizzare, ridurre la qualità a quantità quando è possibile, oppure mettere in campo la dissacrazione del limite e di ciò che si oppone al dominio della quantità. Libertà è la parola che maggiormente è usata contro gli oppositori del livellamento, il denaro è rappresentato in relazione biunivoca con la libertà: l’una è possibile in presenza dell’altra, per cui più denaro significa più libertà. In questa vi è una sottintesa verità: la libertà di alcuni nel sistema denaro è la morte di altri, ma la verità difficilmente si coniuga con il denaro:

 

«Il livellamento degli oggetti da parte del denaro riduce l’interesse soggettivo per il loro rango particolare e per la loro qualità ed ha l’ulteriore conseguenza di peggiorare anche questa; la produzione di merci di scarto a buon mercato è, per così dire, la vendetta degli oggetti per il fatto di essere stati rimossi dal punto focale dell’interesse per opera di un puro mezzo indifferente. Da tutto questo risulta in modo sufficientemente chiaro quanto sia radicale il contrasto tra l’essenza del denaro, con le sue conseguenze, e i valori della distinzione che ho tratteggiato nelle pagine precedenti. L’essenza del denaro distrugge nel modo più radicale quel fondarsi su sé stessa che caratterizza la personalità distinta e che investe determinati oggetti e la loro valutazione; impone alle cose un’unità di misura esterna ad esse (ed è proprio questo che la distinzione rifiuta); ponendo le cose in una serie in cui valgono soltanto le differenze quantitative, il denaro le deruba sia della differenza e distanza assoluta tra l’una e l’altra, sia del diritto di respingere ogni rapporto, ogni qualificazione comparativa, per quanto offensiva, con le altre. Toglie loro quindi entrambe le determinazioni dalla cui combinazione nasce l’ideale vero e proprio della distinzione. Il potenziamento dei valori personali, che caratterizza questo ideale, viene dunque eliminato persino nella sua proiezione nelle cose nella misura in cui dominano gli effetti del denaro, che rende «comuni» le cose in ogni senso della parola e le pone così, anche in termini di linguaggio, in assoluto contrasto con la distinzione». [4]

 

Simmel muore nel 1918, e la sua analisi del denaro, della società ridotta ad uno sterminato campo d’azione per la circolazione del denaro, del calcolo, del solo mezzo è già profetica degli stermini, i quali rivelano la verità di Simmel. Un mondo senza metafisica, regno del solo mezzo, prepara la fine della libertà che il denaro aveva promesso.

 

Salvatore Bravo

[1] G. Simmel, La filosofia del denaro, Utet, Novara 2013, pag. 435.

[2] Ibidem, pp. 455-456.

[3] Ibidem, pag. 466.

[4] Ibidem, pag. 548.



Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.

Fernanda Mazzoli04

Dai muri della città dove abito, i manifesti pubblicitari di una delle maggiori catene della grande distribuzione (che si richiama, peraltro, a valori solidaristici) ammoniscono i passanti che «Siamo quello che scegliamo». A chiarimento della scelta in questione, campeggiano i primi piani di persone di diversa età che covano con sguardo fra l’affettuoso e l’orgoglioso chi un vasetto di marmellata (naturalmente biologica), chi uno spazzolino da denti, chi una confezione di caffé macinato. Così, la straordinaria stratificazione architettonica, paesaggistica, storica e culturale di questa piccola e bellissima città si appiattisce improvvisamente nel piano liscio dove a scorrere sono solo le merci, prodigiosamente inesauribili, tutte diverse nella loro sollecitazione alla scelta, tutte interscambiabili nell’indistinto della bulimia dei consumi. Questo piano liscio nutre una nuova antropologia, in cui l’uomo è dato dalla sua relazione con le merci e la libertà – quella libertà senza la quale l’esistenza perde senso e valore – diventa libertà di scegliere il prodotto più confacente alle proprie esigenze.

Salvatore A. Bravo

L’albero filosofico del Ténéré.

Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve

Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt)
al fondamento veritativo in Costanzo Preve

indicepresentazioneautoresintesi

L’uomo – questo essere su cui la natura e la storia hanno inciso segni tanto profondi quanto quelli che da lui hanno ricevuto – si risolve in un consumatore, responsabile e soddisfatto della nuova leggerezza acquisita: il necessario fardello del suo rapporto con se stesso e con il mondo ha ridotto le sue dimensioni a quelle di un carrello del supermercato.

La centralità della merce è religione che non ammette devoti tiepidi: avendo da tempo travalicato gli argini della sfera economica, ha finito per modellare comportamenti sociali e condotte individuali, per riorientare la percezione che si ha di sè e del mondo, per plasmare menti e corpi, pensieri e sentimenti.

La campagna pubblicitaria sopracitata è un caso da manuale di quelle «identità costruite dal e per il marketing», destinate a naufragare «nei desideri del mercato», che si aggirano nel deserto su cui si appunta lo sguardo lucido di Salvatore A. Bravo nel suo ultimo libro, pubblicato da Petite Plaisance, L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (in Nietzche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve. La traversata del deserto è impresa ambiziosa, urgente e rischiosa e richiede il coraggio intellettuale di un riorientamento radicale, capace di guardare negli occhi il nichilismo penetrato nella profondità del corpo sociale e di tagliare il nodo gordiano di appartenenze ideologiche che, incapaci di prendere atto delle nuove realtà storiche e di mettere in discussione schemi interpretativi e filosofici accettati fideisticamente, finiscono per legittimare e rafforzare il nichilismo dominante, con il quale condividono l’economicismo di fondo.

Per potere tentare la traversata, occorre innanzitutto sapere riconoscere l’aridità e la piattezza del deserto sotto le linee frastagliate e seducenti del paesaggio nel quale siamo immersi, occorre lacerare il velo delle illusioni – la promessa della felicità nella soddisfazione illimitata dei desideri e nella disponibilità di beni sempre nuovi – che coprono le sabbie mobili del ciclo produzione-consumo, assurto ad orizzonte esclusivo dell’esistenza. Occorre strappare l’esistenza dal hic et nunc di un presente senza storia, da cui l’universo delle merci trae motivo di legittimità, proclamando la propria naturalità e la propria intrascendibilità. Si disegna, così, una situazione paradossale che vede da un lato l’individuo sollecitato dall’ampio ventaglio della scelta e dall’altro, ridotto ad uno stato di impotenza sociale e di asservimento non dichiarato, in quanto la cornice entro la quale si muove vanta la pretesa totalizzante di essere la sola possibile.

Onnipotenza astratta e concreta impotenza, secondo la felice espressione di Lukàcs, sono le pareti della gabbia d’acciaio che delimita il perimetro entro il quale il soggetto può muoversi. Ecco allora imporsi la legge del nulla, all’insegna di una omologazione dove la speranza – tensione verso il possibile – piange disfatta e l’angoscia regna, come nel celebre sonetto di Baudelaire.[1] Il processo di naturalizzazione è andato così avanti, che è presumibile che la speranza non riconosca nemmeno la propria sconfitta, in quanto è scomparsa dall’orizzonte e, nel migliore dei casi, ride sguaiatamente, compiacendosi con spavalderia fintamente trasgressiva nel e del nulla.

L’immagine del deserto come metafora del nichilismo è stata coltivata da filosofi di grande notorietà – e con seguito accademico – come Nietzche e la Arendt che hanno lucidamente individuato una serie di dispositivi – termine che rinvia ad una presunta neutralità della tecnica – che hanno schiavizzato gli uomini, annullato l’individuo come lusso inutile, a vantaggio della massificazione burocratica ed economica, finendo per aprire la strada ad una nuova umanità privata della corrente calda della vita. Essi hanno denunciato efficacemente la desertificazione del pensiero, minacciato da macchinismo e totalitarismo e invocato la necessità dell’oasi. La Arendt la cerca in quegli ambiti della vita che esistono, in parte o in tutto, indipendentemente dalle condizioni politiche: l’isolamento dell’artista, la solitudine del filosofo, le relazioni affettive. La loro analisi, pur capace di cogliere aspetti importanti dell’alienazione che minaccia la condizione umana, resta interna al nichilismo, perché – osserva Salvatore Bravo – rinuncia al «fondamento veritativo della Filosofia».[2]

Né è superfluo ricordare, a tal proposito, che Nietzche teorizza l’esperienza elitaria del nichilismo attivo. L’oasi della Arendt assume nel testo di Salvatore A. Bravo la forma dell’Albero del Ténéré, un’acacia che, unica pianta per centinaia di chilometri tutt’intorno, in questa regione desertica del Sahara, a nordovest del Niger, costituiva per le carovane di cammelli il punto di riferimento obbligato. Guida per orientarsi e simbolo di vita – quasi miracolosa nella sua unicità – nella gran distesa uniforme di sabbia, l’Albero del Ténéré consentiva quella pausa necessaria per riprendere respiro e raccogliersi prima di continuare il cammino. Il sollievo momentaneo dell’oasi, infatti, non basta a Salvatore Bravo: è alla traversata, all’esodo dal deserto che egli ci invita. Impresa pericolosa, si diceva, tale da richiedere bussola e sguardo lungo e consapevolezza della fatica che attende il viaggiatore.

La bussola è offerta dal discorso filosofico di Costanzo Preve, uno dei pochi filosofi contemporanei che abbia avuto il coraggio di rilegittimare il valore veritativo della Filosofia e di rifiutarne la riduzione a semplice dossografia, elenco di opinioni e dottrine. Ha pagato questa scelta controcorrente con l’esclusione dai salotti buoni della filosofia, per i quali la ricerca del fondamento veritativo o è eluso, o si ritrova addirittura ad essere derubricato alla voce “totalitarismo”. E invece, l’approccio filosofico di Preve risponde proprio alla necessità di indagare la natura dei totalitarismi che l’opera di Arendt e Nietzche occultano più che rendere palese, afferrandone le manifestazioni epidermiche più che l’intima natura. La rimozione degli aspetti totalitari presenti massicciamente nel modo di produzione capitalistico rende innocua la loro critica che, non poggiando su un rigoroso fondamento, non può nemmeno offrire gli strumenti per osare la traversata.
Costanzo Preve – e Salvatore Bravo che, con la sua riflessione filosofica, intende continuare il percorso da lui aperto – fa dell’intrinseco rapporto fra capitalismo e nichilismo la chiave di lettura del fenomeno. La quantificazione della vita, la quale ha subíto una decisa accelerazione nella globalizzazione liberista che ha sancito l’affermarsi del capitalismo assoluto – sciolto da qualsiasi limite –, ha ridotto i vissuti a cose e spezzato i vincoli comunitari, fino a fare di ogni individuo un atomo Robinson ritirato dal mondo e ripiegato su se stesso e dell’alienazione la normalità. Se il deserto è rinuncia al pensiero, riduzione dell’umanità al dato biologico e alla corsa verso l’accumulazione di beni, spetta alla Filosofia il compito di restituire il soggetto alla storia e alla propria umanità. Un compito arduo che la Filosofia può assolvere, solamente ponendosi come «scienza del fondamento, portatrice di verità condivise attraverso il dialogo».[3]

Solo il fondamento può ricondurre il molteplice all’unità, superare le scissioni per ritrovare la totalità, ristabilire gerarchie di valore e suscitare un giudizio responsabile: si crea così il presupposto per potere comprendere il nostro presente. Nel disordine e nell’omologazione si installano nichilismo e relativismo, il deserto si estende, le piste che conducono verso l’uscita vengono cancellate dai mulinelli di sabbia e le carovane sono sviate da rutilanti miraggi che mostrano un’oasi dove c’è solo un’altra duna, uguale alle precedenti. I punti di riferimento da rielaborare per definire tale fondamento, ovvero la verità oggettiva dell’essere umano mediata dall’esperienza storica, sono rappresentati per Preve dal mondo greco, da Marx, Hegel e Sorel. Nel dialogo creativo con questi autori, prende forma la connotazione della natura umana come razionale-comunitaria e generica. È razionale e valutativa, perché capace di determinare le giuste proporzioni per salvaguardare se stessa e la comunità; è generica, perché aperta sulla possibilità di determinare storicamente la propria natura. Può, dunque, perdersi nell’alienazione, qualora non riesca ad opporsi alle pressioni ed ai condizionamenti del potere, così come può affermare le proprie potenzialità. Perché ciò avvenga, è necessario un intreccio con la comunità, con la parola comunitaria. In questa individuazione della natura umana intervengono tre concetti fondamentali, strettamente legati: logos, limite, misura.
Costanzo Preve recupera il significato originario della parola logos come calcolo del limite, di ciò che è necessario, contro la dispersione e l’estraniazione causate dall’eccesso, dalla crematistica (dal greco chrèmata, ricchezze) che indeboliscono il soggetto. La coscienza deve, con il logos, calcolare il limite, calcolo reso necessario dalla natura limitata dell’essere umano, destinato a morire e bisognoso di una comunità per sopravvivere.
La parola métron (misura) non ha in Preve la connotazione datale poi dalla rivoluzione scientifica, ma, piuttosto, una declinazione sociale, è equilibrio dell’assetto sociale , calcolato dal logos. Non sfugga la portata di un approccio teoretico impostato sulla centralità della natura umana per la costruzione di una fondata e coerente prassi anticapitalistica. I nuovi riduzionismi, che nelle neuroscienze trovano un modello trionfante, apportatore di utili suggerimenti utilizzabili anche dal marketing, rappresentano l’uomo come un essere plasticamente determinabile, riconducibile ad un meccanismo stimolo-risposta, alimentando l’idea che la natura umana sia infinitamente manipolabile.


La possibilità, categoria di primaria importanza nella caratterizzazione data da Preve, si trova ad essere esclusa e, con essa, qualsiasi alterità rispetto al sistema dei rapporti sociali dominanti. Né è da trascurare, a giudizio dello scrivente, l’impatto devastante che prossimamente potrebbe avere un’ideologia come il transumanesimo che fa del superamento degli stessi limiti biologici dell’essere umano, “potenziato” dalle macchine con cui entra in simbiosi fisica, la propria cifra, ultimo approdo di una hybris i cui tratti distintivi di negazione del limite e di infinita flesibilità e adattabilità dell’essere umano, nell’ottica dell’efficienza e della performatività, rispondono appieno al cattivo infinito sotteso alla logica del capitale, per il quale l’uomo deve essere tabula rasa su cui scrivere in assoluta libertà, realtà sensoriale da soddisfare, innanzitutto attraverso il baratto. Il capitalismo ha vinto – per ora – la partita, puntando tutto sulla quantità infinitamente in espansione, sull’illimitato di desideri potenzialmente inesauribili da soddisfare, ma ha eluso e mortificato la domanda di senso che è costitutiva dell’uomo.
La ricerca di Costanzo Preve ha avuto il grande merito di porre al centro della riflessione filosofica questa domanda e di fornire gli strumenti teoretici per risposte non semplici e non subordinate al paradigma dominante, all’altezza della sfida posta dalla condizione umana nell’epoca del capitalismo assoluto. L’esodo dal deserto ha bisogno di durevole passione filosofica, di caparbia intelligenza critica, capaci di squarciare il velo delle illusioni e di pensare un «cambio di prospettiva». Un cambio di prospettiva che si intreccia strettamente con il concetto di “comunità”, articolazione fondamentale nel pensiero di Preve e al quale l’autore del saggio dedica pagine illuminanti. Da Aristotele, come già si è detto, Preve mutua il concetto di “essere umano” come “zoon logon echon”, animale razionale. Il logos (di cui logon è l’accusativo) è nodo di straordinaria densità concettuale: rinvia sia al «linguaggio come strumento di convincimento razionale comunitario», sia alla «ragione universalmente diffusa in tutti gli uomini», sia «al calcolo geometrico applicato alla giusta distribuzione del potere e delle ricchezze»,[4] unico argine al dilagare della prepotenza del singolo e del caos. La democrazia comunitaria, in cui il dialogo (dia-logos) garantisce la comunicazione e vigila sul mantenimento del limite, consente agli esseri umani di ritrovare la loro natura e di porla a sostanza della comunità stessa.[5]

È a partire da questo ideale regolativo che Preve ripensa il comunismo: la comunità vive nel trascendimento delle divisioni sociali, ma anche per evitare il tragico fallimento del comunismo novecentesco realizzato (cui il filosofo riconosce, comunque, numerosi meriti nella lotta all’imperialismo e nell’impulso dato ai diritti sociali) deve mantenere la tensione tra individuo e comunità, e sottrarsi alla tentazione della fusione i cui esiti non possono che essere distopici. Salvatore Bravo sottolinea come il comunitarismo previano recuperi la radicalità della libertà nel pensiero di Marx, in cui la Storia diventa l’incontro tra le scelte degli uomini e le circostanze storiche. Lo sguardo lucido e privo di compiacimento che Preve getta sulle esperienze rivoluzionarie del Novecento, viziate dall’economicismo e sfociate in dominio burocratico che ha costretto gli uomini nella stessa passività e solitudine del capitalismo,[6] non inficia la grandezza e la necessità – oggi più che mai – di una lotta per una comunità senza oppressione, condizione sine qua non perché fioriscano le potenzialità di ciascuno. Dunque, il pensiero di Preve orienta verso l’esodo dal deserto, rimettendo in azione il motore della storia di cui molti avevano decretato il funerale, a tutto vantaggio di un intrascendibile presente, e lo fa radicandosi in una lunga tradizione filosofica che egli rilegge liberamente, all’insegna della pratica comunitaria della filosofia inaugurata da Socrate.
La Filosofia è, infatti, dialogo, è logos che diventa comunitario. Il saggio di Salvatore Bravo evidenzia come l’esperienza culturale, nonché la vita di Preve, siano la dimostrazione che l’incontro tra l’io e il noi costituisce la condizione imprescindibile per l’esistenza stessa della Filosofia, e di una filosofia che, attraverso la catena dei perché, divenga atto emancipativo dalla falsa coscienza, dall’ideologia che piega le coscienze all’ obbedienza e all’adattamento. Essa fonda l’universalismo umanistico, dimostrando il fondamento ontologico comune dell’umanità e, a partire da esso, fonda la resistenza ai processi di alienazione e la possibilità di una prassi coerente con il contesto storico. Il testo di Bravo è una sorta di commento “esemplare” – costruito con passione dialogante e rigore argomentativo – della concezione dello studioso di filosofia antica Pierre Hadot, secondo la quale si tratta di dimostrare «che il discorso filosofico fa parte del modo di vivere» e «che la scelta di vita del filosofo ne determina il discorso».[7]

È, questo, un libro non per “esperti” della disciplina filosofica, (che, comunque, vi troverebbero non pochi fondamentali elementi di riflessione e confronto) ma, innanzitutto, per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo, laddove tutte le posizioni sembrano occupate dai poteri forti dell’economia e dalle costellazioni ideologiche che intorno ad essi ruotano.

Fernanda Mazzoli

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Note

[1] Charles Baudelaire, Les fleurs du mal, Spleen.

«Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que de l'horizon embrassant tout le cercle
Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits;
Quand la terre est changée en un cachot humide,
Où l'Espérance, comme une chauve-souris,
S'en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris;
Quand la pluie étalant ses immenses traînées
D'une vaste prison imite les barreaux,
Et qu'un peuple muet d'infâmes araignées
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,
Des cloches tout à coup sautent avec furie
Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,
Ainsi que des esprits errants et sans patrie
Qui se mettent à geindre opiniâtrément.

- Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon âme; l'Espoir,
Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique,
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir».




«Quando, come un coperchio, il cielo basso e greve
schiaccia l'anima che geme nel suo tedio infinito,
e in un unico cerchio stringendo l'orizzonte
fa del giorno una tristezza più nera della notte;

quando la terra si muta in umida cella segreta
dove, timido pipistrello, la Speranza
sbatte le ali contro i muri e batte con la testa
nel soffitto marcito;

quando le strisce immense della pioggia
sembrano le inferriate d'una vasta prigione
e muto, ripugnante un popolo di ragni
dentro i nostri cervelli dispone le sue reti,

furiose a un tratto esplodono campane
e un urlo tremendo lanciano verso il cielo,
così simile al gemere ostinato
di anime senza pace, né dimora.


- Senza tamburi, senza musica, sfilano funerali
a lungo, lentamente, nel mio cuore: la Speranza,
Vinta, piange, e l'Angoscia atroce, dispotica,
pianta, nel mio cranio riverso, il suo vessillo nero».

[2] S. Bravo, op. cit., p. 14.

[3] Ivi, p. 123.

[4] Ivi, pp. 114-115.

[5] Si pone in antitesi, pertanto, alla democrazia formale, le cui procedure sono finalizzate alla riproduzione del potere. Il rito di una democrazia non autentica si consuma stancamente, si rivela essere un’ «atomistica delle solitudini», espressione, fra le altre, di disgregazione nichilistica.

[6] Preve rifiuta categoricamente la lettura liberale del comunismo novecentesco come semplice totalitarismo.

[7] Per la citazione completa di P. Hadot, cfr. Ivi, p. 106.

 


Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.

Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli

Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.

Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.

Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.

Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.

Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».

Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.

Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.

Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.



Italo Calvino (1923-1985) – Questo è il significato vero della lotta: Una spinta di riscatto umano da tutte le nostre umiliazioni. Questo il nostro lavoro politico: utilizzare anche la nostra miseria umana per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.

Italo Calvino_Nidi di ragno

«C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra.
Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo … tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi.
L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio […].
Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali.
Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione.
Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo».


Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1964 [la prima edizione è del 1947].


Italo Calvino (1923-1985) – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme.
Italo Calvino (1923-1985) – La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso.
Italo Calvino (1923-1985) – Cavalcanti si libera d’un salto “sì come colui che leggerissimo era”. L’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostra che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi appartiene al regno della morte.
Italo Calvino (1923-1985) – Leggere significa affrontare qualcosa che sta proprio cominciando a esistere.
Italo Calvino (1923-1985) – … il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento …


Max Picard (1888-1965) – Il silenzio emerge dal frastuono del mondo attuale perché sta al di fuori della dimensione dell’utile. La parola non avrebbe profondità, se le mancasse lo sfondo del silenzio. La parola sorge dal silenzio.

Max Picard 01

Max Picard, nato in Germania da genitori ebrei svizzeri, studiò medicina. Vicino al cristianesimo anche se rimase fedele all’origine ebraica. Abbandonò ben presto la pratica medica per dedicarsi interamente al pensiero filosofico. Tra i suoi libri più importanti, e tradotti in tutte le lingue europee e anche in giapponese, coreano e cinese, L’ultimo uomo (1921), La fuga davanti a Dio (1934), Hitler in noi stessi (1946), Il mondo del silenzio (1948), L’ultimo volto. Maschere mortuarie da Shakespeare a Nietzsche (1959).

Giorgio Kienerk, Il silenzio,1900.

Le grandi parole giungono nel delicato frullio quasi impercettibile di un’ala di colomba aveva già affermato Nietzsche. Max Picard (Schopfheim, 5 giugno 1888 – Sorengo, 3 ottobre 1965) è uno degli eroi gentili della filosofia, dimenticato da molti. Ma le sue parole, la sua vita attraversano lo spazio ed il tempo della tecnocrazia per parlarci ancora, se si intenziona l’udito per accogliere parole metafisiche, parole per la trascendenza. Il capitalismo assoluto impone capillarmente parole finalizzate esclusivamente al bisogno ed all’utile, ma le parole possono essere l’immagine profonda dell’essere umano, se muovono al desiderio della totalità, se mostrano che il bisogno ha legittimità ad esserci solo in tensione con la parola metafisica. Max Picard ha vissuto l’esperienza del silenzio profondo, della creazione metafisica con coerenza. La filosofia è prassi, comportamento consapevole e teleologico, altrimenti si è solo facitori di parole. Max Picard, laureato in medicina e medico di valore, dinanzi al cartesianesimo della medicina, al rifiuto di ogni approccio sistemico, ha rinunciato alla professione medica per vivere nel Ticino. Cercava luoghi dove il silenzio fosse ancora possibile per vivere la sua umanità. Il silenzio non divide, ma unisce alla comunità, alla natura, a Dio.

Lo scandalo del silenzio

Il silenzio è scandalo per il capitalismo assoluto, perché dove il silenzio prende dimora, appare l’essere umano. Nel silenzio della parola tacciono le parole dell’utile, della televendita perenne, dell’onnipresenza dell’immagine allo scopo di muovere i bisogni per necrotizzare il desiderio metafisico dell’altro e di sé.

Il silenzio è scandalo, perché non si può vendere. Il silenzio favorisce l’unità, palesa la menzogna quotidiana del frastuono delle merci che tutto silenziano con la violenza dell’astratto che annichilisce la vita:

«Il silenzio è oggi l’unico fenomeno “senza utile”. Esso non conviene al mondo di oggi che è mondo dell’utile, non ha nulla di comune con questo mondo, sembra privo di qualsiasi scopo, non si presta allo sfruttamento. Il mondo dell’utile si è annessi tutti gli altri grandi fenomeni. Persino lo spazio fra cielo e terra è ridotto oggi a un pozzo luminoso che serve solo a far volare gli aeroplani. L’acqua e il fuoco, gli elementi, sono assorbiti dal mondo dell’utile e considerati solo in quanto prendono parte alla vita di questo mondo, perduta ormai ogni esistenza indipendente da esso. Invece il silenzio sta al di fuori del mondo dell’utile, non è possibile “farsene” nulla, dal silenzio non si ricava nulla nel vero senso della parola; il silenzio è improduttivo e quindi privo di qualsiasi valore».[1]

Frastuono e parola

Il silenzio è proprio dell’umano. La parola necessita del silenzio perché crei ed autocrei se stessa. Malgrado la pervasività del chiasso, il silenzio resta sul fondo della natura umana come la sua possibilità più propria. Il furore del mondo, con i suoi ritmi poietici, non può azzerare la forza della parola parola, che indica la non verità del rumore dell’utile, le sue dissonanze, la sua aggressività ideologica. Il bisogno necessita del gesto, del meccanicismo, il cui fine è assicurare la sopravvivenza. In tal senso l’essere umano è simile agli altri animali non umani. Ma la parola non ha la sua genealogia nel gesto, nella biologia, perché è creatività, impalpabile presenza tesa verso la totalità:

«Il silenzio emerge dal frastuono del mondo attuale come alcunché di remoto. Non però come una cosa morta, bensì come un giacente ma vivo animale preistorico. Si scorge tuttora il dorso possente del silenzio, ma l’intero corpo affonda sempre più in mezzo alla sterpaglia degli odierni clamori e come se quell’animale di altri tempi affondasse lentamente nel limo del proprio silenzio. Eppure tutto il frastuono di oggi sembra solo un mormorio di insetti ronzanti intorno all’immane dorso di quell’animale preistorico, il silenzio».[2]

Gesto e parola

La parola non è mera attività fonetica, la sua genesi non è meccanicamente legata agli apparati fonatori. La parola ha come radice il silenzio. L’essere umano è un albero le cui radici sono nel metafisico: l’immagine metafora di Platone nel Timeo rende la verità della parola. Essa si genera in modo libero per entrare nella contingenza della storia. L’utile teme la parola. La riduzione della libera parola in spazi sempre più ristretti rivela la verità del capitalismo assoluto: la libertà, la parola che genera mondi in una ascesi erotica verso un universale irraggiungibile svela la verità dell’essere umano. L’umanità non è semplicemente un legno storto, secondo la definizione di Kant, o un lupo, secondo la metafora di Hobbes. L’essere umano è sempre oltre i semplicismi ideologici che imprigionano la parola in angusti recinti interiori, mentre lo lasciano “libero” di perdersi negli spazi della globalizzazione:

«Il silenzio può stare senza la parola, ma la parola non può stare senza il silenzio. La parola non avrebbe profondità, se le mancasse lo sfondo del silenzio. Tuttavia il silenzio non è superiore alla parola, ma anzi il silenzio in sé e per sé, il mondo del silenzio senza la parola, è solo qualche cosa di precedente alla creazione, è creazione non ancora compiuta, creazione imminente. Proprio perché la parola sorge dal silenzio, il silenzio passa dallo stato di pre-creazione a quello di creazione, dal non storico allo storico umano, e in prossimità della parola diventa parte dell’uomo e parte integrante e indispensabile della parola. Ma la parola è superiore al silenzio anzitutto perché solo in essa la verità si fa immagine. L’uomo diventa tale per mezzo della parola».[3]

La catabasi del silenzio

Villa Litta, Allegoria del silenzio.

Il frastuono divide. La parola, nella forma della riduzione dell’altro a strumento per i propri bisogni, non è parola, ma estroflessione dei bisogni. Di conseguenza non può esserci, in questa circostanza/contingenza, che l’atomismo sociale: solitudini speculari che raccontano la stessa storia. La parola, il logos, che si prepara nel silenzio, in una dimensione distante dal fenomeno, è già comunità, perché nel silenzio-parola gli esseri umani ritrovano il volto dell’altro ed il proprio.

L’alienazione è il rumore che distrae da sé e dagli altri per vivere mille vite al giorno nell’ottica dell’utile senza toccare, mai, neanche per un attimo se stessi e gli altri. Nel silenzio il soggetto umano si scopre parte di una totalità storica, contingente eppure metafisica. La catabasi (κατάβασις “discesa”, da κατα- “giù” e βαίνω “andare”), la responsabilità politica, non può che iniziare con l’anabasi (ἀνάβασις, der. di ἀναβαίνω «salire») del silenzio:

«Dove arriva il silenzio, l’individuo non avverte nessuna opposizione fra sé e la comunità, poiché individuo e comunità non sono reciprocamente opposti, ma entrambi opposti al silenzio, e quindi la differenza fra individuo e comunità vien meno di fronte al potere del silenzio. Oggi di fronte al silenzio non sta più l’individuo, né la comunità ma un frastuono generale, e individuo è solo colui che non ha più il frastuono, il frastuono comune, ma non ha nemmeno il silenzio. È isolato dal rumore e isolato dal silenzio, è un derelitto».[4]

Affinché ci sia rivoluzione necessitiamo di riascoltare il silenzio, per discernere il bene dal male, il senso dal non senso. Il silenzio rivela che l’essere umano è abitato dalla trascendenza nella sua pluralità di forme.

Salvatore A. Bravo



[1] Max PIcard, Il mondo del silenzio, Edizioni Comunità, 1951, p. 10.

,[2] Ibidem, p. 16.

[3] Ibidem, p. 23.

[4] Ibidem, pp. 73-74.

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Roberto Fineschi – Rileggere Marx con le lenti della filologia.

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Rileggere Marx con le lenti della filologia

di Roberto Fineschi

È uscita la nuova edizione italiana del I libro del Capitale per le Opere Complete di Marx ed Engels. Il curatore, Roberto Fineschi, ci spiega perché era necessario mettere mano a questa opera di rinnovamento editoriale (sinistrainrete, 24-3-2013)

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1. La nuova edizione del I libro del Capitale da me curata per le Opere Complete di Marx ed Engels (vol. XXXI, Napoli, La città del sole, 1600 pagine) è il tentativo di presentare al lettore italiano lo stato dell’arte dopo le significative novità emerse nel corso della pubblicazione della nuova edizione storico-critica, la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2), monumentale progetto in 114 volumi in corso di realizzazione da quasi quarant’anni e lungi dal completamento[1].
La circolazione delle opere di Marx è stata scarsa negli ultimi decenni; recentemente si è assistito alla ripresa di alcune pubblicazioni, fatto da salutare positivamente. Tuttavia, nella quasi totalità dei casi si sono semplicemente riproposti i vecchi testi, oppure li si è ripresentati sulla base delle edizioni tradizionali. La grande novità della MEGA consiste invece, sostanzialmente, nell’aver mostrato come molte delle opere più significative di Marx fossero in realtà una cosa diversa rispetto a quelle storicamente lette. A cambiare sono quindi non tanto, o non solo, le interpretazioni di Marx o Engels, ma la stessa base testuale su cui tali interpretazioni si sono sviluppate o possono svilupparsi. La nuova edizione del primo libro del Capitale muove, prima nel mondo occidentale, da questa premessa.
È noto che Marx non ha pubblicato personalmente il secondo ed il terzo volume; fu Engels a farlo dopo la sua morte, rispettivamente nel 1885 e nel 1894. Per il secondo, egli disponeva di 8 manoscritti redatti dal 1864 alla fine degli anni 70, a livelli assai diversi di compiutezza, nessuno comunque pronto per la stampa[2]; per il terzo aveva sostanzialmente un grande manoscritto del 1864/5 e poche rielaborazioni successive di scarsa ampiezza[3].
Il terzo libro, seppur uscito per ultimo, è dunque, in verità, poco più che allo stato di abbozzo; meglio vanno le cose per il secondo, benché, pure in questo caso, non esista in alcun modo una versione definitiva. Il primo libro è apparentemente quello più compiuto, in quanto Marx stesso ne dette alla stampe due edizioni tedesche – 1867 e 1872/3 – ed una francese – 1872-5 –, tutte con moltissime varianti. Anche del primo, tuttavia, non disponiamo di un’edizione definitiva in quanto l’ultima uscita nel tempo, la francese, è considerata da Marx migliore per il contenuto, ma decisamente insufficiente a livello linguistico[4]. Nel 1883, anno della morte di Marx, Engels diede alle stampe la terza edizione tedesca, alla quale Marx non partecipò in prima persona; aveva lasciato degli indici e delle annotazioni a margine nelle edizioni precedenti, ma sarà Engels a seguire e a non seguire le sue indicazioni[5]. Da ciò sono risultate situazioni paradossali, per es. relativamente alla divisione in capitoli e sezioni, per cui chi segue l’edizione francese ed inglese ha una divisione, chi segue la tedesca e le traduzione da essa derivate, ne ha un’altra. L’unico testo pubblicato da Marx è paradossalmente quello su cui ci si intende meno. Insomma: per comprendere Marx non si può prescindere dalla complessa stratificazione del testo, che, nel caso della teoria del capitale, consiste di ben 15 volumi in 24 tomi, vale a dire tutta le seconda sezione della MEGA.


2.
Questa edizione intende presentare al lettore italiano tutti i testi a noi pervenuti che Marx scrisse con l’intenzione esplicita di realizzare il I libro del Capitale. Nel far questo si è cercato di tener conto di un certo numero di traduzioni esistenti – italiane e non –, sia da un punto di vista linguistico che editoriale in senso più generale. Nessuna di esse – ad eccezione, in parte, dell’edizione in castigliano a cura di P. Scaron – è all’altezza della problematica odierna. Il fatto fondamentale è infatti che oggi, dopo la MEGA, non si sa esattamente cosa pubblicare quando si intende dare alle stampe il I libro del Capitale. Qual è l’edizione di riferimento se non ne esiste una di ultima mano di Marx? Si è visto che non è possibile utilizzare la francese per vari motivi. Le scelte sono allora due: o la II ed. tedesca, o la IV (in cui Engels continua ad inserire (pochi) passaggi dalla francese, ma che per il resto è quasi uguale alla III). Nel 1975, in chiave antiengelsiana e con l’idea di pubblicare un “autentico” testo marxiano, nella sua edizione in castigliano Scaron decise di usare la II, mettendo come varianti le versioni successive. Se questa scelta è per certi aspetti legittima, si presta tuttavia a critiche a mio parere sostanziali; la principale è la seguente: troviamo in nota, e non nel testo principale, parti non solo considerate da Marx superiori, ma effettivamente da lui pubblicate nell’ed. francese; i materiali “vecchi” si trovano invece nel testo principale. Usando al contrario la IV (sostanzialmente uguale alla III), si ha almeno la maggior parte di quel contenuto nel corpo del testo. Si noti comunque, per es., come nessuna delle due scelte (II o IV ed. tedesca) presenti il testo principale secondo la suddivisione “finale” dell’ed. francese. In realtà, unica soluzione sarebbe pubblicare tutte le edizioni integrali, operazione editorialmente proibitiva. “Creare” un’opera, ricostruendo il testo sulla base dei manoscritti marxiani per il I volume sarebbe operazione redazionale, di cui sarebbe difficile valutare la “marxianità”. In questa edizione è parso dunque ragionevole adottare come base testuale la IV ed. tedesca del 1890 a cura di Engels; rispetto ad essa si sono date le principali varianti di tutte le altre (I, II, III ed. tedesca, ed. francese). I testi di riferimento sono quelli apparsi nella MEGA, II sezione, voll. 5-10.
Non si fornisce tuttavia solo il tradizionale testo del Capitale con le sue varianti; oltre ad esse (centinaia di pagine) si ha la prima traduzione del Manoscritto 1871-1872, presentato secondo la ricostruzione critica data nel vol. 6 della II sezione della MEGA; si tratta di un testo molto interessante, in quanto è il cantiere di lavoro per la totale riscrittura del primo capitolo sulla Merce del 1867 e della relativa appendice per i “non-dialettici” in preparazione della II ed. tedesca e dell’ed. francese. Esso dà delle indicazioni fondamentali su come leggere il testo a stampa. Si ha infine una nuova traduzione del cosiddetto VI capitolo inedito tratto dal manoscritto 1863/4 secondo quanto pubblicato nella MEGA, II sezione, vol. 4.1.
Vediamo infine, brevemente, come sono strutturati i due tomi. Nel primo il lettore trova il testo della IV ed. tedesca. Nel secondo tomo si hanno le varianti dalla I, II e III edizione tedesca e dalla francese, i due manoscritti indicati (I parte del Manoscritto 1863-65 – il cosiddetto “VI capitolo inedito” – ed il Manoscritto 1871/2) e tutti gli strumenti critici: glossario, note esplicative e indici (pesi e misure, letteratura citata, nomi, argomenti). Si tratta, complessivamente, di circa 1600 pagine.


3.
Per quanto riguarda la traduzione, è noto il detto “traduttore-traditore”; valido in genere, esso assume un particolare significato nel caso del Capitale, un mix di linguaggio hegeliano, sarcasmo pubblicistico, verve umoristica, e via dicendo. Difficile rendere tutto ciò. Si è cercato di fare il possibile per la vivacità dello stile, ma, in relazione alle problematiche più strettamente scientifiche, è parso necessario dedicare alcune pagine alla spiegazione della traduzione di alcuni termini chiave. Le scelte fatte in questa nuova edizione si legano, infatti, ai problemi emersi dal confronto fra le traduzioni esistenti e le problematiche metodologiche sviluppatesi parallelamente alla pubblicazione della nuova edizione storico-critica.
Si era inizialmente pensato di utilizzare la traduzione Cantimori e di dare semplicemente le varianti. Pur restando essa un valido strumento anche a distanza di tempo, ci si è resi conto, tuttavia, di come, similmente a quanto accaduto nella maggior parte delle traduzioni occidentali esistenti, non si fosse riusciti in quella sede a risolvere vari e significativi problemi legati alla complessità categoriale del testo, soprattutto nei primi capitoli. Tale insufficienza ha reso impossibile a chi non potesse accedere al testo tedesco una più profonda comprensione delle problematiche metodologiche e dell’effettivo sviluppo categoriale.
Per quanto riguarda la quarta edizione tedesca, si sono allora ritradotti ex-novo i primi sette capitoli e si è significativamente rivista la parte restante (le traduzione delle varianti e degli altri manoscritti sono tutte nuove). Come accennato, per un principio di trasparenza e chiarezza, si è deciso di rendere conto delle scelte di traduzione in un ampio glossario. Tradurre un certo termine in un certo modo significa, infatti, fare delle scelte interpretative. Se ciò è inevitabile, pare corretto palesarlo. Ecco qui una lista di alcune delle categorie interessate di ciascuna delle quali si rende: Veräußerung/Entäußerung, Ding/Sache, wirklich/reell, darstellen/vorstellen/repräsentieren, Erscheinung/Schein e varie altre.
Per questa via, il lettore ha accesso al testo tedesco e, se pur dissentisse con la scelte adottate, avrebbe la possibilità di risalire al termine/categoria in questione.


4.
Non in questa sede vorrei parlare delle possibili nuove interpretazioni del testo, per non sovrapporle al carattere critico dell’edizione. In maniera più generale mi pare si possa tuttavia affermare che diverse delle interpretazioni tradizionali, anche relativamente a punti fondamentali diventati senso comune perché trasformati in assiomi da manuale, paiono, direi, “imprecise” ad una lettura filologica e disinteressata del testo. Con ciò intendo dire che anche sviluppi sofisticati della teoria di Marx, risultato di dibattiti complessi e di grande valore conoscitivo, non di rado hanno preso le mosse da una non precisa formulazione dei presupposti. Credo che il grande contributo della filologia, in un momento di crisi e ristagno generale nel panorama teorico in qualche modo connesso a Marx, stia non tanto nel far rivivere dibattiti secolari ormai sostanzialmente chiusi da decenni, o nell’andar oltre quel Marx mal letto, quanto nel ripensare la correttezza delle premesse di quelle interpretazioni, il loro fondamento filologico. A me sembra che, pur nell’ampio spettro delle letture possibili, la filologia aiuti ad escluderne alcune sicuramente infondate, o a dare maggiore o minore supporto ad altre plausibili. A mio parere è questa la scelta più proficua e scientificamente feconda da fare e mi auguro che questa nuova edizione possa contribuire in tal senso.

Roberto Fineschi

[1] Per maggiori informazioni sulla MEGA rimando al mio Un nuovo Marx, Roma, Carocci, 2008 ed al volumetto in corso di pubblicazione MEGA2, Marx ritrovato, a cura del compianto A. Mazzone, Roma, Mediaprint.

[2] Sui manoscritti per il II libro rimando al mio Il secondo libro del Capitale dopo la MEGA2 in “Marxismo oggi”, 2010/3, pp. 32 ss., ripreso nella nuova introduzione al menzionato libro curato da A. Mazzone. pp. 25 ss.

[3] Sui principali problemi legati al manoscritto per il terzo libro del 1864/5 in rapporto al libro a stampa, rimando al mio Ripartire da Marx, Napoli, La città del sole, 2001, pp. 370 ss.

[4] Il fatto che Marx stesso abbia detto che questa edizione era da preferire ha spinto molti a ritenerla migliore “in generale”. In realtà, la ricostruzione filologica permette di mostrare con estrema precisione quali siano le migliorie e quali i difetti. Senza entrare nel merito di questo dibattito, per il quale rimando alla mia Introduzione al Capitale, si può affermare che le migliorie sono da trovarsi nella settima sezione sull’accumulazione, mentre i difetti sono….la traduzione stessa, che per circa un terzo del testo si discosta significativamente dall’originale, al punto che non vi si trova addirittura il concetto di “valorizzazione”!

[5] Cfr. K. Marx, Verzeichnis der Veränderungen für den ersten Band des “Kapitals“ in K. Marx, F. Engels, Gesamtausgabe, sez. II, vol. 8, Berlin, Dietz, 1989.

Roberto Fineschi ha studiato filosofia ed economia a Siena, Berlino e Palermo. Fra le sue pubblicazioni ricordiamo Ripartire da Marx (Napoli 2001), Marx e Hegel (Roma 2006) e Un nuovo Marx (Roma 2008). Vincitore del premio Rjazanov, è membro dell’International Symposium on Marxian Theory, con il quale ha pubblicato vari saggi e libri, fra cui Re-reading Marx. New perspective after the critical edition, Palgrave 2009.


Dove, in «sinistrainrete»,
si parla di e con Roberto Fineschi

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34. Giovanni Sgro’: Sul cosiddetto «Capitolo sesto inedito» di Marx
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35. Riccardo Bellofiore: Il Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto, e la sua costituzione
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37. Alfonso Gianni: Karl Marx, le revenant
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38. O.Calcagno e G.Ragona: Il ritorno di Marx in Italia
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39. Oscar Oddi: Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia
... rivendica l’attualità della dialettica di Hegel, del socialismo scientifico di Marx, della critica del colonialismo di Lenin e del comunismo critico di Gramsci, e infine le riflessioni di Roberto Finelli, ...Created on 18 October 2011
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...  (Marx in questione, a cura di Riccardo Bellofiore e Roberto Fineschi). Sono molti gli aspetti del capitalismo che l'opera di Marx, un secolo e mezzo dopo, riesce ad interpretare con insuperato rigore: perfi ...Created on 15 July 2010
45. Michele Nobile: Il marxismo italiano, senza Capitale
... prospettive, Mimesis, Milano 2005, a cura di Roberto Fineschi 4 Cristina Corradi, «Storia dei marxismi in Italia: un tentativo di sintesi», in Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento, ...Created on 13 April 2008

Alcuni libri di

Roberto Fineschi

 

Karl Marx. Rivisitazioni e prospettive, Mimesis, 2005

Karl Marx. Rivisitazioni e prospettive, Mimesis, 2005

Marx ed il marxismo non sono la stessa cosa. Il marxismo è stato un movimento storico-politico caratterizzato da luci e ombre (e ovviamente non solo da ombre) che a Marx si è ispirato. Ma credere che a questa esperienza storica si possa ridurre il lascito e la portata teorica di un autore così importante non è solo sbagliato, è una sciocchezza. Questo libro si ripropone di contribuire alla sua riscoperta attraverso approcci diversi, interdisciplinari, tutti volti a mettere in luce il senso di esperienze passate nella prospettiva di un possibile utilizzo attuale e futuro. Perché la fine della moda non significa la fine del pensiero.

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Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Caroci, 2006

Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Carocci, 2006

Il libro affronta il rapporto Marx-Hegel alla luce di un’analisi filologica dei testi e di larga parte del dibattito italiano e internazionale svoltosi intorno alla questione. Cerca di ricostruire lo sviluppo della comprensione marxiana di Hegel, per definire rigorosamente che cosa egli intenda quando dice “Hegel” e “dialettica”, che mette poi a confronto con gli scritti di Hegel. In tale confronto individua da una parte limiti significativi e dall’altra mostra che l’origine di essi deriva dalla ricezione del maestro nella sinistra hegeliana. Attraverso la distinzione fra la comprensione marxiana e gli scritti di Hegel, l’autore dimostra la coerenza interna di tutte le affermazioni marxiane su Hegel, quindi in che senso la sua sia una teoria dialettica.

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Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del Capitale, La Città del Sole, 2006

Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del Capitale, La Città del Sole, 2006

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Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA), Carocci, 2008

Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA), Carocci, 2008

Marx è un autore per molti aspetti nuovo. Questo libro è uno dei primi studi italiani che, alla luce degli inediti, si cimenta con la ricostruzione del pensiero dell’autore tedesco. Quattro i suoi nuclei tematici: la presentazione dell’edizione critica e del dibattito che l’ha accompagnata; il I libro del Capitale, che possiamo leggere oggi nella sua stratificazione redazionale; un’analisi critica delle potenzialità di questo testo per lo sviluppo di una teoria dei soggetti storici; alcuni aspetti del marxismo italiano.

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Marx-Engels, Opere complete, vol. 31, La Città del Sole, 2011 a cura di R. Fineschi

Marx-Engels, Opere complete, vol. 31, La Città del Sole, 2011 a cura di R. Fineschi

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Roberto Fineschi – Tommaso Redolfi Riva – Giovanni Sgro’ (a cura di), Karl Marx 2013, «Il ponte», LXIX (2013), nn. 5-6 (maggio-giugno 2013).

Roberto Fineschi – Tommaso Redolfi Riva – Giovanni Sgro’ (a cura di), Karl Marx 2013, «Il ponte», LXIX (2013), nn. 5-6 (maggio-giugno 2013).




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cicogna petite

Costanzo Preve (1943-2013) – Telling the truth about capitalism and about communism. The dialectic of limitlessness and the dialectic of corruption. Dire la verità sul capitalismo e sul comunismo. Dialettica dell’ illimitatezza, dialettica della corruzione.

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Costanzo Preve

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Dire la nuda verità

Gustav Klimt, Nuda Veritas,1899

Zenone di Elea indica le porte della verità e della falsità- affrescp all'Escorial di Madrid

Zenone di Elea indica le porte della verità e della falsità, affresco all’Escorial di Madrid.


Telling the truth about capitalism and about communism.

The dialectic of limitlessness and the dialectic of corruption

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Dire la verità sul capitalismo e sul comunismo.

Dialettica dell’illimitatezza, dialettica della corruzione

 


Traduzione in inglese di Dimitri Papandreu


Costanzo Preve,
Telling the truth about capitalism and about communism
– Dire la verità sul capitalismo e sul comunismo

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This is a philosophical text, it is not recommended for people who lack patience and who do not read things many times over until they have understood them. In truth, this text originates from a reflection on a recent event in contemporary politics: the fact that in this November of 2011 the ex-communists of the transformist-metamorphosizing serpent PCI-PDS-DS-PD have become the main supporters of the externally imposed, ultra-capitalist economic commissar of Italy, Mario Monti, a Goldman Sachs man. But since I pulled the plug long ago on the manipulated and drugged conflict between Right and Left (and between the Party of the Bs and the Party of the anti-Bs), I will not waste time here addressing such nonsense as can be read about everyday in the circus of the media and seen every hour in the circus of the television.

Questo è un testo filosofico, sconsigliato a chi non ha pazienza e non legge le cose molte volte fino a che non le ha capite. In realtà parte da un recente accadimento dell’attualità politica, il fatto che gli ex-comunisti del serpentone metamorfico-trasformista PCI-PDS-DS-PD siano in questo novembre 2011 i principali sostenitori del commissariamento economico ultra-capitalistico dell’Italia da parte di Monti, uomo della Goldman Sachs. Dal momento però che ho staccato da tempo la spina nel conflitto drogato e manipolato Destra/Sinistra e del Partito dei B/Partito degli anti-B, non intendo perdere tempo con sciocchezze leggibili ogni giorno nel circo mediatico e visibili ogni ora in quello televisivo.

I will address instead a long-standing question, called dialectic. The dialectic is at the heart of a philosophical understanding of historical processes. I have written two words here: philosophy and history, or more precisely: philosophical understanding of historical events. We live in an age wherein it is taken for granted that economics can, by itself, sufficiently explain what really goes on in society; to economics can be added a touch of literature to shed light on individuals’ psychological conflicts. It would seem as though there were no place left for philosophy anymore.

Mi occuperò di un problema di lungo periodo, chiamato dialettica. La dialettica è al cuore della comprensione filosofica dei processi storici. Ho così scritto due termini: filosofia e storia, o più esattamente comprensione filosofica dei fatti storici. Viviamo in un tempo in cui si dà per scontato che per capire il lato sociale dell’attualità basti ed avanzi l’economia, integrata dalla letteratura per quanto riguarda i conflitti psicologici degli individui. Sembra che la filosofia non abbia nessuno spazio.

 

 

This writer thinks differently. Philosophy, if used well, can illuminate the historical present even better than can literature (which is still marvelous) and certainly better than can economics (which instead is miserable). But if used badly, philosophy is a waste of time. It would be better to contemplate enigmas, read detective novels, or go fishing.

Chi scrive la pensa diversamente: la filosofia, se bene usata (se male usata è una pura perdita di tempo, meglio l’enigmistica, i romanzi polizieschi e la pesca con la lenza) illumina il presente storico ancora meglio della letteratura (che pure è meravigliosa) e certamente meglio dell’economia (che invece è miserabile).

This philosophical text is divided into four parts; they are, respectively:
1. Introduction to the Dialectic
2. Capitalism: the Dialectic of Limitlessness
3. Communism: the Dialectic of Corruption
4. Open and Provisional Conclusions

Questo testo filosofico è diviso in quattro parti, rispettivamente:
1. Introduzione alla dialettica
2. Il capitalismo, la dialettica dell’illimitatezza
3. Il comunismo, la dialettica della corruzione
4. Conclusioni aperte e provvisorie

 

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1. Introduction to the Dialectic
Philosophy, even when it seems most complicated, is always and exclusively concerned with questions of everyday life. Do not trust the people who tell you that philosophy is about things that are inaccessible to everyday good sense and to the common intellect. They are the philosophical equivalents of con artists and frauds. Philosophy, it is true, makes recourse to a specialized language in order to elaborate and systematize some of its questions (and in this it is like physics). But philosophy’s questions should nevertheless always remain accessible to the common intellect. Of the common intellect it is required only that it remain psychologically open to the possibility of understanding something new, and that it not close itself up like a clam.

1. Introduzione alla dialettica
La filosofia, anche quella apparentemente più complicata, parte sempre e soltanto dalla vita quotidiana. Diffidate da coloro che dicono che essa si occupa di cose inaccessibili al buon senso e all’intelletto comune. Costoro sono l’equivalente filosofico dei piazzisti e degli imbonitori. La filosofia però elabora e sistematizza in linguaggio necessariamente specialistico (simile in questo alla fisica) questioni accessibili anche e soprattutto all’intelletto comune. È sufficiente però che l’intelletto comune non si “chiuda a riccio”, ma accetti psicologicamente il terreno della possibile comprensione.

The dialectic is about how things change and do not stand still or remain the same over time (here I will spare the reader the history of the dialectic itself, although I have written a book on the subject). By “things” I do not mean shoes, stones or fish, but processes – the developmental processes of natural and social phenomena. In regards to natural phenomena, the main application of the dialectic is the theory of evolution, as is evident in the life sciences and also in geology and astrophysics. In regards to social phenomena, the dialectic must take into account a particular element that is nonexistent in natural phenomena, and that is the human will, which acts upon and changes the “given” world it finds before itself. In philosophy, this phenomenon is called “praxis” and it certainly wasn’t invented by Marx and the Marxists (come on!), the term was already being used by the ancient Greeks (particularly by Aristotle) and by the great German idealists of the early eighteen hundreds (particularly by Fichte).

La dialettica (risparmio qui al lettore la sua storia, cui io però ho dedicato un libro apposito [Storia della dialettica]) parla di come le cose cambiano e non restano ferme e sempre uguali nel tempo. Per “cose” si intendono non le scarpe, i sassi, i pesci, ma i processi, e cioè i processi di sviluppo dei fenomeni naturali e sociali. Per quanto riguarda i fenomeni naturali l’applicazione principale della dialettica è la teoria dell’evoluzione, non solo per quanto riguarda le scienze della vita, ma anche la geologia e l’astrofisica. Per quanto riguarda i fenomeni sociali, la dialettica deve tenere conto di un elemento inesistente nei fenomeni naturali, e cioè la volontà umana, che progetta e modifica il mondo che si trova davanti “dato”. In filosofia, questo fenomeno si chiama “prassi”, e non se lo sono certamente inventati Marx e i marxisti (ma andiamo!), ma il termine c’era già presso gli antichi greci (particolarmente in Aristotele) e presso i grandi idealisti tedeschi di inizio ottocento (particolarmente in Fichte).

So, the dialectic is about change and mutation. But there are two different types of change. The first type of change is that which derives from the external action of a subject onto a passive object (for example, a sculptor chiseling a stone). The second type of change is that which derives from a change internal to the thing itself (for example, the process of aging, which occurs against our will).

Quindi, la dialettica parla del cambiamento e del mutamento. Ma ci sono due tipi diversi di cambiamento. Un primo tipo di cambiamento è quello che deriva da un’azione esterna di un soggetto su di un oggetto rimasto passivo (per esempio, il modellare una pietra con uno scalpello). Il secondo tipo di cambiamento è quello che deriva da un cambiamento interno alla cosa stessa (per esempio, l’invecchiamento, che avviene contro la nostra volontà).

The dialectic is the understanding of a process’s internal changes – and this understanding can be applied to processes that are historical and political. Politics, generally speaking, is only the superficial layer of history. If you try to understand history by beginning with politics, you will never understand it. If instead you try to understand politics by beginning with history, it is not certain that you will understand it but at least it’s worth a try.

La dialettica è la comprensione dei cambiamenti interni di un processo, comprensione applicata ai processi storici e politici. La politica, in prima approssimazione, è soltanto lo strato superficiale della storia. Se si parte dalla politica per capire la storia, non la si capirà mai. Se invece si parte dalla storia per capire la politica, non è detto che la si capisca sicuramente, ma almeno ci si può provare.

Because the dialectic is threatening to historically dominant groups it has been particularly maligned in university philosophy departments, which are generally nothing more than costly ideological apparatuses of these same dominant classes who want to make simple things appear complicated so that the general intellect cannot understand them (as do, by the way, university economics departments).

La dialettica, appunto perché pericolosa per i gruppi storicamente dominanti, è diffamata in particolare nelle facoltà universitarie di filosofia, che sono in generale costosi apparati ideologici delle stesse classi dominanti, e devono far diventare complicate le cose semplici, in modo che l’intelletto comune non le capisca (come fa, del resto, la facoltà universitaria di economia).

There is not the space here, nor the need, to enumerate in detail all of the many variants of defamation the dialectic has endured. I will summarily review only the three main variants (although there are many others):

Non vi è qui lo spazio, e neppure la necessità, per enumerare in dettaglio tutte le numerosissime varianti della diffamazione della dialettica. Ricordo qui solo sommariamente le tre principali (ma ce ne sono molte altre):

(1) The dialectic is an instrument of philosophers, but philosophy itself is not a trustworthy form of knowledge of the real. Only science is trustworthy, and science does not utilize the dialectic but only common logic, which it applies to mathematics and to controlled experiments. In three thousand years philosophers have never been able to agree on anything, lost as they are in their endless chatter about things they cannot prove. Science, on the other hand, has succeeded in establishing precise protocols for determining truth and for rejecting false hypotheses.
In response to this objection the following can be said: Even if it is granted that science does not use the dialectical method (which in fact it does according to eminent scientists) this is only because the specific character of its object does not require it. The object of the natural sciences (astronomy, physics, chemistry, biology, genetics, geology, etcetera) is different from the object of the human social sciences wherein the subjective agencies of individuals and groups intervene and exert a fallback, dialectical effect on the subjective agencies of others with whom they may be in opposition and/or in agreement.

(1) La dialettica è uno strumento dei filosofi, ma la filosofia non è una conoscenza affidabile del reale. Soltanto la scienza lo è, e la scienza non utilizza la dialettica, ma soltanto la logica comune, applicata alla matematica e all’esperimento controllato. In tremila anni i filosofi non sono mai riusciti a mettersi d’accordo con le loro chiacchiere interminabili ed indimostrabili, mentre la scienza invece ha precisi protocolli di verificazione e di falsificabilità delle ipotesi eventualmente errate.
A questa obiezione si può rispondere che, anche ammesso che la scienza non utilizzi mai il metodo dialettico (ma insigni scienziati sostengono che invece lo usa), questo riguarda solo l’oggetto delle scienze della natura (astronomia, fisica, chimica, biologia, genetica, geologia, eccetera), mentre nella storia sociale umana interviene la soggettività progettuali individuale e collettiva, che retroagisce dialetticamente con altri progetti opposti e/o convergenti.

(2) The dialectic is an instrument of sophistry used to justify and explain everything and anything that happens, including acts of human evil and viciousness ranging from Auschwitz to Hiroshima, and from Hitler to Stalin. If history is indeed endowed with an inexorable necessity, it then becomes possible to justify everything as being a product of an almost “natural” historical necessity.
In response to this objection the following can be said: This would be true if history were a branch of the natural sciences characterized by modal categories of necessity (as though it were physics, with its equations for a falling body), but it is not. The dialectic is simply there to assist in the understanding of why a certain process, begun with certain intentions, reaches an end that turns out to be the exact opposite of what was expected. The great Italian philosopher Vico spoke of the “heterogony of ends” in regards to this occurrence, but even if you are not familiar with the history of philosophy you can still intuit this by reflecting on the experiences of everyday life, wherein we often find ourselves pursuing certain projects or goals that end up becoming the exact opposite of what we had imagined or wanted.

(2) La dialettica è uno strumento sofistico per giustificare tutto ciò che avviene, ed in questo modo si può sempre giustificare e spiegare tutto, compreso il male e la malvagità umana, da Auschwitz a Hiroshima, da Stalin a Hitler. Se infatti alla storia viene attribuita una inesorabile necessità storica, allora diventa possibile giustificare tutto come prodotto di una necessità storica quasi “naturale”.
A questa obiezione si può rispondere che questo sarebbe vero se la storia fosse una branca delle scienze naturali caratterizzate dalla categoria modale delle necessità (tipo caduta dei gravi in fisica) ma questo non è. La dialettica non intende affatto giustificare tutto, al contrario. La dialettica aiuta semplicemente a capire il perché un certo processo, partito con certe intenzioni, si è rovesciato alla fine nel suo esatto contrario. Il grande filosofo italiano Vico ha parlato in proposito di “eterogenesi dei fini”, ma anche chi non conosce la storia della filosofia ha sperimentato il fatto quotidiano che spesso ci si ripropone una cosa o un progetto, e si ottiene l’esatto contrario, che non avremmo mai voluto.

(3) The dialectic is a form of religion for intellectuals who imagine the world as being “alienated” or upside down, consequently they think the world needs to be turned right side up. In reality the world is not at all upside down and therefore it has no need of being turned right side up. Intellectuals such as these should instead try their best to accept the world for how it actually is. The Marxist dialectic in particular, which conceives of capitalism as an alienated world standing on its head, tends to imagine that once upon a time at the beginning of history there existed a normal world standing properly on its feet – and now, at the end of history, that lost world stands to be restored. This is nothing other than the transcription into a sophisticated philosophical language of the monotheistic religious concept of an original Terrestrial Paradise that was lost due to God’s punishment of Original Sin.
In response to this objection the following can be said: The dialectic is not at all concerned with the imaginary restoration of a lost Origin that will be accomplished through the work of a demiurgical Subject who is actually the social-historical manifestation of the Body of Christ (this imaginary restoration would occur at the preordained Final End of History, and would correspond to communism – but this would be a communism for fools). Instead, the dialectic is concerned with analyzing historical processes from a point of view that is internal to the processes themselves, and not external to them.

(3) La dialettica è una forma di religione per intellettuali, che si inventano un mondo “alienato” a testa in giù da raddrizzare, laddove il mondo reale non è affatto a testa in giù, e quindi non deve essere affatto raddrizzata, ma va preso così com’è nel migliore modo possibile. In particolare la dialettica marxista, presupponendo che il capitalismo è un mondo alienato da raddrizzare, immagina che ci sia stato un tempo, all’origine della storia, un mondo diritto, normale, che si tratta di restaurare. Si tratta della trascrizione in linguaggio filosofico sofisticato nella concezione religiosa monoteistica per cui c’è stato all’origine un Paradiso Terrestre, perduto a causa di un Peccato Originale punito da Dio.
A questa obiezione si può rispondere che la dialettica non si occupa di una pretesa ed inesistente restaurazione di una Origine nel frattempo perduta ad opera di un Soggetto demiurgico, che non sarebbe altro che la manifestazione storico-sociale del Corpo di Cristo, in vista di un Fine Ultimo della Storia già prefissato (il comunismo, appunto, ma sarebbe un comunismo per imbecilli), ma di un’analisi degli sviluppi storici da un punto di vista interno al processo stesso, e non invece esterno.

Our discourse has just gotten started, but for now I will bring it to an end. In the next parts of the text I will “apply” the discourse to two phenomena that are dialectically interconnected, but which I will address separately: the dialectic of capitalism characterized by limitlessness, and the dialectic of communism characterized by corruption. I am referring obviously to real existing capitalism and not to its utopian representation wherein the harmony of the market is majestically arranged by the market’s own “invisible hand,” and I am referring to real existing communism and not to its idealized representation issued forth from the hand of Marx.
It is impossible to write the things I have in mind without irritating someone. But if a philosopher is frightened by the possibility of causing irritation and the defamatory gossip that might ensue, then he would be better off to stop philosophizing altogether and open a popcorn stand.

Il discorso sarebbe appena cominciato, ma possiamo per ora terminarlo qui, in quanto verrà “applicato” a due fenomeni, trattati separatamente, ma in realtà dialetticamente interconnessi, la dialettica del capitalismo, caratterizzata dalla illimitatezza, e la dialettica del comunismo, caratterizzata dalla corruzione. Parlo ovviamente del capitalismo realmente esistente, e non di quella rappresentazione utopica di esso caratterizzata dalle presunte armonie del mercato e dalla “mano invisibile” del mercato stesso, e del comunismo realmente esistito, e non di quella rappresentazione idealizzata presa da Marx.
Impossibile scrivere queste cose senza irritare qualcuno. Ma se il filosofo si spaventasse per l’eventualità dell’irritazione e del gossip diffamatorio, tanto varrebbe smettere di filosofare ed aprire una baracchetta di pop-corn.

 

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2. Capitalism: the Dialectic of Limitlessness
Before being a society bound by the reproduction of strict economic laws, capitalism is a social-historical process characterized by a specific dialectic. That is the dialectic of limitlessness, which is characterized by the impossibility of respecting any limit set by the bounds of religion, philosophy or politics. Here I assume that the reader is already familiar with the history of the first era of capitalist globalization from the fifteenth to the seventeenth centuries (studied by Wallerstein), with the economic periodization of capitalism (studied by Giovanni Arrighi), with the second era of imperialist globalization of the late nineteenth century, and with the third, current era of capitalist globalization (studied in particular by David Harvey). I will limit myself, deliberately, to only the philosophical-dialectical side of the problem.

2. Il capitalismo: la dialettica dell’illimitatezza
Prima di essere una società dominata dalla riproduzione di vincoli economici ben precisi, il capitalismo è un processo storico sociale caratterizzato da una specifica dialettica. Si tratta della dialettica della illimitatezza, caratterizzata dalla impossibilità di rispettare un limite definito in via religiosa, filosofica e politica. Qui diamo per scontata nel lettore la conoscenza storica della prima globalizzazione capitalistica mondiale (studiata da Wallerstein) fra il Quattrocento ed il Seicento, della periodizzazione economica del capitalismo (studiata da Giovanni Arrighi), della seconda globalizzazione imperialista di fine Ottocento, e dell’attuale terza globalizzazione capitalista (studiata in particolare da David Harvey). Mi limiterò invece volutamente al solo aspetto filosofico-dialettico del problema.

The dialectic of limitlessness was already studied most admirably by the ancient Greeks, and their study of it is in fact philosophically complete. But the ancient Greeks could obviously not apply it to a capitalism that did not yet exist. Instead, they applied it to the limitless accumulation of monetary wealth and tyrannical, despotic political power that threatened the communitarian reproduction of the polis. The reader should not bother looking for these things in the usual history of philosophy textbooks, which are written for the sole purpose of de-historicizing and de-socializing their subject matter. Textbooks make it seem as though somewhere in the distant past the ancestors of our science departments got together and began debating whether the world was born from water or from air, whether voids actually exist or do not exist, whether the world was created by chance (Odifreddi’s true ancestors!) or by a superior mind (Ratzinger’s true ancestors!), etcetera, in an orgy of stupidity.

La dialettica della illimitatezza fu già studiata in modo mirabile (e di fatto filosoficamente completo) dagli antichi greci, che ovviamente non potevano applicarla ad uno ancora inesistente capitalismo, ma la applicavano all’accumulazione illimitata di ricchezze monetarie e di potere politico tirannico e dispotico che minacciava la riproduzione comunitaria della polis. Il lettore non cerchi di capirci qualcosa con i consueti manuali di storia della filosofia, costruiti sulla base della destoricizzazione e della desocializzazione. Sembra che ad un certo punto alcuni precursori delle facoltà scientifiche abbiano cominciato a dire che il mondo nasce dall’acqua o dell’aria, che c’è il vuoto oppure non c’è, che il mondo è stato fatto a caso (dei veri precursori di Odifreddi!), oppure che è stato fatto da una mente superiore (dei veri precursori di Ratzinger!). Eccetera, in un’orgia di stupidità.

What nonsense. The first philosophers were first of all communitarian legislators who, in order to gain credibility and influence among their fellow citizens, had to appear as learned experts of nature (physis) given that for the Greeks there existed no pact with God and therefore no prophets or Messiahs, whether bearded or clean-shaven, or human or divine. They proposed communitarian laws (nomoi) based on a social calculation of what constituted the right distribution of goods (logos); their laws met the standard of justice (dike) because they applied the principle of the just measure (metron).

Sciocchezze. I primi filosofi erano prima di tutto legislatori comunitari, che per rendersi autorevoli e credibili presso i loro concittadini in termini di proposte legislative comunitarie (nomoi), rette da un calcolo sociale della buona distribuzione dei beni (logos), che per andare incontro alla giustizia (dike) dovevano prima di tutto applicare la giusta misura (metron), dovevano apparire come conoscitori della natura (physis), visto che per i greci non esisteva nessun patto con Dio, e quindi non ci potevano essere profeti e Messia, non importa se barbuti o rasati, umani o divini.

Starting from nature, it seemed clear that the limit was a principle of order (taxis) whereas the limitless (apeiron) was a principle of uncontrollable destructiveness. If this were true in nature then it must also be true in society, particularly in regards to the limitless power of wealth. Don’t imagine that you can find any of this in philosophy textbooks. I have assigned them to students myself for 35 years, which is like Galileo being forced to assign geocentric textbooks, or Darwin being forced to assign creationist ones. Oh the things we won’t do to make it to retirement!

Partendo dalla natura, appariva chiaro che mentre il limite è un principio di ordine (taxis), l’illimitato (apeiron) è invece un principio distruttore ed incontrollabile, e così come lo è in natura, così lo è anche nella società (e cioè il potere illimitato delle ricchezze). Non crediate di poter trovare queste cose nei manuali di filosofia. Li ho adoperati io stesso per 35 anni, ed è come se Galileo fosse stato costretto a servirsi di un manuale geocentrico e Darwin di un manuale fissista. Ma cosa non si fa per la pensione!

Pythagoras was the first to numerically systematize the principle by which the limit is better than the limitless. Plato was simply one of Pythagoras’ Athenian pupils well-versed in Socratic dialogue. Parmenides was the first to use the (apparently abstract, but in reality quite concrete) term Being to denote the metaphorically permanent, eternal observance of the good Pythagorean political laws that were capable of impeding the destructive irruption of wealth, which he metaphorically denoted with the term Nothingness (and which high school and university textbooks mistake for a pneumatic void). And I could go on. But what matters here is to have understood the essential: when the great philosophers of Greek antiquity were confronted with processes of corruption and social unraveling caused by monetary wealth and debt slavery (just as we today are confronted with new forms of capitalist debt slavery) they had already dialectically understood that without a limit imposed by the human will and inspired by the principle of the just measure, there would be no way to stop and oppose (katechon) the destructive power unleashed by the limitless.

Pitagora fu il primo a sistematizzare numericamente il principio per cui il limite è migliore dell’illimitato. Platone non ne fu che un allievo ateniese passato per il dialogo socratico. Parmenide fu il primo che con il termine (solo apparentemente astratto, ed è in realtà concreto) di Essere intese indicare la metafora del mantenimento permanente “eterno” di una buona legislazione politica pitagorica capace di impedire l’irruzione distruttiva della ricchezza (metaforizzata correttamente con il termine di Nulla, che i manuali liceali ed universitari scambiano per il vuoto pneumatico). E potremo continuare. Ma ciò che conta è capire che il grande pensiero filosofico greco, di fronte ai processi di corruzione e di dissolvimento portati dalla ricchezza monetaria e dalla schiavitù per debiti (esattamente lo stesso problema cui siamo oggi di fronte, una nuova versione capitalistica della schiavitù per debiti), aveva già dialetticamente capito che senza un limite, posto dalla volontà umana ispirata dalla misura, non c’era modo di fermare e di opporsi (katechon) allo scatenamento delle potenze distruttive dell’illimitato.

We can be brief in surveying the historical period extending from 300 before Christ to 1700 after Christ. But since Christianity lies at the core of this period, and Christianity is a historical phenomenon as big as the Himalayas, we cannot exactly “leap” over its philosophical import. For Christians, only God is limitless and infinite, whereas humans are by nature “finite.” But the symbolic governance of human finiteness is delegated to a particular power: the Christian churches. The churches (regardless of their bloody divisions) make human finiteness commensurable with political class relations that defend first ancient slavery, then feudalism, then seigneurialism, then absolutism, and finally capitalism. Although God is supposed to be “neutral” regarding the economy, he just so happens to be almost always on the side of the ruling classes. Yet symbolically, God also acts as a limit to the limitless arrogance of these very same ruling classes, who have by their sides not economists but priests to whom they must confess. We are not dealing with pure hypocrisy here, even though the hypocritical aspect is provocatively dominant and has always nurtured successive waves of simple-minded, “secular” anticlericalism. But the fact still remains that the belief in God was in itself a limit, albeit often a fragile one, to the tendencies to limitlessness of money and power.

Facciamola corta sulla storia dal Trecento avanti Cristo al Mille e Settecento dopo Cristo. Dal momento però che in mezzo c’è il cristianesimo, che è un fenomeno storico grande come l’Himalaya, non posso “saltare” del tutto il suo “risvolto” filosofico. Per i cristiani l’unico illimitato ed infinito è Dio, mentre gli uomini per loro stessa natura sono “finiti”. Ma la gestione simbolica di questa finitezza è delegata ad un potere particolare, le chiese cristiane (prescindo qui dalle loro divisioni sanguinose), che commisura questa finitezza ai rapporti politici di classe che di volta in volta difende, prima schiavistici, poi feudali, poi signorili, poi assolutisti ed infine capitalistici. Dio è presupposto “neutrale” rispetto all’economia, ma guarda caso è quasi sempre a fianco dei dominanti. Dio però è simbolicamente anche un limite all’illimitata prepotenza dei dominanti stessi, che infatti a fianco non hanno economisti, ma confessori. Non si tratta di pura ipocrisia, anche se l’aspetto ipocrita è provocatoriamente dominante, ed ha sempre nutrito tutti i facili anticlericalismi “laici” successivi. Il fatto però di credere in Dio era di per sé un limite, sia pure spesso fragile, alle tendenze alla illimitatezza del denaro e del potere.

Capitalism cannot be born on the basis of an external limitation acting on the economy – it especially cannot be born philosophically in this manner. Therefore as a matter of principle, capitalism is born as philosophically limitless. The accumulation of capital must conceive of itself as being theoretically limitless, even while it contemplates the ecological limits of nature and the limits imposed by human morality. Bearing this in mind, we may now examine the philosophical birth of capitalism’s new, more restricting way of conceiving of limits.

Il capitalismo non può nascere, soprattutto filosoficamente, sulla base di una limitazione esterna all’economia stessa. Esso nasce quindi come filosoficamente illimitato in via di principio. L’accumulazione del capitale deve pensarsi come teoricamente illimitata, sia pure in presenza dei limiti ecologici della natura e dei limiti dovuti alla moralità umana. Bisogna quindi prestare attenzione alla nascita filosofica del nuovo tipo di limitatezza del capitalismo.

For the sake of saving time I will skip over the interesting covenant between capitalism and Calvinism, which in my opinion is greatly overestimated. I will turn the reader’s attention instead to the seventeen hundreds. At around this time there existed three theoretical “limits” to what would otherwise be the unrestrained dominance of the economy. They were, in order of importance: a religious limit (God), a philosophical limit (natural law, or jusnaturalism), and a political limit (the social contract, or contractualism). Yet once the nascent discipline of political economy sought to establish itself as a completely self-contained and self-referential entity, independent of any external foundation that might limit it in any way, it became necessary to dispose of God, of natural law, and of the social contract. This remarkable enterprise was undertaken by a pair of Scotsmen, David Hume and Adam Smith. Rather than go into details here, let me make sure the reader has understood the heart of the matter.

Intorno al Settecento circa (risparmio qui le pur interessanti promesse del rapporto fra capitalismo e calvinismo, a mio avviso largamente sopravvalutate) i tre “limiti” teorici al dominio incontrollato dell’economia erano nell’ordine un limite religioso (Dio), un limite filosofico (il diritto naturale, o giusnaturalismo) ed un limite politico (il contratto sociale, o contrattualismo). Perché l’economia politica potesse autofondarsi su se stessi integralmente, senza alcun bisogno di fondazione esterna che la limitasse, bisognava disfarsi dell’ordine di Dio, del diritto naturale e del contratto sociale. Chi compì questa notevole impresa fu una coppia di scozzesi, David Hume ed Adam Smith. In questa sede, non posso scendere nei particolari, e devo accontentarmi del cuore del problema.

I repeat: the heart of the matter is political economy’s act of self-foundation, its declaration of independence from any “limits” imposed by factors external to the economy itself, such as God (religion), natural law (philosophy), or the social contract (politics). Without being subject to any “external” limitations, and appearing to be completely self-sufficient, self-perpetuating and sovereign, the economy assumes the symbolic status of an absolute power. We are dealing here with a conceptual totalitarianism that not even religions have dared to attempt (God is in fact always a “limit” to human behavior). Leaving aside for now the names and dates, I will get right to the core of political economy’s reasoning.

Ripeto: il cuore del problema è l’autofondazione dell’economia politica su se stessa, senza dipendenze (e cioè senza “limiti”) da parte di fattori esterni all’economia stessa, come Dio (religione), diritto naturale (filosofia) o contratto sociale (politica). Perché l’economia possa avere un potere simbolico assoluto, non deve essere limitata da niente di “esterno”, ed apparire come completamente autosufficiente e sovrana su se stessa. Si tratta di un totalitarismo concettuale che persino le religioni non hanno mai osato sostenere in questa forma (Dio è infatti sempre un “limite” per i comportamenti umani). Qui lascio perdere i nomi, e giungo al nocciolo del ragionamento.

The economy is sovereign because it is based on human nature, which is seen to exhibit a spontaneous propensity and an innate inclination for the exchange of goods and services between buyers and sellers. This spontaneous behavior has no need of any external foundation, be it God, or natural law, or the social contract. Let’s follow the reasoning further: political economy is skeptical regarding God, and not atheist or materialist. It has no need to assert that God does not exist, or that priests are shamans and sorcerers who take advantage of ignorant people’s superstitions. This the economists can leave to the fanatical secularists, and to their tattered, latter-day, plebeian followers: the atheist communists, who in the place of God proclaim another God that is even more non-existent than the first one, namely History intended as the irreversible march of progress. It suffices the economists that God does not interfere with the harmonious workings of the economy, and that he contents himself with only the domain of individual morality, particularly as it regards sex. It is really the height of idolatry to think that God, with all of the many things he presumably has to do, should be primarily and exclusively concerned with extramarital sex (though I do not dream to suggest that its ethical significance is purely and exclusively “private”). Anyhow, what matters is that God does not stick his otherworldly nose into the workings of the economy.

L’economia è sovrana, perché si basa sulla natura umana, che viene vista come portatrice di una tendenza spontanea e di un’abitudine innata allo scambio fra le attese del venditore e quelle del compratore. Questo meccanismo spontaneo non ha bisogno di nessuna fondazione esterna, che sia Dio, il diritto naturale o il contratto sociale. Seguiamo il ragionamento. Per quanto riguarda Dio, l’economia politica è scettica, e non atea o materialistica. Non c’è nessun bisogno di affermare che Dio non esiste, e che i preti sono sciamani e stregoni che approfittano delle superstizioni degli ignoranti. Questo gli economisti lo lasciano ai laicisti fanatici, ed alla loro versione plebea e stracciona posteriore, i comunisti atei che al posto di Dio mettono un altro Dio ancora più inesistente, la Storia intesa come fatalità irreversibile del progresso. Basta dire che Dio non può interferire nelle armonie economiche, e deve accontentarsi al massimo del regno della morale individuale, particolarmente sessuale. E’ veramente il massimo dell’idolatria pensare che Dio, con tutte le cose che presumibilmente ha da fare, debba occuparsi prioritariamente ed esclusivamente di scopate extra-matrimoniali (il cui aspetto etico di rilevanza non puramente e esclusivamente “privata” non mi sogno comunque di negare). In ogni caso, ciò che conta è che Dio non ficchi il suo naso ultraterreno nei meccanismi economici.

As for philosophy, it is known for not being able to empirically prove any of the things that it asserts. This was the case with the doctrine of natural law, and it continues to be the case with the German idealist system, with Marx’s theory of alienation, with Nietzsche’s Superman-inspired delirium, with Heidegger’s pessimism, and with Adorno’s, Lyotard’s and Sloterdijk’s pessimistic disenchantment, etcetera. Therefore, it would be better if philosophy did not bother people about things that actually matter, like the economy. Hume even recommends burning all philosophy books that claim to speak of “truth,” and indeed, if the only real truth is the GDP and the markets’ judgment then what is the use of talking about Being when it is completely indemonstrable? As for the social contract, Hume considers the generally held belief that it is “caused” by natural law and that it in turn “causes” human society. This belief was supported by an interpretation from the “Right” by Hobbes, from the “Center” by Locke, and from the “Left” by Rousseau. But in truth of fact, the social contract’s chain of causality cannot be proven either. Therefore it is unfeasible to establish a society’s economy on the basis of a philosophical premise that is indemonstrable and nonexistent (Philosophy? Ha-ha-ha!) And as if that were not enough, it is also unfeasible to postulate a stable preliminary definition of subjectivity, since that which is called the “subject” is really nothing but a fickle flux of sensations and impressions. (On this same basis, a century later, Nietzsche maintained that the subject was merely an energy flow of the will to power, and yet only a hallucinatory, mustachioed person could think that by holding this definition of the subject he was being anti-bourgeois!).

Per quanto riguarda la filosofia (a quei tempi il diritto naturale, e poi successivamente il sistema idealistico tedesco, la teoria dell’alienazione di Marx, il delirio superomistico di Nietzsche, il pessimismo di Heidegger, fino al disincanto pessimistico di Adorno, Lyotard, Sloterdijk, eccetera), è noto che essa non può dimostrare empiricamente niente di quanto afferma, e quindi è meglio che non rompa le scatole su cose serie come l’economia. Hume consiglia addirittura di bruciare tutti i libri di filosofia che pretendano di parlare della “verità”, ed in effetti se la sola verità è il PIL ed il giudizio dei mercati, a che serve parlare dell’Essere, che è del tutto indimostrabile? In quanto al contratto sociale, Hume ritiene che molti credono che esso sia “causato” dal diritto naturale, “causi” la società umana e ne sia una interpretazione (di “destra”, Hobbes, di “centro”, Locke, o di “sinistra”, Rousseau), ma la causalità non esiste neppure, ed in ogni caso non si può fondare la società economica sulla base di una premessa indimostrabile ed inesistente, come la filosofia (la filosofia? Ha-ah-ah!). Come se questo non bastasse, non si può neppure postulare una soggettività stabile preliminare, in quanto ciò che viene chiamato “soggetto” non è che un flusso mutevole di sensazioni e di impressioni (Nietzsche, su questa base, sostenne un secolo dopo che il soggetto non era che un flusso energetico di volontà di potenza, e solo un baffuto allucinato poteva pensare di essere così anche anti-borghese!).

May the reader take a deep breath. In the manner just described, capitalism established for itself an absolutely limitless potential that was unbound by any of the external “limits” of religion, philosophy and politics. The fatal “market judgment” of today, to which various “communists” have submitted (except for small marginalized groups of fundamentalist true believers), is nothing other than the dialectical development of capitalism’s self-founding premise.

Il lettore respiri profondamente. In questo modo, il capitalismo è fondato su di una illimitatezza potenziale assoluta, perché non esistono “limiti” esterni, come la religione, la filosofia e la politica. L’attuale e fatale “giudizio dei mercati”, cui si sono sottomessi i vari “comunisti” (ad eccezione di piccoli gruppi marginali di credenti fondamentalisti), non è che uno sviluppo dialettico di questa premessa autofondata.

Capitalism is therefore not at all “conservative” as it was believed to be for a century by the stupidest intellectual emulsion in the solar system: the culture of the Left. Quite to the contrary, it is a revolutionary force, but one that I would define as being fundamentally nihilistic. Capitalism’s being simultaneously revolutionary and nihilistic holds a connotation that is important to grasp, because it conceptually determines the theoretical framework through which capitalism is understood. Capitalism is revolutionary, as Marx had already noted, because it revolutionizes and destroys all preceding ideological, economic, political and social systems with a formidable single-mindedness. Its one and only goal is to promote the “infinite” and unfettered (apeiron) expansion of the commodity form over every minute aspect of individual and community life. Nothing can get in the way of this goal, neither the remnants of feudalism nor the remnants of the proletariat or the bourgeoisie (the most foolish error of the Leftist tradition has been to always identify the bourgeoisie directly with capitalism, which means to identify a collective historical subjectivity with an anonymous and impersonal process of reproduction). But at the same time capitalism is nihilistic, because its unlimited expansion of the commodity form is exactly that which was referred to in Greek philosophy, ever since Parmenides, as Nothingness. In point of fact, today’s capitalists are not even “bourgeois” anymore, although once upon a time they were. Today they are only “character masks” (to use Marx’s term). They are only the roles performed by actors in a social script; they are only the strategic agents of an anonymous and impersonal mechanism of capitalist reproduction to which contemporary philosophy has already given many names (Weber’s iron cage, Heidegger’s technical dispositif, etcetera). The Italian scholar who has best understood this is Gianfranco La Grassa (and for this very reason he has been silenced by the politically correct “Left”). La Grassa is worth your while to read, if you can get over his disgusting expectorations against philosophy and humanism, which are caused by residual deposits of ideological extremism from the 1970s.

Il capitalismo non è quindi per nulla “conservatore”, come lo ha creduto per un secolo l’emulsione intellettuale più stupida del sistema solare, e cioè la cultura di sinistra. Al contrario, esso è una forza rivoluzionaria, che definirò però un rivoluzionarismo nichilista. È bene comprendere questa connotazione, perché essa delimita concettualmente i confini teorici della sua comprensione. Esso è rivoluzionario, come aveva già capito Marx, perché è rivoluzione e distrugge tutti i sistemi ideologici, economici, politici e sociali precedenti, in quanto non si ferma davanti a niente, non importa se sia un residuo feudale, proletario o borghese (l’errore più stupido della tradizione di sinistra è sempre stato quello di identificare la borghesia con il capitalismo, e cioè una soggettività storica collettiva con un processo anonimo riproduttivo impersonale), in quanto la sua sola finalità è l’allargamento “infinito” ed indeterminato (apeiron) della forma di merce a tutti gli ambiti possibili di vita individuale o associata e comunitaria. Esso è nichilista, perché il semplice allargamento illimitato della forma di merce è esattamente ciò che nella filosofia greca, a partire da Parmenide, era connotato come il Nulla. I capitalisti, infatti, oggi non sono più neppure “borghesi”, anche se un tempo lo erano. Oggi sono solo delle “maschere di carattere” (Marx), dei ruoli sociali, degli agenti strategici della riproduzione capitalistica, meccanismo anonimo ed impersonale che nella filosofia contemporanea ha già avuto molti nomi (gabbia d’acciaio in Weber, dispositivo tecnico in Heidegger, eccetera). Lo studioso italiano che lo ha capito meglio (e per questo è stato silenziato dalla “sinistra” politicamente corretta) è stato Gianfranco La Grassa, e conviene leggerlo, se si riesce a superare il senso di ripu-gnanza delle sue espettorazioni contro la filosofia e l’umanesimo, residuo di depositi ideologici estremistici degli anni Sessanta del Novecento.

The dynamic of limitlessness holds us thoroughly in its grasp today. The various Lagardes, Montis, etcetera, who we see are only puppets, character masks. The dialectic allows this process to be understood very clearly. We obviously need a “limit,” yet we suffer from the lack of one. The grotesque, impotent and philosophically illiterate movements that serve only a testimonial function (pacifism, alter-globalization, Indignados, etcetera) cannot convince me that they in fact are “limits.” These people couldn’t even put a limit on boiling water inside a coffeemaker. The same applies to the labor unions, whose impotency is plastically manifested in the drums and whistles that accompany their deambulatory rituals. The movement of twentieth-century historical communism (1917 – 1991), now defunct for at least twenty years as a world-historical factor, was instead a real limit (katechon), although a very weak one. I am referring obviously not to the charlatan snobs of Leftist salons, but specifically to the Communist States with planned economies and extensive geopolitical power.

Attualmente siamo in preda alla dinamica dell’illimitatezza. I vari Lagarde, Monti, eccetera, non sono che fantocci, maschere di carattere. La dialettica permette di capire bene questo processo. Ci vuole, ovviamente, un “limite”, ma soffriamo di questa mancanza. Non mi raccontino che sono “limiti” i grotteschi movimenti impotenti, testimoniali e filosoficamente analfabeti (pacifismo, altermondialismo, indignati, eccetera). Costoro non potrebbero limitare neppure il bollire dell’acqua per il caffè. Lo stesso si può dire dei movimenti sindacali, la cui impotenza si manifesta plasticamente nei tamburi e nei fischietti dei loro riti deambulatori. Il movimento del comunismo storico novecentesco (1917-1991), oggi defunto da almeno un ventennio come fattore storico mondiale, è invece stato un limite vero (katechon), sia pure debolissimo. Non parlo ovviamente dei ciarlatani snob dei salotti di sinistra, ma proprio degli Stati comunisti ad economia pianificata ed a estensione geopolitica.

But they exist no more. Was their end caused by a betrayal? Don’t be silly! Their end came as the result of an internal dialectic, which I will now try to summarily describe.

Ma questi sono finiti. Per tradimento? Ma non diciamo sciocchezze! Sono finiti per una dialettica interna, che cercherò sommariamente di descrivere adesso.

 

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3. Communism: the Dialectic of Corruption
There is a usual way of exorcizing the problem of communism’s internal dialectical corruption, and that is by making a distinction between the “real communists,” which means those who have subjectively remained so, (amongst whom, if we wish to use this troglodytic term, I include myself) and the “fake communists,” or ex-communists (like Gorbachev, Yeltsin, D’Alema, Veltroni, Napolitano, etcetera). In this way, the problem of communism’s irreversible corruption as a historical phenomenon is continually deferred so as not to upset the last of the gullible believers who need to be constantly reassured by the theory of the traitor’s subjective betrayal (the atheist equivalent of the theory of sin and the weakness of the flesh for religious believers). But I will choose another way of addressing the problem. From a strictly philosophical point of view I am still a “communist,” and I am much more so now that I was in my youth, because now my communism has been “purified” and is no longer mixed with the “Leftist” stupidities I fostered for decades. But here I intend to proceed on a strictly dialectical level, regarding only the procedural dynamic of “concrete” historical communism, and leaving aside for now its philosophical idealism of which I am a great admirer (allow me to note that in my interpretation of Marx, he is a humanist and an idealist).

3. Il comunismo: la dialettica della corruzione
Esiste un modo consueto per esorcizzare il problema della corruzione interna dialettica del comunismo, e cioè la distinzione tra “veri comunisti”, quelli soggettivamente rimasti tali, (fra i quali, se vogliamo usare questo termine trogloditico, ci sono anch’io) e “falsi comunisti”, o ex-comunisti (tipo Gorbaciov, Eltsin, D’Alema, Veltroni, Napolitano, eccetera). In questo modo, il problema della corruzione irreversibile del comunismo come fenomeno storico viene continuamente rinviato, per non scandalizzare gli ultimi babbioni credenti, che devono essere continuamente rassicurati con la teoria del tradimento soggettivo dei traditori (equivalente ateo della teoria del peccato e della debolezza della carne per i credenti). Io invece sceglierò un’altra strada. Da un punto di vista strettamente filosofico, io sono sempre “comunista”, e lo sono anzi molto più che in gioventù, perché ora il mio comunismo è “purificato”, e non è mescolato con le stupidaggini di “sinistra” con cui l’avevo nutrito per decenni. Ma qui intendo muovermi su di un piano strettamente dialettico, che riguarda soltanto la dinamica processuale del comunismo “concreto”, quello storico, lasciando perdere per ora le grandi idealità filosofiche, di cui sono soggettivamente un cultore (ricordo che la mia interpretazione di Marx ne fa un umanista ed un idealista).

The modern communism that we know, particularly in its variant espoused by Marx and the Marxists, does absolutely not originate from a spontaneous movement of the popular classes. Those who are searching for this spontaneous movement can find it rather in English trade unionism and French syndicalism (Proudhon, Sorel, etcetera). Modern communism however, has two genetic matrices (not counting Marx’s transformation of Smith’s labor theory of value) that are both one hundred percent, one thousand percent, bourgeois: the unhappy consciousness of the bourgeoisie elaborated by Hegelian theory, and the bourgeois myth of progress. I will examine them separately, but let it be clear that this is only a scholastic procedure, for in reality the two are united.

Il comunismo moderno che conosciamo, in particolare nella variante di Marx e del marxismo, non trova assolutamente la sua origine in un movimento spontaneo delle classi popolari. Chi cerca questo movimento spontaneo può trovarlo piuttosto nel sindacalismo inglese e nel federalismo francese (Proudhon, Sorel, eccetera). Il comunismo moderno (prescindo qui dalla trasformazione della teoria del valore-lavoro di Smith fatta da Marx) ha invece avuto due matrici genetiche, entrambe borghesi al cento per cento ed al mille per mille: l’elaborazione della teoria hegeliana della coscienza infelice della borghesia ed il mito borghese del progresso. Le esamino separatamente, ma sia ben chiaro che si tratta di un’operazione scolastica, perché sono in realtà unite.

The bourgeoisie, understood as a general class and not merely as the anonymous and impersonal agent of capitalist relations of production, distribution and consumption, is a contradictory class, and therefore dialectical. On the one hand, it thinks of itself ideologically as being a universal class that is the standard-bearer of wellbeing, wealth and progress for all; but on the other hand, it is aware of itself as being an exploitive class that extracts surplus labor from others, regardless of how it justifies this to itself and to those whom it exploits. This contradictory dialectical space I call the “unhappy consciousness” of the bourgeoisie, permitting myself to make use of the great souls of Hegel and Marx without their consent. The communism of Marx in particular has no relation whatsoever to the spontaneous worldviews of the popular classes of his time, instead it derives linearly from a brilliant dialectical coupling of the Smithian and then Ricardian theory of value with the Hegelian theory of alienation. All of the arguments made for the popular and proletarian origins of Marxism, including the original one made by Marx himself, are merely posterior ideological adjustments and justificatory, legitimizing mythologies.

La borghesia, intesa come classe generale, e non solo come portatrice anonima ed impersonale dei rapporti capitalistici di produzione, distribuzione e consumo, è una classe contraddittoria, e quindi dialettica. Da un lato, pensa se stessa ideologicamente come classe universale, portatrice di benessere, ricchezza e progresso per tutti, e dall’altro è consapevole di essere una classe sfruttatrice, che estorce un pluslavoro da altri, e questo indipendentemente dal modo in cui lo giustifica a se stessa ed ai suoi dominati. Questo spazio dialettico contraddittorio lo chiamo “coscienza infelice” della borghesia, e mi permetto di utilizzare senza il loro consenso le grandi anime di Hegel e di Marx. In particolare il comunismo di Marx non ha assolutamente nessun rapporto con le visioni spontanee del mondo delle classi popolari del tempo, ma deriva linearmente da una geniale coniugazione dialettica della teoria smithiana e poi ricardiana del valore e della teoria hegeliana dell’alienazione. Tutti i discorsi sull’origine popolare e proletaria del marxismo, ivi compreso quello originario di Marx, sono aggiustamenti ideologici posteriori e mitologie di giustificazione e di legittimazione.

This is particularly clear if you consider Marxism’s bovine and animal-like adherence to the bourgeois ideology of progress, which was totally nonexistent among the ancient Greeks, who were yet perfectly able to conceive of justice, equality, democracy and solidarity without this grotesque and mythological surrogate. Although the unfounded belief in progress was repudiated by a handful of “Marxists” (I site here only the Frenchman Georges Sorel and the German Walter Benjamin), their arguments never perturbed the historic site of Marxism’s age-old cultivation, which is that corpulent body of the Left that always persisted in defining itself as “progressive,” in antinomy and opposition to capitalism which it quite naturally characterized as “conservative and reactionary.” Here the world is upside-down indeed. The truth is that this so-called “progress,” which was also called “modernization,” was never anything but a sociological and ideological accentuation of the commodity form’s “liberalized” extension (beginning with the so-called “liberalization of customs” of extreme individualism). Yet in the decades following the mythical, mephitic and maniacal time of 1968, the culture of the Left became the loudest proponent of this capitalist modernization that was essentially post-bourgeois, and certainly not only post-proletarian.

Questo è particolarmente chiaro se si riflette sulla bovina ed animalesca adesione del marxismo alla ideologia borghese del progresso, assolutamente inesistente presso gli antichi greci, che erano riusciti a pensare la giustizia, l’eguaglianza, la democrazia e la solidarietà senza bisogno di questo grottesco e mitologico succedaneo. È vero che anche alcuni “marxisti” (faccio qui solo i nomi del francese Georges Sorel e del tedesco Walter Benjamin) stroncarono queste infondata credenza, ma il grande corpaccione della sinistra, luogo storico di coltivazione secolare del marxismo, si definì sempre come “progressista”, in antinomia ed opposizione con il capitalismo, tendenzialmente connotato come “conservatore e reazionario”. Il mondo alla rovescia. In realtà il cosiddetto “progresso”, chiamato anche “modernizzazione”, era sempre e soltanto l’approfondimento sociologico ed ideologico dell’estensione della forma di merce “liberalizzata” (a partire dal cosiddetto “costume liberalizzato” dell’individualismo estremo), per cui la cultura di sinistra negli ultimi decenni, almeno dopo il mitico, mefitico e demenziale Sessantotto, fu sempre l’ala marciante della modernizzazione capitalistica, essenzialmente post-borghese, e non certo soltanto post-proletaria.

The ideology of progress is based on an essentially linear concept of history, which is conceived as a symbolic space wherein you are headed Forward, and cannot go Backward. Real history, of course, does not correspond at all to this imagery for kindergarteners. An automobile on the highway can go forward or backward, but historical time is neither cyclical nor linear, it does not move in a circle according to an “eternal return,” but neither does it go forward. This stupid religion of history is falser and more absurd than the Jehovah’s Witnesses’ heaven, where tigers and lions play with children in the gardens of strictly monoracial American families (indeed, Jehovah practices Apartheid, whereas the Catholic and Orthodox God has accepted, albeit only recently and reluctantly, even mixed marriages – but not gay marriages, or at least not yet, even though political correctness is pressuring him hysterically to do so). But if you were to accept this stupid religion of history, then history would become merely a theater of winners in which the losers (in this case the communists) would immediately have to replace their defeated gods with the victorious ones. In this case it would mean replacing the Dictatorship of the Proletariat with the International Monetary Fund, replacing Eurocommunism with the European Central Bank, replacing Gramsci with Draghi and Monti, etcetera.

L’ideologia del progresso si basava su di una concezione sostanzialmente lineare della storia, vista come uno spazio simbolico in cui si è Avanti, e non si può andare Indietro. Naturalmente la storia reale non ha nulla a che fare con quest’immagine da asilo infantile. Un’automobile sull’autostrada può andare avanti o indietro, ma il tempo storico non è né ciclico né lineare, non gira in circolo con un “eterno ritorno”, ma neppure va avanti. Se invece si adotta questa stupida religione della storia, più falsa ed assurda del paradiso dei testimoni di Geova, in cui tigri e leoni giocano con i bambini nel giardino di famiglie americane rigorosamente monorazziali (Geova infatti pratica l’apartheid, mentre il Dio cattolico ed ortodosso ha accettato, sebbene da poco ed a malincuore, persino i matrimoni misti-quelli gay invece no, o almeno non ancora, anche se il politicamente corretto preme istericamente), la storia diventa il teatro dei vincitori, per cui i perdenti (in questo caso i comunisti) devono immediatamente sostituire le loro divinità perdenti con altre vincenti, e cioè nella fattispecie la Dittatura del Proletariato con il Fondo Monetario Internazionale, l’Eurocomunismo con la Banca centrale europea, Gramsci con Draghi e Monti, eccetera.

I would like to reiterate here that we are not dealing with betrayal, or at least we are not dealing only with betrayal. We are dealing with dialectics, with the severe and relentless dialectic of a theory based in Nothingness (the theory of progress). We should bear in mind that this nothingness is distinct from (but also convergent with) the Nothingness of Commodities, because the only progress that truly exists is the Progress of Commodities. This dialectic, rather than the simple formula of betrayal, can explain quite a lot about communists’ adaptation to capitalist progress.

Vorrei insistere che qui non abbiamo a che fare con il tradimento, o almeno non solo con il tradimento. Si tratta di dialettica, della severa ed implacabile dialettica di una teoria che ha come fondamento il Nulla, anche se è un nulla diverso (ma convergente) con il Nulla della Merce. Il solo progresso che esiste, infatti, è il Progresso della Merce. Questo spiega molto dell’adattamento dei comunisti a questo processo capitalistico.

Of course, we are also dealing with the proverbial “temptations” indicated by classical moralism (pleasure, wealth, power and pride). I do not deny this at all. But the explanation cannot be so banal. Yes, the majority of communists who I have personally known in half a century’s time (besides for a statistically small minority of “revolutionary ascetics”) were presumptuous, cynical and godless opportunists who were able to lead their gullible and utterly acritical followers easily by the nose (like the three-nostrilled comrades of Giovannino Guareschi, may God rest his soul). But I do not want to get lost in recounting these grotesque details of practices that were all too common. Better to get back to the severe process of the corrupting dialectic.

Naturalmente, abbiamo anche a che fare con le vecchie “tentazioni” del moralismo classico (piacere, ricchezza, potere, onori). Non intendo affatto negarlo. Ma la spiegazione non può essere così banale. Al di là di alcuni “asceti della rivoluzione”, statisticamente minoritari, la maggioranza dei “comunisti” da me conosciuti in mezzo secolo è composta di presuntuosi e cinici opportunisti senza Dio, che regnavano su babbioni del tutto privi di spirito critico (i trinariciuti di Giovannino Guareschi, buonanima). Ma non voglio perdermi in particolari grotteschi di costume. Meglio tornare al severo processo della dialettica corruttiva.

I have indicated how God’s deposition and substitution by the union of Science and History leads to an outcome that is completely nihilistic. In regards to Science, it is most certainly an ideation of enormous cognitive and practical value, it is the motor of a technological “progress” that would be foolish to deny and underestimate (and I, personally speaking, do absolutely not deny and underestimate it). Yet the value of Science pertains only to the knowledge of nature and to applications in the fields of technology and medicine, which taken by themselves are already quite significant. But no “scientific mindset” will ever be able to distinguish Good from Evil (the two words are capitalized here, of course). In regards to History, its divinization results in the utter loss of all of the ethical achievements attained by the older religion. Although the older religion postulated an anthropomorphized, transcendent deity that is nonexistent, it still contained gigantic treasures of expressiveness that can be evidenced not only in art, but also in history, in morals, and in politics.

Ho fatto notare come l’abbattimento di Dio, sostituito da un connubio di Scienza e di Storia, dà luogo ad un esito nichilistico integrale. Per quanto concerne la Scienza, essa è effettivamente un’ideazione conoscitiva e pratica di enorme valore, motore di un “progresso” tecnologico che sarebbe sciocco negare e sottovalutare (e che personalmente non nego e non sottovaluto assolutamente), ma questo vale soltanto, ed è già molto, per la conoscenza della natura e per le applicazioni tecniche e mediche, ma nessuna “mentalità scientifica” arriverà mai a distinguere il Bene dal Male (scritti maiuscolo, ovviamente). In quanto alla storia, la sua divinizzazione finisce con il perdere tutte le conquiste etiche della vecchia religione, che magari postulava una divinità trascendente antropomorfizzata non esistente, ma conteneva giganteschi tesori espressivi non solo artistici, ma anche storici, morali e politici.

Yet despite all of this, Marx still thought of himself as a forecasting social scientist rather than a philosopher (he erroneously thought to have abandoned the terrain of philosophy in 1845, at the age of twenty-seven!) Not surprisingly, the two foundational theses on which he conceived his idea of communism were both mistaken. But that’s ok, since science proceeds by trial and error, and nobody is perfect. Yet Marx’s two hypotheses were both not only slightly wrong, but both very wrong indeed. In the first place there is his mistaken conviction that the capitalistic bourgeoisie was incapable of developing the forces of production, and in the second place there is his mistaken conviction that the proletarian, wage-earning working class was capable of being a revolutionary power. We will address these two mistaken convictions separately.

E tuttavia, Marx pensava a se stesso non come un filosofo (erroneamente, pensava di aver abbandonato il terreno della filosofia fino dal 1845, all’età di ventesette anni!), ma come uno scienziato sociale previsionale. Le due tesi fondamentali su cui aveva costruito la sua idea di comunismo erano entrambe errate. Niente di grave, la scienza procede per prove ed errori, e nessuno è perfetto. Ma le due ipotesi di Marx erano entrambe non solo un po’ sbagliate, ma molto sbagliate. Si trattava dell’errata convinzione della presunta incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive, in primo luogo, e dell’errato convincimento sulla capacità rivoluzionaria della classe operaia, salariata e proletaria, in secondo luogo. E trattiamole separatamente.

How did Marx ever get the idea that the bourgeois-capitalistic class (whose two elements he does not discern) would become incapable, after a certain point, of continuing to develop the forces of production? I don’t know how, but I can hypothesize that it was due to an erroneous historical analogy. Historical analogies are more misleading than mirages in the desert. Having considered how the classes of ancient slave-owners, feudal lords and Asiatic despots had all become incapable, at a certain point in their economic development, of further developing the forces of production, Marx inferred (in a typical case of induction) that the same would hold true for the capitalistic bourgeoisie. This forecast was mistaken. The capitalistic bourgeoisie is in fact a class unlike any other that came before it; it is an anonymous historical agent of production for the sole sake of production itself, which means for the sake of a production that is limitless. And to think that Marx actually did begin to notice this anomalous fact in other parts of his writings! He noticed it, but he did not draw from it the logical consequences.

Come è venuto in mente a Marx che da un certo punto in poi la classe borghese-capitalistica (da Marx non distinta nei suoi due elementi) si sarebbe rivelata incapace di continuare a sviluppare le forze produttive? Non lo so, ma posso ipotizzare che si sia trattato di un’errata analogia storica. Le analogie storiche sono ancora più ingannatrici dei miraggi del deserto. Dal momento che le classe dei padroni schiavistici, dei signori feudali e dei dominanti asiatici si erano effettivamente mostrate ad un certo punto dello sviluppo economico incapaci di sviluppare le forze produttive, Marx ne inferì (tipico caso di induzione) che lo stesso sarebbe successo anche per la borghesia capitalistica. Previsione errata. La borghesia capitalistica non è una classe come le precedenti, ma un agente storico anonimo della produzione per la produzione, e cioè per la produzione illimitata. E pensare che in altre parti della sua opera Marx sembra accorgersene. Se ne accorge, ma poi non ne tira le conseguenze.

As for the proletarian, wage-earning working class’s capacity for being an inter-mortal revolutionary power, it should be noted that Marx never actually spoke of this. Instead, he spoke of the formation of an associated, cooperative and collective worker that included everyone from the manager down to the last unskilled laborer. Yet this Marxian thesis (hidden in the unpublished Chapter VI of Capital, and this is not by chance) was completely ignored by the entirety of real existing “Marxism,” which always identified as its revolutionary subject the class of wage-earning factory workers. Now, if you know factory workers at all (and living as I have in Turin, you couldn’t help but know them!) then you know that without the mediation of political parties, labor unions and bureaucratic experts they wouldn’t be able to organize even a bowling club or a fishing trip, and this is not by chance. Whereas artisans and peasants possess mastery of their professions’ autonomous production techniques, workers are inserted into a production process that is completely extraneous to them and to which they do not possess the “keys” to autonomously self-manage (except in a few irrelevant cases).

In quanto alla capacità rivoluzionaria inter-modale della classe operaia, salariata e proletaria, va detto che in realtà Marx non ha mai parlato di essa, ma della formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore all’ultimo manovale. Ma all’atto pratico l’intero “marxismo” veramente esistito di fatto ha ignorato questa tesi marxiana (nascosta nel Capitolo VI del Capitale, e non a caso “inedito”), e per soggetto rivoluzionario ha sempre inteso la classe degli operai salariati di fabbrica. Ora, chi li ha conosciuti (ed abitando a Torino non si poteva non conoscerli!) sa che la classe operaia senza mediazione dei partiti, sindacati ed apparati tecnici non potrebbe gestire neppure una bocciofila o una società di pesca con la lenza, e questo non a caso. Mentre infatti gli artigiani ed i contadini sono padroni delle tecniche produttive autonome della loro professione, gli operai lavorano sulla base di un processo produttivo a loro completamente estraneo e di cui non posseggano le “chiavi” per la autogestione autonoma (salvo irrilevanti eccezioni).

Now, it is a terrible thing indeed to base your cause on three presuppositions that each turn out to be nonexistent: (1) the myth of progress, which does not exist; (2) the incapacity of the capitalistic bourgeoisie to develop the forces of production, which does not exist; (3) the capacity of the proletarian, wage-earning working class to be a revolutionary power, which does not exist.

Ora, è terribile fondare la propria causa sulla base di tre presupposti tutti e tre inesistenti: (1) il mito del progresso, che non esiste; (2) l’incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive, che non esiste; (3) la capacità rivoluzionarie della classe operaia, salariata e proletaria, che non esiste.

The reasons for communism’s corrupting dialectic are to be found in these three nonexistent presuppositions, and definitely not in Gorbachev’s ambition to advertise Louis Vuitton bags and Pizza Hut, or in D’Alema’s desire to strut about on his sailboat like every good capitalist or any hospital Chief of Staff. That is just colorful folklore for fools. Yet the depths of “corruption” have to be probed still further in order to attain a genuinely dialectical understanding of it. By probing these depths we can move well beyond the moralistic illusion of corruption entertained by the irrecoverably subaltern junior staff.

Le ragioni della dialettica corruttiva del comunismo sono queste, e non certo Gorbaciov che ambisce a pubblicizzare le borse Vuitton e la pizza Hunt o D’Alema che vuole pavoneggiarsi su di una barca a vela, come ogni buon capitalista o primario d’ospedale qualsiasi. Questo è solo folklore per straccioni. Ma il tema deve ancora essere approfondito, per poter avere della “corruzione” una comprensione dialettica, e non solo l’illusione moralistica per subalterni irrecuperabili.

I repeat, once again, that I am using the term “corruption” here in the dialectical sense to signify an internal process in communism’s historical dynamic (but I should not tire of repeating myself, since I am going against the current of common sense in order to effect a radical, qualitative “conversion” of the current mindset, which anthropomorphizes and is itself anthropomorphized). In saying that communism was corrupted from within my intention is simply to indicate a historical process, and not by any means to defame the Marxian idea of communism (I, at the age of sixty-eight, declare myself to be a “communist,” and it is unlikely that I will change my allegiance in the time I still have left to live). This dialectic of corruption became historically enmeshed with the dialectic of limitlessness of capitalist expansion. Thus the intimate and profound philosophical meaning of the last thirty years of humanity’s history can be put into words: for the time being, limitlessness has won over corruption.

Ricordo ancora una volta (ma non devo stancarmi, perché vado controcorrente contro il senso comune, e pretendo una “conversione” radicale qualitativa della mentalità corrente, che è antropomorfica ed antropomorfizzata) che uso il termine “corruzione” nel senso dialettico di un processo interno a una dinamica storica. Dicendo che il comunismo si è corrotto dall’interno intendo connotare un processo storico, non certo diffamare l’idea marxiana di comunismo (io stesso, a sessantotto anni di età, mi dichiaro “comunista”, ed è improbabile che cambi connotazione nel tempo che ancora mi resta da vivere). Questa dialettica di corruzione si è storicamente intrecciata con la dialettica di illimitatezza del processo di allargamento del capitalismo. Possiamo così definire il senso filosofico intimo e profondo dell’ultimo trentennio di storia dell’umanità: per ora l’illimitatezza è uscita vincitrice della corruzione.

 

So now what?

 

E adesso?

 

***

4. Open and Provisional Conclusions: from the World of Illusions to the World of Understanding
Illusions have been socially necessary in history, from the illusion of the promised coming of the kingdom of God (Paul of Tarsus) to the illusion of socialism’s sure victory over capitalism (Lenin). This fact needs to be understood, regardless of the little smiles it may bring to disenchanted faces. But the time for cultivating illusions is now over, and it seems to me that it will not return. From now on the dialectic of illusions needs to be replaced by the dialectic of understanding.

4. Conclusioni aperte e provvisorie: dal mondo delle illusioni al mondo della comprensione
Le illusioni sono state socialmente necessarie nella storia, dall’illusione dell’avvento prossimo del regno di Dio (Paolo di Tarso) all’illusione della vittoria sicura del socialismo sul capitalismo (Lenin). Occorre capirlo, e non solo fare sorrisini di disincanto. Ma il tempo della coltivazione delle illusioni mi sembra ormai passato irreversi-bilmente. D’ora in avanti bisogna sostituire alla dialettica delle illusioni la dialettica della comprensione.

Taken as a whole, the inheritance left to us today by a century and a half of Marxism is obsolete, with the exception of a few, rare high points. You cannot pass from idealism to positivism without paying a price – not even if you are passing from Marx’s radically modified idealism to Engels’ positivism. As cases in point, there are those who believe that the current trend towards globalized capitalism, rather than being a moment in capitalism’s limitless development, is merely a “response” to the cycle of struggles waged by the Fordist working class for wealth redistribution in the 1960s. There are also those who continue to think that the crises of capitalism are only due to the tendency of the rate of profit to fall, or to imbalances between overproduction and underconsumption. These features are certainly present in, and relevant to current capitalism, but they are superficial features. The “profundity” of the matter does not reside in them, but in the tendency to limitlessness of the expansion of the commodity form.

Presa nel suo insieme, al di là di alcuni rari punti alti, l’eredità che ci lascia un secolo e mezzo di marxismo è ormai obsoleta. Non si passa dall’idealismo, sia pure radicalmente modificato da Marx, al positivismo di Engels senza doverne pagare il prezzo. C’è chi crede che l’attuale tendenza al capitalismo globalizzato, anziché essere un momento del suo sviluppo illimitato, sia stata soltanto una “risposta” al ciclo delle lotte rivendicative per la distribuzione della classe operaia fordista negli anni Sessanta del Novecento. C’è chi continua a pensare che le crisi capitalistiche siano soltanto dovute alla caduta tendenziale del saggio di profitto, oppure a squilibri fra sovrapproduzione e sottoconsumo. Questi aspetti sono certamente presenti e rilevanti, ma sono aspetti di superficie, perché la “profondità” non è questa, ma è la tendenza alla illimitatezza dell’estensione della forma di merce.

The understanding that replaces illusions must be based on the two previously discussed dialectical dynamics being fully conceptually assimilated to each other, whereby the limitlessness of capital and the corruption of communism are seen as parts of a single process. By “communism” here I obviously do not mean the communist idea, with which I fully identify, but real existing twentieth-century communism. Once these two dialectical dynamics have been assimilated, nothing is yet resolved, but at least the road is cleared of debris and a vehicle may proceed without getting hindered or stuck.

La comprensione parte a mio avviso dai due punti discussi in precedenza, la piena assimilazione concettuale delle due dinamiche dialettiche della illimitatezza del capitale e della corruzione del comunismo (inteso ovviamente non come idea comunista, nella quale mi riconosco pienamente, ma come comunismo storico novecentesco realmente esistito). Una volta assimilati questi due punti, non si è ancora risolto assolutamente nulla, ma almeno la strada è sgomberata dai detriti, ed un veicolo può passarci senza restare incagliato o impantanato.

The dialectical understanding of the object and of objectivity is called “the scientific object” (or simply das Objekt in German). The dialectical understanding of capitalism’s tendency to limitlessness is our Objekt. But in order to transform our Objekt of thought into something that is transformable in reality through a commensurate historical praxis, we must radically change the way we conceive of subjectivity, of potentially revolutionary subjects, and above all of what “a culture critical of capitalism” really consists of today. Let me add that “something that is transformable in reality through a commensurate historical praxis” is called der Gegenstand in German; it is a term used notably by the young Marx in distinction from das Objekt. Yet just as fortune-tellers will never be able to understand metaphysics, the proponents of an exclusively “scientific” Marxism will never be able to understand the concept of Gegenstand.

La comprensione dialettica dell’oggetto e dell’oggettività (in questo caso la dialettica capitalistica dell’illimitatezza), è ciò che si chiama l’oggetto scientifico (in tedesco Objekt). Ma per trasformare questo “oggetto” in materiale di trasformazione attraverso una prassi storica adeguata (in tedesco Gegenstand, termine usato anche dal giovane Marx, il concetto che i sostenitori del carattere unicamente “scientifico” del marxismo non capiranno mai, non più di quanto le cartomanti possano capire la metafisica) ci vuole un modo radicalmente diverso di concepire la soggettività, il soggetto ed i soggetti potenzialmente rivoluzionari, e soprattutto che cosa significa oggi “cultura critica al capitalismo”.

The present situation is ruinous. For historical reasons that I have already had ample occasion to analyze, today it is generally believed that the culture of anti-capitalism is synonymous with “the culture of the Left” which has ingrained itself into Western countries over the past 50 years. But “the culture of the Left” (minus a few exceptions, that confirm the rule) is essentially just a culture of modernizing individualization, which is itself the dialectical result of modern, post-bourgeois capitalism’s tendency to limitlessness. Hence, for the time being, the situation is even worse than it may appear to the most ardently pessimistic of observers. For until we can finally rid ourselves socially and collectively of “the culture of the Left,” or at least rid ourselves of its dominant features, we cannot even begin to pose the central problem of our times in the correct way.

La situazione attuale è rovinosa. Per motivi storici che ho già ampiamente avuto modo di analizzare, oggi si crede che la cultura anticapitalistica sia in definitiva la “cultura di sinistra” sedimentatasi nell’ultimo cinquantennio nei paesi occidentali, laddove questa cultura (tolte alcune eccezioni, che confermano la regola) è proprio il risultato dialettico della individualizzazione modernizzatrice della tendenza illimitata del moderno capitalismo post-borghese. La situazione, quindi, è per ora ancora peggiore di quanto possano sospettare le correnti più pessimistiche, perché senza potersi socialmente e collettivamente sbarazzarci di questa cultura, o almeno dei suoi aspetti dominanti, non si può neppure cominciare a porre il problema.

Humanity always outlives the idiots who want to monopolize interpretation. It’s too bad, though, that I won’t be around when this happens.

Costanzo Preve
Turin, November 2011

Ma questo non comporta in me un pessimismo radicale. L’umanità sopravvive sempre agli idioti che ne vogliono monopolizzare l’interpretazione. Peccato, però, non esserci più quando questo avverrà.

Costanzo Preve
Torino, novembre 2011

 

Translated by
Dimitri Papandreu
California, March 2019

Saggio già pubblicato in italiano su
“Comunismo e Comunità. Laboratorio per una nuova teoria anticapitalistica”,
12 dicembre 2011


Alcuni libri di  COSTANZO PREVE
editi da Petite Plaisance

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196 ISBNUna nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia (Cat. 196)

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185 ISBN

Lettera sull’Umanesimo
(Cat. 185)

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Cop. 081

Marx e gli antichi Greci
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Cat. 81)

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9788875880835

Storia della dialettica
(Cat. 97)

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9788875880118

Storia dell’etica
(Cat. 102)

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9788875880156

 

Storia del materialismo
(Cat. 107)

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9788875880248

Il marxismo e la tradizione culturale europea
(
Cat.n. ebp 141)

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300 ISBN

L’alba del Sessantotto. Una interpretazione filosofica
(
Cat. 300)

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120 ISBN

Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi
(
Cat. 120)

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9788875880194

L’estetica di Lukács fra arte e vita. Considerazioni storiche, politiche e filosofiche, in:  Filosofia ed estetica  (Cat. 134)

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Marx lettore di Hegel

Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx.
Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica
(Ebook 1036)

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Marx e Nietzsche

Marx e Nietzsche
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Preve Kant

A duecento anni dalla morte di Immanuel Kant (1804-2004). Considerazioni attuali sul rapporto fra la filosofia classica tedesca ed il marxismo  (Ebook 1035)

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054

054

Nichilismo Verità Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo
(
Cat. 54)

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9788875880897

Elogio della filosofia. Fondamento, verità e sistema nella conoscenza enella pratica filosofica dai Greci alla situazione contemporanea, in: Dialettica oggi. “Koiné”. Anno XII – NN° 3-4 / Settembre – Dicembre 2005  (Cat. 79)

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063G

Il bombardamento etico.
Saggio sull’Interventismo Umanitario,
sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente
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I secoli difficili. Introduzione al pensiero filosofico dell’Ottocento e del Novecento  (Cat. 55)

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9788875880910

Marx e Heidegger. Pervasività della tecnica e critica culturale al capitalismo nei due classici ed in alcuni loro interpreti contemporanei, in: Sumbállein. Riflessioni sugli scritti di Umberto Galimberti. [Koiné. Anno XII – NN° 1-2 /Gennaio-Giugno 2005]  (Cat. 68)

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Coperta 150

La saggezza dei Greci. Una proposta interpretativa radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi, in Filosofia e politica: che fare? (Cat. 150

Il saggio di Luca Grecchi Occidente: radici, essenza, futuro. Un convincente esercizio di filosofia della storia, in Filosofia e politica: che fare? (Cat. 150)

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106 Coperta

Postfazione a: Luca Grecchi, Il presente della filosofia italiana. Un confronto con alcuni filosofi contemporanei  (Cat. 106)

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R UMAX Vista-S6E

Individui liberati, comunità solidali.
Sulla questione della società degli individui
  (Cat. 46)

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L’educazione filosofica.
Memoria del passato – Compito del presente – Sfida del futuro
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Le stagioni del nichilismo.
Un’analisi filosofica ed una prognosi storica  (Cat. 117)

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Il crepuscolo della profezia comunista. Il futuro oltre la scienza e l’utopia (Cat. 114)

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Contro il capitalismo, oltre il comunismo.
Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile
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Destra e Sinistra. La natura inservibile di due categorie tradizionali  (Cat. 65)

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La fine dell’URSS. Dalla transizione mancata alla dissoluzione reale  (Cat. 119)

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La questione nazionale alle soglie del XXI secolo.
Note introduttive ad un problema delicato e pieno di pregiudizi
  (Cat. 116)

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Le avventure dell’ateismo. Religione e materialismo oggi  (Cat. 60)

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Le contraddizioni di Norberto Bobbio.
Per una critica del bobbianesimo cerimoniale
(Cat. 007)

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Logica della storia e comunismo novecentesco. L’effetto di sdoppiamento  (Cat. 158)

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Marxismo, Filosofia, Verità  (Cat. 50)

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Scienza, Politica, Filosofia. Un’interpretazione filosofica del Novecento  (Cat. 121)

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Un secolo di marxismo. Idee e ideologie  (Cat. 59)

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Verità filosofica e critica sociale. Religione, filosofia, marxismo  (Cat. 76)

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Elogio della filosofia. Fondamento, verità e sistema nella conoscenza e nella pratica filosofica dai greci alla situazione contemporanea (Ebook 1008)

*** 

Marxismo e Filosofia. Note, riflessioni e alcune novità (Cat.n. ebp 069)

***

Hegel Marx Heidegger. Un percorso nella filosofia contemporanea  (Cat. 48)

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Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013

Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.

Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.

Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.

Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez

Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.

Costanzo Preve – Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante

Costanzo Preve – Religione Politica Dualista Destra/Sinistra. Considerazioni preliminari sulla genesi storica passata, sulla funzionalità sistemica presente e sulle prospettive future di questa moderna Religione

Costanzo Preve – Invito allo Straniamento 2° • Costanzo Preve marxiano ci invita ad un riorientamento, ad uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo.

Costanzo Preve (1943-2013) – Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca (luglio 2012) de “Il Bombardamento Etico”. Un libro che è ancora più attuale di quando fu scritto, sedici anni or sono.

Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica

Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.

Costanzo Preve (1943-2013) – Il Sessantotto è una costellazione di eventi eterogenei impropriamente unificati. Il mettere in comune questi eventi eterogenei è un falso storiografico.

Costanzo Preve (1943-2013) – «Il convitato di pietra». Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza, senza la fatica del concettualizzare

Costanzo Preve (1943-2013) – Teniamo la barra del timone diritta in una prospettiva di lunga durata. La “passione durevole” per il comunismo coincide certo con il percorso della nostra vita concreta fatalmente breve, ma essa è anche ideale, nel senso che va al di là della nostra stessa vita.



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