Fernanda Mazzoli – La speranza, nel libro di Arianna Fermani, forte della sua fragilità,  è apertura e rischio, si oppone alla paura, si accompagna alla fiducia e alla perseveranza, abita il campo della libertà, si confronta con la scelta, osa pensare il possibile (quando appare ancora impossibile) cercando di rendere realizzabile lo sperabile,  è slancio verso il futuro, immaginazione creatrice, fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento. È scommessa educativa, paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori».

Arianna Fermani di Fernanda Mazzoli 01
                              Arianna Fermani
«Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato».
         La speranza “antica”, tra páthos e areté

                         Petite Plaisance 2020, Euro 7

           indicepresentazioneautoresintesi
Fernanda Mazzoli
La speranza, nel libro di Arianna Fermani, forte della sua fragilità,  è apertura e rischio, si oppone alla paura, si accompagna alla fiducia e alla perseveranza, abita il campo della libertà, si confronta con la scelta, osa pensare il possibile (quando appare ancora impossibile) cercando di rendere realizzabile lo sperabile,  è slancio verso il futuro, immaginazione creatrice, fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento. È scommessa educativa, paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori».

Recuperare la pregnanza di una parola a partire dalla sua etimologia, ritrovare le arterie di senso che si irradiano dal suo cuore vitale, ricostruire intorno ad essa un contesto culturale significa scavare nella sua profondità, fino a restituire quel nucleo originario che sopravvive miracolosamente intatto attraverso e malgrado le trasformazioni incise dal tempo e la patina opaca depositatavi sopra dall’uso quotidiano.
È quanto fa Arianna Fermani nel suo recente saggio Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato. La speranza antica tra páthos e areté con la parola bella ed impegnativa cui allude il titolo.
Per i Greci la speranza è páthos, emozione, desiderio, passione, ma anche areté, virtù intesa come capacità di comportarsi in un certo modo, guidando e amministrando la passione stessa. Il greco έλπίς va ricondotto ad una radice elp corrispondente alla radice latina vel che ritroviamo nel verbo “volere”. È dunque forte la dimensione volitiva, per cui il soggetto che spera non si limita a sognare ad occhi aperti, ad inseguire chimere irrealizzabili, ma si dispone ad agire per dare forma al suo anelito. Immaginazione e volontà si coniugano, logos e pathos si abbracciano, un equilibrio si crea fra ragione e desiderio in un’ottica più generale capace di dare conto della complessità dell’uomo e di metterne in dialettica relazione le diverse facoltà.

La costellazione semantica della speranza
La speranza si proietta verso il futuro e come tale cela in sé un’idea di attesa che si conserva in diverse lingue europee: lo spagnolo esperar ha assunto anche il significato di “aspettare”, così come anticamente il francese espérer, limitatamente all’area occidentale e meridionale del Paese, mentre attualmente mantiene tale accezione in particolari costrutti. Una sfumatura simile è presente nell’inglese hope, speranza, auspicio, ma pure attesa di un evento positivo.
Questa parola è al centro di una costellazione semantica di cui l’autrice traccia le coordinate che permettono al lettore curioso di affacciarsi su una fitta trama di corrispondenze, analogie od opposizioni e di intraprendere un’autonoma esplorazione che, conducendolo in forme ed universi culturali differenti, restituisce appieno il peso culturale rivestito nelle comunità umane, oltre che nella psicologia individuale, da questa aspirazione indirizzata verso il futuro.
Infatti, sottolinea Arianna Fermani, la prima nozione chiamata in causa dalla speranza è quella di orexis, aspirazione, termine che rinvia ad una tensione verso qualcosa o qualcuno. Questo movimento si ritrova nella radice sanscrita spa (tendere verso una meta) da cui il latino spes. Qualche studioso accosta tale radice alla radice spet che ha originato termini come il latino spatium o l’antico alto tedesco spannan,[1] distendere.

La speranza è apertura e rischio, si oppone alla paura
e si accompagna alla fiducia e alla perseveranza
Dunque, la speranza è movimento, apertura e rischio e come tale si oppone alla paura e si accompagna alla fiducia e alla perseveranza.
La paura (da pavor, formato su paveo, temo, sono percosso, abbattuto) costruisce prigioni intorno all’uomo, cancella ogni orizzonte oltre le sbarre, vanifica desideri e volontà. Disegna un universo claustrofobico dove l’anima geme nel suo tedio infinito e la Speranza, timido pipistrello, sbatte le ali contro i muri.
La poesia di Baudelaire Spleen mette in scena proprio il funerale della Speranza, la quale, dopo essersi invano dibattuta, lascia il campo all’Angoscia trionfante e dispotica che pianta sul cranio del poeta la sua nera bandiera.[2] Due sono i termini di cui dispone la lingua francese per “speranza”: l’Espérance (con una connotazione religiosa – una delle virtù teologali – e filosofica, disposizione dell’anima che porta l’uomo a considerare nell’avvenire un bene importante che desidera e che crede di potere realizzare) e l’Espoir, attesa di qualcosa di determinato, di preciso. Ora, nel componimento il passaggio dall’una all’altra è imprcettibile: l’Espérance della seconda strofa è un povero uccello prigioniero che cerca a tentoni una via di fuga e che finisce per assimilarsi all’Espoir in lacrime della strofa finale. Entrambe disfatte, tutte le strade sono chiuse, cielo e terra sono un’unica prigione.
La catastrofe esistenziale del poeta, che fu anche catastrofe politica dopo la sconfitta del movimento rivoluzionario del giugno ’48 al quale egli aveva aderito con una certa ingenuità, forse, ma con un’autentica haine du bourgeois, trova proprio nella Speranza negata la figura chiave in cui si condensano angoscia, delusioni e sentimento di una vita mutilata. È, il suo, uno spirito intristito, che pure un tempo amava la lotta e che ora la Speranza non vuole più cavalcare e a cui non resta che la rassegnazione che il sonno regala al bruto.[3]

 

La speranza è il «giusto modo di sentire»
ed è il campo dell’agire in cui il soggetto diventa protagonista

L’ennui stende il suo sudario laddove la speranza muore, forse del suo stesso eccessivo ardore che l’ha portata a smarrire la dimensione di virtù che Aristotele le attribuiva, quel «giusto modo di sentire» che Arianna Fermani individua come il campo dell’agire in cui il soggetto diventa protagonista.
Fragile e resistente al tempo stesso, la speranza va custodita e coltivata con la cura attenta richiesta da una pianticella esposta a venti, pioggia e arsura o da un cucciolo che muove i primi incerti passi in un mondo di cui il suo sguardo vergine non sa ben calcolare le insidie.

 

La speranza si posa sull’anima forte della sua fragilità
È il piccolo uccello di Emily Dickinson, «quella cosa piumata che si viene a posare sull’anima» e non riesce a smettere di cantare, né si piega a tempeste o gelo, forte della sua fragilità.[4]
Speranza si nutre di fiducia, cioè di relazione: la radice fid- delle lingue neolatine si collega al greco peith-, il quale rinvia al sanscrito bandh-, legame, corda. La fiducia è riconoscimento del proprio limite e apertura verso un’alterità che può assumere volto umano o rispondere ad un’istanza ideale, o ad una proiezione in un’esperienza possibile. Chi dà la propria fiducia mantiene vivo il legame con il mondo, si dispone in un una dimensione dialettica, riempie l’attesa della fede che qualcosa avverrà e che sarà un bene. È proprio la scissione dai legami che lo uniscono al mondo che precipita l’uomo nella buia segreta dove ad essergli compagni sono il tedio, l’angoscia e la paura.

 

La speranza abita il campo della libertà,
la disperazione incatena al presente
Speranza e fiducia si protendono verso l’avvenire, la disperazione incatena al presente, rimuove persino un orizzonte altro, e come concede un solo tempo, così conosce un solo spazio, quello delimitato dalle sbarre della gabbia.
La speranza, dunque, abita il campo della libertà, perché osa pensare il possibile quando appare ancora impossibile e, in virtù della sua natura attiva, si spinge a pensare a come rendere realizzabile lo sperabile. Chi spera si confronta con la scelta: se non vuole cadere nelle sabbie mobili della vuota fantasticheria o nella trappola delle illusioni elegge, infatti, l’oggetto verso cui tendere, nella piena consapevolezza che l’atto stesso di sperare è indicativo di una mancanza.

Il logos sostiene la passione ed insieme generano progettualità
Il logos sostiene la passione ed insieme generano progettualità, si gettano oltre l’esistente, ben conoscendo i limiti di questo e i propri. Oltre la strada tracciata c’è un vasto continente aperto all’azione, nuove linee da disegnare che altre speranze si ingegneranno di valicare in un dialogo fecondo quanto più è serrato che ha al centro la capacità umana di immaginare e costruire nuovi scenari individuali e comunitari.
La speranza è dunque tutta interna a quel processo inesauribile che è la storia degli uomini, né è casuale che le grandi speranze collettive di liberazione sociale siano venute a cadere proprio in quegli anni in cui gli apologeti tardo novecenteschi del capitalismo decretarono la fine della storia, per assolutizzarne e naturalizzarne dominio ed egemonia ed espungere dall’orizzonte qualsiasi idea non solo di alternativa, ma persino di conflitto.
La speranza diventa allora virtù eminentemente politica, negazione del meccanismo schiacciante di riproduzione sociale ed affermazione della necessità di immaginare mondi diversi. È l’Espoir che spinge i repubblicani spagnoli a battersi contro i franchisti non solo in nome di un generico antifascismo, ma con la prospettiva di cambiare in profondità gli assetti sociali del loro Paese.[5]

 

La speranza è scommessa educativa,
paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori»
Fra le imprese umane costitutivamente rivolte al futuro, Arianna Fermani privilegia come particolarmente significativa la paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori», i quali per sbocciare necessitano di tempo, cura e fiducia. La scommessa educativa è imperniata proprio sulla fides, «un atto di fiducia originaria» che richiede i tempi lunghi della conoscenza e dell’intimità. Anzi, su un duplice atto di fiducia che lega docente e discente, chiedendo ad entrambi di ripensare il tempo stesso, recuperando il valore dell’attesa, della lenta maturazione contro l’immediatezza della performance, l’idolatria del risultato, desolante espressione della curvatura aziendalistica della scuola del neoliberismo.

La speranza è slancio verso il futuro, immaginazione creatrice,
fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento

Che la speranza attraversi i destini individuali nel periodo strategico della formazione trova ampio riscontro nel peso che essa assume nel Bildungsroman. Lo slancio verso il futuro, l’immaginazione creatrice, la fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento si scontrano con l’opacità e la solidità granitiche di una società ostile, di tempi difficili scanditi dall’accumulazione di capitale e dalla mentalità utilitaria. Così, le grandi speranze di riscatto sociale di Pip[6] o i giovanili sogni di gloria dei personaggi di Balzac si infrangono contro questa superficie dura e trascinano i loro portatori o nel naufragio esistenziale o verso il porto di un’amara saggezza. La speranza, quando non soccombe alla disperazione, si fa esperienza, perde di vigore, si acquatta nell’intimo, istituisce nel cuore del soggetto una mancanza che ne guiderà i passi come un’eco lontana. Dei suoi due bellissimi figli, lo sdegno e il coraggio secondo Agostino, citato dalla Fermani, resta, pur a capo chino, il primo, germe di consapevolezza, forse di nuova speranza. Quanto al secondo, ha le ali spezzate o forse aspetta un’occasione favorevole.
Se non può contare su entrambi, la speranza è mutilata, si ripiega su se stessa, diventa nostalgia o, al contrario, folle corsa verso il nulla.
In tempi di dilagante conformismo politico e culturale e di narcisismo nichilistico, ove la diversità sbandierata dalla società dello spettacolo ha come comune denominatore lo slogan thatcheriano There Is No Alternative,[7] le parole del filosofo di Ippona ci indicano la via diritta per comporre un’attitudine etica capace di ritrovare il filo di una speranza attiva, smarrito nelle secche di un presente contrabbandato come eterno.

 

Fernanda Mazzoli

***

[1] A.M. Carassiti, Dizionario etimologico, Odysseus, Genova, 1997.
[2] C. Baudelaire, I fiori del male, Mondadori, Milano,1973.
[3] Cfr. Ivi, Il gusto del nulla.
[4] E. Dickinson, La speranza è quella cosa piumata, in Id., Tutte le poesie, Mondadori, Milano,1997.
[5] A. Malraux, L’Espoir, Gallimard, Paris,1937.
[6] Il protagonista di Great Expectations (Grandi speranze) di Charles Dickens. In Hard times (Tempi difficili) Dickens scrive una vibrante denuncia del nascente industrialismo.
[7]Non c’è nessuna alternativa”, slogan coniato da Margaret Thatcher, noto anche sotto l’acronimo TINA, e ripreso da diversi uomini di governo.


Fernanda Mazzoli, insegna Lingua e civiltà francese presso il Liceo Linguistico Raffaello di Urbino. Per alcuni anni ha collaborato con il Dipartimento di ugro-finnistica dell’Università di Bologna, occupandosi di letteratura orale e processi di stregoneria, con particolare riferimento all’area ungherese. Nel 1992 ha pubblicato con I quaderni italo-ungheresi, un testo sulla figura della strega tra immaginario e storia (La strega nella tradizione ugro-finnica e in quella occidentale) e, negli anni successivi, articoli relativi a fiabe di magia e credenze popolari su Il polo, rivista trimestrale dell’Istituto Geografico Polare Silvio Zavatti, ai canti lapponi per Settentrione (rivista di studi italo-finlandesi) e, nel 1997, uno studio (traduzione e analisi testuale) di due fiabe ungheresi per la rivista di Gianni Scalia In forma di parole. Nel 2016 ha pubblicato per Sensibili alle foglie un testo sulla deriva aziendalistica della scuola pubblica (La scuola liquida. La liquidazione della scuola pubblica), nel quale ha cercato di fare incontrare esperienza diretta ed analisi puntuale delle dinamiche innestate dalle ultime riforme della pubblica istruzione. Nel 2019 ha curato con sua nuova traduzione L’Insurgé di Jules Vallès (il rivoluzionario “réfractaire” prima, durante e dopo la Comune di Parigi), L’Insorto testo pubblicato da Petite Plaisance. Nel 2020 ha pubblicato Di argini e strade. Un racconto di pianura. Collabora con la redazione di Koinè, e scrive recensioni di saggi ed opere letterarie pubblicate sul blog Invito alla lettura della editrice Petite Plaisance.


Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.
Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.
Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva
Fernanda Mazzoli – La ripresa, finalmente! Ma chi guida la task force incaricata di traghettare il Paese fuori dell’emergenza da Covid 19? La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione
Fernanda Mazzoli – L’io minimo ai tempi dell’epidemia. Lo spiritello esangue e pervicace della mentalità di sopravvivenza. Sopravvivere diviene preferibile a vivere nella consapevolezza.

Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: Vita felice umana: in dialogo con Platone e Aristotele (2006); L’etica di Aristotele, il mondo della vita umana (2012); By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach (2016). Ha tradotto, per Bompiani: Aristotele, Le tre Etiche (2008), Topici e Confutazioni Sofistiche (in Aristotele, Organon, 2016).

Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.


Arianna Fermani – L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristotele
Arianna Fermani – La nostra vita prende forma mediante il processo educativo, con una paideia profondamente attenta alla formazione armonica dell’intera personalità umana per renderla libera e felice.
Arianna Fermani – L’armonia è il punto in cui si incontra e si realizza la meraviglia. Da sempre armonia e bellezza vanno insieme.
Arianna Fermani – VITA FELICE UMANA. In dialogo con Platone e Aristotele. il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permette di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana
Arianna Fermani – Divorati dal pentimento. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele
Arianna Fermani – Mino Ianne, Quando il vino e l’olio erano doni degli dèi. La filosofia della natura nel mondo antico
Arianna Fermani – Nel coraggio, nella capacità di vincere o di contenere il proprio dolore, l’uomo riacquisisce tutta la propria potenza, la propria forza, la propria dignità di uomo. Senza coraggio l’uomo non può salvarsi, non può garantirsi un’autentica salus.
Arianna Fermani – Fare di se stessi la propria opera significa realizzarsi, dar forma a ciò che si è solo in potenza. attraverso l’energeia, e nell’energeia, l’essere umano si realizza come ergon, si fa opera. Chi ama, nutrendosi di quell’energeia incessante che è l’amore, scrive la sua storia d’amore, realizza il suo ergon, la sua opera. È solo amando che un amore può essere realizzato, esattamente come è solo vivendo bene che la vita buona prende forma
Arianna Fermani – Recensione al volume di Enrico Berti, «Nuovi studi aristotelici. III – Filosofia pratica».
Arianna Fermani – «Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele». Si è felici perché la vita ha acquisito un orientamento, si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice sussistenza. Una vita dotata di senso. Felicità come pienezza, come attingimento pieno del ‘telos’ lungo tutto il tragitto della vita.
Arianna Fermani – «Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». La speranza “antica”, tra páthos e areté.
Arianna Fermani – Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani
Arianna Fermani – Quando il rischio è bello. Strategie operative, gestione della complessità e “decision making” in dialogo con Aristotele. L’assunzione del rischio e la sua adeguata collocazione all’interno di una vita “riuscita” implica la continua individuazione di priorità in vista della costituzione il più possibile armonica dell’esistenza.
Arianna Fermani – «Il concetto di limite nella filosofia antica». L’uomo non è dio, ma la sua vita può essere divina. Divina è ogni vita buona, ogni vita che sia stata ben condotta. Ogni vita umana si costruisce entro lo scenario del quotidiano, è fatta delle piccole cose di ogni giorno e di questa quotidianità si nutre.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Antonio Fiocco – Sul racconto «Di argini e strade» di Fernanda Mazzoli.

Fernanda Mazzoli - Recensione «Di artini e strade»

Fernanda Mazzoli, Di argini e strade. Un racconto di pianura, Petite Plaisance, Pistoia 2020.

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Antonio Fiocco

Sul racconto Di argini e strade di Fernanda Mazzoli

Ben prima di qualsiasi commento estetico o contenutistico, di un’opera di narrativa è condicio sine qua non il coinvolgimento emotivo di chi legge. E questo si tratti di un romanzo di Salgari o di Dumas in un’età, ahimè, trascorsa, o, ben più tardi, di una raffinata divagazione proustiana sulla facciata di un duomo medievale o sulle acque di Venezia. Questo effetto di partecipazione Fernanda Mazzoli lo ottiene con naturalezza. Personalmente, indotto dalla triste condizione del mondo attuale a cercare da decenni risposte nella filosofia, la lettura del racconto di Fernanda mi fa riscoprire una dimensione simbolica che credevo dimenticata, ma evidentemente latente e che mi accorgo essere assolutamente complementare a quella, necessariamente più fredda e cerebrale, che pertiene al grande pensiero filosofico. Infatti, come si può realmente desiderare la salvezza del mondo se non se ne sente un fascino irriducibile a ogni lucido ragionamento? E tuttavia riaffiorano reminiscenze di storia del pensiero. Nel racconto il narratore è un condannato a morte e questa condizione tende all’estremo le sue corde interiori, così come pretesero gli intellettuali tedeschi durante la Grande Guerra, preconizzando un muto contatto con la morte, e di ciò è da salvare il concetto, tralasciando le contingenti ragioni ideologiche di contrapposizione a una immaginaria “superficialità francese”. Fernanda racconta, racconta, sempre attenta a un impressionismo di immagini fuso con continue annotazioni psicologiche, indicative di una vita interiore ormai rara, e solo chi la possiede può realmente provare rivolta per la piega presa dal mondo sociale attuale. E infatti, per es., c’è uno stridente contrasto fra questa ricchezza e quanto, dopo una giornata di lavoro alienato, ci si illude di trovare accendendo la televisione e venendone “ripagati” con spot e miserevole ideologia consumistica in monotona salsa, un debordiano simulacro compensatorio di una vita negata. Per l’atmosfera sognante del racconto non trovo veri paragoni con autori famosi. Trovo forse una eco semplicemente nell’equilibrio fra i particolari realistici e la vicenda arcana, densa di un fascino misterioso, che genera spaesamento, nel Moby Dick di Melville. Ecco, forse, il mistero che circonda la muta ragazza del racconto, che simboleggia forse la vita, forse la morte, forse entrambe, può essere lo stesso dell’adolescente che incarna una pienezza irraggiungibile e confonde ogni certezza nel maturo musicista di La morte a Venezia nella sontuosa trasposizione cinematografica di Luchino Visconti del romanzo di Thomas Mann, e gli fa un arcano cenno al momento della morte, un istante supremo in cui tutto si fa chiaro.

Altro aspetto che emerge, o almeno questo è quanto viene evocato nello scrivente, è l’attenzione per un mondo rurale-artigianale che, per quanto scomparso solo da pochi decenni, ormai appare lontanissimo. Chi scrive rammenta da parte dei suoi genitori così tanti ricordi del paese originario del Polesine dai quali si sarebbe potuta ricavare una nuova sterminata “ricerca del tempo perduto” – e questo vale per ogni angolo della vecchia Italia rurale – e rimpiange amaramente di avere ascoltato distrattamente quei racconti, con la sufficienza di chi già si sentiva scioccamente appartenente a un mondo più moderno e superiore. Un tempo quasi ogni persona aveva un soprannome che ne segnava una precisa personalità sociale e psicologica e in ogni caso era individuato per qualcosa di unico e irripetibile. Oggi tutto questo, nell’era della omologazione totale, nell’epoca del “sì” heideggeriano, sembra quasi non essere mai esistito. Ma è un grande pregio della narrazione di Fernanda averci ricordato “come eravamo”, o, meglio, che “qualcosa eravamo”, anziché essere strumenti passivi, sussunti a un rapporto sociale anonimo e impersonale, come in realtà rischiamo pericolosamente e inesorabilmente di avviarci a ridurci ora. Doveroso anche un altro tipo di annotazione, apparentemente non in linea con l’atmosfera senza tempo che aleggia nel racconto. Certo, si potrebbe sempre fare un parallelo fra la tirannide del XX secolo e quella del XV, nonché, ahimè, di tutti secoli, ma sarebbe una operazione troppo facile e innocua. Purtroppo si vive ormai in una situazione storica nella quale, dopo alcuni decenni di un antifascismo di maniera dettato esclusivamente da opportunità politiche e che non aveva mai fatto veramente i conti con un passato criminale, si è osato parlare affettuosamente di “ragazzi di Salò”, equiparando i militi delle brigate nere con i combattenti della Resistenza. E per di più era solo una camera di compensazione per giungere, come ormai traspare da molti inquietanti segnali, a un triste rovesciamento di ruoli, funzionale al crollo della razionalità conseguente all’adeguamento del Capitale al suo concetto e indipendente perfino dai miseri scopi contingenti dei protagonisti empirici di tanta bassezza. Ebbene, attraverso la figura del narratore, un giovane partigiano condannato a morte assieme a tanti compagni, Fernanda Mazzoli a sua volta “osa” ristabilire un giusto criterio di giudizio. Forse, di fronte alla montante marea avversa, questa isola di verità non avrà una approvazione immediata, forse sarà semplicemente un gesto di testimonianza, ma la testimonianza comunque attesta che quanto portò tanti giovani a sacrificare la loro vita, finché esisterà un “Uomo” adeguato al suo concetto, non potrà estinguersi, nonostante oblio e menzogne. Con le parole di Massimo Bontempelli, «[…] un testo […] ha già un significato metaindividuale per il suo scrivente già nel momento in cui lo scrive, prima ancora che abbia raggiunto anche un solo destinatario esterno».

Antonio Fiocco

6 ottobre 2020

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Pavel A. Florenskij (1882-1937) – Cultura è lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte. Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano.

Pavel Aleksandrovič Florenskij 03

Salvatore Bravo

Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano


Il titanismo dei nostri giorni non è che una forma di riduzionismo.
Alla verità, ed alla sua multifocalità, si è sostituita la derealizzazione dell'essere umano.
Si irride alla filosofia teoretica, perché pone quesiti non risolvibili con algoritmi, e perché pone in discussione i postulati dello specialismo.
La filosofia ricerca la totalità e insegna a vivere la totalità.
Lo specialismo necrotizza ogni risvolto etico dell’agire per rafforzare la sola logica del risultato e dell’efficienza.
Il potere non tollera la verità.
Lo sguardo narcisista vorrebbe dominare il reale con la tecnica.
Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo valorizzazione della merce e svalorizzazione dell’essere umano.
La verità esige il coraggio di “ritornare alle cose stesse”.
Vi è cultura dove l’essere umano è il centro ed il fine della ricerca, dove la chiarezza ontologica si coniuga con la prassi assiologica.
Cultura è  lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte.


Totalità titanismo e totalitarismo
Il titanismo dei nostri giorni non è che una forma di riduzionismo. Mediante la matematica e l’applicazione di calcoli matematici e algoritmici ci si difende dalla realtà, per dominarla attraverso previsioni e ricostruzioni astratte. Alla verità, ed alla sua multifocalità, si è sostituito l’astratto e la derealizzazione. Il titanismo è l’effetto della rinuncia alla ricerca della verità: lo scambio dell’astratto con il concreto produce “mostri”. La pratica del titanismo è quotidiana, il suo epifenomeno è plurale, si materializza col narcisismo atomistico ed il saccheggio perenne delle risorse naturali ed umane. La rinuncia alla verità è il fondamento del titanismo globale. Dalla verità ci si difende con il rifugiarsi nel delirio collettivo di grandezza. Il linguaggio è pervasivamente infettato da tale atteggiamento, dalla pubblicità al linguaggio ordinario e culturale. Ovunque, si insinuano parole come: “alla grande”, “successo”, “godimento senza fine”. Più l’io diventa minimo tanto più il titanismo occupa i sogni distopici dell’ultimo uomo, secondo la definizione di Nietzsche nella Gaia scienza (aforisma 125).

“Il cretinismo della specializzazione” fa in modo che nelle accademie si rinunci alla verità. Si irride alla filosofia teoretica, perché pone quesiti non risolvibili con algoritmi, e specialmente pone in discussione i postulati dello specialismo.

La verità è un iter conoscitivo: orienta i nostri comportamenti senza esaurirne la sua profondità.
La verità è il fondamento che conserva le brecce per il suo autoripensamento.
Lo specialismo coglie frammenti di verità, ma senza la sua integrazione nella complessità esso non è che una forma aggressiva di totalitarismo che vorrebbe imporre una visuale unica, un’unica prospettiva respingendo la categoria della totalità per affermare il totalitarismo del pensiero unidirezionale.
Il totalitarismo è agorofobico, vuole solo spazi chiusi, senza tempo.
La totalità è la verità con i suoi piani sincretici che necessitano – per il suo disvelamento – di una pluralità di metodi e di modalità conoscitive. La Filosofia è la disciplina che non solo integra i piani, ma ricerca la totalità, essa insegna a vivere la totalità. Lo sguardo filosofico intenziona le parti integrandole, trascendendo la notte degli specialismi per coglierne la sostanza che vivifica la totalità e le dà organicità e senso.
Il totalitarismo, invece, è il riduzionismo per eccellenza, poiché una sola prospettiva diventa l’elemento preponderante che annichilisce la complessità. Lo specialismo si irrigidisce in sistema conchiuso in se stesso. Non vi sono aperture verso altri percorsi, ma solo la gravità unidirezionale che neutralizza il concetto per normalizzare il silenzio dove regnava il logos nella sua pluralità dialogante. Si ha l’adiaforizzazione, ovvero si necrotizza ogni risvolto etico dell’agire per rafforzare la sola logica del risultato e dell’efficienza.

 

La Verità in Pavel Florenskij
Pavel Florenskij ha indagato «il mondo come un intero»: questa, e solo questa,  «è stata la sua colpa». [1] Il potere non tollera la verità. Per eternizzarsi forma i sudditi allo specialismo con il quale ogni orizzonte veritativo è cancellato dalla finalità formativa e di ricerca.
I piani di verità si integrano verso la trascendenza, la quale non ha confini definitivi, ma le è consustanziale il movimento dialettico. Ogni sistema totalitario non ammette che l’imperio di un solo volto del reale, che in tal modo diviene irrazionale, incomprensibile. L’ambizione di ogni totalitarismo è l’ipostatizzazione del presente. Si ha, di conseguenza, il caos della derealizzazione, la scollatura tra il reale ed il concetto. Ciò non può che comportare la solitudine e la violenza:

 «”Che cosa ho fatto per tutta la mia vita?”, si chiese. Ho indagato il mondo come un intero, come un singolo quadro e una singola realtà. Ma feci questa indagine in ogni dato momento, o più precisamente in ogni periodo della mia vita, da un particolare angolo o prospettiva. Indagavo le relazioni del mondo sezionandolo in una direzione particolare, su di un piano particolare, e mi sforzavo di comprendere la realtà del mondo da questo piano che mi interessava. I piani erano differenti, ma uno non negava l’altro, bensì lo arricchiva. Ciò produceva una perpetua dialettica di pensiero, “lo scambio dei piani di osservazione”, mentre allo stesso tempo vedevo il mondo come un tutto unico».[2]

 

Totalitarismo esiziale
Il totalitarismo nega la ricerca della verità per omologare i popoli in masse, in plebi che devono obbedire restando inchiodati nella caverna, con lo sguardo ed il corpo vissuto teso verso gli imperativi di regime. Il totalitarismo trasforma un aspetto del reale in feticcio da adorare, in liturgia prosaica ripetitiva e priva di ogni fine ontologico: è il ritrovarsi in un guscio vuoto che incapsula e necrotizza la creatività di ciascuna persona. La cultura e la creatività non sono espressioni immediate, semplici automatismi, ma esigono impegno, disciplina, capacità di donarsi. L’inganno del totalitarismo – nella forma del capitalismo assoluto – è rappresentare la cultura e la creatività in modo gaudente e caotico. In tal modo neutralizza la temuta (per il capitalismo) pericolosità del pensiero critico, declassando la creatività a prodotto di facile produzione e consumo. La contemporaneità, malgrado le grandi conquiste tecnologiche, è nel segno della negazione della cultura:

«La cultura è la lotta consapevole contro l’appiattimento generale; la cultura consiste nel distacco, quale resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è la contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte».[3]

 

L’ipertrofia della soggettività
La prospettiva rinascimentale nella ricostruzione genetica di Pavel Florenskij è il trionfo della soggettività e del relativismo, essa prepara la matematizzazione del reale. Se la soggettività resta avviluppata su se stessa, se riduce il reale a semplice costruzione euclidea, si ritira dal reale per vivere l’esperienza dell’astratto, al punto che la soggettività non vive il reale in cui è immersa, ma mediante calcoli matematici produce rappresentazioni senza la necessità di ascoltare la vita. Si tratta di un’immensa rete geometrica e matematica che ingabbia il reale, lo tumula sotto il peso dei calcoli, scambiando la rappresentazione matematico-geometrica per realtà. È un processo di allontanamento dalla vita che implica il disancorarsi dalla verità per trasformare l’io calcolante in una divinità che tutto deve sussumere a se stessa. La prospettiva nell’arte, quindi, con il suo tecnicismo, prepara la rivoluzione copernicana e lo scientismo totalitario:

«In secondo luogo: a dispetto della logica e di Euclide, ma ormai nello spirito della concezione del mondo kantiana, con il suo soggetto trascendentale che regna sul mondo illusorio della soggettività (e, ciò che è peggio, lo fa in maniera coercitiva), il nostro artista, fra tutti i punti dello spazio infinito (che in Euclide sono rigorosamente uguali), ne sceglie uno solo, esclusivo, unico, che si distingue da tutti gli altri per il suo valore, un punto monarchico, se così si può dire, ma la cui unica prerogativa è di essere il luogo in cui si trova l’artista stesso o, per essere più esatti, in cui si trova il suo occhio destro, il centro ottico del suo occhio destro. Tutti i luoghi dello spazio, alla luce di un simile modo di pensare, sono luoghi privi di qualità e ugualmente incolori, eccezion fatta per quest’unico luogo che domina su tutti gli altri, in quanto ha ricevuto il privilegio di essere sede del centro ottico dell’occhio destro dell’artista. Questo luogo viene proclamato centro del mondo e pretende di proiettare spazialmente il carattere gnoseologico, assoluto, kantiano dell’artista. In verità egli guarda la vita “da un punto di vista”, ma senza alcuna precisazione ulteriore, perché questo punto, innalzato a vero e proprio assoluto, non si distingue in nulla da tutti gli altri punti dello spazio, e la proclamazione della sua superiorità rispetto agli altri non solo non è motivata ma, se si considera la sostanza dell’intera concezione del mondo qui esposta, è anche immotivabile».[4]

 Lo sguardo narcisista vorrebbe dominare il reale con la tecnica, estromettere la coscienza dalla relazione con il mondo e viceversa. Il risultato è solo impoverimento dell’esperienza. La verità esige il coraggio di “ritornare alle cose stesse”, e di problematizzare, in primis, la soggettività ed il suo ruolo nell’occultare la verità.

 

Paura del reale e della verità
Nella pratica dell’esemplificazione totalitaria si cela il bisogno di difendersi dalla verità, la quale sgretola le false certezze in cui ci si rifugia. La realtà è come una linea retta, secondo il filosofo e mistico russo. Si può decidere di osservare un punto della retta, o di capire che la retta è fatta di punti indissociabili. Cultura è sguardo che non arretra innanzi all’insieme ed alle sue connessioni. Rappresentarsi un mondo storico e naturale incapsulato in sistemi e formule favorisce il sogno d’onnipotenza che sempre è riposto tra le pieghe della conoscenza che abiura la filosofia teoretica. I regimi totalitari – riconosciuti o meno in quanto tali – fanno “buon uso” delle paure ataviche degli esseri umani, come del delirio d’onnipotenza. La cultura è lotta, in quanto è confronto con tali paure e delirii. Essa permette di attraversare i deserti interiori e collettivi per tracciare nuovi inizi senza rimozioni e nostalgie. Se non ci si confronta con tali dinamiche non vi è cultura, ma solo pratica per imbalsamare il reale:

«In quinto luogo: tutto il mondo viene pensato come completamente immobile e assolutamente immutabile. In un mondo soggetto a rappresentazione prospettica non può e non deve esserci spazio né per la storia, né per la crescita, né per i cambiamenti, né per i movimenti, né per la biografia, né per lo sviluppo di un’azione drammatica, né per il gioco delle emozioni. In caso contrario, ancora una volta l’unità prospettica del quadro si sfalderebbe. È un mondo morto o avvinto in un sonno eterno: è sempre, immutabilmente, lo stesso identico quadro, pietrificato nella sua gelida immobilità».[5]

La cultura è a un bivio. Pavel Florenskij nel gulag ha vissuto la violenza del riduzionismo prospettico. Sta a noi cogliere “la verità della sua testimonianza”, dinanzi all’avanzare di un mondo unidirezionale, incapace di guardare gli effetti e la violenza dell’economicismo che – con il saccheggio delle risorse – sta inchiodando l’umanità ed il pianeta nell’immobilità della coazione a ripetere. Vi è cultura dove l’essere umano “abbandona il proprio trono” per avventurarsi nella dialettica, per instaurare l’intersoggettività che lo accompagna verso la verità. Perché ciò avvenga bisogna congedarsi dai miti e disporsi nella concretezza dell’ascolto e della parola:

«In quarto luogo: il suddetto legislatore viene concepito come incatenato per sempre e indissolubilmente al proprio trono: se lascia questo luogo assolutizzato o se vi fa anche soltanto il più piccolo movimento, immediatamente tutta l’unità delle costruzioni realizzate seguendo le leggi della prospettiva viene meno, e tutta la prospettiva che le regge crolla. In altre parole, in una simile concezione, l’occhio che guarda non è l’organo di un essere vivente che vive nel mondo e vi lavora, ma la lente di vetro di una camera oscura».[6]

 

Dove regna l’intercosalità (Massimo Bontempelli), non vi è cultura, ma solo valorizzazione della merce e svalorizzazione dell’essere umano. L’intercosalità sostituisce il logos, l’agire politico con lo scambio di merci, di informazioni e di seduzioni. Il fine dell’intercosalità è la morte dell’essere umano. Il bivio di fronte a cui si trova la cultura è la scelta tra l’umano ed il dis-umano. Tutti noi siamo implicati in tale scelta. Publio Terenzio Afro ci aiuta a definire ciò che è, per l’uomo, vera cultura:

«Homo sum, humani nihil a me alienum puto».[7]

Vi è cultura dove l’essere umano è il centro ed il fine della ricerca, dove la chiarezza ontologica si coniuga con la prassi assiologica. La cultura è libertà dell’agire e dell’incontro per elevarsi nell’universale concreto nel quale si coniugano metafisica ed assiologia.

Salvatore Bravo

***

[1] Pavel Florenskij condannato nel 1933 a dieci anni di servitù in un campo di concentramento; fu inviato in seguito nell’isola di Solovki; morì il 15 Dicembre nel 1943.
[2] Pavel Florenskij, Lettera dal campo di concentramento di Solovki, 21 Febbraio 1937; in Un filosofo nel gulag. Arte e letteratura in Pavel A. Florenskij, dall’Accademia teologica di Mosca ai campi di concentramento sovietici, Jouvence, Milano 2020.
[3] Tratto dal libro di Pavel Florenskij, Bellezza e liturgia. Scritti su cristianesimo e cultura, SE, Milano 2020.
[4] Pavel Florenskij, La prospettiva rovesciata, a cura di Adriano Dell’Asta, Adelphi, Milano 2020, pag. 74.
[5] Ibidem, pag. 75.
[6] Ibidem.
[7] «Sono un essere umano, niente di ciò che è umano mi è estraneo», in Publio Terenzio Afro, Heautontimorùmenos, Atto I.


Pavel Florenskij (1882-1937) – «La prospettiva rovesciata». Ci sono solo due tipi di rapporto con la vita: quello interiore e quello esteriore, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica.
Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937) – Verità, bene e bellezza: questa triade metafisica è un unico principio. Nella vita ci sono molte cose mostruose, malvage, tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Antonio Fiocco – Può Heidegger andare oltre il «solo un Dio ci può salvare» ?

Martin Heidegger- Antonio Fiocco
Antonio Fiocco

Può Heidegger andare oltre il “solo un Dio ci può salvare” ?

 

Una ennesima descrizione dell’esistente non sembra utile. Ci sono molte fonti critiche a proposito per chi ne è interessato. È più interessante cercare di andare oltre la consueta denuncia lamentevole, che in un contesto di nichilismo assoluto (vale a dire: capitalismo assoluto) rischia di assumere il contorno di voce che grida nel deserto o, nel migliore dei casi, di essere ascoltata distrattamente e rimanere irrilevante.

Dal canto mio, mi limito a elencare fatti solo in vista della elaborazione di concetti. Solo un cenno su tre tuttora ricorrenti impedimenti logici.

1) L’impossibilità apparente di una fuoriuscita dal capitalismo per suo movimento dialettico interno.

2) La mancanza di un soggetto rivoluzionario con precise caratteristiche sociologiche.

3) Il mito salvifico dello sviluppo delle forze produttive, che porta con sé il collasso ecologico del pianeta, ricordando che perfino Marx studiò la possibilità per la Russia di un passaggio al comunismo direttamente dalla comune agricola senza attraversare la fase industriale.
Un recente devastante esempio: la diga in costruzione in Etiopia su un affluente del Nilo, che darà l’indipendenza energetica a quel paese, ma metterà in condizione critica l’Egitto con il rischio di una guerra. E quanti lavoratori della terra strapperà alla loro secolare economia di sussistenza gettandoli nel mercato mondiale? E l’istmo del Nicaragua fra i due oceani, anche se attuato dai sandinisti, con l’esponenziale aumento della circolazione di merci che ne conseguirà, quale vantaggio porterà alla causa dell’emancipazione umana?

Esaurite telegraficamente queste argomentazioni, ci si concentra su quell’aspetto antropologico che appare ormai ben più decisivo. Qui ci viene in aiuto Pier Paolo Pasolini, che fu profondamente colpito dalla cesura storica avvenuta con lo sviluppo industriale fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento e che portò con sé il consumismo, imposto dalla televisione, dalla pubblicità e dai supermercati. La mentalità millenaria contadina-artigiana-piccolo borghese (in senso positivo) del popolo italiano, con la sua identità anche formatrice di cultura, scompare di colpo sotto l’urto di una forza gigantesca, ma non per essere sostituita da un “qualcos’altro” in qualche modo evoluto, bensì da un nulla riempito da un fantasma “sensibilmente sovrasensibile”: la merce. Conseguenza ne fu anche il tramonto del ruolo storico della Chiesa, che aveva la sua ragion d’essere nel forgiare la coscienza di quell’antico mondo e il suo relegamento ad azienda capitalistica fra le altre. Clamoroso esempio fu il caso della pubblicità dei jeans Jesus, che all’epoca suscitò una (peraltro già stanca) protesta della Chiesa. Ebbene, di recente uno spot ha chiamato in causa direttamente la voce di Dio non per parlare a Mosè dal roveto ardente a dettare le tavole della Legge, bensì come agente pubblicitario di una merce. Un ecclesiastico da me chiamato in causa nel manifestare la mia indignazione, perché ci vedevo un’offesa non tanto alla teologia, ma al Sacro in generale, ha mostrato indifferenza, e, anzi, la positività del fatto che così, comunque, … «si parlava di Dio».

Come se Dio avesse bisogno di pubblicità televisiva.

Pasolini era impressionato dalla potenza pervasiva del “Carosello” (pochi minuti a sera disciplinati da rigide regole etiche) su un’unico canale TV, mentre oggi è tutto un gigantesco Spot su centinaia di canali, inframezzato da qualche misero minuto di produzioni di evasione nordamericane, col telecomando ormai inutilizzabile a scopo di fuga, o da “approfondimenti” confusionari e menzogneri, che fungono da canovaccio.

L’antropologia pre-consumistica non era stata intaccata minimamente nemmeno dall’enfasi fascista e una traccia se ne può notare nel film Amarcord di Federico Fellini. Certi errori di valutazione di Pasolini non inficiano questa sua intuizione fondamentale, che lo disperò senza rimedio, ma purtroppo con illusioni paradossali come essersi lasciato ingannare dalle esibizioni di un Marco Pannella, che nascondevano l’intento di costui di allargare totalitariamente tutte le libertà di mercato fra cui appunto l’estensione di quei supermercati deprecati dall’intellettuale friulano.

Con tutto ciò non si vuol certo dire che precedentemente al “boom economico”, il capitalismo non avesse già profondamente inciso (narcisisticamente) sulle coscienze. Volendone fare un esempio, il più facile, fra gli italiani, dovrebbe essere Benito Mussolini, il duce del fascismo. Ma, personalmente, considero ancora più significativo il caso del Maresciallo (“d’Italia Capo di Stato Maggiore Generale”) Pietro Badoglio … sulla cui figura e sulle cui “gesta” rimando agli scritti storici di Massimo Bontempelli. Ovviamente ci sono altri grandiosi esempi in tal senso, come gli spietati generali del Regio Esercito Roatta e Robotti, e massacratori vari dei popoli yugoslavo e greco, molto opportunamente “dimenticati” dagli attuali teorici delle “foibe”, che sono, per inciso, i veri negazionisti.

Tuttavia, e questo è il punto fondamentale, questa tipologia di personaggi si poté ancora combattere in base ai principi del grande idealismo classico, secondo la linea di pensiero che va da Parmenide a Hegel, passando per Platone, Aristotele, Spinoza, Kant. Questo pensiero, con la sua esigenza di Giustizia, implicita anche negli incolti, fu la radice che fece nascere la Resistenza, il canto del cigno del popolo italiano.

Nel frattempo, cos’è successo, a livello macroscopico, con la distruzione antropologica, ulteriormente degradata in sussunzione totale della personalità alle esigenze sistemiche crematistiche? Una storica sentenza-ordinanza del giudice Guido Salvini, negli anni Novanta, sancì ufficialmente il coinvolgimento dei servizi segreti nordamericani nella strage di piazza Fontana. Cosa succede? Nulla. Non solo i governi italiani nemmeno si sognano di avviare una procedura di chiusura delle basi militari straniere, ma anche a livello di “opinione pubblica” non c’è nessuna reazione. Lo scrivente, allora illusoriamente iscritto a un partito sedicente comunista, compilò un volantino indignato sul caso, per vedersene rifiutare la stampa dai suoi dirigenti «perché non era il caso di suscitare vespai» … Oggigiorno studenti liceali, interrogati a proposito, o non sanno di che si parla o si dicono convinti essere colpevoli … le Brigate Rosse. Per quanto riguarda l’assassinio di Aldo Moro, numerose contro-indagini fanno parimenti apparire sullo sfondo una trama atlantica, nonché puro fumo negli occhi un “attacco allo Stato” eseguito da malvagi “comunisti”.

Che altro? 11 settembre, distruzione della Yugoslavia, Palestina, Ucraina … l’elenco delle menzogne che non suscitano indignazione e rivolta generalizzata è lungo. E se l’impunità dei criminali di guerra italiani si dovette al quadro generale di lotta al comunismo sovietico, ma comunque suscitò indignazione e polemiche, in seguito l’impunità dei crimini atlantici in Italia nel dopoguerra affoga nell’indifferenza e nelle code ai McDonald’s.

E per quanto riguarda la personificazione individuale di questo inedito stato di cose, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Alla breve galleria di personaggi significativi al passo con questi tempi illustrata da Massimo Bontempelli ne I forchettoni rossi (Massari editore, 2007) fra cui spicca Massimo D’Alema, ineffabile bombardiere, ma “amante della pace”, e oltre al picconatore-gladiatore Francesco Cossiga, paradossalmente chiamato a presiedere le istituzioni della repubblica come prima carica dello Stato, aggiungerei il senatore a vita Giorgio Napolitano, che come esponente dell’ala “destra” più filosovietica del PCI nel 1968 accetta l’invasione della Cecoslovacchia decisa da Breznev, e, in seguito, cambiato il vento della storia, lega il suo nome alla legge Turco-Napolitano del I° governo Prodi (altro eroe dei nostri tempi), che “crea” gli immigrati come clandestini ricattabili e come Presidente della Repubblica si mostra rigoroso garante di fedeltà atlantica.

Cosa si vuol dire ricordando tutto questo? Che il senso della Giustizia (apparentemente scomparso) è certamente eterno, come afferma Massimo Bontempelli nel suo fondamentale Filosofia e Realtà (C.R.T. – Petite Plaisance, 2000), ma esclusivamente finché esiste l’Uomo, con il suo concetto elaborato in origine dalla filosofia greca in poi. Questa dimensione umana è stata però intaccata dalle esigenze di riproduzione del Modo di Produzione Capitalistico e le sue fondamenta ideali offuscate dal nichilismo conseguente. Ma quale potrebbe configurarsi come un possibile aiuto?

Contrariamente a versioni ormai consolidate nel mondo della filosofia ufficiale, lo scrivente guarda a Martin Heidegger non come a un pensatore nichilista, a un portatore di depressione, o a un misticheggiante poeta del Nulla e rifiuta una eventuale etichetta di marxista heideggeriano (definizione di ardua interpretazione: allora fra gli amanti della filosofia dovrebbero essere riportati i marxisti aristotelici, i marxisti platonici, i marxisti spinoziani, ecc.?). Vediamo.

Costantino Esposito, nel suo saggio Il fenomeno dell’essere (Dedalo, 1984, pag. 221 e ss.), opera una decisiva distinzione fra la soggettività, attribuita da Heidegger all’Esserci, e il soggettivismo, tipico del filone di pensiero nato con Cartesio e avente il suo culmine con Kant, con la sua fondazione “riflessa” dell’io nell’attività conoscitiva dell’ente. Invece, secondo Heidegger, l’“intenzionalità”, il rivolgersi sensato all’ente secondo l’atteggiamento “fenomenologico” studiato a lungo negli anni Venti del Novecento ed espresso compiutamente in Essere e tempo, comporta un “sè stesso” ontologico di tipo esistenziale (ovviamente non si tratta dell’esistenzialismo noto come corrente filosofica). Se l’Esserci è un “essere nel mondo”, dotato di una progettualità a-veniente fondata su un passato ri-veniente dell’esser stato, con le sue possibilità da esprimere dotate di tutta la ricchezza dell’intenzionalità, ebbene tutta questa dimensione risulta annichilita dalla distruzione antropologica capitalistica. In altre parole, il capitalismo rappresenta una minaccia non solo per gli ideali e i principi “tradizionali”, ma per lo stesso “essere nel mondo” fenomenologico dell’Esserci.

Ciò si evidenzia nell’attuale disagio profondo e più o meno inconscio di ogni singolo individuo, privato a monte non solo di ogni senso di appartenenza e di comune origine con i propri simili, ma impossibilitato a estrinsecare ogni possibilità umana che non sia sussunta a priori alla forma-merce, cioè nel rischio di una risoluzione a un “nihil absolutum” della forma-uomo. E la distruzione capitalistica della scuola, privando i giovani di una memoria storica, secondo la temporalità originaria di Heidegger toglie loro anche un futuro.

Qui forse consiste il nocciolo incomprimibile dell’essere umano, la sua impossibile riduzione ad animale, il punto di convergenza con la tesi di Costanzo Preve sulla insopprimibilità totale della natura umana. Che non significa un qualche superamento dei valori classici, ma una loro “epoché”, tenendo presente che Heidegger considera la stessa tradizione classica come avente sullo sfondo un inespresso senso dell’essere come differenza. E una ontologia di questo genere non ha la caratteristica di poter essere demolita con metodo nietzscheano, rivolto unicamente contro la metafisica classica.

Certamente sono al corrente delle obiezioni svolte da Massimo Bontempelli alla temporalità heideggeriana nel saggio Tempo e memoria (C.R.T. – Petite Plaisance 1999), secondo le quali le pur grandi acquisizioni del filosofo di Friburgo sono dominate da un “essere per la morte” connesso ontologicamente alla dissoluzione e dunque al Male, che rende disperata e nullificata ogni scelta di vita. E Bontempelli concede che questo atteggiamento sia stato generato dal particolare clima imperante in Germania durante la Grande Guerra, inteso a enfatizzare la morte in guerra come dimensione necessaria per una esistenza dotata di autenticità interiore (si veda a questo proposito, anche il saggio di Domenico Losurdo La comunità, la morte, l’Occidente: Heidegger e l’ideologia della guerra, Bollati Boringhieri,1991).

Tuttavia penso che queste considerazioni siano riduttive: l’infezione della morte, la sua irruzione contaminante la vita, prende certamente la guerra come ragione immediata di comparsa, ma sullo sfondo campeggia la sua vera causa: la devastazione capitalistica. Heidegger non sfugge al destino decretato per la grande filosofia: essere il proprio tempo espresso in pensieri, e non è sua responsabilità se il suo “tempo” è quello che abbiamo compiutamente dispiegato sotto gli occhi ogni giorno con tutto il suo orrore.

Quanto a interpretazioni negative, Heidegger è in buona compagnia. Se il filosofo tedesco è accusato di avere introdotto il nazismo in filosofia con la sua presunta “ideologia della morte”, ignorando tra l’altro la sua biografia, allora Platone si vede incolpato di essere il precursore, con la sua Repubblica, delle dittature novecentesche, oltre a notare che la sua dottrina degli universali logici, che ne fa forse il più grande filosofo di tutti i tempi, è ridotta al mito iperuranico e a una dialettica bimondana, dunque facilmente attaccabile, mentre la sua autentica natura è di essere monomondana quanto quella di un Hegel. Non parliamo poi di Marx e di tutti i fraintendimenti di cui è stato vittima da parte di presunti amici e l’odio di cui è avvolto da parte dei filistei.

Detto questo, sono convinto che debba essere una scelta individuale, e non una esegesi filologica dei testi, l’interpretare Heidegger nel senso disperante e nullificante attribuitogli da Bontempelli o, al contrario, prenderne spunto e ragione per una reazione di vita e rivolta nei confronti della “barbarie che viene”.

Antonio Fiocco


Antonio Fiocco 02

Antonio Fiocco

Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente

Petite Plaisance, 2019, pp. 80



Il problema in discussione, la quistione, consiste se concepire una progettualità in quanto tale. Sembra non ci siano problemi nell’accettarla in linea di principio, ma permane l’idea che occorra indirizzare le forze su obbiettivi pratici immediati. Questo punto di vista, in apparenza ragionevole, vanifica lo scopo principale di migliorare realmente il mondo in cui viviamo e, invece di una reale progettualità comunitaria, si preferisce l’immediatezza della contingenza. Dunque, a quel se, di fatto, si oppone un no. La post-modernità (cioè la fase flessibile a tutti i livelli della modernità) per l’Autore non elabora spontaneamente una sua idea di comunismo, perciò si rende imprescindibile la progettualità. Per essere scoperte, utilizzate e verificate, le possibilità devono essere prima di tutto inventate. In questo senso, ogni uomo è progetto, creatore, poiché inventa ciò che è già a partire da ciò che non è ancora.



Indice

Incipit contingente-empirico

Gesù di Nazareth

Paolo di Tarso e la figura teologica del Cristo risorto

Giovanni l’evangelista e la nascita del Cristo-Dio

L’anti-pensiero di Max Weber

Hegel: il legame fra elaborazione del pensiero e prassi materiale

Lettori di Hege

Lenin non era un vero hegeliano

Pensando a Lenin, in cammino con György Lukàcs

Sartre e la sua svalutazione dell’essenza

L’uomo è essenzialmente progetto


Antonio Fiocco, nella più profonda indignazione per le ingiustizie e le falsità geo-politiche che devastano il mondo, e di cui sono piene le cronache e la storia del Novecento, con spirito dialogico-socratico si è impegnato fin dagli anni giovanili in studi filosofici e politici. Ma, proprio per non fare dello studio della filosofia una normale, ordinaria e rituale professione, a suo tempo si risolse a scegliere una facoltà scientifica. L’amore per le scienze dello spirito ha continuato ad animare la sua ricerca accre­scendo l’interesse anche per le discipline estetiche, la musica, la letteratura (le sue passioni: Shakespeare e Proust) e l’arte figurativa.



Incipit contingente-empirico

Il problema in discussione, la quistione, consiste se concepire una progettualità in quanto tale. Sembra non ci siano problemi nell’accettarla in linea di principio, ma permane l’idea che occorra indirizzare le forze su obbiettivi pratici immediati. Ci si sforzerà di indicare che questo punto di vista, in apparenza ragionevole, vanifica lo scopo principale di migliorare realmente il mondo in cui viviamo e a quel se, di fatto oppone un no, sia chiamando in aiuto esempi materiali che ricorrendo alle elaborazioni di alcuni grandi pensatori che hanno fatto la storia della religione e della filosofia. Impiegando concetti hegeliani, ci si propone di operare una contrapposizione fra sapere immediato e ragione filosofica.

In sintesi, indipendentemente dalle condizioni strutturali, una elaborazione teorica carente o incompleta porta comunque a risultati materiali insufficienti o controproducenti. Certo si tratta di una tesi non nuova,1 ma che è sempre utile corroborare. Si sono scelti alcuni nomi e argomenti, ma l’intendimento qui svolto è estensibile all’intera storia della filosofia, e con la convinzione che occorre non essere innovativi (chi ha cercato di esserlo in epoca recente, secondo chi scrive, ha fallito), bensì sia necessario cercare di ben interpretare quanto in essa filosofia è stato già elaborato.

Cominciamo da esempi concreti. Il giornalista e scrittore Giulietto Chiesa da una parte chiede il rispetto della Costituzione del 1948, ma poi propone improbabili soluzioni economiche compatibili con il sistema, senza porsi la questione del capitalismo e vorrebbe non uscire dall’Europa dell’euro, ma “cambiarne le regole”, ignorando che questa “Europa” è nata proprio per la volontà di imporre le sue regole iugulatorie. In altre parole, si vuole conciliare l’inconciliabile: indipendenza e subordinazione al tempo stesso. Per inciso ciò è plasticamente e schizofrenicamente espresso nella moneta da 2 euro coniata per commemorare la nostra Costituzione, che ne è la negazione assoluta! Comunque, non c’è niente da negoziare, niente da ridiscutere e non deve importare nulla di competere “capitalisticamente” con Cina o Giappone, quando il problema è il capitalismo in quanto tale. Anche se le proposte di Chiesa venissero praticate, si perpetuerebbero l’estrazione di plus-valore e il “sovrasensibile” balletto fra le merci nel mentre si usano gli esseri umani come strumenti per il loro spettrale dialogo. Qui comincia già a lampeggiare una carenza filosofica di fondo, una trascuratezza degli scomodi principi comunitari di Platone, Aristotele, Hegel. Del resto, è sufficiente leggere i libri di autori come Roberto Flamigni, Stefania Limiti, Paolo Cucchiarelli, e altri, per rendersi conto che l’infernale governo-ombra di “questi” U.S.A., con tutte le sue ragnatele mondiali, se si rimane all’interno dell’attuale sistema geo-strategico, non permetterà mai alcuna reale politica contraria ai propri interessi di preteso centro dominante e coordinatore del capitalismo globale. Nobili personalità che hanno cercato di fare gli interessi della nazione ne abbiamo avute, da Enrico Mattei ad Aldo Moro, e sappiamo quale destino sia stato loro riservato. Non è un paradosso pensare sia meno utopica una rottura radicale con l’intero attuale modo di produzione. Illusione? Ma qui ci viene in aiuto il precedente storico incancellabile della Rivoluzione d’Ottobre, ovviamente e sapientemente vittima di una damnatio memoriae.

Abbiamo un pullulare di movimenti, associazioni, piccoli partiti (dal destino “ultra-minoritario”, direbbe Costanzo Preve), che si prefiggono l’uscita dal sistema-euro e il ripristino delle prerogative dello stato nazionale, nonché, concetto inespresso, ma sottinteso, il ritorno, dunque, a un capitalismo “regolato”, con le zanne limate. Ma questa fase economica, con il welfare, ecc., è storicamente esaurita, come spiega Massimo Bontempelli nei suoi testi,2 e questi minimalisti anti-euro ricordano quanti, in altra epoca, all’alba tragica della “dittatura della borghesia”, ebbero nostalgia del vecchio ordine feudale, certamente meno disumano. Atteggiamento che Karl Marx si guardò bene dal con­dividere, poiché egli guardava avanti, alle prospettive future di socializzazione aperte dal nuovo modo di produzione, per quanto non iscritte necessariamente nella storia. Per cui, forzando l’estensione di una categoria temporale heideggeriana dalla analitica dell’esserci agli eventi storici, non sono da considerare “ad-venienti” le leggi e gli ordinamenti sociali, pur venerabili e mai abbastanza rimpianti, dei “trent’anni gloriosi 1945-1975”, bensì, più in profondo, il senso della comunità, ora estinto, che, sia pure in forme parziali, organicistiche, spesso coercitive, caratterizzò le epoche trascorse, prima del trionfo del modo di produzione capitalistico. Finalmente un senso comunitario da realizzare integralmente, secondo l’indicazione hegeliana, come frutto di libera scelta della libera individualità.

D’altra parte, quei movimenti e associazioni di cui sopra, anche quando non sono in aperto contrasto fra di loro, sembra non riescano comunque a coagularsi in una forza unica, tale da riunire le scarse disponibilità. Ciò ricorda irresistibilmente la frammentazione rivaleggiante dei gruppi extra-parlamentari di sinistra figli del Sessantotto, che pure, in linea di principio, sembravano tutti rifarsi agli stessi intendimenti generali. A questo proposito Costanzo Preve ci ricorda come questo fenomeno fosse dovuto (oltre che al narcisismo già individualistico-capitalistico di capi e capetti) alla debolezza della teoria di fondo, cioè il “marxismo” comune sia a ortodossi che a eretici, il quale, oltre alla inconsistenza degenerativa della fondazione kautskyano-engelsiana, pativa, ancora più a monte, anche una mancata elaborazione filosofica esplicita nel pensiero di Karl Marx. Per inciso, come ben sanno i lettori del compianto Costanzo Preve, egli ha evidenziato in Marx una matrice idealistica implicita, con argomenti difficilmente contestabili e che va ben oltre il semplice impiego del cosidetto metodo dialettico da parte dell’estensore del Capitale.

Ma permettiamoci una digressione. Martin Heidegger, nelle lezioni universitarie del 1925-1926,3 studiando Aristotele, dice (enigmaticamente?): “Il mettere insieme che fa vedere quel che è sempre separato deve allora necessariamente coprire; esso fa vedere qualcosa […] che non può mai essere in quel modo. Qui la simulazione è fondata necessariamente […] nel senso dell’impossibilità della composizione di quel che è sempre separato”. A cosa potremmo tranquillamente riferire questo criptico concetto, apparentemente banale? Per es., nella pubblicità abbiamo l’accostamento stridente (e offensivo per l’intelligenza) fra Amore, Amicizia, Libertà, Tradizione, Natura, Rivoluzione e … la forma merce. Ma, per rimanere nel nostro tema, abbiamo dei rimedi riformistici da sempre e per sempre separati dalla vera soluzione. Basterebbe questo per comprendere come la filosofia sia negletta e disprezzata, in quanto, se presa sul serio costituisce un tribunale inesorabile per il mondo capitalista e la debordiana società della spettacolo. Un altro esempio di cose che non possono stare insieme è costituito da una parte dalla dichiarata intenzione di pensare altrimenti e dall’altra dalla esposizione alla pubblicità mediatica e pseudo-politica, benevolmente e astutamente consentita dal sistema.

La televisione abbonda infatti di spot pubblicitari che invitano a finanziare la lotta contro le malattie rare, a contribuire economicamente a favore dei figli dei poveri e dei disoccupati, o per combattere la povertà in Africa, ecc., colpevolizzando l’uomo della strada e deresponsabilizzando le potenze sociali autrici dei mali in questione, facendone così un problema di beneficenza e generosità in­dividuale e proponendo iniziative “aventi le apparenze della pietà, ma prive di quanto ne forma l’essenza”.4 Oltretutto c’è il fondato sospetto che il Capitale osservi l’entità di queste contribuzioni, al fine di studiare l’eventualità di ulteriori riduzioni al salario globale della classe lavoratrice. E questo si può considerare anche un interessante esempio di quel “dono omeopatico”, a piccolissime dosi, emerso in una bella trasmissione radiofonica,5 quale antidoto del capitalismo per esorcizzare l’autentico Dono Gratuito, il quale, se appunto generalizzato, distruggerebbe l’intero sistema. In particolare, per quanto riguarda la disoccupazione – a parte la questione primaria, strutturale, dell’esercito industriale di riserva, necessario per concetto al modo di produzione capitalistico –, basti pensare alla partecipazione italiana alle sanzioni economiche contro la Russia per via della crisi ucraina, la quale, per chi voglia davvero informarsi, risulta di totale responsabilità occidentale. Queste sanzioni, imposte dagli U.S.A. ai Quisling nostrani, hanno comportato un danno enorme all’economia italiana con proporzionale perdita di posti di lavoro. Ma, e rientro nel tema, c’è la certez­za che qualunque forma di capitalismo, anche se “sovrano” e “indipendente”, porti a queste storture e sia inemendabile rimanendo al suo interno.

Scorrendo le immagini de Il trionfo della volontà – film documentario della grande cineasta tedesca Leni Riefenstahl sul congresso del partito nazista a Norimberga del settembre 1934 –, si osserva che ormai tali immagini hanno fortunatamente perso la loro immediata attualità. Infatti il nazismo storico si estingue nel 1945 (per quanto ne pensino in contrario i ragazzi dei centri sociali e altri meno ingenui, ma interessati a una legittimazione ideologica per la linea e l’esistenza stessa di partiti e sindacati che ormai hanno perso il loro originario ruolo storico), e non solo perché sconfitto militarmente, bensì perché non sussistono più le condizioni che lo fecero sorgere e prosperare. Ebbene …, la televisione italiana (più precisamente RAI 4), domenica 30 luglio 2017 manda in onda tale Tomorrowland (e già l’uso di un termine inglese la dice lunga), trasmissione diretta di un concerto rock di molte ore, con folla oceanica di giovani dall’entusiasmo fanatico simile a quello dei giovani in uniforme di Norimber­ga, con l’immagine di migliaia di volti stereotipati in una ininterrotta estasi, sublimata nell’adorazione di una personificazione-individuazione musicale della forma-merce, con annessa ideologia consumistica nell’illusorio individualismo di massa. Nel 1934 la Germania era reduce dalla faida interna al partito nazista della Notte dei lunghi coltelli e nel campo di Dachau erano imprigionati migliaia di comunisti dopo l’incendio del Reichstag: l’uniformità di massa era conseguente a una coercizione diretta. Invece il conformismo del falso anticonformismo “rock” è frutto di catene interiori e dunque infinitamente più efficace e pericoloso: è l’immagine-simbolo di un nuovo nazismo che non si lascia sconfiggere militarmente. In questo contesto, come la guerra di posizione politico-culturale dei decenni scorsi è paragonata da Costanzo Preve alla linea Maginot crollata in pochi giorni, non resta che pensare, quale principio gramsciano sempre valido, l’ottimismo della volontà, sebbene non abbia nulla di teorico. Ma se si pensa che la bruttezza e pericolosità sociale della musica rock siano qui esagerate, vale la pena riportare qualche parola del grande G. Anders a proposito della musica jazz, ma estensibile perfettamente al rock, anche se si dovrebbe leggere l’intero capitolo: “L’estasi è genuina, i ballerini, invece di essere se stessi, sono realmente ‘fuori di sé’, ma non già per sentirsi tutt’uno con le potenze ctonie, bensì con il dio della macchina: culto del Dioniso industriale […] ciò che il ballerino balla è una pantomima entusiasta della propria totale sconfitta […] che questo rito abbia l’effetto di ‘liquidare ‘realmente i ballerini e di far loro smarrire del tutto il loro ‘io’ è documentato da un fenomeno impressionante: cioè dal fatto che durante l’orgia perdono la loro faccia […] già più o meno stereotipa […] e non ci sarebbe nemmeno da meravigliarsi se durante l’orgia nascesse una nuova varietà di vergogna: la vergogna della faccia, la vergogna del ballerino di possedere una faccia in sé e per sé: di essere ancora sempre condannato a portare in giro con sé questo stigma della egoità quale dotazione coatta (corsivi di Anders)”.6

In queste tristi condizioni, lo scopo minimo immediato è l’assumere un ruolo storico simile a quello degli antichi conventi benedettini, quali isole di preziosa e futuribile civiltà in un contesto di circostante barbarie e tenendo presente, parafrasando Hegel, che nella situazione attuale la pianticella della filosofia (a dettare la prassi) si può innestare solo su singoli individui. A scanso di fraintendimenti, Domenico Losurdo ci ricorda che “l’atteggiamento del filosofo (Hegel) non si può certo dire elitario; è costante la sua tendenza a misurare la validità delle idee, non sulla base della loro astratta eccellenza interna, ma sulla base della loro capacità di informare di sé il reale, quindi anche di penetrare nella massa del popolo; ciò caratterizza Hegel in tutto l’arco della sua evoluzione”.7 Per inciso, ciò funge da risposta anche a quanti pensano che il grande filosofo abbia sostituito un mondo immaginario alla realtà, in linea con la distruzione della ragione idealistica imperversante dopo la morte di Hegel.

Conclusa questa parte introduttiva di critica “contingente-empirica” si inizia a corroborare la tesi centrale di queste pagine. Ogni evoluzione o frattura nella storia è stata preceduta o accompagnata da una giustificazione teorica. Ogni progetto di pensiero non cade dal cielo, ma è necessariamente calato nella realtà. Del resto, è facile trovare immediatamente un elemento d’aiuto per questa tesi nella imponente bibliografia del grande storico delle idee Domenico Losurdo, recentemente scomparso. Ci si propone di indicare alcuni esempi di questa apparente ovvietà, che tuttavia, a quanto pare, non è tenuta nel debito conto.

Antonio Fiocco

1 Basti pensare a C. Preve, Il convitato di pietra, Vangelista, 1991.

2 M. Badiale – M. Bontempelli, Il mistero della sinistra, Graphos, 2005; M. Badiale – M. Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari, 2007; M. Bontempelli – F. Bentivoglio, Capitalismo globalizzato e scuola, ed. Labonia-Indipendenza, 2016.

3 M. Heidegger, Logica, il problema della verità, Mursia, 2015, p. 124.

4 IIa Lettera a Timoteo.

5 Oikonomia. Meditazioni sul capitalismo e il sacro, uomini e profeti, di Luigino Bruni, 17 marzo 2019.

6 G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, 2006, pp. 84-86.

7 D. Losurdo, Hegel e la Germania, Guerini e Associati, 1997, pp. 365-366.


Antonio Fiocco – Cenni sulla ristrutturazione del sistema orgaizzativo-produttivo d’impresa: da Taylor a Ohno
Antonio Fiocco – Emanuele Severino considera ineluttabile il trionfo della Tecnica (cioè il capitalismo): il suo ripristino dell’ontologia è apparente e fuorviante, dunque innocuo per il potere
Antonio Fiocco – Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente
Antonio Fiocco – Difendere in tutti i modi la progettualità.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Carlo Carrara – Essere e Dio in Heidegger

La questione centrale del pensiero di Martin Heidegger è la questione dell’essere, ma fin dall’inizio del suo cammino, nei sentieri percorsi, il suo pensare è aperto al problema di Dio e a ciò ad esso inerente. Per il filosofo tedesco la metafisica occidentale, da Platone a Nietzsche, nasce e si sviluppa come oblio dell’essere, cosicché nulla ne è dell’essere stesso e della sua verità. Ne consegue che nella sua stessa essenza la metafisica è nichilismo. Il Dio metafisico è il Dio causa sui, il Dio fondamento, ragione e supremo valore, le cui immagini e maschere costruite dall’onto-teologia lungo la storia hanno contraffatto il Dio divino, il Dio che può aver luogo secondo il suo tratto proprio solo in base, a partire ed entro l’orizzonte della verità dell’essere. Solo il Dio divino può salvare l’uomo, nel senso che può liberarlo per la sua essenza propria in quanto esser-ci, dal dominio dell’oblio dell’essere e dalle conseguenze della morte del Dio non divino. Il favore della svolta nell’essere ancora non concesso, che la dimenticanza dell’essere si rivolti, mutandosi nella salvaguardia della sua essenza, nella disponibilità umana della custodia e dell’attesa, si presenta nel pensiero poetante, che dall’essere conduce al Dio, e nel poetare pensante, che si rivolge al sacro, come una luce nel tempo di povertà della notte del mondo, caratterizzato dall’assenza, dalla mancanza di Dio: «Quando si fa buio non vedo niente, e tuttavia (ci) vedo» (M. Heidegger).

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Livio Rossetti – Parmenide e Zenone “sophoi” a Elea

In questo Parmenide e Zenone sophoi a Elea Livio Rossetti ci propone una marcia di avvicinamento a due pensatori antichi di primissimo ordine. Il suo proposito è stato di lavorare su due ‘pezzi da museo’ che ci sono stati trasmessi pieni di polvere e di incrostazioni esegetiche, riportarli alla luce e tornare a osservarli da vicino. Pretesa eccessiva? Non proprio, perché di Parmenide si sta riscoprendo solo ora lo stupefacente sapere naturalistico che pure formava parte integrante del suo poema, e di conseguenza il suo insegnamento richiede di essere visto da una prospettiva profondamente rinnovata. Quanto poi ai paradossi di Zenone, essi sono stati per lo più trattati come problemi da risolvere o calcoli da eseguire, senza considerare che Zenone avrà avuto interesse a idearli, non certo a risolverli e dissolverli. Quindi, anche qui, netto cambio di prospettiva. L’autore ci invita dunque a guardare a questi due personaggi estremamente creativi senza pensare alle tradizioni interpretative, con la mente sgombra, con rinnovata curiosità. Lo fa con competenza, ma usando un linguaggio piano, cordiale, arioso, partendo dai luoghi e dal contesto. Avvicinarsi a quel mondo sarà una scoperta.

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Arianna Fermani – «Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». La speranza “antica”, tra páthos e areté.

Questo contributo intende riflettere sulla – antica e, insieme, attualissima – nozione di speranza a partire da una breve indagine etimologico-semantica (a cui si torna, chiudendo il cerchio, al termine del saggio), nella convinzione che la riflessione sulle parole e sulle loro origini possa donare alcune feconde piste al pensiero. Il breve saggio si snoda lungo due linee direttrici fondamentali: la speranza come páthos, ovvero come passione, sentimento o desiderio, e la speranza come areté, ovvero come “virtù”, nozione che, nel senso greco e, più nello specifico, aristotelico del termine, implica la capacità di amministrare correttamente la passione. In questo secondo caso, inoltre, si assiste alla messa in campo di un “versante attivo della speranza”, che chiama in causa il soggetto agente e volente, che ha il compito di dare forma al suo desiderio. Qui il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto.

L’itinerario si interseca in molti modi ad altre fondamentali nozioni, tra cui, solo per indicarne alcune, quella di paura (che si configura come una passione che dirige il soggetto nella direzione opposta rispetto alla speranza), quella di rischio (a cui la originaria vocazione all’“apertura” prodotta dalla speranza è intimamente connesso e che richiede, a sua volta, un’opera di “saggia amministrazione”) e quella di fiducia (a cui la speranza è costitutivamente intrecciata e che chiama in causa un altro profilo della riflessione, affrontato al termine del saggio, quale quello educativo).

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Marino Gentile (1906-1991) – Il problema della filosofia moderna

Regno dell’uomo, matematismo e meccanicismo (Galilei, Bacone e Cartesio): Il disegno umanistico del «regnum hominis»/La caratteristica della concezione moderna del «regnum hominis»/Il matematismo del Galilei/Regno dell’uomo e meccanicismo nel pensiero di F. Bacone/L’atteggiamento di Bacone verso la matematica/ R. Descartes come fondatore della filosofia moderna/Regno dell’uomo e meccanicismo nel pensiero cartesiano/La funzione del matematismo nel sistema cartesiano/La matematica e il dubbio universale/I due centri di certezza nel sistema cartesiano/Matematismo e meccanicismo/Le aporie del cartesianesimo. Le difficoltà del matematismo. Il problema della «res extensa». Cartesio e Spinoza: Le condizioni per un cartesianesimo integrale/Sua incompatibilità con il concetto di anima-forma/Risoluzione del cartesianesimo nello spinozismo/Spinoza e Cartesio/Le caratteristiche del razionalismo spinoziano/Il matematismo nel pensiero spinoziano/Matematismo e meccanicismo/Occasionalismo e pascalismo. Esteriorità e interiorità nella conoscenza (Locke e Leibniz): Gli elementi della «modernità» nel pensiero del Locke: «regnum hominis» e meccanicismo/Come nel pensiero del Locke vi sia presente anche il matematismo/Il rapporto del Locke con la distinzione fra qualità primarie e qualità secondarie/Conseguente critica del concetto di sostanza da parte del Locke/Inadeguatezza del nominalismo tradizionale alla critica del Locke/Il matematismo come limite dommatico della ricerca lockiana/Il dualismo d’interiorità ed esteriorità/Leibniz e la sua ripresa al matema­tismo antico/Matematismo antico e matematismo moderno/La polemica vichiana e la prevalenza del matematismo nella cultura illuministica. Il superamento kantiano del matematismo e i suoi limiti: La filosofia kantiana come ricerca assoluta/Condizioni della ricerca e funzione esercitata in essa dalla matematica e dalla meccanica/Rapporto della dottrina dell’Io trascendentale con la funzione esercitata nella ricerca dalla matematica e dalla meccanica/Dall’estetica e dall’analitica alla dialettica/Il matematismo e le aporie della dialettica/Il matematismo come limite della ricerca kantiana.

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Maurizio Migliori, Luca Grecchi – Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli

«Migliori e Grecchi sono due metafisici che si ispirano alla tradi­zione greca e la custodiscono con cura, anche se Migliori guarda soprattutto a Platone e Grecchi soprattutto ad Aristotele. Entrambi amano la verità e il bene» (Carmelo Vigna). Questi i temi del dialogo: La genesi della filosofia / L’amore per Platone / “La filosofia si fa, non si impara” / Il Multifocal Approach / Possibili critiche al Multifocal Approach / Uomo: una natura razionale e morale? / Sul timore della definizione / Su ciò che non è stato ritrovato / Presocratici: una lettura multifocale? / Chi fu il “primo filosofo”? / Sulla definizione della filosofia e la differenza con le scienze / Socrate sofista? / Sulla filosofia ellenistica e post-ellenistica / I Greci cercavano per trovare risposte utili / Sul bene / Sulla verità: questione logico-fenomenologica o (anche) onto-assiologica? / Utopia e progettualità / Sul trascendente / La dolcezza come virtù filosofica / L’anticrematistica: filo conduttore delpensiero antico? / Stato dell’arte della filosofia antica in Italia / Oltre alla filosofia… / Su Platone Primo Ministro… / Sulla educazione dei giovani / Sulla morte.

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Rodolfo Mondolfo (1887-1976) – Alle origini della filosofia della cultura

In queste pagine si afferma il principio che le concezioni della natura svolte dai presocratici sono il risultato della proiezione dei problemi del mondo umano sull’universo fisico: è da respingere l’opinione per cui il pensiero filosofico all’inizio si sarebbe occupato esclusivamente dei problemi più lontani, relativi all’origine, alla formazione e alla costituzione del cosmo e solo in tempi più recenti avrebbe rivolto la propria attenzione a quelli più vicini, cioè ai problemi relativi all’uomo. Pur non essendo una delle opere fondamentali del Mondolfo, questo libro è però una delle sue opere più significative: vi si possono trovare i principali motivi che ne caratterizzano il pensiero. Ha messo in evidenza le tendenze poliedriche dello spirito ellenico e la varietà e il contrasto delle sue manifestazioni nel pensiero dei filosofi greci, dimostrando come negli scritti di alcuni di essi si possa trovare il riconoscimento esplicito dell’importanza del soggetto umano nella gnoseologia, nell’etica e nella teoria delle creazioni culturali. In questo libro vengono inoltre indicati altri precedenti della filosofia della cultura: in Platone, in Aristotele, in Tommaso d’Aquino, nei filosofi del Rinascimento, in quelli dell’età moderna fra i quali Vico, Hegel e gli idealisti. La concezione della filosofia come «problematicità» non porta mai Mondolfo alla conclusione sconsolata del problematicismo e neppure alla conclusione degli scettici che proclamano la sterilità e la vanità dell’indagine filosofica. Al contrario conduce ad una conclusione fiduciosa: il lavoro filosofico contribuisce a rendere la coscienza dei problemi sempre più chiara e profonda.

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Salvatore Bravo – L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli. Filosofia Storia Pedagogia

Massimo Bontempelli, professore di liceo, è stato filosofo olistico: l’originalità della sua teoretica è nel tenere assieme filosofia, storia e pedagogia, al fine di orientare la paideia sul fondamento veritativo che coniuga l’asse ontologico-assiologico all’azione educativa. Ha avvertito l’incombere plumbeo del nichilismo sul destino dell’Occidente, guardando con gli occhi della mente il dramma in cui è impigliata la cultura occidentale ormai planetaria. Trascendere il nichilismo ha significato per lui interpretarlo, inseguirlo nei meandri della sua genealogia, per sfidarlo, e quindi, ricostruire il percorso verso la verità. La sofferenza teoretica per lo stato presente, si è sublimata in pensiero e pratica educativa. Filosofo dalla passione intellettuale per il presente, con l’impegno rivolto fortemente al futuro, ha teorizzato l’alternativa al nichilismo consumistico dei nostri giorni. Ha rielaborato il pensiero teoretico e politico di Hegel mediandolo col pensiero di Marx. Con Hegel ha condiviso l’urgenza della metafisica, senza la quale il soggetto è lasciato alla sua accidentalità e dissolto nel pulviscolo del conflitto economico. Il suo stile filosofico ed educativo ha un significato simbolico e sostanziale: l’essenziale è la parola, veicolo della qualità contro la quantità. Ci ha lasciati eredi non solo della sua attività teoretica, ma della sua esperienza umana vissuta fuori dalla caverna della società dell’immagine e della pornografia mediatica spacciata per trasparenza.

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Claudia Baracchi – Filosofia antica e vita effimera. Migrazioni, trasmigrazioni e laboratori della psiche

I testi qui raccolti ripercorrono due seminari residenziali in cui confluivano studi di filosofia antica e un’insolita composizione di temi: il rapporto tra greco e non greco, e le peripezie del pensiero tra il Mediterraneo degli Elleni, il Levante, l’Egitto, in onde migratorie che saranno costitutive dell’Europa; il rapporto tra filosofia e vita, soprattutto la vita sofferente, quale è variamente ma senza eccezioni la vita mortale, esposta e vulnerabile a ogni rovescio; il rapporto tra l’esercizio della ragione e ciò che la eccede, si chiami natura, dio, intelletto o in altro modo; al limite, il rapporto tra theoria e praxis. Volgersi al passato in una modalità interrogativa significa soprattutto ricalibrare la nostra domanda su noi stessi, chiederci come siamo diventati quello che siamo, attraverso quali vicende, ma anche e soprattutto attraverso quali dimenticanze, quali sparizioni, quali discontinuità e ricadute nella latenza. Vale a dire: come siamo giunti qui dove ci troviamo, per quali percorsi consapevoli, ma anche inconsci e bui – giacché il passato (tanto individuale quanto collettivo) è saturo di ciò che, di esso, non è stato ancora mai visto e deve ancora accadere.

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Diego Lanza (1937-2018) – «Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune». Prefazione di M. Stella. Postfazione di G. Ugolini.

Socrate, Till Eulenspiegel, Pinocchio, ma anche Solone, Bruto, i profeti di Israele, Bertoldo, Giufà, i «santi folli» di Bisanzio … Sono innumerevoli i personaggi che trasgrediscono il senso comune; figure spesso ridicole, ma portatrici tutte di verità inquietanti di cui la ragione dominante diffida, delle quali tuttavia non può fare a meno. Ciò che si mantiene nella fiaba, nel romanzo, nella letteratura filosofica e religiosa non è tanto la fisionomia dell’insensatezza quanto il suo rapporto conflittuale di esclusione/complementarietà con la ragione, con il sistema dei valori etici e affettivi accettati come fondamentale norma di convivenza. Lo stolto e la stoltezza non costituiscono un elemento chiaramente definibile e persistente della tradizione culturale europea, un topos, ma piuttosto un’incognita alla quale ogni volta si attribuisce ciò che disturba il senso comune. È il senso comune, cioè la razionalità riconosciuta da ciascun assetto sociale come sua propria, che stabilisce quel che deve apparire ripugnante, ridicolo, riprovevole. La figura dello stolto e l’immagine della stoltezza mutano perciò a misura dei cambiamenti del senso comune e della razionalità che le definiscono, serbando tuttavia, di mutamento in mutamento, importanti tratti del passato. Il viaggio intrapreso alla riscoperta delle molte e molto differenti raffigurazioni dello stolto conduce a interrogarci sul difficile ma tenace equilibrio che governa il gioco tra verità e riso, scherzo e ragione.

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Daniele Orlandi – Scrivere il risentimento. Su Jean Améry

I libri non hanno solo un proprio destino:talvolta possono essere destino (Jean Améry).

Come vive un intellettuale la propria condizione di uomo dello spirito nel luogo dell’anti-spirito per ec­cellenza che fu il Lager? Con uno stile a metà tra il saggio e la narrazione, Daniele Orlandi ripercorre la vicenda umana e culturale di Jean Améry, filosofo e scrittore, fra i più alti testimoni dello sterminio nazista, morto suicida nel 1978.

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Rodolfo Mondolfo (1887-1976) – Moralisti greci. La coscienza morale da Omero a Epicuro

La formazione dell’ideale filosofico costituisce un momento di grande importanza nella storia dell’etica greca e forma il vincolo più intimo ed essenziale di continuità sia tra la riflessione morale più antica e l’indagine naturalistica che caratterizza fin da principio la filosofia presocratica, sia, più tardi, fra questo naturalismo e l’umanesimo di Socrate. Secondo l’idea tradizionale derivata da Cicerone, la filosofia, che fino allora avrebbe rivolto al cielo la sua contemplazione, con Socrate soprattutto, l’abbasserebbe verso la terra e l’uomo. In realtà, anche l’interesse conoscitivo verso la natura che appare al principio della filosofia greca ubbidiva a motivi essenzialmente umani, costituiti soprattutto da un’esigenza profondamente etica e religiosa, che sorgeva da un nuovo concetto dell’uomo e del suo fine. Per la tradizione anteriore l’uomo, mortale e limitato, doveva pensare unicamente cose umane, cioè limitate e mortali, rinunciando alle divine, che si dichiaravano privilegio degli dèi, difeso dalla loro gelosia. Nell’attribuire all’uomo la capacità di pensare alle cose divine, e nel farlo in tal modo partecipe del divino, convertiva in un’obbligazione sacra per lui quello che la saggezza anteriore gli vietava come insolenza (hybris) ed empietà. La filosofia pertanto diviene per i moralisti greci la forma più eccellente ed efficace di purificazione spirituale (catharsis); e l’attività del filosofo rappresenta – come ci mostra nella Repubblica platonica l’allegoria della caverna – una missione di illuminazione e liberazione. Socrate personificò questa missione, nella sua vita e nella sua morte.

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Roberto Fumagalli – Carlo Michelstaedter. Filosofo, poeta e mistico

Un saggio su Michelstaedter è un’impresa destinata inesorabilmente all’incompiutezza: scrivere di colui che con le parole volle fare guerra alle parole, alla ricerca di una pienezza di vita inattaccabile, da trovare, come fondamento stabile, socraticamente solo in se stessi – dando tutto e non chiedendo nulla per sé. Non si potrà mai dire compiutamente l’altezza vertiginosa raggiunta dal suo pensiero, che resta come una cifra inaudita dell’assolutezza dell’Essere e della giustizia da lui cercata. Eppure, col suo pensiero, questo giovane (ma saggio) solitario, che si richiama alla sapienza di Eraclito e di Parmenide e che troverà un’eco, e una parentela postuma, anche in Heidegger, vorrebbe unire il mondo in un unico afflato di fratellanza e d’amore, sull’esempio di Cristo e di Buddha: da lui presi come modello di vita persuasa, sul finire della sua breve esperienza terrena. In Michelstaedter è risuonata la voce di qualcosa di sovrumano, così lontana dalla sua, e ancor più dalla nostra, epoca del compiuto nichilismo: del sapere scientifico ormai vittorioso e della tecnica dimentica dell’anima.

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Arianna Fermani, Daniele Guastini, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Maurizio Migliori, Angelo Tonelli – Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo

Questo volume, curato da Elena Bartolini, Andrea Ignazio Daddi, Alessandra Filannino Indelicato, raccoglie gli Atti del Convegno di Studi «Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo», promosso dall’Università degli studi di Milano Bicocca, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, e dalla Associazione «Philo. Pratiche filosofiche», il 27-28 Marzo 2019. Moderatori: Claudia Baracchi, Luca Grecchi. Si evidenziano i relatori e i temi trattati: Daniele Guastini, «Inattualità e attualità della paideia poetica» – Angelo Tonelli, «La Sapienza greca tra Oriente e Occidente. Dioniso, Eleusis, Parmenide, le Upanishad e il “Mongolo di Taranto”»Alberto Jori, «Ippocrate ‘filosofo’: dal sapere ontologico alla scienza funzionale» – Arianna Fermani, «”In ogni caso si deve filosofare”. Aristotele e l’attualità della filosofia» – Maurizio Migliori, «Platone. Amico di Socrate, l’uomo più giusto del suo tempo» – Giulio A. Lucchetta, «Quale rischio corre Dione a Boristene? Un bilancio della cultura greca in età ellenistico-imperiale».

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Giancarlo Paciello – Piccola storia dell’Irlanda

Questa Piccola storia dell’Irlanda nasce in parallelo alla stesura di un saggio che raccontava l’epopea della resistenza irlandese e il sacrificio di Bobby Sands e dei suoi compagni determinati fino alla morte in difesa dei loro diritti, ne costituiva il naturale “antefatto”, e, finalmente, dopo più di vent’anni, vede la luce. Se dal punto di vista storico, i problemi da risolvere non erano molti – non era infatti difficile chiarire l’estraneità degli irlandesi (gaelici e cattolici) dai britannici invasori dell’Irlanda e, all’atto della colonizzazione, ormai definitivamente protestanti –, non si poteva dire la stessa cosa per quanto riguardava il presente, da intendere comunque in senso lato, dal momento che in questo presente andava incluso un periodo di circa ottant’anni, quanti cioè ne erano trascorsi dalla divisione dell’Irlanda in due da parte della Gran Bretagna. Un excursus storico di più di 700 anni, dall’invasione dell’Irlanda da parte degli anglo-normanni alla proclamazione della repubblica indipendente d’Irlanda del 1916 e alla successiva spartizione, con le relative conseguenze discriminatorie, politiche e sociali, per la minoranza cattolica, nell’ultra-artificiale Irlanda del Nord. Il libro contiene anche il saggio originario, con una descrizione degli eventi più significativi, a partire dai disordini (i troubles) del 1969, per arrivare ai giorni nostri e un’analisi dell’Accordo del Venerdì santo, come evoluzione del processo di pace, avviato nel 1993.

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Mauro Peroni – Felicità possibile. Esercizi filosofici su sofferenza, desiderio e tempo

Nel nostro scenario sociale, dove circola ormai stabilmente un multiforme disagio esistenziale, quali sono le condizioni di possibilità della felicità? Intendendo con ciò non gli occasionali momenti di “positività”, ma la vita felice. Ossia l’esistenza che conosce quel senso di pienezza prolungato, seppur ad intensità variabile, che scaturisce dall’avvertire che i semi in cui è racchiusa la propria unicità hanno iniziato a germogliare e a dare frutti. Il libro affronta la questione impiegando uno strumentario teorico-concettuale non solo filosofico, ma attinto anche dal più ampio campo delle scienze umane. Si pone in ascolto della domanda di felicità che proviene dal presente e prova a rispondervi soffermandosi su tre nuclei essenziali dell’esperienza umana: la sofferenza, il desiderio ed il tempo. Inoltre riserva attenzione alle inquietudini dei soggetti adolescenti, ai quali è dedicata una proposta educativa concernente l’intelligenza pratica. I numerosi fili del discorso vengono intessuti con uno stile che coniuga il rigore delle argomentazioni con un linguaggio che parla anche ai non specialisti.

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Nicola Arrigoni – Heidegger e pensare Dio. L’essere e la fine della metafisica. Il saggio di Carlo Carrara dedicato alla riflessione “teologica” del filosofo tedesco

Heidegger- Arrigoni

Carlo Carrara

Essere e Dio in Heidegger

ISBN 978-88-7588-234-1, 2020, pp. 200,  Euro 20 – Collana “Il giogo” [110].

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Nicola Arrigoni

Heidegger e pensare Dio

L’essere e la fine della metafisica. Il saggio di Carlo Carrara
dedicato alla riflessione “teologica” del filosofo tedesco

 

«L’epoca metafisica, iniziatasi con Platone, per Heidegger giunge al suo compimento con Nietzsche. La metafisica di Nietzsche, in quanto compimento della metafisica occidentale in generale e quindi – in un senso rettamente inteso – la fine della metafisica come tale». Così scrive Carlo Carrara in Essere e Dio in Heidegger, denso saggio pubblicato per l’Editrice Petite Plaisance (pp. 186, 20 euro). Già nel titolo Carrara rende omaggio all’autore di Essere e tempo, affiancando la riflessione sull’ontologia e sull’essere alla parola di Dio. Il «Dio è morto!» nicciano è il punto di partenza, è crux interpretativa, è la svolta di quel pensiero nichilista e di riflessione metafisica dell’essere nel tempo e dell’esserci. Ed in merito osserva Carlo Carrara: «Heidegger non esclude che a questa epoca segnata dalla morte di Dio, dal compimento della metafisica, dall’assenza e della mancanza del divino, poetata da Hölderlin, possa essere concesso il favore della svolta della dimenticanza dell’essere nella salvaguardia della sua essenza». In questa direzione la riflessione su Dio e l’essere nel pensiero di Heidegger portata avanti con rigore da Carlo Carrara porta alla consapevolezza che la dimenticanza dell’essere, mutandosi nella salvaguardia della sua essenza, nella disponibilità umana della custodia e dell’attesa, si presenta nel pensiero poetante che dall’essere conduce a Dio, e nel poetare pensante, che si rivolge al sacro, come una luce nel tempo di povertà «della notte del mondo», scrive Carlo Carrara. Il saggio è un percorso vertiginoso e a tratti insidioso, che pone il lettore a interrogarsi sul Dio divino che non è il Dio cristiano che si è inverato nel tempo. «Solo il Dio divino può salvare l’uomo, nel senso che può liberarlo per la sua essenza propria in quanto esser-ci, dal dominio dell’oblio dell’essere dalle conseguenze della morte di Dio», continua Carrara nel suo itinerario speculativo. In questo contesto il pensiero poetante diventa una chiave di ingresso in una dimensione dell’umano che si completa nella filosofia, sapere intorno all’uomo giorno e notte.

«La Provincia di Cremona», giugno 2020.

Recensione di Essere e Dio in Heidegger – Quotidiano La Provincia di Cremona

La questione centrale del pensiero di Martin Heidegger è la questione dell’essere, ma fin dall’inizio del suo cammino, nei sentieri percorsi, il suo pensare è aperto al problema di Dio e a ciò ad esso inerente.
Per il filosofo tedesco la metafisica occidentale, da Platone a Nietzsche, nasce e si sviluppa come oblio dell’essere, cosicché nulla ne è dell’essere stesso e della sua verità. Ne consegue che nella sua stessa essenza la metafisica è nichilismo.
Il Dio metafisico è il Dio causa sui, il Dio fondamento, ragione e supremo valore, le cui immagini e maschere costruite dall’onto-teologia lungo la storia hanno contraffatto il Dio divino, il Dio che può aver luogo secondo il suo tratto proprio solo in base, a partire ed entro l’orizzonte della verità dell’essere. Solo il Dio divino può salvare l’uomo, nel senso che può liberarlo per la sua essenza propria in quanto esser-ci, dal dominio dell’oblio dell’essere e dalle conseguenze della morte del Dio non divino.
Il favore della svolta nell’essere ancora non concesso, che la dimenticanza dell’essere si rivolti, mutandosi nella salvaguardia della sua essenza, nella disponibilità umana della custodia e dell’attesa, si presenta nel pensiero poetante, che dall’essere conduce al Dio, e nel poetare pensante, che si rivolge al sacro, come una luce nel tempo di povertà della notte del mondo, caratterizzato dall’assenza, dalla mancanza di Dio: «Quando si fa buio non vedo niente, e tuttavia (ci) vedo» (M. Heidegger).


Carlo Carrara è dottore in Filosofia e ha conseguito il Magistero in Scienze Religiose. Si occupa di filosofia contemporanea, antropologia filosofica e del pensiero di Martin Heidegger. Tra i suoi libri si segnalano: La domanda del senso dell’esistere (il nuovo me­langolo, Genova 2013); Solitudine ed esistenza. Kierkegaard, Nietzsche, Unamuno, Heidegger, Jaspers, Sartre, Camus, Marcel, Berdjaev, Abbagnano (Petite Plaisance, Pistoia 2015); In cammino verso il silenzio (Paoline, Milano 2015); L’uomo ancora non pensa. Nei sentieri di Heidegger (Petite Plaisance, Pistoia 2016).



Carlo Carrara
La domanda del senso. Per una filosofia del “ri-trovamento”

[Introduzione di Massimo Bontempelli. In appendice scritti di: Walter Kasper, Dario Antiseri, Luigi Giussani, Abraham J. Heschel, Juan Alfaro, Norbert Fischer, Bernhard Welte, Karl Rahner, Armando Rigobello, Günther Anders, Wolfhart Pannenberg, Norberto Bobbio].

ISBN 88-87296-74-X, 2000, pp. 176,

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Il sentiero qui percorso, muovendo i primi passi verso la necessaria chiarificazione della semantica e della polivalenza del termine «senso», seguirà la via del senso come domanda radicale, per poi proseguire sulla via del senso come problema fondamentale, per raggiungere il senso come mistero avvolgente. Tre vie con un unico intento: ri-passare la struttura ontologico-esistenziale ultima umana. Riallacciandosi poi alla situazione propria dell’uomo contemporaneo, il cammino ripercorrerà le tappe della perdita della domanda del senso, per arrivare alla mancanza del senso e all’insensatezza effettiva dominante. Tre vie con un unico intento: ri-levare l’odierna condizione umana. Gli ultimi passi volgeranno verso la ri-cerca responsabile del senso ultimo da parte di ogni singolo uomo, con la ri-proposta della domanda del senso, per un «ri-trovamento» di quanto di più umano vi sia nell’uomo. Infine, alcuni approfondimenti di noti e attuali studiosi, ricondurranno a ripercorrere in modo più particolareggiato i diversi aspetti della questione esaminata.

«[…] l’uomo contemporaneo, in genere, non sente neanche più la necessità di enunciare la scomparsa del senso ultimo, preoccupato com’è a dar vita ai «suoi» sensi; tanto è vero che il suo pensare al senso come mistero avvolgente dura per lo più quanto l’attimo di un lampo, che potrebbe comunque anche folgorarlo; il suo riflettere sul senso come problema fondamentale dura forse poco più di un’ora, giusto il tempo per supporre e dire qualcosa, per poi lasciare nuovamente il tutto sospeso nel vuoto o nel dubbio; il suo percepire il senso come domanda radicale sta invece alla circostanza che lo suscita come il sole sta a un giorno, che potrebbe tanto irradiare quanto accecare, o come la luna sta a una notte, che potrebbe tanto guidare quanto fuorviare, ma in qualunque modo stiano le cose, il domani sarà sempre un altro giorno e un’altra notte.  Per il resto del suo tempo, cioè, per tutto il tempo, l’uomo contemporaneo non fa che pensare, fare e dire «per» questo mondo, «con» questo mondo e «in» questo mondo, a se stesso, in unità con la felicità di questo mondo, da conquistare mediante la ricerca, il possesso e il godimento (per quanto frenetici, esasperati e inappagabili possano essere) di tutti quei beni che il menù del mondo gli offre (potere, denaro, successo, piaceri, divertimenti, ecc.), augurandogli “buon senso!”». «La domanda del senso rimanda al mistero della vita e del mondo che avvolge integralmente l’uomo. Non più risposte a domande, ma domande a risposte; non più soluzioni a problemi, ma problemi a soluzioni; e nemmeno tentativi di pensare qualcosa di ciò che è non ancora pensato, di aspirare a trovare qualcosa di ciò che è non ancora trovato; ma soltanto il mistero che avvolge e coinvolge l’uomo, che lo inonda con le sue imprendibili acque, tenebrose per la sua ragione, sorgente di speranza per il suo cuore» (Carlo Carrara).



Carlo Carrara, La domanda del senso dell’esistere, Il Nuovo Melangolo, 2014.

Il sentiero qui percorso, muovendo i primi passi verso la necessaria chiarificazione della semantica e della polivalenza del termine “senso”, seguirà la via del senso come domanda radicale, per proseguire sulla via del senso come problema fondamentale, per raggiungere il senso come mistero avvolgente. Tre vie con un unico intento: ripassare la struttura ontologico-esistenziale dell’uomo. Riallacciandosi poi alla situazione propria dell’esistere umano contemporaneo, il cammino ripercorrerà le tappe della perdita della domanda del senso, per arrivare alla mancanza del senso e all’insensatezza effettiva dominante. Tre vie con un unico intento: ri-levare l’odierna condizione umana. Gli ultimi passi volgeranno nella direzione di una responsabile domanda e ricerca del senso dell’esistere da parte di ogni singolo uomo.


Carlo Carrara, In cammino verso il silenzio, Paoline Editoriale Libri, 2015.

Il testo è strutturato in un centinaio di brevi pensieri sul tema dominante del silenzio. I pensieri, dal linguaggio a volte aforistico e poetico, seguono un percorso, un cammino, che parte dalla costatazione del predominio del rumore, prodotto alienante dell’odierno esistere inautentico dell’uomo, per inoltrarsi nella ricerca dell’autentico significato della parola, dell’ascolto, del dialogo e del rapporto interpersonale. Nel cammino si va via via chiarendo la molteplicità di forme e significati del silenzio, con la radicale distinzione tra le sue forme degenerative e spurie e il suo autentico e profondo significato. L’essere del silenzio si manifesta come la precondizione necessaria e imprescindibile dell’essere della parola, dell’ascolto, del dialogo e dell’altro. Il mondo del silenzio è il luogo del loro esistere autentico, nel bene e nel dono reciproco dell’amore accolto e vissuto concretamente. In questo luogo ogni singolo uomo è chiamato ad amare donandosi.



Carlo Carrara,

Solitudine ed esistenza

[Kierkegaard – Nietzsche – Unamuno – Heidegger – Jaspers – Sartre – Camus – Marcel – Berdjaev – Abbagnano]. Prefazione di Angela Ales Bello.

ISBN 978-88-7588-139-9, 2015, pp. 19

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Che cos’è la solitudine? Perché la solitudine è così inscindibilmente legata con l’esistenza umana? Quali e quante solitudini vive l’uomo di questo tempo? In che termini si può parlare di solitudine per l’autenticità e di isolamento dell’inautenticità? Come definire la solitudine in quanto isolamento positivo e l’isolamento in quanto solitudine negativa? Attraverso l’analisi delle opere fondamentali dei maggiori precursori e rappresentanti della filosofia contemporanea dell’esistenza, e con un linguaggio semplice e chiaro, questo libro offre la possibilità di riflettere sul problema e sull’esperienza della solitudine, profondamente connessi con le questioni del fondamento e del senso dell’esistenza umana, con la sua dimensione autentica e con quella inautentica, con il modo di essere individuale, personale, sociale e religioso dell’uomo, con la realtà della sua morte e con la verità del suo destino ultimo.



Carlo Carrara

L’uomo ancora non pensa. Nei sentieri di Heidegger.

ISBN 978-88-7588-200-6, 2016

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«La filosofia non è nata dal mito. Essa nasce solo dal pensiero e nel pensiero. Ma il pensiero è il pensiero dell’essere. Il pensiero non nasce. Esso è (ist) in quanto l’essere è (west)» (Il detto di Anassimandro). «Può il pensiero continuare a sottrarsi al compito di pensare l’essere, dopo che questo è rimasto nascosto in un lungo oblio e nello stesso tempo, nel momento attuale del mondo, si annuncia attraverso lo scotimento di tutto l’ente?» (Lettera sull’«umanismo»). «Il pensiero iniziale ha la sembianza della totale marginalità e dell’inutile. E tuttavia, se proprio si vuole pensare a un’utilità, che cosa è più utile della salvezza nell’essere?» (Contributi alla filosofia ‘Dall’evento’). (Martin Heidegger)

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Salvatore Bravo – La scuola adattiva “amica” del mercato e “straniera” alla comunità. Cultura significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento  della coscienza umana che dura tutta la vita.

Scuola adattiva
Salvatore Bravo

La scuola adattiva “amica” del mercato e “straniera” alla comunità

In assenza di una chiara definizione di natura umana, il presente è inemendabile.

La scuola come luogo di comunità e di pensiero.

Il sistema attuale – “inclusivo” – insegna solo ad adattarsi.

Cultura significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico,
ma nel senso di accrescimento  della coscienza umana che dura tutta la vita.

Il nichilismo oggi è la realtà ontologica ed assiologica della moderna società capitalistica.

Alla superficialità della scuola adattiva con il feticismo della quantità,
bisogna opporre l’intelligenza  della scuola di qualità.

La scuola adattiva “amica” del mercato e “straniera” alla comunità, è il sintomo macroscopico dell’alienazione divenuta la normalità del sistema mercato. Costanzo Preve, professore liceale e studioso, ha conosciuto l’istituzione scolastica dall’interno e l’ha analizzata applicando la categoria della totalità. Il relativismo è espressione dei bisogni del mercato, in assenza di definizione di natura umana, il presente è inemendabile, poiché non vi sono parametri metafisici ed assiologici per valutare l’attualità. Il valore di scambio e il plusvalore sono realtà della struttura liberista, la quale non è il substrato dell’essere umano, ma è struttura ed in quanto tale ha la sua genealogia nella storia. Essa può essere trascesa, perché non è la manifestazione della sostanza dell’essere umano, ma la sua negazione, in quanto ha sviluppato in modo esponenziale la specializzazione della persona, fino ad annichilire le potenzialità soggettive e comunitarie, in nome dell’integralismo del mercato. Preve seguendo la lezione di Marx dimostra che la struttura non sta “sotto”, ma “dietro”, per cui l’emancipazione ha il suo inevitabile cominciamento con lo smascheramento ideologico:

«Ci avviciniamo alla fine della seconda parte di questo breve scritto, e possiamo ricapitolare, per comodità del lettore, i punti essenziali fino ad ora trattati. Essi sono a nostro avviso tre: in primo luogo, è stato accertato che la cosiddetta “struttura” non consiste, secondo Marx, in qualcosa che sta “sotto”, ma in qualcosa che sta “dietro”, e che pertanto l’attività soggettiva degli uomini non è qualcosa che “deriva” da una base sottostante, ma è qualcosa che deve svelare, smascherare qualcosa che “nasconde”, e che richiede pertanto l’assunzione di un atteggiamento globalmente libero nei confronti della “struttura” stessa […]».[1]

La scuola, luogo di comunità e di pensiero, dovrebbe insegnare che il mercato e le conseguenti forme di alienazione non sono fenomeni fatali o naturali, a cui ci si deve adattare seguendo il corso inevitabile ed ingovernabile degli eventi. Dovrebbe bensì insegnare che la scuola e l’intera comunità devono porsi in tensione critica e dialettica verso le forme di alienazione che si materializzano in questo contesto. Senza tale finalità non vi è comunità, ma solo sudditanza generalizzata ad un sistema che non lascia scampo. A scuola si dovrebbe imparare ad uscire dalla gabbia d’acciaio, mentre il sistema attuale – “inclusivo” – insegna ad adattarsi, a convergere su obiettivi stabiliti da poteri altri, che in forme religiose negano ogni umanesimo in nome del plusvalore. La formazione finalizzata all’uso di tecnologie ed alle competenze linguistico-mercantali orientate verso il business, non solo favorisce l’incorporazione, ma è parte di un disegno generale della società: la si vuole trasformare in porzione integrante del nuovo capitalismo assoluto. Il pedagogismo non offre mezzi, contenuti e valori atti a decostruire il sistema capitale e le sue logiche nascoste, ma incentiva – con l’uso irriflesso delle tecnologie – l’accumulo di surplus dell’informazione. Destrutturare la natura umana spingerla nel caos perenne dell’innovazione senza la mediazione del logos è il mezzo più insidioso con cui il nuovo capitalismo opera il suo trionfo e rende stabile il suo impero. Costanzo Preve era ben consapevole della metamorfosi del capitalismo e della necessità di pensare nuove categorie di pensiero per poterlo decriptare. Al pedagogismo senza fondamento veritativo e senza logos ha opposto la sua tenace resistenza metafisica.

La cultura contro il pedagogismo relativista
La prassi hegeliano-marxiana svolge la funzione di portare la speranza, del non ancora e del possibile, dove vige il regno della fine della storia. Ogni pedagogia profonda si nutre e si consolida solo se il fondamento veritativo diviene prassi per riconfigurare una vita profondamente umana. Pedagogia e filosofia formano un sinolo imprescindibile nella teoretica di Costanzo Preve, espresso negli scritti come nel vissuto, in quanto ogni grande filosofia si esprime pubblicamente mediante la coerenza tra vita e pensiero. Vi è pedagogia, formazione, dove si accresce la coscienza umana, altrimenti vi è solo barbarie travestita da modernismo. La definizione di cultura di Costanzo Preve è esplicativa del suo progetto filosofico, pedagogico e politico, i tre termini sono da considerare in senso sincretico:

«Il termine di cultura, nel significato che intendo dargli, non significa solo “alta cultura”, la cultura scritta e visiva dei grandi scrittori e dei grandi pittori, e neppure cultura in senso antropologico come insieme dell’attività lavorativa, linguistica e simbolica dell’uomo, ma significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento (e di autoaccrescimento) della coscienza umana che dura tutta la vita. La cultura è dunque un termine che connota sia l’individuo, sia i gruppi ristretti, sia l’intera società». [2]

 

Scuola “senza classi”
Il capitalismo, nella sua attuale fase definita da Costanzo Preve «speculativa» (da speculum, specchio), non può che guardarsi e specchiarsi senza riconoscersi. L’accumulo crematistico è la legge a cui il capitale è sottoposto: il suo destino in questa fase è pienamente realizzato. Ogni resistenza borghese è trascesa in nome del plusvalore. L’attuale fase non si può definire borghese, in quanto la borghesia è la classe della coscienza infelice, che sente la tragedia della scissione tra particolare ed universale. La borghesia è classe dialettica, al cui interno sono stati educati intellettuali che hanno progettato il superamento delle sue contraddizioni. L’attuale fase invece oppone il capitale finanziario alla borghesia. Il capitalismo finanziario si oppone ad ogni limite, e la borghesia è stata classe della disciplina, del risparmio, del decoro fino all’ipocrisia. La borghesia di tradizione è dunque un limite all’espansione del capitalismo finanziario. L’istituzione scolastica e le accademie sono oggi espressione di una nuova visione del mondo: “la società senza classi”, ovvero il regno dell’uniformità. Le differenze sono solo “apparenze colorate”, senza concetto, funzionali all’individualismo postborghese. Il tramonto della borghesia con i suoi valori è sostituita da una “società senza classi”. Quest’ultima è la società più diseguale che mai sia apparsa nella storia, ma per realizzarsi ha la necessità di diseducare ogni individuo dai concetti e di limite e di etica. La sopravvivenza del capitalismo speculativo dipende dal consumo illimitato. Pertanto le regole, la disciplina del lavoro e dei contenuti vengono attaccati frontalmente per formare l’individuo sregolato e destrutturato. Si tratta di mettere in pratica una rivoluzione antropologica: la persona deve diventare un cliente o un consumatore perpetuo. Affinché questo possa avvenire la scuola e le famiglie devono liberarsi dal senso del limite per diventare luoghi liquidi, dove si impara la liturgia mondana del consumo:

«Una simile società deve prima di tutto distruggere la scuola come luogo di educazione e sostituirla con una scuola come semplice luogo di socializzazione subalterna e di formazione professionale. Se non si capisce questo fatto strutturale si continuerà nelle geremiadi impotenti sugli studenti che non studiano più, sulla mancanza di disciplina, sul bullismo giovanile, e su altre idiozie secondarie di questo tipo. In realtà, il pesce puzza dalla testa, e non dalla coda. E la testa è una oligarchia che non è più interessata alla trasmissione dei valori classici tardo-signorili e protoborghesi, ma è interessata unicamente alla produzione di massa per consumatori decerebrati. La guardia plebea cui è stata delegata questa mostruosa trasformazione, manco a dirlo, è stata proprio la “sinistra scolastica”, un’Armata Brancaleone demenziale di sindacalisti semianalfabeti, pedagogisti pazzi, psicologi invasivi e virago della CGIL Scuola italiana». [3]

Si tratta di un progetto di subalternità a cui nessuna classe sociale sfugge. L’addestramento al consumo, con annessa sussunzione, riduce famiglie e scuole a centri di consumo, che clonano il mercato fino da incorporarlo in modo integrale. L’anomia si rende palese nell’iperattivismo, nella “cultura” del fare, delle attività pedagogiche plurali che costringono genitori e figli a diventare consumatori dell’offerta formativa. In tal modo non solo si ottiene una educazione all’attività poietica, alla produzione ed al consumo, ma si sostiene il mercato dell’educazione, mediante la perenne produzione di certificazioni delle competenze, di cui non si scorge il progetto, e dunque passivamente si subisce l’iperattività senza concetto:

«I centri di consumo prima implodono nell’anomia a causa della insensatezza, e poi esplodono in frammenti sulla base della fine della comunicazione sensata fra le tre generazioni (giovani, adulti ed anziani). In un’epoca di rapidissima trasformazione tecnologica gli anziani non hanno più competenze da trasferire ai giovani (computers, ecc.). Diventano inutili, ed il loro patetico brontolio non riesce a vincere il clima di disattenzione in cui vivono. Mamme trafelate passano la giornata ad accompagnare rampolli e rampolle a lezione di inglese, danza, flauto dolce, ecc., ma questo non fa cultura ma solo presenzialità ansiogena. Il deserto familiare è provvisoriamente coperto da tate e badanti messicane negli USA e moldave in Europa, ma questo non fa senso e prospettiva. La famiglia borghese, che a suo tempo Hegel correttamente ed intelligentemente metteva alla base della “eticità” viene liquidata dal capitalismo stesso, e non certo dai fumatori strafatti di canne e di paglie. Il sistema scolastico si trova di conseguenza nel centro di un tifone, e cioè nella crisi più grande dal tempo in cui ne è nata la versione moderna, fra il Settecento e l’Ottocento. Non si tratta solo di alcune stupidità assolutamente congiunturali ed alla moda oggi, come l’annientamento dell’educazione classica, l’odio provinciale e regressivo per la lingua francese in favore di un inglese da portieri d’albergo, l’indebolimento della stessa matematica in favore di una semplice alfabetizzazione informatica, ecc. Queste sono disgrazie come le invasioni delle cavallette, cui si può forse resistere. Più pericolosa e decisiva, a mio avviso (e parlo da competente sulla questione scolastica) è la scelta strategica dei quiz nel sistema di esami e controlli. Il sistema dei quiz, che a mio avviso merita solo di essere fatto saltare con una resistenza ad oltranza, è concepito per distruggere la lunga consuetudine al ragionamento logico ed ancor più al dialogo su cui si basa da più di due millenni la tradizione occidentale. Dialogo significa etimologicamente in greco dia-logos, il fatto cioè che la ragione passa attraverso due interlocutori almeno, ed in questo modo si incrementa e si modifica. La fine della scuola del dialogo è la fine della scuola così come l’abbiamo conosciuta, e questo al di là di tutti i discorsi secondari sull’asse umanistico e/o sull’asse scientifico, eccetera».[4]

 

Omologazione dello Stato-mercato
L’omologazione è resa evidente dall’imposizione dell’inglese. Non vi è scelta, la lingua del mercato è l’inglese, per cui “la scelta” è conseguente. Il dialogo è possibile se il “verbum” è consapevole della sua struttura significante. L’umanesimo è stato grande per il valore assegnato alla lingua, la quale non è un mezzo, ma è pensiero; con la lingua e con le parole si significa il mondo, si ordina il proprio “io” per aprirsi all’alterità nella chiarezza dei significati. L’umanesimo è stato filologia, in quanto perseguiva la razionalità delle parole. L’antiumanesimo attuale è tutto nella decadenza della lingua ridotta a mezzo per arpionare clienti, per inventare slogan con cui parlare alle pulsioni dei clienti consumatori. La lingua vissuta in astratto, sganciata dalla letteratura e dalla filosofia, diviene semplice attività linguistica priva di dialogo finalizzato alla ricerca dialettica della verità. Si destabilizza la lingua, per depotenziare la parola, poiché l’essere umano è la sua lingua, è intessuto di essa, per cui la lingua minima è coerente all’io minimo organico al mercato globale. La sottrazione delle parole contribuisce all’omologazione, diviene un mezzo potentissimo per condizionare e determinare comportamenti. Lingua minima e io minimo implicano l’ignoranza dell’identità culturale di appartenenza. Pertanto si prepara l’individuo a vivere in un mondo globale, ad avere identità fluide, a non appartenere a nessuna lingua, a nessuna storia: si è sotto la giurisdizione del mercato. In assenza di altri significati, la possibilità di creare alternative è neutralizzata. Il dispositivo linguistico del capitale opera per livellare la lingua all’interno della gabbia d’acciaio del capitale, che si riproduce in ogni individuo.

 

Da dove iniziare
La pedagogia della resistenza per poter avanzare necessita di un inizio all’altezza della situazione. In primis vi è bisogno di chiarezza filosofica nell’attuale contesto, in cui il caos del mercato indebolisce le coscienze e la radicalità del senso critico. Il pedagogismo dev’essere riportato alla sua verità, ovvero il relativismo del capitalismo assoluto. La cultura riporta alla chiarezza dei concetti, dove vige l’irrelevanza delle definizioni. Senza tale operazione non è possibile uscire dalle tenebre del pedagogismo:

«Il nichilismo oggi è la realtà (nel senso non hegeliano del termine) ontologica ed assiologica della moderna società capitalistica, che ha eroso prima i fondamenti naturali e poi i fondamenti sociali dello stesso legame sociale borghese e proletario che l’aveva geneticamente costruita. Il nichilismo è dunque oggi una situazione di partenza, non un possibile orizzonte di scacco e di fallimento. Il superamento del nichilismo non è per chi scrive una semplice scommessa nel senso di Pascal, ma è l’esito possibile della costruzione di una scienza filosofica della libertà e della verità». [5]

L’uscita dal pedagogismo e dalla sua gabbia d’acciaio non può che passare per il travaglio del negative. Bisogna attraversare il relativismo con le sue implicazioni per la prassi pedagogica che possa emancipare dal nichilismo crematistico.

 

L’ontologia dell’essere sociale
Il nichilismo è reazionario, in quanto non ha progetto comunitario, ma ambisce solo all’immediatezza dell’utile. La storia scompare dall’orizzonte progettuale per essere sostituita dalla quantificazione del presente. Il pedagogismo offre gli strumenti per l’affermazione della cultura acefala dell’immediato, non conosce senso del limite, in quanto gli manca la tensione filosofica con i fondamenti veritativi che orientano l’agire in modo consapevole e ne circoscrivono il raggio d’azione. Il pedagogismo diviene automatismo, meccanicismo didattico che introduce ed immette nell’attività di insegnamento l’innovazione fine a se stessa, vero riempitivo compensatorio del vuoto progettuale. L’ontologia dell’essere sociale, fondamento veritativo previano, fonda la possibilità di una pedagogia democratica e comunitaria, poichè l’agire didattico risponde ad un paradigma veritativo che ne determina, con i fini, i limiti entro cui disegnare la progettualità educativa e didattica.

L’ontologia dell’essere sociale permette di superare la scissione tra pensiero ed essere. La realtà diviene razionale se pensata concettualmente, per cui il pensiero razionalizza il reale. Senza tale operazione non vi può essere prassi, ma solo un irrazionale adattamento, perchè il soggetto subisce e non comprende il reale e dunque non può mutarlo. L’essere sociale riguarda la natura umana e si sostanzia di tre elementi fondamentali: l’ente naturale generico (Gattungswesen), che lo relaziona con il genere (Gattung) in base alla “conformità al genere” (Gattungsmässigkeit). L’essere umano è un ente generico che si definisce nella storia, ma non è plastico infinitamente, poiché assume forme storiche diverse all’interno del logos che calcola i limiti e le possibilità, del linguaggio e della socialità comunitaria. La natura può prendere forma nella relazione comunitaria, l’autocoscienza è momento imprescindibile per poter soggettivizzarsi:

«Il genere stesso, inoltre, non è pura vuota potenzialità riempibile all’infinito in modo relativistico (dynamis), ma è la realizzazione in atto di questa potenzialità (energheia) in quanto la realizzazione in atto di questa potenzialità, allude ad un contenuto, il contenuto antropologico dell’uomo come animale sociale, politico e comunitario (politikòn zoon), e dell’uomo come animale dotato di ragione, linguaggio e capacità di calcolo geometrico delle proporzioni applicato alle proporzioni sociali e comunitarie (zoon logon echon)».[6]

L’inferno economico in terra ha il volto rassicurante ed inclusivo del pedagogismo con la sua falsa concretezza. La pedagogia ad orientamento e fondamento veritativo è tacciata di astrazione. In realtà, “la campagna” contro i contenuti, le discipline e l’umanesimo in nome della concretezza e dei saperi volti al solo fare, sono profondamente astratti. Il concreto[7] ha la sua verità nell’etimologia della parola in cui vi è il sincretismo tra universale e particolare. Il comunitarismo in Costanzo Preve assolve a tale compito. Non a caso Preve distingue il comunitarismo dal collettivismo: il primo vive della tensione positiva tra individuale ed universale, il secondo nega l’individuale per l’universale. L’economicismo ed il pedagogismo sono forme astratte, poichè negano la relazione tra individuale ed universale lasciando che il soggetto si disperda nel pulviscolo dell’individualismo atomistico. Ogni prassi non può che avere il suo incipit dalla condizione storica in cui si è implicati. Alla superficialità della scuola adattiva con il feticismo della quantità, bisogna opporre l’intelligenza – “intus legere” (comprendere dentro) – della scuola di qualità, nella quale l’umanesimo affina strumenti formativi per poter vivere e capire il reale storico.

 

Salvatore Bravo

***

[1] Costanzo Preve – Gianfranco La Grassa, Oltre la gabbia d’acciaio. Saggio su capitalismo e Filosofia, Vangelista, Milano 1994, p. 184.

[2] Costanzo Preve, La crisi culturaledella terza età del capitalismo, Petite Plaisance, Pistoia 2010,  p. 4.

[3] Costanzo Preve, Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx, Petite Plaisance, Pistoia 2010, pp. 25-26.

[4] Ibidem, pp. 18-19.

[5] Massimo Bontempelli – Costanzo Preve, Nichilismo Verità Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo, Petite Plaisance , Pistoia 1997, p. 187.

[6] Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia 2013, pp. 21-22.

[7] Concreto, dal latino concretus (p. pass. di concrescĕre) .

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ermanno Bencivenga – Grazie a mia madre per avermi messo al mondo non in un attimo o in un’ora ma attraverso una lunga consuetudine di solidarietà e collaborazione, di accoglienza e fiducia.

Ermanno Bencivenga 01

«Ciò che ho perduto non è una figura (la Madre),
ma un essere,
e non solo essere, ma una qualità (un’anima):
non già l’indispensabile, bensì l’insostituibile».

Roland Barthes
(a proposito della morte della madre Henriette Binger),
Dove lei non è, Einaudi, Torino 2010.


 

È bello questo libro per almeno due motivi. Da un lato esso disegna l’immagine di una donna e madre straordinaria, in un discorso che ha sia l’aspetto di una ricostruzione ordita con sapienza, sia quello di un racconto fatto con immediatezza. Questo tono duplice dello stile dà fascino alla lettura di questa Lettera, che infatti solleva lo spirito e lo riempie di pensieri buoni e di ammirazione per la protagonista, in quanto exemplum di sapienza e bontà, e dunque di bene. Dall’altro, esso illustra con un esempio concreto la storia dell’Italia del dopoguerra e dei sacrifici straordinari fatti dagli italiani, anche attraverso le ben note migrazioni interne, e ci ricorda che la scuola italiana fino a pochi decenni or sono è stata un motore di promozione sociale e non un parcheggio degradante.

Inoltre, questo libro contiene molti tesori di saggezza: ne citerò soltanto due. Il primo è nella frase «la morte è quel che dà senso alla vita». E nel merito mi limito a rimandare a una serie di scritti pasoliniani, raccolti in ”Empirisco eretico”, dove questa frase viene chiarita nei saggi ”Osservazioni sul piano-sequenza”, ”Essere è naturale?” e ”I segni viventi e i poeti morti”. Il secondo tesoro è contenuto nella frase «la vita si vive nel futuro». Anche mi limitito a fare  riferimento al libro di Massimo Bontempelli ”Tempo e Memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro”. Entrambi questi tesori sono a mio avviso di una profondità inattingibile ai giovani, perché solo l’esperienza insegna veramente il loro significato.

Il libro contiene un riferimento alle ragioni del degrado della scuola italiana. Anche qui un testo di Massimo Bontempelli ci è di aiuto, ed è ”L’agonia della scuola italiana”.

Fausto Di Biase

 

«Sei una creatura dell’eterno presente» dice l’autore della madre mentre ne traccia l’itinerario esistenziale, con ammirato stupore per il suo equilibrio e la sua fermezza, e con gratitudine per la sua serena generosità: per averlo messo al mondo non in un attimo o in un’ora ma attraverso una lunga consuetudine di solidarietà e collaborazione, di accoglienza e fiducia. Scoprendo infine che a quel presente, all’invariabile presenza che la madre ha dentro di lui, manca ora un futuro, e che questa è la sorgente del suo strazio: di un dolore che abbatte ogni barriera e si manifesta come assoluta intimità.

 

Ermanno Bencivenga è distinguished professor di filosofia e scienze umane all’Università di California. Logico di fama, ha dato importanti contributi alla filosofia morale, alla filosofia del linguaggio e alla storia della filosofia. In Oltre la tolleranza, Manifesto per un mondo senza lavoro e Parole che contano ha elaborato un’utopia politica. Per il grande pubblico ha pubblicato recentemente La filosofia in ottantadue favole, La stupidità del male e L’arte della guerra per cavarsela nella vita. È autore del romanzo Il giorno in cui non tornarono i conti, delle raccolte di racconti I delitti della logica, Case e Amori, delle tragedie Abramo, Annibale e Alessandro e di sette raccolte di poesie, le ultime delle quali sono Le parole della notte (Di Felice 2015) e Amore per Milla (Di Felice 2019).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fernanda Mazzoli – L’io minimo ai tempi dell’epidemia. Lo spiritello esangue e pervicace della mentalità di sopravvivenza. Sopravvivere diviene preferibile a vivere nella consapevolezza.

L'io minimo e il covid 19
– Il robot è quasi perfetto. Gli manca solo un’anima.
– Ti sbagli, è meglio senz’anima.
Metropolis, 1927, Regia di  Friz Lang, soggetto e sceneggiatura di Thea von Harbou

« Ceux-là, quand la liberté serait entièrement perdue et toute hors du monde,
l’imaginent et la sentent en leur esprit, et encore la savourent, et la servitude ne leur est
de goût, pour tant bien qu’on l’accoutre».
Etienne de La Boétie,
Discours de la servitude volontaire.

Fernanda Mazzoli

L’io minimo ai tempi dell’epidemia

***

Lo spiritello esangue e pervicace della mentalità di sopravvivenza.

La vita quotidiana divenuta mero esercizio di sopravvivenza.

L’io fattosi ancor più minimo.

Il rapporto malato con il tempo.

La mentalità della sopravvivenza era già all’opera.

Misure securitarie e dispositivi di controllo sociale.

La nuova forma di governance è il catastrofismo di Stato.

In quarantena libertà ben più sostanziose.

Mentalità della sopravvivenza come modalità ordinaria.

La vita è considerata innanzitutto nella sua accezione biologica.

Sopravvivere diviene preferibile a vivere nella consapevolezza.

Assolutizzazione del presente.

La storia rimossa dall’orizzonte dell’homo consumens.

***

Uno spettro si aggira per l’Europa e, purtroppo, non è quello del comunismo. È lo spiritello esangue e pervicace della mentalità di sopravvivenza che si è saldamente installata nel cuore del vecchio continente, facendo accettare ai suoi sgomenti abitanti pesanti restrizioni di quelle libertà individuali di cui andavano tanto fieri e che, esauritisi i grandi movimenti per l’emancipazione sociale, sembravano essere restati i soli esiti di quelle gloriose stagioni.
Le paure scatenate dalla pandemia da Covid 19, alimentate dal chiacchiericcio costante dei media, dalle notizie di incerta attendibilità che rimbalzano da un social all’altro, dalle nude cifre degli scienziati e dagli allarmi di politici che, dopo avere distrutto scientemente la sanità pubblica, si ergono a difensori della stessa, hanno promosso la mentalità della sopravvivenza a fattore culturale-antropologico dominante.
Di questo mutamento si è occupato già a metà degli anni Ottanta del Novecento lo storico delle idee Christopher Lasch la cui indagine – che spazia negli ambiti più diversi dell’attività intellettuale e del costume – fornisce una chiave di lettura molto stimolante per affrontare gli aspetti culturali messi in gioco dall’attuale fase. Lo studioso individua il nucleo fondante di tale mentalità in un rapporto malato con il tempo: è preferibile non guardare al passato per non farsi sommergere dalla nostalgia; quanto al futuro, l’attenzione è tutta concentrata su come scampare agli eventi disastrosi che ci si attende. Così, la vita quotidiana diventa un esercizio di sopravvivenza.
Che altro è se non un esercizio di questo genere lo scarto del nostro passo, divenuto già istinto, quando incrociamo qualcuno per strada, lo sguardo preoccupato con cui squadriamo chiunque si trovi nel nostro raggio d’azione, la corsa all’acquisto di dispositivi di protezione, l’aggressione verbale verso qualche incauto camminatore che potrebbe mettere in pericolo la nostra salute?
L’identità personale si è ulteriormente rimpicciolita entro le protettive pareti domestiche, minuscole roccaforti dello stato d’assedio generalizzato, l’io si è fatto minimo, riducendosi ad «un nucleo difensivo armato contro le avversità».[1] L’altro è diventato un ricettacolo di virus, un propagatore, tanto più pericoloso quanto meno consapevole, di malattie, una minaccia immediata alla sopravvivenza individuale e della cerchia familiare più stretta.
Nell’eccezionalità fa sempre, tuttavia, capolino la normalità: se è stato così facile confinare in casa milioni di persone, interrompere i legami sociali e “sospendere” le loro vite nell’attesa della fine della pandemia è perché ce ne erano già le condizioni latenti, ovvero la mentalità della sopravvivenza era già all’opera da tempo. Il timore delle sanzioni applicate ai trasgressori non spiega se non in minima parte la riuscita quasi totale delle politiche di contenimento: basti pensare al fallimento delle misure repressive nei confronti della movida di cui erano ostaggio, fino a febbraio, i centri storici di tante città: ordinanze municipali, multe, chiusure temporanee di locali non avevano di certo dissuaso i forzati del divertimento dall’occupare piazze e vicoli fino a notte tarda. Non solo: ogni iniziativa in tale senso messa in atto da amministrazioni comunali costrette ad intervenire in seguito alle rimostranze dei residenti non aveva mancato di suscitare vibranti proteste da parte di improbabili difensori della libertà, pronti a ravvisare nei provvedimenti restrittivi il pugno di ferro di sindaci-sceriffi, se non a tirare in ballo nientedimeno che il fascismo!
Niente di tutto questo oggi, quando ad essere state messe in quarantena sono libertà ben più sostanziose di quelle del diritto allo schiamazzo notturno bicchiere in mano.
Certo, c’è di mezzo la pandemia, un’emergenza sanitaria che non sembra superiore per gravità ad altre già affrontate in passato dall’umanità e che, però, è riuscita a fare tabula rasa nel volgere di qualche giorno di comportamenti e modi di vivere consolidati ed orgogliosamente rivendicati come irrinunciabili diritti dell’individuo. Se ciò è stato possibile, è perché già la nostra civiltà aveva fatto della sopravvivenza un asse della propria dimensione quotidiana, un orizzonte privilegiato entro cui strutturare forme di pensiero e di vita. Incalzano non da oggi nel dibattito pubblico e nel senso comune, e non sempre senza una qualche ragione, apocalittiche visioni di un futuro segnato da catastrofi di ogni genere, fino all’estinzione finale del pianeta, con le quali si alimenta un incessante spettacolo mediatico spesso funzionale alla ristrutturazione del capitale e alle sue riconversioni produttive, nonché alla creazione di un clima di pericolo permanente che da un lato autorizza il consumismo sfrenato e l’edonismo disperato all’insegna del «di doman non v’è certezza», e dall’altro spinge le popolazioni impaurite ad accettare le misure securitarie e i dispositivi di controllo sociale messi a punto dai governi. Il catastrofismo di Stato[2] si configura come una nuova, efficace forma di governance che presenta il grande vantaggio di consolidare sotto allures paternalistiche – attente alla protezione dell’individuo – e solidaristiche – sollecite del bene comune – forme di dominio ben più capillari di quelle tradizionalmente esercitate, in quanto esse vengono introiettate dal singolo come necessario scotto da pagare per garantirsi un margine di salvezza di fronte al dilagare di una negatività distruttrice che assume i caratteri di una fatalità avulsa da ben precise dinamiche sociali.
L’io minimo trova conferma nella compiaciuta distillazione mediatica dei disastri in atto, generosamente sbandierati da esperti, giornalisti ed associazioni specializzate nei diversi rami della “cittadinanza attiva”, e nella prospettiva di quelli a venire che incombono sulla sorte di un’umanità troppo spensierata, quale castigo per “stili di vita” poco virtuosi che, da volano della crescita, sono divenuti il freno di un capitalismo lanciato verso una nuova fase.
Non solo: la mentalità della sopravvivenza, prima ancora di alimentarsi di disastri ecologici e di potenziali guerre, di cui predazione delle risorse e conflitti geo-politici costituiscono in effetti micce potenti, diventa una modalità ordinaria di affrontare la vita nella giungla della società di mercato, dove vigono ferree e non dichiarate leggi di “darwinismo sociale”.
Se il futuro è un incubo e il passato una successione di colpe, resta il presente che, per quanto stentato ed incerto, è pur sempre meglio di quello che ci aspetta. Ecco allora che l’humus dove nasce e si nutre incessantemente l’io minimo è quello dell’assolutizzazione del presente e della negazione della storia, i quali hanno rappresentato il tratto culturale ed ideologico caratterizzante gli ultimi decenni. In questa cornice angusta, la preoccupazione per la sopravvivenza si impone come prioritaria e rende tollerabile il ripiegamento dell’individuo-monade su se stesso e l’allentamento del vincolo sociale della cui contraddittorietà e ricchezza si percepisce solo il lato rischioso.
Anche l’io perde la sua complessità – il suo fascio relazionale, la sua storia – e si assottiglia su una dimensione sola: il malato, il paziente, il potenziale contagiato o l’inconsapevole untore. Queste nuove figure del disastro di oggi – l’epidemia da Covid 19 – sono permutabili con le figure del disastro di domani: le minacce non mancano e, quel che è peggio, non sono certo prive di fondamento. Tali figure sono le manifestazioni sociali dell’io minimo nell’ epoca della crisi permanente – nuova e accorta gestione della normalità – che presenta e promuove se stessa come evento spettacolare su scala planetaria.
L’io minimo è chiamato a fare la sua parte nella grande recita globale, per un verso passivizzato come vittima compassionevole di un’oscura calamità naturale – la peste del XXI secolo, la guerra dichiarata da un ignoto virus alla comunità mondiale – per l’altro arruolato d’ufficio nella battaglia contro il nemico alle cui sorti egli contribuisce con l’obbedienza fisica e l’adattamento mentale alle prescrizioni decise da uno Stato fattosi improvvisamente “paterno”, dopo essere stato a lungo patrigno.
L’io minimo può quotare la sua razione di spirito solidale sul mercato delle emozioni e rimpolpare il proprio spessore con una manciata di buoni sentimenti innaffiati da un pizzico di retorica umanitaria che è quella, poi, che olia ai nostri tempi gli ingranaggi altrimenti troppo stridenti del capitale. L’apparato propagandistico che sostiene e rilancia lo spettacolo opera inversioni di significato: così, il distanziamento sociale, invece di prefigurare scenari riconducibili all’homo homini lupus, ricopre la casella dell’altruismo e della responsabilità civica e offre una compensazione gratificante ad un soggetto ulteriormente impoverito, in quanto privato della sua dimensione pubblica, politica e fortemente dimidiato anche in quella privata.
L’altruismo, come la sollecitudine per l’altro non possono, infatti, essere imposti per via di decreto: per essere tali, avrebbero dovuto essere espressione di una libera e consapevole scelta. Invece, l’accettazione delle norme che hanno limitato, quando non annullato, nel silenzio quasi generale, libertà individuali e collettive scaturiscono dal terreno infido, aperto a tutti i giochi dell’egoismo e dell’isteria, della paura dell’evento disastroso. Questo terreno, poi, è stato sottoposto alla spietata potenza di fuoco dell’artiglieria pesante dell’informazione che, da tutti i canali, da tutti i siti, da tutte le testate e per ventiquattro ore al giorno, ha bombardato la popolazione con notizie, immagini e bollettini degni di un’esplosione nucleare o di un’invasione aliena del pianeta.
Non è questione di negazionismo; l’epidemia c’è stata, è ancora in corso, non è la prima nella storia dell’umanità e non sarà l’ultima. Il suo impatto, sulla psicologia e le condotte degli uomini, è stato, però, così violento da far pensare che questi abbiano dimenticato la verità elementare e sconvolgente che la vita biologica ha dei limiti – il deperimento fisico, la malattia, la morte – con i quali sia il pensiero individuale, sia la coscienza collettiva devono confrontarsi con lucidità ed umiltà, senza demandarne la definitiva, e distopica, risoluzione ad una scienza caricata di attese millenaristiche. Ciò non significa, naturalmente, che un buon sistema sanitario pubblico, i progressi della ricerca ed adeguate misure di prevenzione e di gestione dell’emergenza non possano contenere e ridurre i fattori patogeni e la mortalità.
La questione, qui affrontata, è un’altra: la mentalità e i comportamenti emersi in occasione di questa pandemia hanno proclamato a chiare lettere che sopravvivere è preferibile a vivere e ad assumersi i rischi che ogni vita mortale comporta.
Ciò che si è affermato in questi giorni è che le libertà politiche e le libertà personali – che non sono solo un fiore all’occhiello propagandistico dell’Occidente, ma l’esito storicamente determinatosi di battaglie secolari di carattere politico, sociale e culturale – sono divenuti un abito che si dismette facilmente di fronte a un pericolo che sembra minacciare la sopravvivenza dei singoli (il Covid 19 oggi, qualche altra emergenza, non necessariamente sanitaria, domani) e sono subordinate alla conservazione della vita, considerata innanzitutto nella sua accezione biologica.
Non è in gioco, qui, un giudizio moralistico, si tratta di constatare un fenomeno il cui rilievo non può sfuggire e che dovrebbe destare non poche preoccupazioni. Invece, si sono levate solo alcune voci isolate,[3] prontamente accusate di negazionismo, di irresponsabilità civica, di individualismo, come se ad essere stato congelato non fosse stato innanzitutto proprio l’ambito pubblico che si avvale di momenti politici – elezioni, manifestazioni, assemblee – e di momenti di socialità più generale, non necessariamente ascrivibili a peccaminoso intrattenimento. Penso ai malati terminali cui è stato negato il conforto di un ultimo contatto umano o ai loro familiari e amici che non hanno potuto essere loro vicini in quel passaggio estremo e, spesso, nemmeno seppellirli, compiendo quei gesti pietosi che hanno accompagnato l’uomo in tutta la sua storia e che sono patrimonio intimo di tutte le civiltà.
La storia, ancora una volta: ma è proprio essa ad essere azzerata nell’esperienza vissuta dall’io minimo, contratto sul proprio presente e sulla necessità di mettere in atto modalità di sopravvivenza efficaci. Certo, l’allestimento spettacolare del disastro non va mai disgiunto da una certa dose di manipolazione psicologica, di solito riservata ai media. Tuttavia, la sua riuscita, che ha superato le più rosee previsioni, non sarebbe stata coronata da un tale successo se non si fosse innestata su una già esistente predisposizione psicologico-antropologica, se non avesse trovato sulla sua strada l’io dimezzato dell’homo consumens, del cittadino-consumatore. Consumatore innanzitutto dello spettacolo offerto dalle merci, anche culturali, e di emozioni, come la voglia di compensare la perdita di una cittadinanza reale con un qualche simbolico gesto di integrazione in una comunità virtuale che canta dai balconi e si rassicura che tutto finirà bene, mentre gli speaker televisivi annunciano compunti per l’autunno una nuova offensiva del virus.
Le crisi ambientali, le cui cause vengono ascritte a comportamenti individuali, combinate all’esposizione alla “società del rischio”, che è prima di tutto perenne messa in discussione della capacità del singolo di restare a galla nella giungla economica del modo di produzione capitalistico e di essere all’altezza delle prestazioni richieste, hanno reso l’io disponibile alla sola avventura che gli resta, una volta che la storia – pensieri, azioni, lotte degli uomini in un interscambio ininterrotto fra passato e presente – è stata rimossa dal suo orizzonte ed è solo una disciplina di studio per gli specialisti. Restano il ripiegamento sulla sopravvivenza individuale/domestica – di cui si avrà cura di promuovere la resa spettacolare, moltiplicandola su scala globale, individui-monade l’uno accanto all’altro – e la disponibilità ad accogliere acriticamente, o come il male minore, ogni misura che si prefigga come fine il suo mantenimento.

Fernanda Mazzoli

***

[1] C. Lasch, L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 7.

[2] Devo l’espressione a René Riesel e Jaime Semprún che nel loro Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable, Editions de l’Encyclopédie des Nuisances, Paris, 2008, affrontano il nesso tra rappresentazioni del disastro e fabbricazione del consenso sociale.

[3] Cfr. le riflessioni sviluppate da Giorgio Agamben nel suo blog Quodlibet e da Alberto Giovanni Biuso su https://www.biuso.eu/2020/04/06/corpi-e-politica/



Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.
Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.
Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva
Fernanda Mazzoli – La ripresa, finalmente! Ma chi guida la task force incaricata di traghettare il Paese fuori dell’emergenza da Covid 19? La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Tommaso Demaria (1908-1996) – Il problema del vivere e dell’agire umano oggi, nonché il problema delle grandi azioni collettive, sono inscindibilmente e solidarmente problemi teoretici e pratici ad un tempo. Soltanto dalla loro giusta soluzione si può ricevere la linfa vitale ed animatrice di cui abbisognano la buona vita e le buone azioni umane, o almeno il canale indispensabile per tale linfa.

Tommaso Demaria, metafisica e comunitarismo
Salvatore Bravo

Metafisica e comunitarismo


Il problema del vivere e dell’agire umano oggi,
nonché il problema delle grandi azioni collettive,
sono inscindibilmente e solidarmente problemi teoretici e pratici ad un tempo.
Soltanto dalla loro giusta soluzione si può ricevere
la linfa vitale ed animatrice di cui abbisognano
la buona vita e le buone azioni umane,
o almeno il canale indispensabile per tale linfa.


Tommaso Demaria è stato un comunitarista cattolico. Il pensiero metafisico, e come tale antinichilistico, è osteggiato in ogni sua forma filosofica. L’ostracismo di cui sono oggetto gli autori la cui ricerca è spesa nella rifondazione della metafisica, svela la verità del capitalismo ed il suo nichilismo ideologico e dogmatico. L’ostilità bellicosa contro la metafisica è assoluta. Per il capitalismo si tratta di un nemico e, pertanto, non vi sono espressioni metafisiche maggiormente tollerate rispetto ad altre: ogni fondazione veritativa è osteggiata in quanto antitetica al relativismo del capitalismo. La metafisica fonda la verità, delimita dei confini concettuali per discernere il bene dal male. Il capitalismo ha la sua verità nel nichilismo, e nella dismisura, pertanto non può tollerare limiti e confini, perché dove vi è verità necessariamente l’essere umano riconosce razionalmente, o in modo intuitivo, la presenza di confini e con essi la possibilità di progetti alternativi. La censura cade come una mannaia ideologica sui pensatori metafisici, formalmente tollerati, nei fatti sospinti al silenzio.
L’ostilità mediatica contro la metafisica comporta l’inevitabile marginalità culturale. La verità è la prima vittima della struttura economica del capitalismo che, per proliferare, necessita dell’assenza di ogni fondamento veritativo, divorando ogni confine, attaccando ogni limite geografico ed etico pur di sopravvivere. Il capitalismo assoluto non conosce altra legge che il profitto «è il dito di dio (il mercato) della contemporaneità». Non vi è più civiltà, in tal modo, ma solo mercato.
Il capitale non è “fenomeno esterno”, ma interno: governa la mente dei popoli. Riconoscerlo significa identificare la sua presenza nel modo di pensare, nel linguaggio, nell’agire di ciascuno. Emanciparsi dal nichilismo capitalistico significa confrontarsi con se stessi, riconoscerne la presenza. Senza tale attività interiore ogni progetto è inutile, ogni resistenza mostra la propria incoerenza.
Nulla è più osteggiato dei concetti come “bene”, “universale”, “vincoli etici”. Al loro posto vi è il termine “giustizia” utilizzato in modo ideologico. Si tratta di giustizia senza “bene”, e pertanto limitata alla meritocrazia conseguente la competizione. Giustizia astratta e formale, priva di concretezza e fondamento ontologico. La giustizia senza fondamento è semplicemente ridotta ad una formale distribuzione dei beni secondo “l’ordine del merito” coniugato allo sviluppo intensivo dell’economia. In tal modo si procede ad instaurare un’organizzazione sociale senza progetto. Il “bene” non solo comunica significato teoretico alla giustizia, ma stabilisce gerarchie assiologiche. Senza il “bene” non vi può essere vita buona, non vi è comunità e specialmente non vi è storia. La giustizia formale dei diritti individuali non intacca le contraddizioni, ma le consolida, le naturalizza e riduce la vita ad «ente statico», a solo corpo senza storia.

L’ente statico
L’essere umano è dominato da un sistema organizzativo che nega la progettualità e riduce la vita di ciascuno a “semplice cranio” senza relazione. L’ente statico è l’essere umano ridotto a sola natura, e dunque astratto dalla storia. Il capitalismo assoluto destoricizza per potersi naturalizzare ed eternizzare. Gli esseri umani sono indotti ad autorappresentarsi come “pura biologia” senza storia vissuta, in tal modo il regno del capitale governa sovrano. il soggetto si ripiega su se stesso e non vi è storia in un mondo di soli corpi:

«L’ente statico quindi viene così chiamato, non per altro che per questo: perché appunto, per creazione divina o per produzione e generazione naturale, vien posto all’esistenza come ente già bell’e fatto. Ciò non impedisce che l’ente statico esistenzialmente appaia come un ente magari attivissimo e con una fenomenologia in continuo movimento anche come crescita, dando luogo ad una apparente contraddizione in termini: quella precisamente di un ente statico che agisce, si muove e forse cresce. Ma bisogna tener conto del significato tecnico della parola, superandone il significato volgare ed empirico corrente, che per quanto tale non ha diritto al monopolio lessicale. E nel significato tecnico da noi stabilito, per una ragione metafisica che andrà man mano chiarendosi, lo statico, ripetiamo, non nega affatto né l’attivismo né il movimento. Nega soltanto l’ente in costruzione, affermando che l’ente statico è già bell’e fatto fin dal primo istante della sua esistenza. L’ente statico così inteso viene a coincidere con l’ente di primo grado, sì che i due diventino sinonimi. Ambedue infatti corrispondono e qualificano l’ente in natura rerum, sia pure con sfumature diverse. L’ente statico qualifica l’ente in natura rerum come essere (e conseguentemente anche – lo vedremo fra breve – come essenza); l’ente di primo grado invece lo qualifica geneticamente, nel senso che lo pone come ente “primogenito” rispetto all’ente di secondo grado, che metafisicamente è sempre un “secondogenito”. Ciò posto, sarà facile controllare la verità dell’ente statico come da noi concepito, guardando alla natura rerum. Qualsiasi pianta od animale sarà ente statico non perché fisicamente o fenomenicamente sia immobile, ma semplicemente perché, fin dal primo istante della propria esistenza, piante ed animali sono già quel dato essere completo, bell’e fatto. Un bambino, un gatto, un cane, una pianta qualsiasi, nascono già possedendo il loro essere, specificamente completo e inconfondibile. Nascono col loro essere già bell’e fatto. In una parola, metafisicamente sono enti statici, nonostante l’attivismo e la molteplice fenomenologia in movimento che li accompagna».[1]

L’ente statico vive fuori della storia, è astratto, sradicato dalla comunità, la quale non è luogo neutro, ma è radicamento nel linguaggio, nella tradizione storico-filosofica e specialmente nella responsabilità. Entrare nella storia significa schierarsi, situarsi in una posizione ideologica e progettuale. L’ente statico, in quanto passivo dinanzi agli eventi storici, inevitabilmente diviene il suddito fedele dei falsi assoluti che appaiono e scompaiono dal suo orizzonte vitale. Ogni ideologia che riduce l’essere umano ad “ente statico”, ne lede la verità che lo sostanzia. L’essere umano, cioè, è un ente che non può essere limitato al semplice corpo: diventa umano entrando nella storia e radicandosi responsabilmente in un progetto comune.

L’ente dinamico
L’ente dinamico, dunque, è l’essere umano che completa se stesso e la sua natura (ente statico) entrando nella storia, dove incontra la comunità viva. L’ente statico assume valore solo se integrato nell’ente dinamico. Il corpo vissuto partecipa alla costruzione della storia, diventa concreto integrandosi con l’ente statico; diviene, così, veicolo di relazioni e storia, altrimenti è solo «nuda vita»:

«Ne segue un completamento del panorama dell’essere e dello sviluppo della sua relativa metafisica. E ciò, fin dall’inizio dell’Ontologia, senza discontinuità e senza disorientamenti, senza contraddizioni o rinnegamenti, poiché si tratta di un puro adeguarsi realistico al significato e al quadro effettivo dell’essere, che è insieme ente statico ed ente dinamico. Ed è tale, ci sia lecito ripeterlo ancora una volta, non a titolo di una qualsiasi estrosità soggettiva, ma per suggerimento del dato di esperienza, e per una imprescindibile esigenza della cultura e della vita di oggi, sulla linea dell’integrazione teoretica e della indispensabile apertura pratica dello stesso sistema realistico. Si tratta infatti, sul piano pratico, in continuità e in sintonia con un rinnovamento cristiano del mondo che rimane l’unica vera rivoluzione, di adeguarsi alla più grande rivoluzione storica in atto, che è quella del passaggio dall’homo faber (semplice artigiano) alla umanità costruttiva della nostra civiltà industriale. Ciò che esige, sul piano teoretico, l’integrazione dinamica dello statico, a cominciare da quella integrazione radicale, l’unica veramente decisiva, che consiste nella integrazione ontologica. Integrazione dinamica dello statico, diciamo; e non rifiuto di esso. Il dinamico non è rifiuto dello statico. Al contrario, ne è una postulazione e rivalorizzazione. L’ente di secondo grado non può né esistere né avere un senso, senza l’ente di primo grado e la sua indispensabile premessa metafisica. L’autentico rapporto tra statico e dinamico, quindi, sia detto una volta per sempre, rimane quello della reciproca postulazione, solidarietà ed integrazione, sia teoretica che pratica. Il che si rifletterà necessariamente anche sulla tradizione, che nella dialettica dell’ente dinamico, non solo non può venir rifiutata, ma deve essere accolta rianimata, decisamente rivalorizzata, e dinamicamente rilanciata. La tradizione non è l’essere, ma interpretazione dell’essere. Il suo rilancio implica quindi il passaggio dall’ente statico all’ente dinamico. Senza tale passaggio muore la tradizione, e si blocca la costruzione».[2]

 

Dinontorganico
Tommaso Demaria utilizza il termine dinontorganico (Dinamico, ontologico, organico): significa che la Realtà Storica è costruita dal libero agire degli uomini. L’essere umano è concreto, perché si umanizza nella storia, nella quale realizza la sua verità profonda: è parte di un tutto, per cui il suo agire storico è comunitario, e si storicizza in istituzioni, comunità e modelli economici nei quali realizza “creativamente” la sua essenza di essere concreto e libero. La verità, in questo modo, fonda la giustizia.

Tommaso Demaria, come di molti studiosi metafisici (Costanzo Preve,[3] Massimo Bontempelli[4]), ha testimoniato con coerenza la necessità di una rifondazione metafisica e comunitaria del pensiero senza la quale l’essere umano è solo quantità, e dunque oggetto di “cattivi infiniti”. Il filosofo deve entrare nella storia per vivere e pensare i problemi che essa pone, deve dimostrare “concretezza”, altrimenti è solo servo del potere e tradisce la sua vocazione politica ed etica:

«La realtà storica è una realtà viva, impegnata nell’azione e impregnata di azione, che addirittura si risolve in una costruzione del mondo. Niente di meno invitante ad una speculazione metafisica pura, inerte, sganciata dalla pratica, per non dire evasione, talvolta, da ogni impegno e funzionalità pratica. A costo di ripeterci, diciamo ancora una volta che ci interessiamo della metafisica della realtà storica non già per una tendenza alla contemplazione pura o per un istinto di evasione dalla pratica, tacitando se mai la propria coscienza di fronte al dovere operativo, col pensiero che ogni idea si riflette, sia pur mediatamente e remotamente, nell’azione. Il motivo del nostro interesse, e del nostro passaggio dalla realtà storica alla sua metafisica anziché ad un impegno pratico immediato, è proprio l’opposto: è indettato dalle esigenze del problema operativo, e nient’altro. Il motivo del nostro interesse nasce dalla convinzione che il problema del vivere e dell’agire umano oggi, nonché il problema delle grandi azioni collettive, tanto sul piano naturale che soprannaturale, sono inscindibilmente e solidarmente problemi teoretici e pratici ad un tempo. Essi affondano le loro radici appunto nel problema metafisico della realtà storica. E soltanto dalla giusta soluzione di questo possono ricevere la linfa vitale ed animatrice di cui abbisognano, o almeno il canale indispensabile per tale linfa».[5]

 

Il comunitarismo cattolico di Demaria ha molti punti di contatti con i comunitaristi italiani e con gli studiosi che silenziosamente ricercano per fondare una nuova metafisica (Luca Grecchi, con la sua metafisica umanistica,[6] ne è un esempio) pone problemi che non possono essere elusi, perché sono l’urgenza della contemporaneità.

Salvatore Bravo

***

[1] Tommaso Demaria, Ontologia realistico-dinamica, vol. I, Ed. “Costruire”, Bologna 1975, p. 45.

[2] Ibidem, p. 60.

[3] Cfr. Costanzo Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente, Napoli 2006; Costanzo Preve, Lettera sull’umanesimo, Petite Plaisance, Pistoia 2012. Cfr. anche: Salvatore Bravo, L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve, Petite Plaisance, Pistoia 2019.

[4] Cfr. Salvatore Bravo, L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli, Petite Plaisance, Pistoia 2020.

[5] Tommaso Demaria, Ontologia realistico-dinamica, op. cit., pp. 19-20.

[6] Luca Grecchi, Compendio di metafisica umanistica, Petite Plaisance, Pistoia 2018.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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