Salvatore A. Bravo – L’uccisione della parola nella politica. L’inesausta sceneggiata «Di Maio/Salvini» dileggia, e rinnova, la tragedia di Aldo Moro

Aldo Moro e Salvini-Di Maio
Salvatore A. Bravo

L’uccisione della parola nella politica.
L’inesausta sceneggiata «Di Maio/Salvini» dileggia, e rinnova, la tragedia di Aldo Moro

 

Lo stato presente ha la sua verità nella signoria della merci. I tavoli ballano, affermava Marx, come se avessero vita propria, e tanto più signoreggiano i dominati quanto più il controllo del linguaggio, il suo declinarsi nella forma del calcolo o della chiacchiera erode spazi di significato della politica. Vi è comunità solo se vi è politica. Il fondamento, la casa della politica come della comunità, è il linguaggio. Si assiste al teatrino del nichilismo dei significati, ci si confronta sul nulla, fingendo di essere su posizioni politiche opposte pur governando assieme (cfr. l’inesausta sceneggiata tragicomica Di Maio-Salvini pre- e post- elettorale). In realtà non si tratta di manifestazioni politiche, ma del sintomo di una malattia endemica dovuta alla signoria del valore di scambio. L’attuale teatrino, ormai quotidiano, non è che l’espressione di un corpo infetto interno a relazioni pseudo-politiche segnate dai processi liberistici di mercificazione. Sono venute a mancare le parole-valori della politica, parole che fungono da catalizzatrici per i programmi politici. Tali parole sono scomparse dal linguaggio corrente. Al loro posto non vi è che la violenza della pancia, parole-insulti il cui fine è distogliere lo sguardo dalla razionalità dell’accadere per orientarlo verso la violenza, verso obiettivi secondari. Vi sono parole che l’ordine del discorso del turbocapitalismo, mette in circolazione per colonizzare l’immaginario al fine di anestetizzare i significati disfunzionali al sistema capitale.

La parola della politica, della comunità, parola che nessuno osa proferire, è giustizia. La filosofia politica dell’Occidente nella sua storia ha fatto della giustizia la pietra miliare della discussione politica. Giustizia è metron per i Greci: si pensi alla giustizia commutativa-regolatrice e distributiva in Aristotele (Etica Nicomachea, libro V). Nel Vangelo il miracolo dei pesci e dei pani, riportatato da tutti gli evangelisti, nell’interpretazione di Massimo Bontempelli e Costanzo Preve significa simbolicamente che se c’è giustizia, c’è razionalità e dunque equa distribuzione, per cui ce n’è per tutti. Gesù raccoglie gli avanzi della moltiplicazione, perché lo spreco è un lusso che offende con la sua ingiustizia chi vive nella penuria. Il miracolo è la giustizia.
La parola giustizia è così scomparsa, perché se fosse posta al centro tale parola, inevitabilmente si denuncerebbe lo stato attuale per l’ingiustizia che regna sovrana.
L’operazione di manipolazione-annichilimento si spinge oltre. La parola comunità è legata alla giustizia ed ai diritti sociali, per cui si ipostatizza l’individuo, si pone l’accento sui soli diritti individuali, per occultare la giustizia, fino ad arrivare ad affermare che la società non esiste (Margaret Thatcher), ma esiste solo l’individuo astratto. Pertanto la giustizia è possibile solo alla maniera di Trasimaco (Platone, Repubblica, libro I) come legge del più forte: l’individuo determina la “sua giustizia” a sua misura.

Giustizia e comunità internazionale
La giustizia non è flatus vocis. È sufficiente sporgersi oltre di pochi decenni per rendersi conto che era linguaggio comune della politica. La giustizia implica la comunità, se ne discuteva in relazione al progetto di comunità che si aveva. Aldo Moro ne è un esempio, rileggendo i suoi scritti ricorre, e non certo come inciampo, la parola giustizia, non solo per la comunità nazionale, ma anche internazionale. I conflitti sono l’effetto dell’assenza di giustizia, sono causati dalla violenza della legge del più forte:

«Viene in evidenza un altro, più importante e più durevole, motivo di crisi. È la volontà dei paesi in via di sviluppo, possessori di un così prezioso fattore condizionante dell’economia e, del resto, ricchi in generale di materie prime, di far pesare di più, per realizzare il proprio progresso, quello che è il loro peculiare apporto alla produzione dei beni dei quali il mondo ha bisogno crescente. Solo in questa luce si coglie la vera dimensione del fenomeno dinnanzi al quale ci troviamo e che rappresenta una svolta assai significativa nel confronto tra paesi ricchi e paesi poveri e, per essere realistici, nel confronto tra paesi ricchi, ma potenzialmente poveri, e paesi poveri, ma potenzialmente ricchi. Noi dobbiamo quindi essere consapevoli della nostra fragilità […]. Di fronte a queste cose bisogna collocarsi in una posizione di realismo e ragionevolezza. […] Si capisce che un più alto livello di giustizia internazionale costerà di più ai paesi industrializzati e condurrà a rallentare il loro progresso per consentire il progresso degli altri. Ma questo è un prezzo che si deve pagare, uscendo dalla fase retorica e passando alla fase politica dei rapporti con i paesi in via di sviluppo» (Relazione alla Commissione Esteri della Camera dei Deputati, 24 aprile 1974).

 

La giustizia nel cammino dei popoli
Nelle parole di Moro, a confronto d
elle quali il semplicismo dell’attuale pseudo-politica non è che primitivismo populistico, vi è la consapevolezza che la giustizia è complessità e storicità. Giustizia è sintesi degli interessi della comunità, è un’operazione di ascolto e mediazione, essa si incarna nella storia. La giustizia è in cammino con i popoli, vive nei popoli che gradualmente si risvegliano dai dogmatismi e dalle violenze ideologiche dei dominanti, per cui è necessario accompagnare tale risveglio aurorale con la politica, al fine di convogliare le energie migliori di tutti verso il logos. Essa esige la partecipazione dal basso, o il suo posto non può che essere preso dal dispotismo, dagli interessi di pochi che usano le parole come ceppi, come catene per soffocare il grido dei popoli:

«Vi sono certo dati sconcertanti di fronte ai quali chi abbia responsabilità decisive non può restare indifferente: la violenza talvolta, una confusione ad un tempo inquietante e paralizzante, il semplicismo scarsamente efficace di certe impostazioni sono sì un dato reale e anche preoccupante. Ma sono, tuttavia, un fatto, benché grave, di superficie. Nel profondo è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia. Di contro a sconcertanti e, forse, transitorie esperienze c’è quello che solo vale ed al quale bisogna inchinarsi, un modo nuovo di essere nella condizione umana. È l’affermazione di ogni persona, in ogni condizione sociale, dalla scuola al lavoro, in ogni luogo del nostro Paese, in ogni lontana e sconosciuta regione del mondo; è l’emergere di una legge di solidarietà, di eguaglianza, di rispetto di gran lunga più seria e cogente che non sia mai apparsa nel corso della storia. E, insieme con tutto questo ed anzi proprio per questo, si affaccia sulla scena del mondo l’idea che, al di là del cinismo opportunistico, ma, che dico, al di là della stessa prudenza e dello stesso realismo, una legge morale, tutta intera, senza compromessi, abbia infine a valere e dominare la politica, perché essa non sia ingiusta e neppure tiepida e tardiva, ma intensamente umana» (Discorso al Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, 21 novembre 1968).

Giustizia e libertà
Non vi è libertà senza giustizia. La giustizia è accompagnamento giuridico alla prassi dell’emancipazione, per cui se non si hanno mezzi materiali per porre in atto ciò che la legge in potenza consente è solo fictio iuris, una finzione ideologica per addomesticare i dominati. La giustizia è così libertà solo se si integrano il piano formale e sostanziale, prevede un ordito di provvedimenti dalla formazione, al lavoro, alla sanità che rendono prassi la libertà e la giustizia. La libertà è giustizia se la persona, il lavoratore è posto al centro della comunità come persona, non ha solo braccia ed intelletto per la produzione, ma è persona nella sua complessità dinamica che esige che l’economia sia per la persona:

«Il regime di libertà, per dispiegarsi in tutta la sua ricchezza e fecondità, ha bisogno di una autorità democratica, di strumenti efficaci realizzatori di giustizia. È giusto dunque temere per lo Stato democratico, dubitare che esso non riesca ad essere uno strumento aperto, flessibile, ma istituzionalmente capace di dare alla libertà tutto il suo spazio. L’equilibrio tra le crescenti libertà della società moderna ed il potere necessario all’ordine collettivo è fra i più grandi, se non il più grande problema della nostra epoca. […] Queste cose nuove certo emergono non senza contrasti, non senza difficoltà, non senza eccessi, non senza momentanei squilibri. Ma è questo il compito della nostra epoca. Il tema dei diritti è centrale nella nostra dialettica politica. Di fronte a questa fioritura la politica deve essere conscia del proprio limite, pronta a piegarsi su questa nuova realtà, che le toglie la rigidezza della ragione di Stato, per darle il respiro della ragione dell’uomo» (Discorso al XIII Congresso della Democrazia Cristiana, Roma, 20 marzo 1976).

Giustizia e storia
Giustizia non è rendere ipostasi il presente, chiudere la storia in un sepolcro di sole merci, per scoraggiare ogni iniziativa al suono delle parole “Non c’è alternativa”(Angela Dorothea Merkel). Se non c’è alternativa, se il presente è tutto, allora la politica non ha senso, è solo finzione, l’epifenomeno dell’economia liberista. La giustizia, invece, è dialettica, pensiero che apre nuovi scenari per allargare la sfera e l’orizzonte di consapevolezza. La giustizia è dunque trasformazione che, mentre si attua nella storia, ha la chiarezza del proprio fondamento. È in cammino, e nel suo concretizzarsi storico incontra nuove variabili per confrontarsi con esse, non rimuove la storia nel suo farsi, ma si impegna in un continuo confronto con il presente:

«Siamo dunque impegnati, sotto la pressione di una società trasformata nel profondo, in continua evoluzione ed estremamente esigente, ad una grande opera di liberazione dell’uomo e di giustizia. Un’opera difficile, perché gli obiettivi vengono spostati più innanzi, rendendo qualche volta disagevole il moto di progresso che si va, mano a mano, realizzando. Ma il contenuto rinnovatore di questa politica, secondo un preciso ed indeclinabile intento, è fuori discussione. Corrispondere alle esigenze della società con più giusti ordinamenti, dimostrare che le istituzioni sono capaci di ricevere ed incanalare le aspirazioni popolari, effettuare il raccordo, in termini di comune consapevolezza e di comune responsabilità, tra il vertice e la base del potere, stabilire costantemente un equilibrio politico non statico, ma dinamico, significa assicurare la stabilità del regime democratico» (Discorso a un Convegno della Democrazia Cristiana, Milano, 3 giugno 1969).

La giustizia è per le cose che nascono. È facile, dinanzi al nuovo che ci minaccia, patteggiare per il passato che con i suoi confini netti ci rassicura. Giustizia vi è soltanto in una comunità in cui dinanzi alla paura del nuovo non si reagisce con la paura, ma si affronta il tutto con la parola, con il logos, con la partecipazione dal basso:

«Se noi vogliamo essere ancora presenti, ebbene dobbiamo essere per le cose che nascono, anche se hanno contorni incerti, e non per le cose che muoiono, anche se vistose e in apparenza utilissime» (Discorso all’XI Congresso della Democrazia Cristiana, Roma, 29 giugno 1969)

 

Avvenire e giustizia
Non giudico l’operato di Moro, o la sua coerenza, ma le sue parole. Lo spessore dei suoi interventi, ci dovrebbe indurre a pensare l’abisso relativistico in cui siamo e l’anonimato individualistico che sa utilizzare tutto per fini privati decretando la morte di ogni avvenire. L’urgenza è l’avvenire, senza giustizia non vi è che un futuro di conflitti, che nega l’umanesimo comunitario in nome di un astratto individualismo che ha sostituito la giustizia con l’integralismo economico funzionale a conservare i privilegi di pochi contro la maggioranza sempre più confusa ed afflitta dalla violenza ideologica dei nostri giorni. Vorrei concludere con le parole di Moro che unisce giustizia, libertà e responsabilità verso il futuro, in un trittico valoriale permanente, oggi da ricostruire prendendo le mosse dalla consapevolezza della sua assenza nel nostro contesto sociale:

«Ebbene, siamo qui provenienti da una lunga ed utile esperienza democratica […], siamo qui ancor oggi, non per fare delle piccole cose, non per puntellare condizioni logorate, non per provvedere all’amministrazione del passato, ma, nella salvaguardia dei valori permanenti ed essenziali della nostra tradizione e della nostra civiltà, per lavorare con tutte le nostre forze per un nuovo, più giusto, più umano assetto della nostra società. Siamo qui insomma per l’avvenire» (Discorso al Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, 29 luglio 1963)



Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.

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La gioventù chinata sulle macchine
muore prima del suo tempo.

La fabbrica cattura le loro lacrime
prima che abbiano la possibilità di cadere

Ho ingoiato il trambusto e l’indigenza
ingoiato ponti pedonali, vita coperta di ruggine.
Salari negati con vari pretesti
come l’amore, che i giovani operai seppelliscono
nel fondo dei cuori.
Senza il tempo per esprimersi,
il sentimento si sgretola in polvere.


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Fernanda Mazzoli, La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto


«Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita»:[1] con questa lapidaria sentenza, Paul Nizan iniziava il racconto della sua fuga dall’Europa del primo dopoguerra verso un vagheggiato ed immaginario paradiso orientale. Non so se Xu Lizhi conoscesse Nizan; probabilmente no, ma avrebbe quasi certamente sottoscritto la sua perentoria affermazione. Infatti, i suoi vent’anni si sono consumati in fretta nell’inferno della Foxconn, la più grande multinazionale al mondo di assemblaggio di componenti elettronici, il cui modello produttivo è caratterizzato, oltre che dall’elevato livello di sfruttamento, dall’incorporazione della vita privata dei dipendenti nello spazio lavorativo stesso, in una riuscita combinazione di taylorismo, fordismo e toyotismo. La protesta di Xu Lizhi contro un’esistenza divenuta insostenibile, divorata da un inesorabile meccanismo predatorio, ha preso il vicolo cieco del suicidio. A ventiquattro anni, la forza di continuare «la lotta incessante» lo ha abbandonato e ha scelto di rifugiarsi in un’oscurità senza ritorno.

Vorrei alzarmi più di chiunque altro
ma le mie gambe non mi reggeranno.
Il mio stomaco non reggerà,
tutte le ossa del mio corpo non collaboreranno.
Posso solo rimanere steso
In questa oscurità, inviando
un silenzioso segnale di pericolo, ancora e ancora
solo per sentire, ancora e ancora
l’eco della disperazione.[2]

Nessuno, apparentemente, ha risposto al segnale lanciato: non i compagni di lavoro, tesi allo spasimo come lui a reggere ritmi di lavoro intollerabili , privati del tempo minimo necessario per parlare e ascoltare, assorbiti nel ciclo ininterrotto fabbrica (12 ore al giorno in media) e dormitorio dove recuperare nel sonno le energie utili per riprendere la produzione, isolati gli uni dagli altri, secondo un rigido sistema di controllo che prevede che persone provenienti dalla stessa regione non possano lavorare alla stessa catena di montaggio; non il sindacato sostanzialmente assente, non le autorità cinesi che solo un’ondata di suicidi di operai registratasi tra 2010 e 2011 (Xu si è ucciso nel 2014) ha spinto a costituire un gruppo d’indagine per la soluzione dei casi.[3]
Né c’è da stupirsene, se si considera che la Foxconn ha potuto contare sul sostegno del governo cinese, interessato a rafforzare l’industrializzazione nelle regioni centrali e occidentali del Paese.

Prima di dichiararsi sconfitto, Xu Lizhi ha lottato e lo ha fatto scrivendo, strappando un irriducibile spazio di libertà a questo moderno Leviatano, i cui spiriti animali lasciati liberi di espandersi , hanno compresso nella gabbia d’acciaio del regime di fabbrica la sua vita e quella di oltre un milione di uomini, in Cina – dove la multinazionale nata a Taiwan dispone di ben 32 stabilimenti – o nel resto del mondo (ivi compresi alcuni Paesi dell’Europa Orientale) dove conta 200 succursali, le condizioni di lavoro all’interno delle quali sono scarsamente documentate.

Quel poco che sappiamo di Xu, lo dobbiamo a lui stesso, a quella manciata di poesie cui ha consegnato quel che gli restava di vita, e di forza, segnale di una luce tenue ed invincibile fiammella di resistenza dell’umano nell’inferno di un capitalismo selvaggio, dove i demoni deputati a straziare i dannati hanno preso il volto asettico ed anonimo della macchina i cui potenti ingranaggi richiedono senza soluzione di continuità l’offerta sacrificale di forze fresche e interscambiabili.

Sono i lavoratori stessi a percepirsi in questi termini. Nel corso di una ricerca condotta all’interno delle fabbriche della Foxconn da un gruppo di ricercatori e studenti cinesi, alla domanda «Come vedi il tuo ruolo nella fabbrica?», un’operaia ha sintetizzato magistralmente la condizione sua e dei compagni, affermando: «Veniamo usati come mangime per le macchine».[4] E Mangime per le macchine è il titolo che l’Istituto Onorato Damien ha scelto di dare a una raccolta di poesie di Xu Lizhi, tradotte dall’inglese da Annamaria Lavecchia.[5]

Questo sconosciuto poeta operaio, questo ragazzo schiacciato dalla cieca necessità genuflessa alle leggi indiscutibili del profitto, della produttività e della competizione, ci viene incontro attraverso la grande distanza che ci separa da lui – spazio geografico e spazio esistenziale – con la sua parola, sobria, precisa, affilata come la lama del suo dolore. E lo vediamo nello scorrere dei suoi giorni, così diversi dai nostri da costringerci a squarciare il velo invisibile steso sopra il nostro habitat quotidiano.

Ed è davanti a noi

Alla catena di montaggio rigido come il ferro,
le mani che volano
quanti giorni, quante notti.
È proprio così che mi sono addormentato in piedi?[6]

E lo vediamo ingoiare «una luna fatta d’acciaio» e

queste acque di scolo industriali,
queste carte di disoccupazione
la gioventù chinata sulle macchine
muore prima del suo tempo.
Ho ingoiato il trambusto e l’indigenza
ingoiato ponti pedonali, vita coperta di ruggine.[7]

Lui e i suoi compagni, minuscole rotelle nel gran meccanismo della produzione trasformata in destino individuale e collettivo,

hanno stomaci forgiati nel ferro
pieni di acido denso, solforico e nitrico.
La fabbrica cattura le loro lacrime
prima che abbiano la possibilità di cadere

[…]

la piallatrice scortica la pelle
e mentre lo fa li ricopre di uno strato d’alluminio.[8]

La sua voce, facendosi largo miracolosamente attraverso l’oscurità di una vita incerta, facilmente rimpiazzata alla catena di montaggio da un’altra altrettanto anonima, e di una morte prontamente derubricata dalla direzione aziendale alla voce «suicidio per crollo psicologico», rende agli oggetti che popolano con apparente naturalità il nostro universo quotidiano tutto il loro peso di lacrime e sangue, di sfruttamento scientificamente programmato e di vite negate, affinché computer, smartphone, tablet e consimili feticci della modernità possano imporsi alla scelta del consumatore con un prezzo concorrenziale nel variopinto e luccicante baraccone del libero mercato.
Perché i soldatini del grande esercito che si muove sotto le pacifiche bandiere del Consumo possano permettersi uno smartphone con il quale deliziare i conoscenti con le amene foto del loro ultimo viaggio, o del loro ultimo paio di scarpe, o dell’ultimo figlio e possano ricevere in cambio le stesse gratificanti immagini, occorre che «quotidianamente ogni operaio e ogni operaia nella linea di produzione esegua dai 18000 ai 20000 movimenti per turno di lavoro».[9]
La velocità innanzitutto, già inglobata nel nome dell’azienda: si tratta di produrre prese (connector) con la rapidità di una volpe (fox). Come dicono alcuni dei lavoratori intervistati alla Foxconn: «Dobbiamo essere più macchine delle macchine stesse». E ancora: «Gli estranei dicono spesso che noi saremmo delle macchine. Sbagliato, noi non siamo macchine. Dobbiamo essere più veloci delle macchine».[10]

«Persino la macchina ciondola il capo / officine sigillate ammassano acciaio ammalato»,[11] annota Xu dal fondo dell’inferno che non risparmia niente e nessuno, vittima della sua stessa hybris che si fonda su un gigantesco sforzo di autosuperamento, per vincere la corsa nella grande sfida del mercato globale. Dove «il dolore fa gli straordinari giorno e notte» e l’uomo è un prolungamento della macchina ai fini della sua migliore efficienza, i più si perdono, nello sfinimento, nella malattia, nel silenzio.

Xu, prima di arrendersi, affida a qualche foglietto la vita che non può fare a meno di scorrere in lui, anche nella sua stessa negazione.

Salari negati con vari pretesti
come l’amore, che i giovani operai seppelliscono
nel fondo dei cuori.
Senza il tempo per esprimersi,
il sentimento si sgretola in polvere.[12]

Lui, «addestrato ad essere docile», incapace di trovare il grido della rivolta e della denuncia, per non diventare cosa o materiale organico per le macchine, si aggrappa a una carta ingiallita e a un pennino.

La carta davanti ai miei occhi ingiallisce
con un pennino d’acciaio la incido di un nero irregolare pieno di parole
come officina, catena di montaggio,
macchina, libretto di lavoro, straordinari, salari [13]

 

Ritrova se stesso solo al di fuori di questo spazio claustrofobico, nello squarcio dell’evocazione di un nonno mai conosciuto – se non attraverso i racconti dei vecchi del suo paese – nel quale egli sembra, a loro dire, rivivere.

Quasi provenissimo dallo stesso grembo
mio nonno ed io abbiamo in comune
l’espressione del viso, il temperamento, le passioni.[14]

Dietro il giovane operaio del distretto industriale del Guangdong, si disegnano una comunità di villaggio e una famiglia, con le sue storie che si intrecciano con la Storia.

Nell’autunno del 1943
I diavoli giapponesi ci invasero
e lo bruciarono vivo.
Aveva 23 anni,
quest’anno anche io compio 23 anni.

 

Xu Lizhi era un operaio migrante, uno dei tanti ragazzi[15] spinti da un’economia agraria poco redditizia ad abbandonare il villaggio d’origine per cercarsi un lavoro più promettente e finiti nell’ingranaggio della fabbrica-caserma e del dormitorio annesso.

Uno spazio di dieci metri quadri
ristretto e umido,
mai luce del sole tutto l’anno.

[…]

Ogni volta che apro la finestra o il cancello di vimini
somiglio a un uomo morto che lentamente
tenta di sollevare il coperchio di una bara. [16]

 

Il ragazzo, che la fabbrica globale non ha interamente assoggettato al suo angusto orizzonte, vorrebbe guardare ancora una volta l’oceano, scalare le montagne, toccare il cielo, riprendersi l’anima che ha perso. Sopraffatto dal sentimento della sua impotenza e della sua solitudine, volta le spalle a un mondo al quale non vuole adattarsi ,ma contro il quale non riesce a ribellarsi e «salta»[17], cogliendo con scarne parole, agghiaccianti proprio in virtù del loro tono pacato, il senso della sua vita mancata e della sua morte prematura.

Chiunque abbia sentito parlare di me
non si sorprenda del mio abbandono
tanto meno sospiri o soffra.
Come in punta di piedi sono arrivato così me ne andrò. [18]

 
Uno dei tanti che non ce l’ha fatta, una vita di scarto che non merita l’attenzione dei cantori della Cina «della Nuova Era», un numero da annoverare in qualche statistica relativa ai costi umani del «miracolo cinese». E Xu lo sapeva, aveva intravisto con lucido sguardo scorrere alla catena di montaggio le vite in serie degli operai, consumate dall’insignificanza e dall’irrilevanza, oltre che dallo spossamento.

In questa notte oscura di straordinario
cadendo in verticale,
tintinnando leggermente
una vite è caduta a terra.
Non attirerà l’attenzione di nessuno.
Proprio come l’ultima volta in cui
in una notte come questa qualcuno crollò a terra.[19]

Xu Lizhi, però, oltre ad assemblare, lucidare o saldare pezzi di metallo, maneggiava anche parole, torniva versi, incideva poesie nella sua stanza di dieci metri quadri ,

sotto la cupa luce giallognola, ridacchiando come un idiota
cammino avanti e indietro
canticchio, leggo, scrivo poesie.[20]

 

La celletta del dormitorio concessa allo schiavo dalla direzione per la necessaria riproduzione della forza-lavoro non ha pareti così spesse che non possa soffiarvi l’indomito spiritello della libertà. Uno spiritello in forma di parole che Xu ha lasciato dietro di sè, parole chiare come la coscienza che ebbe della sua condizione, elementari come il respiro che avrebbe voluto avere e gli fu negato, radicali come l’enormità di ciò che ha vissuto, pregne di una vita che cerca se stessa, capaci, finalmente, di fare della sua morte «in punta di piedi» un macigno che si può certo aggirare, ma non ignorare.
E questo macigno ci costringe a fermarci e a rigirarci tra le mani alcune pietruzze scheggiate, messesi di traverso sulla nostra strada: l’altra faccia del benessere e del progresso, la riduzione dell’uomo a «capitale umano» per la valorizzazione del capitale tout court – quello seduttivo della società dei consumi e quello selvaggio dell’accumulazione primaria –,[21] il rapporto distorto tra macchina e uomo nel quadro di un’economia basata sul profitto, l’incubo in agguato dietro l’esaltazione dello sviluppo delle forze produttive,[22] la reificazione dell’esistenza che minaccia l’homo oeconomicus. E il nucleo duro, irriducibile, sovrano della parola che si sottrae al potere, scava gallerie sotto l’edificio della menzogna, attraversa distanze che si pensavano incolmabili e diventa plurale, nel farsi comunità.

Un’altra vite si allenta un altro fratello, operaio migrante, se ne va
Tu muori al mio posto ed io, in vece tua, continuo a scrivere
Mentre lo faccio, stringo più forte le viti.[23]

Fernanda Mazzoli

Note

[1]                P. Nizan, Aden Arabia, La Découverte/Poche, Paris, 2002.
[2]                Il tragitto della mia vita è lungi ancora dall’essere compiuto, in Xu Lizhi, Mangime per le macchine, Ed. Istituto Onorato Damien, Catanzaro 2015.
[3]                Tutte le informazioni relative alla Foxconn e alle condizioni di lavoro vigenti nelle sue fabbriche dislocate in Cina e non solo sono tratte da P. Ngai, L. Huilin, G. Yuhua, S. Yuan, Nella fabbrica globale. Vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn, Ombre corte, Verona 2015.
[4]                Ivi, p. 40.
[5]                Le poesie sono state rintracciate dalle curatrici del volumetto sul blog https:libcom.org/bolg/xulizhi-foxconn-sicide-poetry.
[6]                Da Mi addormento proprio così, in piedi.
[7]                Da Ho ingoiato una luna fatta d’acciaio.
[8]                Da L’ultimo cimitero.
[9]                P. Ngai, L. Huilin, G. Yuhua, S. Yuan, Nella fabbrica globale, op. cit., p. 49.
[10]               Ivi, pp. 40, 135.
[11]               Da L’ultimo cimitero.
[12]               Ivi.
[13]               Da Mi addormento, proprio così, in piedi.
[14]               Da Una sorta di profezia.
[15]               Le migrazioni interne nell’ultimo quarto di secolo registrano l’esodo dalle campagne verso i centri industriali di circa 250 milioni di persone, movimento che ha sostenuto il travolgente sviluppo economico cinese.
[16]               Da Camera in affitto.
[17]               I media definirono l’ondata di suicidi nei laboratori della multinazionale «serie di salti».
[18]               Da Sul letto di morte.
[19]               Da Una vite è caduta a terra.
[20]               Da Camera in affitto.
[21]               Molto opportunamente, Renata Marvaso, nell’introduzione a Mangime per le macchine, op. cit., p. 4, accosta la fabbrica globale della Foxconn alla città indusiale di Coketown, descritta da Dickens in Tempi difficili, non mancando di sottolineare, però, che nella prima lo sfruttamento della forza lavoro ha subito un’ulteriore accelerazione.
[22]               È a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, che il Partito comunista cinese, guidato da Deng Xiao Ping, ha aperto la porta agli investimenti diretti stranieri e ha istituito le Zone economiche speciali, avallando l’utilizzo di metodi neo-tayloristici nelle fabbriche: taglio dei tempi, addestramento obbligatorio per eliminare «i movimenti inutili», divieto di parlare, mangiare e bere lungo le linee, introduzione di multe e cottimi; nel 1982, sono aboliti nei luoghi di alvoro, con emendamenti costituzionali, la libertà di parola, di opinione, di pubblicazione di manifesti e di sciopero. Contemporaneamente, si assiste a progressive differenziazioni salariali e alla verticalizzazione delle decisioni. Data dagli anni Novanta la massiccia privatizzazione di imprese statali, con relativi licenziamenti di milioni di lavoratori. La Foxconn è una delle aziende che ha maggiormente approfittato di questa intensa mobilitazione produttiva. Cfr. la prefazione di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto a Nella fabbrica globale, op. cit., pp. 12-13.
[23]               Mangime per le macchine si conclude con questo componimento (Udendo al notizia del suicidio di Xu Lizhi) di Zhou Qizao, collega di lavoro alla Foxconn di Xu Lizhi, da cui abbiamo stralciato alcuni versi.


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Fernanda Mazzoli – Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.

Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.

Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.

Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.

Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.



Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.

Fernanda Mazzoli04

Dai muri della città dove abito, i manifesti pubblicitari di una delle maggiori catene della grande distribuzione (che si richiama, peraltro, a valori solidaristici) ammoniscono i passanti che «Siamo quello che scegliamo». A chiarimento della scelta in questione, campeggiano i primi piani di persone di diversa età che covano con sguardo fra l’affettuoso e l’orgoglioso chi un vasetto di marmellata (naturalmente biologica), chi uno spazzolino da denti, chi una confezione di caffé macinato. Così, la straordinaria stratificazione architettonica, paesaggistica, storica e culturale di questa piccola e bellissima città si appiattisce improvvisamente nel piano liscio dove a scorrere sono solo le merci, prodigiosamente inesauribili, tutte diverse nella loro sollecitazione alla scelta, tutte interscambiabili nell’indistinto della bulimia dei consumi. Questo piano liscio nutre una nuova antropologia, in cui l’uomo è dato dalla sua relazione con le merci e la libertà – quella libertà senza la quale l’esistenza perde senso e valore – diventa libertà di scegliere il prodotto più confacente alle proprie esigenze.

Salvatore A. Bravo

L’albero filosofico del Ténéré.

Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve

Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt)
al fondamento veritativo in Costanzo Preve

indicepresentazioneautoresintesi

L’uomo – questo essere su cui la natura e la storia hanno inciso segni tanto profondi quanto quelli che da lui hanno ricevuto – si risolve in un consumatore, responsabile e soddisfatto della nuova leggerezza acquisita: il necessario fardello del suo rapporto con se stesso e con il mondo ha ridotto le sue dimensioni a quelle di un carrello del supermercato.

La centralità della merce è religione che non ammette devoti tiepidi: avendo da tempo travalicato gli argini della sfera economica, ha finito per modellare comportamenti sociali e condotte individuali, per riorientare la percezione che si ha di sè e del mondo, per plasmare menti e corpi, pensieri e sentimenti.

La campagna pubblicitaria sopracitata è un caso da manuale di quelle «identità costruite dal e per il marketing», destinate a naufragare «nei desideri del mercato», che si aggirano nel deserto su cui si appunta lo sguardo lucido di Salvatore A. Bravo nel suo ultimo libro, pubblicato da Petite Plaisance, L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (in Nietzche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve. La traversata del deserto è impresa ambiziosa, urgente e rischiosa e richiede il coraggio intellettuale di un riorientamento radicale, capace di guardare negli occhi il nichilismo penetrato nella profondità del corpo sociale e di tagliare il nodo gordiano di appartenenze ideologiche che, incapaci di prendere atto delle nuove realtà storiche e di mettere in discussione schemi interpretativi e filosofici accettati fideisticamente, finiscono per legittimare e rafforzare il nichilismo dominante, con il quale condividono l’economicismo di fondo.

Per potere tentare la traversata, occorre innanzitutto sapere riconoscere l’aridità e la piattezza del deserto sotto le linee frastagliate e seducenti del paesaggio nel quale siamo immersi, occorre lacerare il velo delle illusioni – la promessa della felicità nella soddisfazione illimitata dei desideri e nella disponibilità di beni sempre nuovi – che coprono le sabbie mobili del ciclo produzione-consumo, assurto ad orizzonte esclusivo dell’esistenza. Occorre strappare l’esistenza dal hic et nunc di un presente senza storia, da cui l’universo delle merci trae motivo di legittimità, proclamando la propria naturalità e la propria intrascendibilità. Si disegna, così, una situazione paradossale che vede da un lato l’individuo sollecitato dall’ampio ventaglio della scelta e dall’altro, ridotto ad uno stato di impotenza sociale e di asservimento non dichiarato, in quanto la cornice entro la quale si muove vanta la pretesa totalizzante di essere la sola possibile.

Onnipotenza astratta e concreta impotenza, secondo la felice espressione di Lukàcs, sono le pareti della gabbia d’acciaio che delimita il perimetro entro il quale il soggetto può muoversi. Ecco allora imporsi la legge del nulla, all’insegna di una omologazione dove la speranza – tensione verso il possibile – piange disfatta e l’angoscia regna, come nel celebre sonetto di Baudelaire.[1] Il processo di naturalizzazione è andato così avanti, che è presumibile che la speranza non riconosca nemmeno la propria sconfitta, in quanto è scomparsa dall’orizzonte e, nel migliore dei casi, ride sguaiatamente, compiacendosi con spavalderia fintamente trasgressiva nel e del nulla.

L’immagine del deserto come metafora del nichilismo è stata coltivata da filosofi di grande notorietà – e con seguito accademico – come Nietzche e la Arendt che hanno lucidamente individuato una serie di dispositivi – termine che rinvia ad una presunta neutralità della tecnica – che hanno schiavizzato gli uomini, annullato l’individuo come lusso inutile, a vantaggio della massificazione burocratica ed economica, finendo per aprire la strada ad una nuova umanità privata della corrente calda della vita. Essi hanno denunciato efficacemente la desertificazione del pensiero, minacciato da macchinismo e totalitarismo e invocato la necessità dell’oasi. La Arendt la cerca in quegli ambiti della vita che esistono, in parte o in tutto, indipendentemente dalle condizioni politiche: l’isolamento dell’artista, la solitudine del filosofo, le relazioni affettive. La loro analisi, pur capace di cogliere aspetti importanti dell’alienazione che minaccia la condizione umana, resta interna al nichilismo, perché – osserva Salvatore Bravo – rinuncia al «fondamento veritativo della Filosofia».[2]

Né è superfluo ricordare, a tal proposito, che Nietzche teorizza l’esperienza elitaria del nichilismo attivo. L’oasi della Arendt assume nel testo di Salvatore A. Bravo la forma dell’Albero del Ténéré, un’acacia che, unica pianta per centinaia di chilometri tutt’intorno, in questa regione desertica del Sahara, a nordovest del Niger, costituiva per le carovane di cammelli il punto di riferimento obbligato. Guida per orientarsi e simbolo di vita – quasi miracolosa nella sua unicità – nella gran distesa uniforme di sabbia, l’Albero del Ténéré consentiva quella pausa necessaria per riprendere respiro e raccogliersi prima di continuare il cammino. Il sollievo momentaneo dell’oasi, infatti, non basta a Salvatore Bravo: è alla traversata, all’esodo dal deserto che egli ci invita. Impresa pericolosa, si diceva, tale da richiedere bussola e sguardo lungo e consapevolezza della fatica che attende il viaggiatore.

La bussola è offerta dal discorso filosofico di Costanzo Preve, uno dei pochi filosofi contemporanei che abbia avuto il coraggio di rilegittimare il valore veritativo della Filosofia e di rifiutarne la riduzione a semplice dossografia, elenco di opinioni e dottrine. Ha pagato questa scelta controcorrente con l’esclusione dai salotti buoni della filosofia, per i quali la ricerca del fondamento veritativo o è eluso, o si ritrova addirittura ad essere derubricato alla voce “totalitarismo”. E invece, l’approccio filosofico di Preve risponde proprio alla necessità di indagare la natura dei totalitarismi che l’opera di Arendt e Nietzche occultano più che rendere palese, afferrandone le manifestazioni epidermiche più che l’intima natura. La rimozione degli aspetti totalitari presenti massicciamente nel modo di produzione capitalistico rende innocua la loro critica che, non poggiando su un rigoroso fondamento, non può nemmeno offrire gli strumenti per osare la traversata.
Costanzo Preve – e Salvatore Bravo che, con la sua riflessione filosofica, intende continuare il percorso da lui aperto – fa dell’intrinseco rapporto fra capitalismo e nichilismo la chiave di lettura del fenomeno. La quantificazione della vita, la quale ha subíto una decisa accelerazione nella globalizzazione liberista che ha sancito l’affermarsi del capitalismo assoluto – sciolto da qualsiasi limite –, ha ridotto i vissuti a cose e spezzato i vincoli comunitari, fino a fare di ogni individuo un atomo Robinson ritirato dal mondo e ripiegato su se stesso e dell’alienazione la normalità. Se il deserto è rinuncia al pensiero, riduzione dell’umanità al dato biologico e alla corsa verso l’accumulazione di beni, spetta alla Filosofia il compito di restituire il soggetto alla storia e alla propria umanità. Un compito arduo che la Filosofia può assolvere, solamente ponendosi come «scienza del fondamento, portatrice di verità condivise attraverso il dialogo».[3]

Solo il fondamento può ricondurre il molteplice all’unità, superare le scissioni per ritrovare la totalità, ristabilire gerarchie di valore e suscitare un giudizio responsabile: si crea così il presupposto per potere comprendere il nostro presente. Nel disordine e nell’omologazione si installano nichilismo e relativismo, il deserto si estende, le piste che conducono verso l’uscita vengono cancellate dai mulinelli di sabbia e le carovane sono sviate da rutilanti miraggi che mostrano un’oasi dove c’è solo un’altra duna, uguale alle precedenti. I punti di riferimento da rielaborare per definire tale fondamento, ovvero la verità oggettiva dell’essere umano mediata dall’esperienza storica, sono rappresentati per Preve dal mondo greco, da Marx, Hegel e Sorel. Nel dialogo creativo con questi autori, prende forma la connotazione della natura umana come razionale-comunitaria e generica. È razionale e valutativa, perché capace di determinare le giuste proporzioni per salvaguardare se stessa e la comunità; è generica, perché aperta sulla possibilità di determinare storicamente la propria natura. Può, dunque, perdersi nell’alienazione, qualora non riesca ad opporsi alle pressioni ed ai condizionamenti del potere, così come può affermare le proprie potenzialità. Perché ciò avvenga, è necessario un intreccio con la comunità, con la parola comunitaria. In questa individuazione della natura umana intervengono tre concetti fondamentali, strettamente legati: logos, limite, misura.
Costanzo Preve recupera il significato originario della parola logos come calcolo del limite, di ciò che è necessario, contro la dispersione e l’estraniazione causate dall’eccesso, dalla crematistica (dal greco chrèmata, ricchezze) che indeboliscono il soggetto. La coscienza deve, con il logos, calcolare il limite, calcolo reso necessario dalla natura limitata dell’essere umano, destinato a morire e bisognoso di una comunità per sopravvivere.
La parola métron (misura) non ha in Preve la connotazione datale poi dalla rivoluzione scientifica, ma, piuttosto, una declinazione sociale, è equilibrio dell’assetto sociale , calcolato dal logos. Non sfugga la portata di un approccio teoretico impostato sulla centralità della natura umana per la costruzione di una fondata e coerente prassi anticapitalistica. I nuovi riduzionismi, che nelle neuroscienze trovano un modello trionfante, apportatore di utili suggerimenti utilizzabili anche dal marketing, rappresentano l’uomo come un essere plasticamente determinabile, riconducibile ad un meccanismo stimolo-risposta, alimentando l’idea che la natura umana sia infinitamente manipolabile.


La possibilità, categoria di primaria importanza nella caratterizzazione data da Preve, si trova ad essere esclusa e, con essa, qualsiasi alterità rispetto al sistema dei rapporti sociali dominanti. Né è da trascurare, a giudizio dello scrivente, l’impatto devastante che prossimamente potrebbe avere un’ideologia come il transumanesimo che fa del superamento degli stessi limiti biologici dell’essere umano, “potenziato” dalle macchine con cui entra in simbiosi fisica, la propria cifra, ultimo approdo di una hybris i cui tratti distintivi di negazione del limite e di infinita flesibilità e adattabilità dell’essere umano, nell’ottica dell’efficienza e della performatività, rispondono appieno al cattivo infinito sotteso alla logica del capitale, per il quale l’uomo deve essere tabula rasa su cui scrivere in assoluta libertà, realtà sensoriale da soddisfare, innanzitutto attraverso il baratto. Il capitalismo ha vinto – per ora – la partita, puntando tutto sulla quantità infinitamente in espansione, sull’illimitato di desideri potenzialmente inesauribili da soddisfare, ma ha eluso e mortificato la domanda di senso che è costitutiva dell’uomo.
La ricerca di Costanzo Preve ha avuto il grande merito di porre al centro della riflessione filosofica questa domanda e di fornire gli strumenti teoretici per risposte non semplici e non subordinate al paradigma dominante, all’altezza della sfida posta dalla condizione umana nell’epoca del capitalismo assoluto. L’esodo dal deserto ha bisogno di durevole passione filosofica, di caparbia intelligenza critica, capaci di squarciare il velo delle illusioni e di pensare un «cambio di prospettiva». Un cambio di prospettiva che si intreccia strettamente con il concetto di “comunità”, articolazione fondamentale nel pensiero di Preve e al quale l’autore del saggio dedica pagine illuminanti. Da Aristotele, come già si è detto, Preve mutua il concetto di “essere umano” come “zoon logon echon”, animale razionale. Il logos (di cui logon è l’accusativo) è nodo di straordinaria densità concettuale: rinvia sia al «linguaggio come strumento di convincimento razionale comunitario», sia alla «ragione universalmente diffusa in tutti gli uomini», sia «al calcolo geometrico applicato alla giusta distribuzione del potere e delle ricchezze»,[4] unico argine al dilagare della prepotenza del singolo e del caos. La democrazia comunitaria, in cui il dialogo (dia-logos) garantisce la comunicazione e vigila sul mantenimento del limite, consente agli esseri umani di ritrovare la loro natura e di porla a sostanza della comunità stessa.[5]

È a partire da questo ideale regolativo che Preve ripensa il comunismo: la comunità vive nel trascendimento delle divisioni sociali, ma anche per evitare il tragico fallimento del comunismo novecentesco realizzato (cui il filosofo riconosce, comunque, numerosi meriti nella lotta all’imperialismo e nell’impulso dato ai diritti sociali) deve mantenere la tensione tra individuo e comunità, e sottrarsi alla tentazione della fusione i cui esiti non possono che essere distopici. Salvatore Bravo sottolinea come il comunitarismo previano recuperi la radicalità della libertà nel pensiero di Marx, in cui la Storia diventa l’incontro tra le scelte degli uomini e le circostanze storiche. Lo sguardo lucido e privo di compiacimento che Preve getta sulle esperienze rivoluzionarie del Novecento, viziate dall’economicismo e sfociate in dominio burocratico che ha costretto gli uomini nella stessa passività e solitudine del capitalismo,[6] non inficia la grandezza e la necessità – oggi più che mai – di una lotta per una comunità senza oppressione, condizione sine qua non perché fioriscano le potenzialità di ciascuno. Dunque, il pensiero di Preve orienta verso l’esodo dal deserto, rimettendo in azione il motore della storia di cui molti avevano decretato il funerale, a tutto vantaggio di un intrascendibile presente, e lo fa radicandosi in una lunga tradizione filosofica che egli rilegge liberamente, all’insegna della pratica comunitaria della filosofia inaugurata da Socrate.
La Filosofia è, infatti, dialogo, è logos che diventa comunitario. Il saggio di Salvatore Bravo evidenzia come l’esperienza culturale, nonché la vita di Preve, siano la dimostrazione che l’incontro tra l’io e il noi costituisce la condizione imprescindibile per l’esistenza stessa della Filosofia, e di una filosofia che, attraverso la catena dei perché, divenga atto emancipativo dalla falsa coscienza, dall’ideologia che piega le coscienze all’ obbedienza e all’adattamento. Essa fonda l’universalismo umanistico, dimostrando il fondamento ontologico comune dell’umanità e, a partire da esso, fonda la resistenza ai processi di alienazione e la possibilità di una prassi coerente con il contesto storico. Il testo di Bravo è una sorta di commento “esemplare” – costruito con passione dialogante e rigore argomentativo – della concezione dello studioso di filosofia antica Pierre Hadot, secondo la quale si tratta di dimostrare «che il discorso filosofico fa parte del modo di vivere» e «che la scelta di vita del filosofo ne determina il discorso».[7]

È, questo, un libro non per “esperti” della disciplina filosofica, (che, comunque, vi troverebbero non pochi fondamentali elementi di riflessione e confronto) ma, innanzitutto, per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo, laddove tutte le posizioni sembrano occupate dai poteri forti dell’economia e dalle costellazioni ideologiche che intorno ad essi ruotano.

Fernanda Mazzoli

***
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Note

[1] Charles Baudelaire, Les fleurs du mal, Spleen.

«Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que de l'horizon embrassant tout le cercle
Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits;
Quand la terre est changée en un cachot humide,
Où l'Espérance, comme une chauve-souris,
S'en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris;
Quand la pluie étalant ses immenses traînées
D'une vaste prison imite les barreaux,
Et qu'un peuple muet d'infâmes araignées
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,
Des cloches tout à coup sautent avec furie
Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,
Ainsi que des esprits errants et sans patrie
Qui se mettent à geindre opiniâtrément.

- Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon âme; l'Espoir,
Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique,
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir».




«Quando, come un coperchio, il cielo basso e greve
schiaccia l'anima che geme nel suo tedio infinito,
e in un unico cerchio stringendo l'orizzonte
fa del giorno una tristezza più nera della notte;

quando la terra si muta in umida cella segreta
dove, timido pipistrello, la Speranza
sbatte le ali contro i muri e batte con la testa
nel soffitto marcito;

quando le strisce immense della pioggia
sembrano le inferriate d'una vasta prigione
e muto, ripugnante un popolo di ragni
dentro i nostri cervelli dispone le sue reti,

furiose a un tratto esplodono campane
e un urlo tremendo lanciano verso il cielo,
così simile al gemere ostinato
di anime senza pace, né dimora.


- Senza tamburi, senza musica, sfilano funerali
a lungo, lentamente, nel mio cuore: la Speranza,
Vinta, piange, e l'Angoscia atroce, dispotica,
pianta, nel mio cranio riverso, il suo vessillo nero».

[2] S. Bravo, op. cit., p. 14.

[3] Ivi, p. 123.

[4] Ivi, pp. 114-115.

[5] Si pone in antitesi, pertanto, alla democrazia formale, le cui procedure sono finalizzate alla riproduzione del potere. Il rito di una democrazia non autentica si consuma stancamente, si rivela essere un’ «atomistica delle solitudini», espressione, fra le altre, di disgregazione nichilistica.

[6] Preve rifiuta categoricamente la lettura liberale del comunismo novecentesco come semplice totalitarismo.

[7] Per la citazione completa di P. Hadot, cfr. Ivi, p. 106.

 


Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.

Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli

Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.

Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.

Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.

Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.

Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».

Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.

Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.

Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.



Salvatore A. Bravo – L’antiumanesimo dell’alternanza scuola-lavoro.

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La verità del capitalismo assoluto
Il valore di scambio è la sostanza storica del capitalismo. In nome del valore di scambio – demofobico per necessità – il capitalismo addestra all’uguaglianza astratta mediante il valore di scambio. L’alternanza scuola lavoro (ASL) è una delle modalità con cui formare al valore di scambio; ovvero, attraverso l’addestramento al lavoro all’interno dell’istituzione scolastica si favorisce la cultura dell’astratto sottesa al valore di scambio. In tal modo si struttura la categoria della quantità: non è fondamentale la qualità del lavoro, ma il lavoro in sé, come modalità acquisitiva di un ruolo sociale e di un quantità di denaro finalizzata al consumo. La categoria dell’inclusione-gabbia d’acciaio opera fin all’interno della quotidianità scolastica per inibirne l’esodo. In questo frangente storico Marx ci è di aiuto per porre uno sguardo cognitivo nella caverna, sempre più simile ad un fondo di magazzino:

«Quello che particolarmente distingue il possessore di merce dalla merce, è il fatto che ogni altro corpo di merce si presenta alla merce stessa solo come forma fenomenica del suo proprio valore. Quindi la merce, cinica ed uguagliatrice dalla nascita, è sempre pronta a fare lo scambio a fare scambio non soltanto dell’anima ma anche del corpo come qualsiasi altra merce, fosse pur questa piena di aspetti sgraditi ancor più di Maritorne. Il possessore di merci con i suoi cinque e più sensi completa questa insensibilità della merce per la concretezza del corpo delle merci».[1]

L’opera al nero non potrebbe essere più chiara. Il valore di scambio è il paradigma all’interno del quale si devono leggere le riforme neoliberiste degli ultimi decenni. È necessario deviare lo sguardo cognitivo dalle parole della propaganda (buona scuola, via della seta, missione di pace, bombardamento umanitario, riqualificazione urbana) che occultano la verità, per trascendere la certezza sensibile e cogliere la verità del fenomeno storico.

Formare alla plebe
L’integralismo economicistico – nella sua corsa all’atomizzazione ed al consumo – rende i popoli consumatori, migranti, accelera le disuguaglianze e favorisce la conflittualità orizzontale. La plebe è consegnata alle variazioni del mercato, è così un pulviscolo incapace di comprendere i fenomeni in atto ed ipostatizza il presente. Il capitalismo assoluto sottrae, con il tempo storico, la possibilità di dare un senso al tempo e forma all’impotenza, la quale ha lo stesso valore paralizzante del terrore dei totalitarismi riconosciuti. Capitalismo assoluto e plebe coincidono: l’uno è la sostanza dell’altro. Il capitalismo può espandersi, disintegrare ogni legame sociale in nome del consumo, delle disuguaglianze, della assenza di ogni attività propositiva da parte dei popoli. Le plebi – vittime delle lobby del capitale – in assenza di consapevolezza, fruitrici del mito del benessere ad ogni costo, mito astratto, in assenza di consapevolezza delle conseguenze etiche ed ambientali dello sviluppo illimitato in nome della quantità senza qualità:

«Come abbiamo detto, chiamiamo ‘capitalismo assoluto’ questa fase dello sviluppo capitalistico, e questo meccanismo ha conseguenze distruttive. Il rapporto sociale capitalistico, quando diventa non solo il rapporto dominante, ma l’unico modello di rapporto sociale accettato, tende a dissolvere il legame sociale. Il legame sociale è infatti basato su una complessa rete di relazioni che toccano tutte le dimensioni della vita sociale e si innervano nella psicologia degli individui. Riducendo questa complessità all’unica dimensione del contratto fra privati in vista di un profitto quantitativamente misurabile, il ‘capitalismo assoluto’ rende il legame sociale estremamente fragile. Ed è proprio questa sotterranea distruzione del legame sociale che ci sembra alla base del malessere diffuso nelle nostre società».[2]

Con l’aziendalizzazione si ha l’obiettivo di inibire sul nascere il modello pedagogico hegeliano: l’idealismo si contraddistingue per l’essenzialità valoriale della processualità dialettica, ovvero, il risultato è in realtà secondario rispetto all’importanza del processo. Il risultato non è che il momento finale di un processo, i cui momenti devono essere giustificati in funzione del momento finale. Inoltre, per giustificare i momenti logici-processuali, si utilizzano una pluralità di categorie che colgono lo stesso momento da lati diversi. Tale procedura pedagogica, è un modello educativo, razionale e comunitario.
Il modello azienda predilige invece il risultato al processo ed utilizza la categoria della quantità quale strumento per decodificare il processo logico nella sua unità e globalità. La motivazione è nel risultato, che determina l’agire, i mezzi e le sequenze intermedie fino a predeterminare la volontà del soggetto. Nel decreto sull’alternanza scuola-lavoro (istituita tramite la Legge 53/2003 e il Decreto Legislativo n. 77 del 15 aprile 2005, e ridefinita dalla Legge n. 107 del 13 Luglio 2015) le finalità riportate sono all’articolo 2:

«1. Nell’ambito del sistema dei licei e del sistema dell’istruzione e della formazione professionale, la modalità di apprendimento in alternanza, quale opzione formativa rispondente ai bisogni individuali di istruzione e formazione dei giovani, persegue le seguenti finalità: a) attuare modalità di apprendimento flessibili e equivalenti sotto il profilo culturale ed educativo, rispetto agli esiti dei percorsi del secondo ciclo, che colleghino sistematicamente la formazione in aula con l’esperienza pratica; b) arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi con l’acquisizione di competenze spendibili anche nel mercato del lavoro; c) favorire l’orientamento dei giovani per valorizzarne le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento individuali; d) realizzare un organico collegamento delle istituzioni scolastiche e formative con il mondo del lavoro e la società civile, che consenta la partecipazione attiva dei soggetti di cui all’articolo 1, comma 2, nei processi formativi; e) correlare l’offerta formativa allo sviluppo culturale, sociale ed economico del territorio».

 Il linguaggio pedagogico, l’appello all’indole personale, alla cultura, al sociale non sono che distrattori di massa. Nella realtà la scelta dello studente dipende dai contesti, dalle aziende a cui si deve elemosinare l’eventuale disponibilità alla formazione. Nessuno sceglie, la legge è calata dall’alto, presso le aziende le istituzioni vivono una condizione di sudditanza.

Antiumanesimo dell’alternanza scuola-lavoro
L’alternanza scuola-lavoro si presenta come un modello pedagogico antiformativo in senso umanistico, poiché la parola pratica è intesa come contrapposta e superiore alla conoscenza teorica-teoretica. In realtà, ancora una volta i legislatori-pedagoghi dimostrano di ignorare o vogliono cancellare la cultura umanistica e filosofica. La relazione tra teoria e prassi, la capacità di pensare l’empirico per ridefinire i fini ed individuare le contraddizioni, tale operazione deve necessariamente prevedere l’epochè, la contemplazione del dato; invece si punta a formare un’umanità capace soltanto di risolvere – con intuitiva immediatezza o mediante l’uso di mezzi tecnici – problemi che emergono dalla pratica empirica. Il passaggio teorico teoretico è giudicato un limite, poiché implica la sospensione della produzione, ma specialmente la possibilità che il soggetto possa – maturando il dubbio sui fini – sfuggire agli automatismi che si vorrebbero inoculare. Il soggetto non deve vivere l’esperienza hegeliana della coscienza infelice, la contraddizione tra particolare ed universale, non deve avere la simbolizzazione dei fini oggettivi, il suo stato dev’essere di perenne scissione dal concetto, dalla verità. Deve eliminare la metariflessione per perseguire l’esattezza della quantità nella produzione, nell’adesione ai tempi della produzione, allo scopo di strutturare in modo granitico il lavoro astratto e non il valore concreto. Il lavoro astratto, già definito da Marx, è funzionale al valore di scambio, dunque è la forma espressiva dell’alienazione. Nei Grundrisse il lavoro astratto è lavoro che ha perso non solo l’espressione simbolica del lavoratore, ma è lavoro parcellizzato, specializzato nelle singole fasi, in cui regna l’addestramento alla divisione dell’operaio da se stesso e dagli altri. Il nichilismo della cultura aziendale si fa qui evidente, nella scissione tra teoria e prassi; è questa una delle scissioni sottintese che operano nell’aziendalizzazione della comunità: la scissione opera nella forma dell’individualismo che rompe ogni vincolo solidale, poiché il progetto autentico è sostituito dall’azione di adattamento al regime del capitalismo assoluto.
Il fine dell’alternanza è, quindi, la spendibilità delle competenze del singolo alunno, addestramento alla flessibilità o meglio iperattività senza cultura teoretica, o sua riduzione minimale nel disprezzo presunto della stessa, perché non richiesta dal mercato del lavoro, che condiziona l’attività didattica. Pertanto la libertà didattica è un proposito giuridico e non effettuale.

Quale «organico orientamento» ?
Naturalmente l’organico orientamento al mercato del lavoro ben poco si concilia con la libera espressione/vocazione individuale, la quale è ammessa ed incoraggiata fin quando si favoriscono le professioni spendibili sul mercato del lavoro. Il termine spendibile svela e rileva l’unica finalità dell’ASL, cioè formare consumatori dipendenti dal mercato per il superfluo come per il loro orientamento lavorativo. Il risultato è una mutazione antropologica: l’istituzione pubblica deve formare il suddito ad immagine e desiderio del mercato, mentre l’autonomia è solo un mezzo per rompere ogni vincolo universalistico e comunitario e fare della scuola una costola del mercato. Le competenze che si dovrebbero affinare sono correlate alla capacità di risolvere problemi per ottenere risultati… L’ASL è inserita all’interno dell’offerta formativa alle famiglie (articolo 4, comma 6) che risponde ai bisogni del tessuto economico, locale in primis, e nazionale. Il lavoro diviene in tale ottica, malgrado l’intento dichiarato di valorizzazione dei singoli, omologazione, poiché si chiede l’adattamento necessario e passivo al sistema produttivo, alle sue esigenze, ai suoi ritmi:

«Le condizioni del lavoro che crea valore di scambio, come risultano dall’analisi del valore di scambio, sono determinazioni sociali del lavoro oppure determinazioni del lavoro sociale, ma non sono sociali senz’altro, lo sono in un modo particolare. Si tratta di un modo particolare di socialità. In primo luogo la semplicità indifferenziata del lavoro è uguaglianza dei lavori di individui differenti, un reciproco riferirsi dei loro lavori l’uno all’altro come a lavoro uguale, e ciò mediante una reale riduzione di tutti i lavori a un lavoro di uguale specie. Il lavoro di ogni individuo, in quanto si presenta in valori di scambio, ha questo carattere sociale di uguaglianza, e si presenta nel valore di scambio solo in quanto è riferito al lavoro di tutti gli altri individui come a lavoro uguale. Inoltre, nel valore di scambio, il tempo di lavoro del singolo individuo si presenta immediatamente come tempo di lavoro generale, e questo carattere generale del lavoro individuale si presenta come carattere sociale di quest’ultimo. Il tempo di lavoro rappresentato nel valore di scambio è tempo di lavoro del singolo, ma del singolo indifferenziato dall’altro singolo, da tutti i singoli in quanto compiono un lavoro uguale, e quindi il tempo di lavoro richiesto per la produzione di una determinata merce è il tempo di lavoro necessario, che ogni altro impiegherebbe per la produzione di quella stessa merce».[3]

 

Diseducare alla qualità per affermare solo la quantità
L’istituzione pubblica con la sua offerta formativa deve astrarre il tempo vissuto, l’individualità profonda per renderla secondaria rispetto alla formazione al tempo omologato. In tale clima educativo il docente che dovrebbe educare alla formazione delle singole personalità nella concretezza della comunità-classe è così doppiamente mortificato nella sua autonomia intellettuale e formatrice, dalla gerarchia dell’azienda-scuola e dell’azienda produttiva: si rafforzano le spire della barbarie, si agisce dall’interno per svuotare il senso della formazione e debilitare gli attori della formazione. Tutto avviene nel nome della categoria della quantità, la sostanza del presente storico. L’alternanza scuola lavoro è già superata sul nascere, poiché il sistema produttivo necessita sempre meno di manodopera, mentre necessita sempre più di idee. Inoltre, in un sistema che produce ed annichilisce l’ambiente umano dove l’essere umano dovrebbe vivere, avrebbe avuto senso insegnare in modo massiccio al riuso, come a limitare gli effetti dei comportamenti singoli e collettivi sull’ambiente. L’alternanza scuola-lavoro è visione del lavoro novecentesca, tanto più che il sistema produttivo è così liquido e veloce da rendere inutile ciò che il lavoratore-studente impara nei tre anni nell’addestramento al lavoro. Una scuola buona e vera dove si impara la disciplina del pensiero, il rigore dello studio potrebbe essere più proficua che l’addestramento lavorativo. Evidentemente in tale iniziativa l’intento vero è sottrarre ulteriori energie alla formazione di cittadini per formare sudditi laboriosi ed ubbidienti. Ecco la monocategoria che astrae da ogni esperienza del vivere civile la qualità per immetterla in una perversa conversione che alla fine rende impossibile il riconoscimento delle differenze. È il monismo parmenideo nella forma più esasperata e perversa: la qualità, le differenze, i fini sono cancellati, sono giudicati un impaccio, apparenza. Pur di arrivare sulla linea d’orizzonte della quantità si astrae da quest’ultima ogni segno di vitalità, si stigmatizza come negativo ogni fine accettato e perseguito per i valori qualitativi e umanistici cui mira. Il processo di alienazione deve impedire il pensiero della qualità.

La resistenza antropologica deve dunque trasformarsi in prassi negli educatori. Ovvero i docenti non devono essere fruitori passivi dei cambiamenti in corso, ma devono averne la chiarezza dei fini per poter mutare e proporre un asse educativo alternativo, per limitare gli effetti dell’integralismo liberista. Senza un’opposizione attiva e propositiva e l’elaborazione di un modello alternativo, il liberismo continuerà a formare “musulmani”. Con tale terminologia nei campi di sterminio si indicavano i prigionieri ridotti a solo corpo, dall’aspetto florido, ma uniformati unicamente alla categoria della quantità, creature astratte ed alienate da se stesse e dalla comunità in un contesto di distruzione irreversibile dell’ambiente e della storia umana.

Salvatore A. Bravo

[1] Karl Marx Il Capitale, Newton Compton Editori, Roma 2015, p. 85.

[2] Marino Badiale – Massimo Bontempelli, Civiltà occidentale: un’apologia contro la barbarie che viene, Il canneto editore, Genova 2009, pp. 262-263.

[3] Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, ousia, p. 5.



Salvatore A. Bravo – il genocidio kmer in cambogia palesa la verità del nichilismo della razionalità tecnocratica, dell’onnipotenza economica che, in nome della trasformazione a qualunque costo, non conosce limiti nella sua azione distruttrice.

Tiziano Terzani 01

Progettualità e storia
Negli ultimi decenni in modo sempre più radicale si assiste alla sostituzione della prassi con la poietica, alla spazializzazione del pensiero, il quale opera secondo una visione analitica e non olistica. La razionalità è rivolta al conseguimento dei risultati immediati, con l’effetto che la stessa razionalità si ribalta in irrazionale su lassi temporali più ampi, poiché è assente ogni riflessione sulle conseguenze delle azioni e specialmente sul valore qualitativo dei fini. Uno dei mezzi più efficaci per strutturare il silenzio del pensiero critico e profondo è l’esemplificazione della storia, che diviene così organica alla distopia del capitalismo assoluto. Non solo si divide per dominare, ma specialmente si occultano le verità storiche nel chiasso di informazioni spesso superflue, veri distrattori di massa. Si cela il verme nel nocciolo secondo la famosa metafora di Sartre, in modo da nascondere la verità del sistema. Uno dei mezzi con cui si effettua l’operazione ideologica di eternizzazione del presente è l’espulsione sostanziale e non formale della disciplina storica. La storia si eclissa dalle istituzioni che dovrebbero trasmetterla, che dovrebbero educare al senso storico, al senso dei contesti, e specialmente dovrebbero formare a cogliere dietro la cronologia il sostrato, senza il quale la storia non è che successione disordinata ed insensata di tumultuosi avvenimenti. Si mette in atto un processo di derealizzazione della realtà e della personalità La storia ridotta a cronologia disegna eventi che appaiono e scompaiono senza lasciare traccia e continuità. In tale maniera la disarticolazione della storia diventa il macrocosmo, a cui corrisponde il microcosmo delle vite che si succedono senza progettualità, vite che accadono, si succedono, si consumano come la grande storia punteggiata di accadimenti senza continuità: le storie e la storia si consumano nella malinconia dell’assenza.

Massimo Bontempelli e la derealizzazione
Massimo Bontempelli ha coniato due idealtipi per rappresentare i processi di derealizzazione: la personalità narcisista e la personalità concretista: la prima è autoreferenziale, e si connota per il disprezzo di sé, per cui manipola le altre personalità per avere conferma del proprio valore; la personalità concretista si muove all’interno di uno spazio limitato, è volta all’immediato, al risultato, non alla profondità interiore esattamente come la personalità narcisista. In entrambi casi, si tratta di personalità senza storia e dunque dall’identità apparente, poiché la scissione dell’io dalla comunità, dalla storia le destruttura in senso atomistico:

«In questa sede, però, la genesi psicologica interessa meno della base ontologica. Ontologicamente, il concretismo è, come il narcisismo, un’interruzione, sul piano specifico dello sviluppo della personalità individuale, della possibilità del passaggio dall’esistenza alla realtà, per l’inattivabilità dell’azione reciproca. Mentre però nel narcisista ciò che impedisce l’azione reciproca è la coazione all’azione unidirezionale, nel concretista ciò che la impedisce è la coazione a farsi assorbire dalle cose. Storicamente, questa determinazione della persona umana è, proprio come la de-terminazione narcisistica, un prodotto del meccanismo economico autoreferenziale contemporaneo. Abbiamo visto come tale meccanismo, facendo prescrivere i comportamenti umani dalle procedure tecniche, sottragga all’individuo l’immagine stessa dell’azione reciproca. Se tale immagine è sostituita da un modello di relazione strutturato dalla proiezione al consumo, si ha il narcisismo, mentre se è sostituita da un modello di relazione strutturato dall’adesione alla produzione, si ha il concretismo. Il concretista, infatti, fa molte cose senza mai chiedersi il senso del suo fare, per cui il suo agire, anche quando è del tutto esterno alla produzione economica, e persino quando si svolge in un ambito solidaristico, corrisponde perfettamente alla natura della produzione nel meccanismo economico autoreferenziale, che consiste nel produrre sempre di più senza alcuno scopo umano».[1]

Le controriforme
La storia, invece, nella quale si cerca il fondamento e la progettualità non profetica, è espressione vivente della prassi, dell’umanità in cammino nel dialogo che fonda l’ontologia dell’esserci. Le riforme contro la storia, gli attacchi strategici alle facoltà che dovrebbero formare gli studiosi, mediante tagli finanziari e discredito su studi giudicati improduttivi, palesano la verità del tempo presente: la riduzione del tempo a solo tempo della produttività, del PIL, oggetto di interventi ossessivi. L’agire contro la storia ha lo scopo di formare personalità gettate nel presente e quindi pronte all’uso ed al consumo. Si occultano le contraddizioni. In primis l’impossibile realizzazione, per tutti, del regno della dismisura, per cui destrutturare la storia, ridurne la presenza nei curriculum scolastici come nella memoria collettiva è una modalità d’attacco del capitalismo assoluto che erode le forme della prassi per sostituirle con la violenza della produttività dell’inautentico. Si misura tutto in modo maniacale per poter dominare e manipolare, ma si sottrae il senso della relazione tra quantità e qualità, pertanto la dismisura, regna, occultata da strumenti di precisione millimetrica, non mediata dalla razionalità speculativa.
Vi sono storie nella storia in cui la verità, il fondamento nichilistico che guida le tragedie della storia contemporanea, non solo si rilevano, ma esse sono portatrici, come in questo caso, di un’eccedenza. Dimostrano la cattiva coscienza dell’onnipotenza tecnocratica, poiché mettono a nudo la verità: sono rimosse dalla memoria collettiva, ridotte ad episodi regionali, ai margini della globalizzazione con i suoi splendori.
La Cambogia con il genocidio kmer palesa la verità del nichilismo della razionalità tecnocratica, dell’onnipotenza economica che in nome della trasformazione a qualunque costo, non conosce limiti nella sua azione distruttrice.

Razionalità tecnocratica e razionalità classica
Il Vietnam, durante la guerra (1960-1975), è stato oggetto di bombardamenti con l’agente arancio, un’erbicida che ha causato la deforestazione, desertificato il terreno con accumuli di diossina che hanno reso il suolo sterile per un tempo indeterminato. La Cambogia, stretta tra gli interessi cinesi ed americani è diventata il luogo dove l’onnipotenza della ragione calcolante, senza etica, ha mostrato il sonno della ragione, ovvero il sonno della ragione classica, il sonno della razionalità del limite, sostituita da una razionalità puramente tecnocratica e distopica e come tale tesa all’espansione integralista per la quale il limite è solo un labile confine da abbattere.
Tiziano Terzani descrive l’agonia di un popolo, il processo di formazione di un genocidio, la cui precondizione è nella violenza espansionistica delle potenze, le quali pur da posizioni ideologiche diverse, agiscono mosse dallo stesso fondamento economicistico e nichilistico:

«Ho visto questa città negli anni della guerra americana, fra il 1970 ed il 1973, quando centinaia di migliaio di rifugiati, scappati ai bombardamenti a tappeto dei B-52, venivano ad accamparsi lungo i marciapiedi del centro; l’ho vista lentamente strangolata del centro; l’ho vista lentamente strangolata dall’assedio dei khmer rossi, che il 17 aprile 1975 la presero in mano e per prima cosa la vuotarono in poche ore di tutta la sua popolazione, mandata allo sbaraglio nella giungla e nelle risaie; l’ho rivista, città fantasma, guscio vuoto, marcio e buio, poco dopo l’intervento vietnamita che nel 1979 rovesciò il regime di Pol Pot e mise al potere l’attuale governo di Hun Sen; e l’ho rivista varie volte negli ultimi dieci anni, di nuovo viva e popolosa, ma ancora misera, sporca, avvilita e scoraggiata da dall’ingiusto embargo economico che i paesi occidentali hanno deciso di imporre a questa gente ed a questo governo, definito “fantoccio di Hanoi”».[2]

Genocidi
Il numero dei morti è rimasto dubbio; è certo che tra il 1975 ed 1979 un terzo della popolazione cambogiana è scomparsa atrocemente. Non vi è stata nessuna Norimberga, nessuna giustizia: i processi iniziati negli ultimi anni hanno un valore formale e specialmente rimuovono le responsabilità internazionali, degli Americani e dei Cinesi in particolare. Costruiscono un’immagine della storia evenemenziale: i responsabili sono singoli, dietro di essi le strutture, i modi di produzione, le ideologie sono innocenti. Il modello di razionalità non viene messo in discussione, restano nel limbo dell’astratto, il sistema e la storia non conoscono dialettica emancipatrice: Stati Uniti e Cina continuano ad essere padroni del pianeta come se nulla fosse accaduto.
I morti, i genocidi non sono tutti uguali, alcuni sono pubblicizzati, resi pane quotidiano nella propaganda dei vincitori. Altri sono dimenticati, procurano imbarazzo con la loro verità che accusa i vincitori, e rammenta la sconfitta ai padroni e signori del pianeta:

«Perché i crimini dei nazisti sono stati riconosciuti per tali dall’intera comunità internazionale e quelli dei khmer rossi no? Forse perché le vittime degli uni erano degli ebrei, dei bianchi, e quelle degli altri erano dei semplici cambogiani dalla pelle scura? Forse perché a Norimberga i vincitori ebbero modo di imporre la loro giustizia ai vinti, mentre in questa maledetta guerra indocinese, finita senza una chiara sconfitta, ma solo con milioni di morti, nessuno è in grado di processare nessuno e la giustizia resta fra le tante speranze frustrate?». [3]

Le responsabilità collettive
Per comprendere la storia è necessaria una visione olistica, la quale consente di riportare all’unità ciò che, invece è separato, esemplificato e diviene incomprensibile. I kmer rossi si rafforzano e si diffondono con i bombardamenti americani, e con il colpo di stato del 1970 orchestrato in Cambogia dagli Americani, mentre da un punto di vista ideologico, la Cina è la madre matrigna che sostiene per ragioni di espansione e competizione con l’Unione sovietica i kmer, in modo da presentarsi come polo catalizzatore per i paesi che escono dalla difficile esperienza della colonizzazione:

«I khmer rossi sono stati un’aberrazione, sono i figli ideologici di Mao Ze Dong. Sono stati allevati e tenuti a battesimo in Cina; e in questo la Cina ha enormi responsabilità. Pechino sapeva ed approvava. I grandi massacri di Phnom Penh fra il 1975 e il 1979 ebbero luogo nel liceo Tuol Zleng, a poche decine di metri dall’ambasciata cinese, dove non solo si potevano sentire le urla delle vittime, ma si tenevano i conti della gente che veniva via via eliminata. Durante gli anni che ho trascorso a Pechino ho saputo di un diplomatico cinese ricoverato in un ospedale psichiatrico: era stato assegnato a Phnom Penh e, testimone complice dell’olocausto, era impazzito. […] La verità, come dicevo, è che i khmer rossi sono il prodotto di un’ideologia. Pol Pot non è un pazzo; quello che ha tentato di fare in Cambogia è la quintessenza di ciò che ogni rivoluzionario vorrebbe realizzare: una nuova società. La stessa cosa, ad esempio, aveva cercato di fare Mao con la rivoluzione culturale. L’operato di Pol Pot fa più impressione, sembra più disumano, solo perché Pol Pot ha ridotto i tempi di realizzazione, è andato direttamente al nodo della questione. Come tutti i rivoluzionari, Pol Pot aveva capito che non si può fare una società nuova senza prima creare degli uomini nuovi, e che per creare degli uomini nuovi bisogna eliminare innanzitutto gli uomini vecchi, distruggere la vecchia cultura, cancellare la memoria. Da qui il progetto dei khmer rossi di spazzare via il passato con tutti i suoi simboli e con i portatori dei suoi valori: la religione, gli intellettuali, le biblioteche, la storia, i bonzi».[4]

 

I tempi della storia
L’uomo nuovo è il fine dei kmer come di Mao, i kmer accelerano, esigono il risultato in tempi brevi. Il tempo svela la contemporaneità dei kmer, il loro essere organici al nichilismo produttivo industriale e tecnocratico. In tempi brevi, inseguendo la temporalità espansiva degli apparati industriali, attraverso la microfisica del controllo, della manipolazione, l’uomo nuovo liberato dalle scorie impure del passato splenderà nella sua ritrovata innocenza e purezza.
Il tempo della storia è veloce, quando la razionalità critica si ritrae, per cui con la caduta del muro, la Cambogia comunista dietro la quale vi è il Vietnam e specialmente la Cina, reintroduce la proprietà privata, per cui i privilegiati durante il regime comunista diventano ora i ricchi. L’assenza di prassi e partecipazione politica agli eventi spingono i Cambogiani ad adattarsi, perché in fondo sanno che il vero cambiamento strutturale non è mai avvenuto. Dietro le tragedie della storia cambogiana non vi è che il susseguirsi con matrici diverse del sogno dello stesso sogno/incubo dell’onnipotenza[5]:

«La svolta avvenne nel 1989. Col mondo socialista in ritirata e l’Occidente che faceva pressione perché Phnom Penh cambiasse politica in cambio di una vaga promessa di riconoscimento e di aiuti, il regime di Heng Samrim e Hun Sen adottò una serie di riforme che hanno permesso la religione, abolito la struttura economica socialista, liberalizzato il commercio e reintrodotto la proprietà privata. Il primo maggio 1989 sono nati i nuovi milionari della Cambogia. In quella data, chi occupava una villa, un appartamento o una semplice stanza ne è diventato il legittimo proprietario. Questo ha ovviamente favorito i funzionari del nuovo regime che per primi erano tornato a Phnom Penh ed erano andati ad occupare gli edifici più centrali e spaziosi. Alcune di quelle ville, cui è stata data una mano di bianco e una ripulita, vengono ora fittate agli stranieri che lavorano a Phnom Penh per somme che variano dai mille ai duemila dollari al mese: un patrimonio, se si considera che lo stipendio mensile di un funzionario governativo è di 5000 riel, vale a dire 8 dollari. Lo stesso è avvenuto nelle campagne. I campi delle comuni sono stati distribuiti fra i contadini, creando enormi disparità tra quelli che hanno ricevuto terreni fertili e gli altri che hanno avuto pezzi improduttivi. L’improvvisa fine del sistema socialista comunitario ha per giunta penalizzato i più deboli. È così che città come Phom Penh si sono riempite di donne e bambini mendicanti».[6]

 Alla caduta dei kmer nel 1979 con l’invasione vietnamita, vi è un dettaglio non secondario, che denuncia il fondamento nichilistico in modo lapalissiano: gli Stati uniti non riconoscono la nuova Cambogia, in quanto legata politicamente alla Cina per mezzo del Vietnam, dunque all’ONU il seggio è dei kmer, malgrado il genocidio ormai pubblico, ma per la razionalità nichilistica che usa solo la categoria della quantità un milione e mezzo di persone trucidate non sono che numeri interscambiabili, sono niente davanti alla storia.

L’essere umano come animale storico
L’essere umano è un animale storico. Se rinuncia alla storia e con essa alla prassi, vive come un qualsiasi animale nell’eterno presente, pascola, rumina, ma non vive. La storia eleva all’universale, e dunque umanizza attraverso la razionalità dialogica che distingue l’accidentale dall’universale:

«Dobbiamo ricercare nella storia un fine universale, il fine ultimo del mondo, e non uno scopo particolare dello spirito soggettivo o del sentimento; lo dobbiamo intendere attraverso la ragione, che non può porre il proprio interesse in un particolare scopo finito, ma solo in quello assoluto. Questo è un contenuto che dà e reca in sé testimonianza di se stesso, e in cui ha la sua base tutto ciò che l’uomo può considerare come proprio interesse». [7]

L’uomo nuovo che il capitalismo assoluto vuole fondare è l’uomo senza memoria, limitato al solo pascolare tra gli infiniti pascoli del mercato. A questa visione impoverita e depauperata dell’umanità, bisogna contrapporre la visione hegeliana che nella Filosofia della storia ha dimostrato che l’essere umano conosce se stesso nella storia. Pensando il materiale storico l’uomo elabora la consapevolezza di sé, in modo da discernere l’eterno dal contingente. L’uomo nuovo al pascolo nei mercati non discerne, non giudica, non ha senso etico/universale, si disperde nella contingenza del particolare, nell’immanenza senza trascendenza. Il presente gli appare senza speranza, poiché è venuta a mancare la mediazione razionale sull’esperienza storica collettiva. Il futuro si gioca dialetticamente sul senso storico senza il quale non vi è libertà, né razionalità, ma solo veloce dileguarsi della ragione. Siamo al bivio parmenideo: la doxa è l’immediatezza del narcisista/concretista, mentre la verità è il senso storico in cui l’eterno prende forma e coscienza. L’errore nella scelta non potrà che essere fatale per il pianeta, poiché i mezzi di distruzione minacciano la vita come non mai.

Salvatore A. Bravo

[1] Massimo Bontempelli, In cammino verso la realtà, Petite Plaisance ,Pistoia 2002, pag. 15

[2] Tiziano Terzani, Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia, Tea. Milano 2008, pag. 298.

[3] Ibidem, pag. 324.

[4] Ibidem, pag. 277.

[5] Ibidem, pp. 285-286.

[6] Ibidem, pp. 285-286.

[7] Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, pag. 8.

ss

Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.

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RIPENSARE LA SCUOLA

di Fernanda Mazzoli

 

Oggi, la questione prioritaria da affrontare, se ci si vuole efficacemente opporre alla deriva economicistica e mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.

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Da anni l’istruzione è al centro di un’ambiziosa campagna ideologica di segno neoliberista che ha investito significativamente organizzazione, contenuti disciplinari, modalità didattiche e finalità educative del sistema scolastico, fino alla messa in discussione dell’idea stessa di scuola, come è venuta storicamente configurandosi. L’opinione comune secondo la quale la scuola, nel nostro Paese, sarebbe la Cenerentola dell’agenda politica e delle priorità sociali è infondata: perlomeno da un ventennio essa è oggetto di pesanti attenzioni da parte dei diversi governi succedutisi, dei burocrati del MIUR, degli specialisti in Scienze dell’educazione dei Dipartimenti accademici, dei centri studi di fondazioni imprenditoriali e bancarie, delle Commissioni per la cultura europee. Tutti questi attori – politici, economici, culturali – hanno ben chiaro il carattere strategico dell’istituzione e hanno agito di conseguenza, secondo una linea di sostanziale continuità e complementarità. Azienda tra le aziende del territorio nella società di mercato, specializzata nell’erogazione di un bene formativo, alla scuola spetterebbe ormai il compito di promuovere, sin dal primo ciclo, l’educazione all’auto-imprenditorialità di uno studente dotato di quei requisiti di adattabilità, flessibilità, competitività ed efficienza operativa richiesti dalle imprese e di quelle competenze tecnologiche indispensabili alla riproduzione del sistema. La scuola è chiamata a divenire laboratorio pedagogico di un modello distopico di società ruotante intorno alla “cultura d’impresa”, fondata sul primato dell’economia e sulla sua pretesa di colonizzare ogni ambito della vita, rimodellando le condotte individuali e le politiche sociali secondo i principi dell’interesse individuale e della competizione.

Ripensare la forma scuola

Ripensare la forma scuola

Ben venga, dunque, una ricerca come quella promossa dall’IRRE Lombardia (Istituto Regionale di Ricerca Educativa) che ha visto un gruppo di docenti universitari e della Secondaria interrogarsi sui fondamenti teorici e i fini sociali di una cultura autenticamente riformatrice nella scuola, nella comune convinzione che scuola ed educazione, invece di assecondare l’attuale stato delle cose, abbiano un carattere fortemente utopico. Il testo che è nato da questo lavoro a più mani, coordinato da Eros Barone, Ripensare la forma-scuola. Analisi e proposte,[1] a più di dieci anni dalla pubblicazione ha il duplice merito di offrire un’analisi pertinente – e dall’interno – di una serie di processi che hanno trovato, poi, piena legittimazione istituzionale nella buona scuola e nella legge 107 e di proporre una nutrita e rigorosa riflessione teoretica, mai disgiunta dall’attenzione puntuale per i percorsi didattici, sui fondamenti del pensare e fare scuola. I nodi – teorici ed etici – affrontati sono ad oggi irrisolti, quando non ignorati o sottoposti a quella torsione biecamente economicistica che sta riplasmando il sistema scolastico.

I diversi saggi che compongono il libro, pur nella diversità degli approcci e dei temi, condividono lo stesso angolo visuale e lo stesso assunto di fondo che l’imperversare degli specialismi da un lato e l’appiattimento su un sapere mercificato, pronto all’uso dall’altro tendono pericolosamente a rimuovere: una più vasta prospettiva culturale e storica, la sola in grado di favorire l’insorgere di quella ragione critica che la scuola dovrebbe coltivare nello studente, a fondamento della sua crescita di uomo e di cittadino, dimensioni, peraltro, strettamente connesse, anzi necessarie l’una all’altra per la compiuta realizzazione di entrambe. Questa prospettiva non può che richiamare la specificità del ruolo dell’insegnante che si fonda sul sapere disciplinare e sulla sua capacità di inscrivere questo in una totalità, intesa come “concreto orizzonte storico”, all’interno della quale stabilire relazioni con il complesso dei saperi di un’epoca, per costruire una visione organica in cui il singolo punto di vista disciplinare si rapporti all’insieme delle discipline proposte dal curricolo, in modo da conferire a quest’ultimo un carattere autenticamente unitario.[2] L’esperienza degli ultimi anni è costretta a registare come, spesso, l’invocata interdisciplinarità sia il nome nobile dietro cui si nascondono chiacchiere vacue o, nella migliore delle ipotesi, una giustapposizione di argomenti presi in prestito da diverse materie, al di fuori di un percorso coerente, organico e fondato su rigorosi presupposti concettuali. Solo se rapportato al concetto di “totalità”, un approccio interdisciplinare può costituire un valido antidoto a quella frammentazione del sapere che è una delle più significative cifre culturali della nostra epoca. Tutto il volume è percorso da un’appassionata rivendicazione della centralità della ricerca intellettuale, a partire da una sistematica riflessione sui presupposti teorici della propria disciplina, da parte del docente e dal rifiuto della banalizzazione dell’insegnamento a semplice trasmissione di saperi o del suo svilimento in una dimensione burocratica e /o di intrattenimento (spesso le due si rivelano complementari, per quanto apparentemente contraddittorie).

Premesso che la situazione creatasi negli ultimi anni – grazie da un lato agli interventi ministeriali in favore di «una scuola leggera» e dall’altro al proliferare nei singoli Istituti di ogni genere di progetti che tendono a trasformare le scuole in «supermercati formativi» – è tale da invitare a non trascurare nemmeno la questione della salvaguardia della stessa trasmissione dei contenuti, resta che la connotazione del lavoro docente incardinata sulla ricerca intellettuale e l’approfondimento culturale definisce, oggi, la questione prioritaria da affrontare, se ci si vuole efficacemente opporre alla deriva economicistica e mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.

Docente-ricercatore, dunque, impegnato in un duplice movimento: indagare i fondamenti epistemologici e la costruzione storica della propria disciplina posta in relazione con la totalità del sapere e riflettere sulle proprie pratiche «con quadri concettuali che innescano un movimento abduttivo continuo di teorizzazione».[3]Gli insegnanti sono, infatti, ricercatori di tipo particolare che, se vogliono davvero insegnare, – vale a dire imprimere un segno – devono trovare forme, strumenti e vie per farsi «mediatori critici di cultura verso le nuove generazioni»[4] e lavorare intorno a quella «costruzione attiva di significati» che rende possibile il passaggio dal consumo di conoscenze alla loro produzione.[5] Chi scrive preferisce fare riferimento ad un’incessante rielaborazione delle conoscenze, piuttosto che alla loro produzione, ma condivide con gli autori del volume l’attenzione – che deve nutrirsi di riflessione teorica e di responsabilità pedagogica – verso il momento del passaggio e della mediazione, in quanto nesso cruciale e peculiare di quel travagliato – perché non lineare – rapporto tra materia, insegnante e studente. Non solo: di mediazione c’è particolare necessità in questi nostri tempi, se non si vogliono consegnare i giovani al moderno Minotauro, tanto insaziabile quanto accattivante, della società dei consumi e dello spettacolo. In questa lotta, sicuramente impari, ma il cui esito non possiamo dare per scontato, gli insegnanti hanno la possibilità di giocare un ruolo autonomo e non subordinato, a condizione di mantenersi fedeli all’elemento su cui si fonda la loro identità professionale: la competenza disciplinare.

Contro una visione pericolosamente distorta, ma sempre più diffusa – a livello di senso comune, ma corroborata anche da interventi legislativi e spesso condivisa dagli stessi interessati – che vede nei docenti delle figure multifunzionali pronte a ricoprire i ruoli più disparati per ovviare alle vistose falle educative aperte dalla disgregazione del tessuto sociale e familiare, Piero Romei individua con geometrica precisione tutta la portata del problema. Se rinunciano a fondare la propria «identità professionale ed istituzionale» sulle discipline di studio, i docenti si condannano all’irrilevanza: «su tutto il resto gli insegnanti della scuola entrano in competizione con chiunque, ed è una competizione spesso perdente, perché su tutto il resto non è affatto raro trovare altri che sono più bravi degli insegnanti». Un’ identità che non appoggia una volta per tutte «sulla banalità della ripetizione di una materia ossificata»,[6] ma chiede di essere alimentata da una costante investigazione intellettuale, resa indispensabile dall’attuale «condizione generalizzata di complessità degli oggetti di studio dei saperi stessi»,[7] la quale sollecita la cooperazione e il coordinamento di molti punti di vista in origine eterogenei. La medesima attenzione verso «la necessaria complementarità e l’integrazione tra una pluralità di discipline», capaci di incrociare anche «i possibili campi di esperienza», secondo una logica di «valorizzazione dei mondi vitali quotidiani» anima l’intervento di Francesco Villa.[8] Per individuare i bisogni educativi delle nuove generazioni, Mauro Ceruti opera una ricognizione dei processi che hanno investito negli ultimi decenni l’umanità : l’accelerazione, la globalizzazione e la non linearità. Uno scenario in cui si stempera la rigidità dei confini disciplinari e che impone all’individuo «mappe cognitive ampie e flessibili». La scuola rischia, invece, di «produrre idee e mappe di saperi essenzialmente statiche» che potrebbero essere smentite da successive esperienze formative, al punto da determinare, sul piano conoscitivo, una frattura tra esperienze professionali specialistiche di tipo avanzato e mappe globali fornite dalla scuola. Dunque, essa deve impegnarsi a «delineare processi educativi capaci di produrre mappe cognitive di tipo evolutivo, che incarnino un’idea di sapere aperta alla discontinuità, alla sorpresa, all’incertezza, alle sfide della scoperta e dell’innovazione».[9] La questione è delle più delicate: è proprio a partire da un rilievo di questo tipo, privo tuttavia di strumenti concettuali anche lontanamente comparabili a quelli che hanno ispirato il lavoro di Ceruti, che la buona scuola ha proclamato l’inadeguatezza del sistema scolastico italiano e ha proceduto all’attacco frontale a contenuti e programmi, soprattutto se dotati di spessore culturale e teorico, in nome di una rivisitazione ancora più radicale della Scuola delle tre I (Inglese – non quello dei grandi autori, naturalmente; Informatica – fino alla teorizzazione del pensiero computazionale come metadisciplina; Impresa – nume tutelare supremo di ogni percorso formativo). La proposta di Ceruti va in altra direzione ed poggia su altre premesse che individuano nella progettazione dei percorsi scolastici una serie di «coppie concettuali» realizzate sinora in «forma dicotomica ed esclusiva». La scommessa diventa, allora, quella di una loro «riformulazione in termini complementari» che consenta di «generare mappe in grado di produrre significati globali con il procedere delle esperienze individuali». Particolarmente interessante, per il suo carattere di principio ordinativo generale, la prima dicotomia/complementarità individuata, quella tra storia e scienza, non certo creata dalla scuola, ma che la scuola ha assunto da una più generale impostazione culturale occidentale.[10] Tuttavia, oggi si impone fortemente l’esigenza di approfondire radici storiche e condizioni culturali delle diverse teorie scientifiche e degli stessi oggetti indagati dalla scienza. Questo «circolo di fondo» tra storia e scienze fornisce alla scuola «un potente linguaggio integratore per i suoi saperi», divisi sia dalla grande dicotomia in questione, sia dalla progressiva parcellizzazione all’interno stesso dei due ambiti. Si tratta, come è evidente, di un’operazione di più vasto respiro culturale che, nella sua declinazione didattica, si prefigge di «immettere i percorsi in un quadro integrato, di fornire agli studenti la comprensione di come questi percorsi sono venuti in essere e a loro volta si trasformano e interagiscono con altri percorsi» la cui autonomia va comunque salvaguardata.[11] Ipotesi ricca di implicazioni epistemiche e di proficue possibilità di ristrutturazione dei curricoli che si incontra con l’invito formulato da Lucio Russo nel suo recente Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista a superare l’attuale «collezione di saperi disgiunti» in vista di una nuova sintesi culturale, la quale passa anche attraverso il doveroso superamento di un’artificiosa separazione tra ambito umanistico ed ambito scientifico che penalizza entrambi e favorisce l’insorgere di una preoccupante deriva irrazionalistica.[12]

La contestualizzazione storica delle scienze e della tecnologia e la collocazione dei risultati che esse hanno prodotto in un ambito concettuale più vasto che ne mostri la stretta relazione sia con gli altri saperi, sia con le dinamiche storiche, sociali ed economiche di un’epoca, oltre a qualificare un percorso di notevole spessore intellettuale e culturale, risponderebbe ad un’urgenza educativa, cui la scuola non dovrebbe sottrarsi. Potrebbe, infatti, fornire il quadro concettuale entro il quale coltivare nei giovani un approccio razionale e critico al digitale che sta colonizzando ogni sfera dell’esistenza, già a partire dai primissimi anni di vita, tanto che il pedagogista Alain Goussot non ha esitato a parlare di «massacro degli innocenti» a proposito dell’impatto sui giovani del «digitale selvaggio».[13] Come osserva pertinentemente Piero Romei, se Internet (e l’inglese) «non poggiano su tutta una piattaforma di saperi che li nobilitano, altro che istruzione, la scuola diventa uno strumento di addestramento, di preparazione di persone che escono fuori capaci di diventare immediatamente dei «buoni produttori».[14] Produttori «buoni» per assicurare, ai diversi livelli, la riproduzione dell’attuale sistema socio-economico capitalistico, non mi sembra superfluo aggiungere.

L’individuazione della dimensione storica come snodo fondamentale (e fondante sul piano di una possibile ridefinizione del curricolo) percorre anche il saggio di Giuseppe Molinari che richiama la nozione di «era del vuoto» proposta dal sociologo Gilles Lipotevsky per definire un’epoca – la nostra – che coniuga individualismo e massificazione e nella quale è andata maturando «la presentificazione dei tempi storici». «L’agire strategico-strumentale» si è impadronito «del mondo vitale», aprendo la via ad una serie di «patologie del sociale»: perdita di senso, anomia, insicurezza collettiva ed individuale. L’odierna «democrazia di mercato» è popolata da «uomini vuoti», dimidiati in una dimensione privata e narcisistica che conosce soltanto «un’etica debole e minimale» all’insegna dell’appagamento edonistico. Uno scenario preoccupante, aperto a qualsiasi deriva, che Husserl, citato da Molinari, definiva come una stanchezza propria delle epoche di crisi, nelle quali si consuma la rinuncia «a comprendere le strutture di senso immanenti negli accadimenti temporali». Una condizione che pone con urgenza il problema dell’educazione alla cittadinanza, definita dall’autore del saggio come formazione di «un cittadino responsabile titolare di diritti e di doveri, capace di pensare e di agire, di rappresentazione critica ed intervento progettuale, capace, quindi, di agire politicamente in costante comunicazione dialogica, intersoggettiva ed istituzionale».[15] Nel solco di quell’esigenza di un percorso formativo unitario che ispira tutto il volume, Molinari riprende una riflessione dello storico Giuseppe Ricuperati, auspicante la trasformazione dell’educazione civica in un’educazione civile che deve coinvolgere tutte le discipline e non solo, come da tradizione, diritto e storia. Un auspicio la cui mancata realizzazione è inversamente proporzionale al proliferare nelle scuole di ogni ordine e grado di «progetti» di educazione alla cittadinanza a cura di esperti a vario titolo che si sovrappongono artificiosamente alle lezioni e che sembrano, anzi, sancire la separazione tra formazione disciplinare ed educazione civica, con conseguente scarso impatto educativo. L’educazione civile, per non essere flatus vocis, non può che maturare sul terreno stesso dei contenuti disciplinari e della loro dimensione valoriale. Non solo: va sottolineato che, oggi, «l’educazione alla cittadinanza» proposta nelle scuole attraverso una mole crescente di progetti si risolve, nella gran parte dei casi, in «educazione all’adattamento» ai modelli sociali e culturali dominanti. Non a caso, Molinari fa riferimento alla vasta letteratura che, recentemente, ha cercato di problematizzare il tema della cittadinanza democratica. Coglie appieno la complessità della questione Francesco Germinario nel suo bel saggio sulla falsa utopia della fine della storia quando osserva che, venuto a meno l’impegno politico che aveva caratterizzato la stagione dei movimenti, contribuendo alla formazione di una coscienza civile, la scuola si è trovata investita di una funzione di supplenza per la quale non era preparata.[16]

È, questo, un esempio particolarmente significativo di quella sfida che la contemporaneità pone alla scuola e all’educazione e che rende necessario – come osserva Eros Barone nelle pagine introduttive – «per un verso, fare i conti con il carattere epocale della forma-scuola e, per un altro verso, impegnarsi nel ricercare, nel formulare e nel proporre ai giovani progetti e percorsi che siano dotati di senso e di valore, che non siano poveri e minimalistici ma densi e ricchi di spessore culturale e, perciò, atti a promuovere la loro formazione personale».[17]

Passione intellettuale e responsabilità etica come presupposti irrinunciabili della professione dell’insegnante e condizioni per elaborare quell’orizzonte unitario di valori cognitivi, in assenza del quale non si ha che trasmissione di saperi irrelati, incapace di svolgere un’autentica funzione educativa, resa tanto più necessaria ed urgente dall’imporsi di modelli culturali ed esistenziali che fanno della leggerezza, della frammentarietà , della «presentificazione» la loro cifra: questo è il quadro generale entro il quale si muove, con profondità di analisi, rigore argomentativo e ricchezza documentaria, la ricerca dell’IRRE Lombardia, uscita tredici anni fa. Nel frattempo, la scuola è andata in direzione opposta e questo è un motivo in più per riprendere, sviluppare, ma anche discutere elaborazioni teoriche e indicazioni didattiche proposte, per ripensare la forma-scuola come spazio di rottura rispetto alla società di mercato. In questa prospettiva, alcuni interventi mantengono una certa ambiguità, sospesi fra la consapevolezza che la scuola non può semplicemente rincorrere un mondo in rapida evoluzione ed una sostanziale accettazione delle sue tendenze di fondo, ciò che rischia di avvalorare, sul piano educativo, il profilo di «un cittadino che sa muoversi nel mondo, magari essendo lui una forza trainante e non soltanto un oggetto trainato».[18]A giudizio di chi scrive, l’educazione al pensiero critico dovrebbe, invece, fornire agli studenti strumenti culturali e sensibilità etica per mettere in discussione i fini sociali generali e non solo una “cassetta per gli attrezzi” utile per garantire una riuscita individuale. Anche la diffidenza per la lezione frontale[19] mi sembra ingenerosa: essa, da un lato è educazione all’ascolto e alla concentrazione in controtendenza rispetto alla dispersione e fluidità della rete e, dall’altro, contiene in sé, più di ogni altro approccio, la potenzialità di trasformarsi in autentico dialogo.

Le perplessità maggiori riguardano, tuttavia, il giudizio sostanzialmente positivo, malgrado qualche rilievo critico, attribuito alla riforma dell’autonomia scolastica varata da Berlinguer. Non è questa la sede per una sua accurata disamina, ma non è superfluo ricordare che essa suscitò, sin dal suo apparire, un vivace dibattito – culturale e politico – che vide molti docenti, dalla primaria all’Università, sindacalisti ed intellettuali impegnati a denunciare l’accelerazione dei processi di aziendalizzazione e mercificazione dell’istruzione avviata dalla riforma Berlinguer[20] e culminata nella buona scuola. Non convince nemmeno il richiamo alle politiche scolastiche europee da parte di alcuni fra gli autori di Ripensare la scuola. Certamente, i libri bianchi della Commissione europea degli anni Novanta davano voce alla legittima preoccupazione che i sistemi scolastici non potessero reggere alla sfida degli incalzanti mutamenti sociali, economici, tecnologici e che la «società della conoscenza» finisse per escludere chi non avesse un adeguato bagaglio di conoscenze. La risposta data (a partire dalla messa in discussione del titolo di studio a favore di «una tessera personale delle competenze», fino alla conclamata «riabilitazione» dell’impresa come luogo formativo e alla necessità di ridefinirne i legami con il mondo della scuola) sembra orientare l’istruzione verso un ossequente rapporto con il mercato, piuttosto che nella direzione di uno sviluppo pieno ed armonioso della personalità umana. Né c’è da stupirsene, considerati i principi costitutivi e le politiche sociali ed economiche dell’U.E., di chiara matrice neo-liberista. Bene fa Eros Barone, nell’introduzione, ad aggiustare il tiro, ricordando che la riforma della scuola intesa come riordino dei cicli e degli ordinamenti punta ad omogeneizzare la scuola italiana con quella europea, in un tentativo di razionalizzazione che prescinde sia dalle specifiche storie dei sistemi scolastici nazionali, sia dalla peculiarità dei modelli culturali: un’operazione caratterizzata da un evidente limite di economicismo, nonché di sudditanza ad una visione tecnocratica, sostanzialmente estranea ai valori cognitivi ed etici dell’attività formativa che ha come teatro la scuola.[21] Oggi, nella scuola-azienda, appellarsi a questi valori, ridefinirli in rapporto ai bisogni educativi e cercare di renderli vivi ed operanti nel quotidiano agire didattico è condizione primaria, sia per resistere al disegno di chi vuole trasformare l’educazione in addestramento, sia per continuare a coltivare la necessaria utopia di una società non asservita al mercato.

Fernanda Mazzoli

 

Note

[1] Aa.Vv., Ripensare la forma scuola. Analisi e proposte, a cura di E. Barone, Franco Angeli, Milano 2006.

[2] G. Gavianu, La lettura del Novecento: un asse culturale qualificante per i nuovi curricoli, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., pp. 221-225.

[3] P. Zanelli, Professionalità docente, riflessività sociale e formatività, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., p. 150.

[4] G. Gavianu, La lettura del Novecento, op. cit., p. 162.

[5] P. Zanelli, Professionalità docente, op. cit., pp. 145-146.

[6] P. Romei, Organizzazione scolastica e professionalità docente, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., p. 58.

[7] M. Ceruti, Educare nel tempo della complessità, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., p. 33.

[8] F. Villa, Come organizzare la ricerca e la formazione, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., pp. 81-82.

[9] M. Ceruti, Educare nel tempo della complessità, op. cit., p. 34.

[10] Le altre sono locale e globale, cittadino e professionista, esperienza e teoria, specialista e generalista.

[11] Ivi, pp. 36-39.

[12] L. Russo (in Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori, Milano 2018) si interroga sul principio unificante intorno al quale elaborare, oggi, una cultura generale di qualità e lo individua in una rivisitazione della cultura classica. Non ci sembra questa la scelta di Cerruti, il quale è, piuttosto, interessato a decostruire quelle coppie concettuali che danno forma alla progettazione dei percorsi scolastici. Importa sottolineare, al di là delle differenze, la comune tensione verso il superamento della parcellizzazione attuale del sapere che accomuna studiosi diversi per formazione, approcci teoretici e sensibilità culturale. Per il superamento della tradizionale antinomia tra discipline umanistiche/ scientifiche, rinvio, tra gli altri, al matematico Giorgio Israel, Meccanicismo. Trionfi e miserie della visione meccanica del mondo, Zanichelli, Bologna, 2015 e, dello stesso, http://gisrael.blogspot.com/, al neurobiologo Lamberto Maffei e al suo Elogio della lentezza, Il Mulino, Bologna 2014, e al filosofo Massimo Bontempelli che indica gli studi storici come asse culturale di una scuola rinnovata in Un nuovo asse culturale per la scuola italiana, Editrice C.R.T.- Petite Plaisance, Pistoia 2001.

[13] https://comune-info.net/2016/02/la-scuola-nuova-fabbrica-di-servitu/

[14] P. Romei, Organizzazione, op. cit., p. 59.

[15] G. Molinari, Formazione alla cittadinanza democratica:aspetti teorici e modelli normativi, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., pp. 235-279.

[16] F. Germinario, Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della poststoria, Asterios, Trieste 2017, p. 40.

[17] E. Barone, Introduzione in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., p.13.

[18] P. Romei, Organizzazione scolastica e professionalità docente, op. cit., p. 59.

[19] P. Zanelli, Professionalità docente, op. cit., p. 134.

[20] Fra i tanti contributi, mi sembra di particolare interesse, per esaustività e spessore intellettuale, il volume collettaneo Metamorfosi della scuola, Koiné 1-2, Pistoia 2000.

[21] E. Barone, Introduzione a Ripensare la forma scuola. Analisi e proposte, op. cit., pp. 20-21.


Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.

Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli

Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.

Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.

Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.

Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.

Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».

Fernanda Mazzoli – Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.

Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.


Vero è ciò che è conforme al fondamento.
Bene è tutto ciò che del fondamento,
ossia dell’uomo,
si prende cura.

 

 

Per una scuola vera e buona

Per una scuola vera e buona

ISBN 978-88-7588-248-8, 2018, pp. 272,  Euro 25

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Locandina Koinè, Per una scuola vera e buona

Locandina Per una scuola vera e buona

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Testata KoinèLogo-Adobe-Acrobat-300x293  L’unione di conoscenza e virtù costituisce la struttura portante di ogni serio modello educativo, rivolto ad una concreta ricerca della verità  Logo-Adobe-Acrobat-300x293

Testata Koinè

La scuola per essere buona deve essere prima di tutto vera.

Il libro affronta la questione della scuola pietrificata di oggi che disconosce una questione di fondo: vero è ciò che è conforme al fondamento, bene è tutto ciò che del fondamento, cioè dell’uomo, si prende cura. Qualsiasi approccio a questo tema in chiave riduttivamente economicistica o aziendalistica non consente infatti minimamente di coglierne lo spessore reale.
Né è possibile, sulla base di una concezione dell’umanità dell’uomo come semplice prassi empirica e funzionalismo sociale, capire realmente cosa è in giuoco nella scuola. Il tema della scuola rimanda infatti al significato dell’educazione umana, del rapporto tra le generazioni, della temporalità, della cultura. L’unione di conoscenza e virtù costituisce la struttura portante di ogni serio modello educativo, rivolto ad una concreta ricerca della verità.

Contributi di:

Eros Barone, Alberto G. Biuso, Salvatore A. Bravo, Giovanni Carosotti, Lucrezia Fava, Arianna Fermani, Carmine Fiorillo, Luca Grecchi, Silvia Gullino, Rossella Latempa, Claudio Lucchini, Romano Luperini, Fernanda Mazzoli, Alessandro Pallassini, Lucio Russo, Franco Toscani, Lorenzo Varaldo.

In copertina:
Marc Chagall, L’Acrobata (The Acrobat), 1914.
Per Marc Chagal l’acrobata è utopia che cerca – da una prospettiva inusuale –
un nuovo equilibrio, su un filo teso sull’orlo di un mondo alla rovescia.


 

Carmine Fiorillo – Luca Grecchi

Dalla Nota introduttiva

Luca GrecchiRingraziamo tutti gli studiosi
che a questo numero hanno partecipato,
apportando il proprio prezioso contributo di riflessione su un tema,
quello educativo,
sempre centrale e che,
anche quando non esplicitamente affrontato,Carmine Fiorillo
rimane sempre l‘implicito riferimento
di tutte le pubblicazioni
di Petite Plaisance.

 


Fernanda Mazzoli

La centralità delle conoscenze:
una bussola per uscire dalle secche dell’aziendalismo

Fernanda Mazzoli
L’educazione ai tempi del liberismo
La deconcettualizzazione dell’insegnamento
La storia negata
Il maestro negato
Una scuola forte è possibile?
Indicazioni bibliografiche sul tema


Franco Toscani

Sul senso e sul declino della nostra scuola

Scuola e panaziendalismo
L’alienazione scolasticaFranco Toscani
Don Lorenzo Milani
e l’esperienza della “scuola di Barbiana”:
una lotta per la cultura e il linguaggio,
per l’eguaglianza e la dignità delle persone
La testimonianza della ‘Scuola di Barbiana’ e la sua eredità odierna
La scuola e la “mutazione antropologica”
Maestri e allievi. Per una etica della responsabilità
Friedrich Nietzsche e gli interrogativi sull’avvenire delle nostre scuole
La Bildung e il destino della civiltà planetaria

 

 


Lucio Russo

Per una scuola in grado di trasmettere cultura

Per una scuola
in grado di trasmettere cultura,Lucio Russo
è essenziale interrogarsi
su quale cultura
si voglia trasmettere e perché


Claudio Lucchini

La merce a scuola ovvero la scuola della merce

La merce a scuolaClaudio Lucchini
ovvero la scuola della merce:
riflessioni

sulle tendenze
antropologico-sociali
sottese alla pratica scolastica attuale


Alberto Giovanni Biuso

Per la παιδεία

Scuola e politicaAlberto Biuso
Conoscenze e competenze
Socratismo e comportamentismo
Marketing e analfabetismo
Europa e παιδεία


Salvatore A. Bravo

Il freddo, implacabile strangolamento della παιδεία

L’ecolalia pedagogica
Pedagogia senza fondamento
La didattica breve e il neolinguaggio pedagogicoSalvatore Bravo
L’homo oeconomicus
La scuola azienda
Trascendere le classi per strutturare lo sradicamento
Conclusioni


Arianna Fermani

L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano
Riflessioni sulla παιδεία in Aristotele

I. Osservazioni preliminari
Originalità e attualità della riflessione aristotelica sull’educazione
II. Primo scenario educativo: l’educazione precede l’etica
II.a L’insegnabilità della virtù: limiti e caratteristiche
II.b L’emotional training e l’educazione “delle” passioniArianna Fermani
II.c Ulteriori articolazioni del modello educativo
III. Secondo scenario educativo: l’educazione è l’etica
III.a Educazione e metodo della ricerca
IV. Riflessioni conclusive


Romano Luperini

Insegnare la letteratura oggi

Ogni educazioneRomano Luperini
presuppone

una utopia,
la esige
***
Appendice


Alessandro Pallassini

Note sugli apparati riproduttivi societari, guardando alla scuola

I. Introduzione
II. Produzione e riproduzione societaria.Alessandro Pallassini
Brevi cenni
III. Mutamenti del sistema societario
e mutamenti nell’educazione latamente intesa
IV. Scuola-lavoro: possibili omologie
V. Conclusioni (molto provvisorie)
VI. Bibliografia utilizzata


Eros Barone

La crisi dei saperi socratici: una sfida per l’‘humanitas’

I. Società di mercato e saperi socratici
III. Quale rapporto tra il vero e l’utile nel sapereEros Barone
e nella formazione?
III. I “saperi che servono” fra nichilismo antisocratico
e ideologia del ‘politicamente corretto’
IV. Il riscatto dei saperi socratici: utilità, eredità, identità
IV. Futuro dell’‘humanitas’ e ‘humanitas’ del futuro


Giovanni Carosotti

L’«ideologia» della Buona Scuola

Una didattica autoproclamatasi “innovativa”
Un apparato ideologico per formare nuovi soggetti
Una dimostrazione di dissenso:
dall’Appello per la Scuola pubblica alla sua contestazione
Una critica delle ideologie rivolta al concetto di «competenza»
La scelta impositivaGiovanni Carosotti
Una salutare critica delle ideologie
La pseudo scienza delle competenze
L’azzeramento
della pluralità storiografica ed ermeneutica delle discipline
Una scuola di sorveglianti e sovergliati, misurati e misuratori
Breve riflessione sul quantitativo


Rossella Latempa

L’ossessione valutativa

Il mito dell’oggettivitàRossella Latempa
L’imbracatura ortopedica
della valutazione scolastica
Matematizzazione dell’essere umano


Lorenzo Varaldo

La posta in gioco

 

È in gioco il sapere dell’umanitàLorenzo Varaldo
La nostra Dichiarazione di oggi
***
Dichiarazione finale della Conferenza Nazionale
del 19 maggio 2018 per l’abrogazione della legge 107


Fernanda Mazzoli

Per una seria cultura generale comune

Una proposta di Lucio RussoFernanda Mazzoli
Recensione al libro
Lucio Russo,
Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista


Lucrezia Fava

Λόγος, linguaggio, tempo

Dai seminari heideggerianiLucrezia Fava
di Le Thor
Recensione
al libro
Martin Heidegger, Seminari


Silvia Gullino

Una appassionata ricostruzione della filosofia aristotelica

Alla ricerca del luogoSilvia Gullino
in cui la sapienza teoretica si radica nell’umano
Recensione al libro
Claudia Baracchi, L’architettura dell’umano.
Aristotele e l’etica come filosofia prima



Per far memoria

del nostro impegno sul tema della scuola

Metamorfosi della scuola

Metamorfosi della scuola italiana

Anno 2000, pp. 304, Euro 20

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Testata Koinè

Contributi di:

Fabio Acerbi – Marino Badiale – Giuseppe Bailone – Fabio Bentivoglio – Piero Bernocchi – Lucio Bontempelli – Massimo Bontempelli – Paolo De Martis – Adolfo Scotto Di Luzio – Federico Dinucci – Giampiero Giampieri – Giulio Ferroni – Emanuele Narducci – Fabrizio Polacco – Costanzo Preve – Lucio Russo – Livio Sichirollo – Roberto Signorini – Lorenzo Varaldo

Sommario

Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?, di Massimo Bontempelli
La scuola sospesa, di Giulio Ferroni
Alcune osservazioni sui contenuti dell’insegnamento, di Lucio Russo
Orwell 2000, di Fabrizio Polacco
Sulle sorti della matematica e della fisica nella scuola superiore, di Fabio Acerbi
L’insegnamento delle discipline scientifiche e la storia della scienza, di Lucio Bontempelli
30 tesi contro la Scuola-Azienda e l’Istruzione-Merce, di Piero Bernocchi
La catena dei perché. Riflessioni sulle radici del “Concorso Berlinguer”, di Costanzo Preve
Autonomia didattica e libertà di insegnamento, di Federico Dinucci
Chi non sa nulla, insegna ad insegnare, di Paolo De Martis
Che buon pro facesse (e faccia) il “Verbo”, di Giampiero Giampieri
“L’agonia della scuola italiana”: un libro controcorrente, di Fabio Bentivoglio
Una lettura critica del libro “L’agonia della scuola italiana”, di Roberto Signorini
Il libro di Antonio La Penna “Sulla scuola”, di Emanuele Narducci
L’insegnante trova le sue parole. Perché un “no” ai salari di merito, di Lorenzo Varaldo
Il libro verde della Pubblica istruzione, di Giuseppe Bailone
Il Liceo classico, di Adolfo Scotto di Luzio
Il resistibile declino dell’università. Ragioni per un titolo, di Livio Sichirollo
Il nome delle libellule. Breve riflessione sulle culture popolari, di Marino Badiale


L'agonia della scuola italiana

Massimo Bontempelli

L’agonia della scuola italiana

Anno 2000, pp. 144, € 10,00

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La scuola italiana nel suo insieme è oggetto, per la prima volta dopo tre quarti di secolo, di una riforma complessiva ed incisiva. Le innovazioni che vi sono introdotte, però, esaminate attentamente nei loro effetti concreti, risultano tutte profondamente negative, sia sul piano della formazione educativa dei giovani, che su quello della professionalità degli insegnanti e della trasmissione di un sapere degno di questo nome. Il carattere pubblico e nazionale del sistema dell’istruzione, e la sua capacità di promuovere lo spirito critico e l’autonomia di giudizio dei giovani, ne risultano gravemente compromessi.
Questo disastro è il prodotto di una cultura dogmatica e ideologizzata dei promotori della riforma, che li rende incapaci di pensare su un piano conoscitivamente alto, ed eticamente valido, il nesso tra scuola e società. Tale cultura è peraltro funzionale alle inconfessate esigenze totalitarie di un determinato sistema di potere.
La scuola italiana, a questo punto, potrà essere salvata soltanto dalla resistenza consapevole degli insegnanti che vogliono continuare ad essere educatori.

Il libro si articola in sette capitoli:
L’innovazione distruttiva
Il didatticismo di regime
L’autonomia aziendalistica
L’educazione negata
La stupidità rivelata
La scuola del totalitarismo neoliberista
Il destino della scuola


Buoni e cattivi maestri

Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri

Anno 2003, pp. 160, Euro 15

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Testata Koinè

Contributi di:

Guido Armellini – Andrea Bagni – Antonia Baraldi Sani – Fabio Bentivoglio – Carlo Bolelli – Massimo Bontempelli – Francesco Borciani – Marcello Cini – Vittorio Cogliati Dezza – Luca Grecchi – Corrado Maceri – Fabiano Minni – Bruno Moretto – Cesare Pianciola – Gianna Tirandola – Marcello Vigli

La scuola e il fondamento, di Luca Grecchi
Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, di Francesco Borciani
Sapere di polis, di Andrea Bagni
Il quinto postulato, di Fabio Bentivoglio
Quale scuola per quale Stato?, di Marcello Vigli
L’intelligenza del tranviere, di Guido Armellini
Partiamo dalle nuove sfide, di Vittorio Cogliati Dezza
Il cappotto del professore, di Antonia Baraldi Sani
La scuola della Repubblica tra Stato, Regioni e sussidiarietà, di Corrado Mauceri
Evoluzionismo: un ponte tra due culture, di Marcello Cini
Sul sapere critico, di Carlo Bolelli
La convergenza del centrosinistra e del centrodestra
nella distruzione della scuola italiana, di Massimo Bontempelli
Il tutto e le parti, di Guido Armellini
L’esperienza del referendum in Emilia Romagna, di Bruno Moretto
Intervista immaginaria di Ignazio Olloy al Professor E. De Candi, di Fabiano Minni
L’esperienza del referendum in Veneto, di Gianna Tirondola
Lettera aperta ai partiti della sinistra sulla scuola
Venti anni di attività, di Cesare Pianciola


Il sogno di una scuola

Maria Luisa Tornesello

Il sogno di una scuola

Lotte ed esperienze didattiche negli anni Settanta: controscuola, tempo pieno, 150 ore.

Allegato il CD-ROM per Windows con l’audiovisivo Oltre il libro di testo: parole ed esperienze di opposizione nella scuola dell’obbligo degli anni Settanta,
di Maria Luisa Tornesello e Roberto Signorini.

ISBN 978-88-7588-006-4, 2006, pp. 416, Euro 27

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Si manifesta ormai da più parti l’esigenza di considerare con metodo scientifico la storia degli anni Settanta, superando sia l’urgenza della testimonianza personale che la rimozione di un materiale impegnativo e «scomodo». Questo discorso vale in modo particolare per la scuola, in quegli anni al centro dell’attenzione con analisi, pratiche, lotte, che presto e abbastanza superficialmente sono state liquidate o «demonizzate».
In realtà la scuola, e in particolare la scuola dell’obbligo, è il punto d’incontro dei problemi che in quel momento agitano la società italiana. È un vero e proprio laboratorio di idee e progetti vissuti come rivoluzionari: partecipazione democratica, non delega, autonomia e potere dal basso.
Questo libro è una prima ricostruzione di quei fermenti, caotici ma aperti e vitali. Esso si basa su una documentazione inconsueta (prese di posizione politiche e sindacali dei «nuovi insegnanti», lavori degli studenti, materiale didattico delle scuole sperimentali e dei corsi 150 ore, documenti di programmazione didattica, produzione dell’editoria didattica alternativa), in cui è possibile cogliere il profondo cambiamento rispetto al passato, la ricchezza del dibattito e delle proposte didattiche, l’impegno civile.

 

 

 


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René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.

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«Les mots qui vont surgir savent de nous
de choses que nous ignorons d’eux».

René Char

Fernanda Mazzoli

René Char e la sua poesia in Feuillets d’Hypnos


Il testo completo di 10 pagine scaricabile in PDF

Résistance n’est qu’espérance. Espérance indomptable
d’un humanisme conscient de ses devoirs, discret sur ses vertus,
désirant réserver l’inaccessible champ libre à la fantaisie de ses soleils,
et décidé à payer le prix pour cela.

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Negli anni della Resistenza all’occupazione tedesca il poeta René Char divenne il Capitano Alexandre, comandante del Servizio d’azione Paracadutistico del settore della Durance, in Provenza, ma quando riusciva a trovare il tempo per scrivere era Hypnos, il dio del sonno, fratello di Thanatos.

Nel 1946, le note scritte in un taccuino nascosto in una cavità della parete della sua stanza al Quartier Generale di Céreste e fortunosamente scampate alla distruzione furono pubblicate con il titolo di Feuillets d’Hypnos (Fogli di Ipnos): 237 frammenti, talora di disarmante oscurità, talaltra di accecante bagliore, sempre tesi sulla linea aspra, quasi sul punto di spezzarsi, di una lingua dura e folgorante, scevra di compiacimento, una lama acuminata per rompere la scorza della parola.

Les feuillets d’Hypnos

Feuillets d’Hypnos

Note scritte «nella tensione, nella collera, nella paura, nell’emulazione, nel disgusto, nell’astuzia, nel raccoglimento furtivo, nell’illusione dell’avvenire, nell’amicizia, nell’amore» – come ricorda lo stesso Char –, segnate dalla contingenza, mai chiuse su di essa, incalzate dall’urgenza dell’azione, ma capaci di incrociare la corrente sotterranea e resistente «des infinis visages du vivant» (degli infiniti volti del vivente) che scorre sotto la glaciazione dell’orrore quotidiano, nella «Francia delle caverne» che soffrì, sperò e lottò nel lungo inverno della guerra.

Un inverno che Hypnos afferra e riveste di granito, forte di un potere metamorfico che muta il primo in sonno e il secondo in fuoco. Morte apparente sotto cui si conserva il fiume carsico della vita, fiamma che preserva la luce nella grande tenebra abbattutasi sul mondo e riscalda quel soffio vitale minacciato di estinzione.

scritta

Potere conservante e vivificante della parola «affectée par l’événement» (intaccata dall’evento), parola che appare nella sua nudità e lacerazione, «un frammento di meteora staccatosi da un cielo sconosciuto», secondo l’illuminante immagine di Maurice Blanchot.[1] Dare a questa parola la possibilità di essere detta è un atto di violenza su se stessi; la fiammella di Hypnos è esposta alla bufera e alla tentazione dell’abbandono, si spegne e si riaccende senza sosta, finalmente incalzata dalla sua stessa necessità.

«Je me fais violence pour conserver, malgré mon humeur, ma voix d’encre. Aussi est-ce d’une plume à bec de bélier, sans cesse éteinte, sans cesse rallumée, ramassée, tendue et d’une haleine , que j’écris ceci, que j’oublie cela. Automate de la vanité? Sincèrement, non. Nécessité de contrôler l’évidence, de la faire créature».

(«Mi faccio violenza per conservare, malgrado il mio umore, la mia voce d’inchiostro. Così, è con una penna a testa d’ariete, continuamente spenta, continuamente riaccesa, raccolta, tesa e d’un sol fiato che scrivo questo, che dimentico quello. Automa della vanità? Sinceramente no. Necessità di controllare l’evidenza, di farla creatura» – frammento[2] 194).

La parola poetica di Char, che rifiuta la facilità e la felicità del verso e della rima, è parola in movimento, che ha appreso a muoversi rapida, furtiva ed efficace nel segreto dei boschi, custodisce gli uomini che di notte escono, attenti ad evitare le imboscate del nemico, altrettanto pronti ad attaccarlo. Così, essa incalza l’oscurità, il freddo e il silenzio del terrore, li attraversa a rischio di negarsi e perdersi per sempre («Comment m’entendez-vous? Je parle de si loin …» – «Come potete sentirmi? Parlo da così lontano …» – fr. 88) e disegna lo spazio del controterrore. Valli inghiottite dalla nebbia, fruscìo di foglie, passi felpati di animali che si muovono «sur l’écorce tendre de la nuit» («sulla tenera scorza della notte»), un filo d’erba che accarezza un volto, il fulgore della luna che suggerisce un incendio sempre differito, un minuscolo e sconosciuto domani, l’ombra vicina di un compagno rannicchiato che pensa che la sua cintura sta per cedere – fr. 141): di tanta densità e di tanta leggerezza, vasi comunicanti nell’incessante fluire della vita, è fatto lo spazio rimasto aperto alla libertà e alla fraternità.

Fraternità dove l’uomo finisce per riconoscere se stesso nel vincolo d’amicizia che lo lega agli altri uomini di cui condivide ragioni, dolore, paura, speranza, furori e fiducia; fraternità che è anche intima fedeltà al respiro misterioso della vita universale, alle notti che avvolgono e proteggono il maquis, [3] al silenzio del mattino, al profumo dei fiori, all’erba dove cantano i grilli, alle stelle del mese di maggio, alla neve che attende la neve, sul limite di aria e terra, ai mandorli sobri e agli ulivi sognatori, sentinelle sul ventaglio del crepuscolo (- fr. 82). E fratello è il popolo dei prati, dalla fragile bellezza che non finisce di incantare e di imporsi : il topo di campagna e la talpa «sombres enfants perdus dans la chimère de l’herbe»cupi bambini persi nella chimera dell’erba»), l’orbettino «fils du verre» («figlio del vetro»), la cavalletta «qui claque et compte son linge» («che sbatte e fa la conta del bucato»), l’ebbra farfalla e le formiche rese saggie dalla grande distesa verde e sopra di loro «les météores hirondelles» («meteore rondini») – fr. 175.

«Á tous les repas pris en commun, nous invitons la liberté à s’asseoir. La place demeure vide mais le couvert reste mis». («Ad ogni pasto preso in comune, invitiamo la libertà a sedersi. Il posto rimane vuoto, ma la tavola resta apparecchiata» – fr. 131).

Ralentir Traveaux 01

Ralentir Traveaux

La grande assente è, in realtà, l’autentica presenza in quello spazio allestito dall’azione di uomini che ne mantengono viva l’incerta, eppur pervicace fiammella. Qui, nel bel mezzo della rovina e del sangue versato, germogliano una nuova innocenza e un sentimento di assoluta appartenenza che fa di uomini costretti alla fuga e alla clandestinità alberi ben piantati nel loro suolo, benché «ma maison soit de nulle part» («la mia casa sia di nessun luogo» – fr. 206). Così, Robert G., ucciso in un’imboscata, conosce questa metamorfosi: per Réné Char, di cui fu il miglior compagno d’armi, è un essere meraviglioso, un albero del tempo precedente l’invenzione dell’ascia, un uomo che «portait ses quarante-cinq ans verticalement, tel un arbre de la liberté» («portava i suoi quarantacinque anni verticalmente, come un albero della libertà» – fr. 157).

L’azione che persevera, la parola che non si spegne conservano quel che resta di umanità e di vita e lo traghettano attraverso il lungo inverno che non è già più tale, perché Hypnos si è fatto fuoco e gli uomini sono fioriti in alberi e il poeta è sceso dalla stratosfera del Verbo, per «se lover dans de nouvelles larmes et pousser plus avant dans son ordre» («rannicchiarsi in nuove lacrime e spingere più avanti nel suo ordine» – fr. 19). Finiti gli incantesimi oscuri e anestetizzanti del Verbo, l’ordine perseguito è «d’une sobrieté de pierre» («di una sobrietà di pietra» – fr. 95), ha il volto della collera che non alza la voce (- fr. 92), raccoglie tesori sparsi (- fr. 97), come i maquisards (partigiani) di Cérestes raccolgono i viveri e le munizioni lasciate cadere dagli aerei nella base clandestina creata dal capitano Alexandre sulle Alpi della Provenza natale.

Ralentir Travaux

Ralentir Travaux

Parola di resistenza che è parola di speranza («Résistance n’est qu’espérance» – fr. 168), germogliata nel e dal terreno del combattimento di cui ha sposato l’asprezza, la radicalità e il segreto dell’efficacia, essa non vuole imbalsamarsi in canto di circostanza, rifugge dall’intento celebrativo, non aspira al palcoscenico imbandierato del pathos resistenziale.

Nel 1945, quando decide di mettere mano al quaderno ritrovato per aggiungere, tagliare, modificare, René Char scrive a un amico che sta lavorando a qualcosa di nuovo, «rien du genre papier résistant, cocardier, récital» («niente del genere foglio resistente, militarista, récital»). Eppure, nessuna voce poetica – e la Francia di quegli anni ne conobbe tante, e altissime – riesce come questa, scampata per un caso fortunato alla distruzione, votata al silenzio, [4] oscura ai limiti dell’enigmatico a fondare una pratica di scrittura resistente. La partecipazione di Char al movimento surrealista lo predisponeva sicuramente a considerare poesia ed azione come «vasi comunicanti», ma altri poeti resistenti erano passati attraverso la stessa esperienza surrealista, eppure privilegiarono soluzioni espressive e formali molto diverse.
La scelta di una poesia-non poesia che procede per frammenti, aforismi, illuminazioni porta in sé un tratto di essenzialità, una capacità di raggiungere con precisione il proprio oggetto e di allargarne la percezione che una struttura del discorso più rigida e articolata rischia di comprimere, virando verso il lirico o il narrativo. Questo elemento non basta, tuttavia, a risolvere la contraddizione tra la laconicità dell’espressione e la ricchezza dell’esperienza. È, piuttosto, «la pensée du neutre»[5] («il pensiero del neutro») che agisce in questo senso.
Molti studiosi hanno messo in rilievo la frequenza e l’importanza di parole ed espressioni neutre, o vicine al neutro, nella lingua poetica di Char; per restare ai Feuillets d’Hypnos, basti qui sottolineare parole come «le vivant», «le réel», «le familier», l’uso frequente del pronome impersonale «on» e di locuzioni verbali impersonali, la ricorrenza del soggetto «homme» e di soggetti astratti, l’incidenza di frasi infinitive e nominali.[6]

Fureur et mystère

Fureur et mystère

Che René Char, affermato poeta surrealista, abbia lasciato il posto a Hypnos, dio del sonno, va in questa direzione: segnale di volontà di spossessamento della parola, ma anche rivendicazione di uno stato sospeso tra la morte e la vita, un grande spazio bianco, cui corrisponde nella pagina il piccolo spazio bianco tra un frammento e l’altro.


Nella prefazione all’edizione tedesca delle Poesie di Char, uscita nel 1959, Albert Camus scrisse: «Ritengo che René Char sia il nostro maggiore poeta vivente e che Fureur et mystère sia ciò che la poesia francese ci ha dato di più sorprendente dopo Les Illuminations e Alcools. […] In effetti la novità di Char è strepitosa. Egli è senza dubbio passato per il surrealismo, ma prestandosi e non donandosi, per il tempo necessario ad accorgersi che i suoi passi erano più sicuri quando camminava da solo. Dalla pubblicazione di Seuls demeurent, una manciata di poesie è bastata comunque a sollevare sulla nostra poesia un vento libero e vergine. Dopo tanti anni in cui i nostri poeti, votati anzitutto alla fabbricazione di “ninnoli di vacuità”, non avevano fatto altro che lasciare il liuto per prendere la tromba e la poesia diventava una salubre sgobbata. […] L’uomo e l’artista, che camminano con lo stesso passo, si sono immersi ieri nella lotta contro il totalitarismo hitleriano, e oggi nella denuncia dei nichilismi contrari e complici che dilaniano il nostro mondo. […] Poeta della rivolta e della libertà, egli non ha mai accettato il compiacimento, né ha confuso, secondo la sua espressione, la rivolta con l’umore. […] Senza averlo voluto, e soltanto per non aver rifiutato niente dei suoi tempi, Char, allora, fa molto di più che esprimere la nostra realtà attuale: egli è anche il poeta dei nostri giorni avvenire. Benché solitario, egli riunisce, accomuna e, all’ammirazione che suscita, si mescola quel grande calore fraterno nel quale l’umanità produce i suoi frutti migliori. Siamone certi, è ad opere come questa che noi potremo ormai fare ricorso e chiedere chiaroveggenza».


Albert Camus e Renè Char

Albert Camus e Renè Char.

Per quanto un’analisi lessicale sia utile per orientare il lettore, il neutro, come sottolinea Maurice Blanchot che ad esso ha votato una ricerca incessante ed appassionata, non ha a che vedere solo con il vocabolario. É piuttosto riconducibile alla domanda, altrove espressa da Char,[7] su «Comment vivre sans inconnu devant soi?» («Come vivere senza ignoto davanti a sé?»), dove l’«inconnu» non può essere ricondotto semplicemente a ciò che non è ancora conosciuto e nemmeno ad oggetto di conoscenza per intuizione o per fusione mistica. Estraneo a ciò che è visibile come all’invisibile, non si presta ad essere rivelato, ma solo indicato nella sua irriducibile alterità ed è solo una parola che rinunci al potere di afferrare, di com-prendere che può accoglierlo e mantenerlo tale, lasciarlo, cioè, ignoto.[8]

Tale sarebbe la parola di René Char, Hypnos nelle brevi, inquiete notti del maquis dove, insieme a un pugno di uomini, tiene accesa davanti a sé un’esile fiamma e una voce. Voce che si vuole anonima, nella rinuncia ad essere espressione di un io lirico e profetico di un poeta che, sulla scia di Hugo, indichi al popolo la strada da seguire per affrancarsi dalle tenebre ed affacciarsi su un radioso avvenire.

«Ce carnet pourrait n’avoir appartenu à personne tant le sens de la vie d’un homme est sous-jacent à ses pérégrinations» («Questo taccuino potrebbe non essere appartenuto a nessuno tanto il senso della vita di un uomo è soggiacente alle sue peregrinazioni»), avverte Char nella nota introduttiva all’edizione del 1946. Questa voce impersonale, perseverante nella discontinuità, urgente e impaziente, disposta ad accogliere l’ignoto e a rispettarlo, capace di interrogare il reale con la forza della metafora, dell’apostrofe, dell’aforisma, parla dalla notte illuminata dai lanci, dal folto della macchia, dal deserto della guerra, da una casa che non è una casa, dal fondo dell’angoscia di ciascuno e diventa voce di condivisione.

Le circostanze – collettive ed individuali – hanno fatto d’Hypnos «le conservateur» («il custode») e il responsabile di questa parola, ma «la suite appartient aux hommes» («il seguito appartiene agli uomini»), scrive il capitano Alexandre, ritornato René Char, in introduzione al taccuino ritrovato che diventerà libro. Appartiene «à l’homme réqualifié» («all’uomo riqualificato»), invocato da René Char, all’uomo che decide liberamente di assumersi la responsabilità e il rischio di questa parola e della comunicazione che essa istituisce. Parola di rottura, proiettile che incide, scheggia e frantuma la crosta dura delle cose, essa finisce per allargare lo spazio destinato all’uomo, con l’ambizione di restituirgli intera la sua umanità.

«Dans nos ténébres, il n’y a pas une place pour la Beauté. Toute la place est pour la Beauté». («Nelle nostre tenebre, non c’è un posto per la Bellezza. Tutto il posto è per la Bellezza» – fr. 237, l’ultimo). Separata dal corpo frammentario delle 237 «propositions» (termine che Char preferiva a quello di «aforismi»), La rose de chêne (La rosa di quercia) chiude i Feuillets con un’apostrofe alla Bellezza, compagna dell’uomo nella sua lotta per avere la meglio sul destino per mezzo della speranza.

«Chacune des lettres qui composent ton nom, ô Beauté, au tableau d’honneur des supplices, épouse la plane simplicité du soleil,s’inscrit dans la phrase géante qui barre le ciel, et s’associe à l’homme acharné à tromper son destin avec son contraire indomptable: l’espérance». («Ciascuna delle lettere che compongono il tuo nome, Bellezza, nel posto d’onore dei supplizi, sposa la piana semplicità del sole, s’iscrive nella frase gigante che chiude il cielo, e s’associa all’uomo impegnato con accanimento ad ingannare il suo destino con il suo indomabile contrario: la speranza»).

Il destino, in quegli anni, aveva il volto della barbarie nazista, ma, oltre la congiuntura storica, è dimensione di un antagonismo che non conosce riposo e che vede l’uomo combattere innnanzitutto con l’arma della speranza che tiene aperta la porta al possibile. Non la speranza che piange disfatta del celebre sonetto di Baudelaire, [9] ma «l’espérance indomptable», resistenza e perseveranza di parola e azione, nata sul terreno «d’un humanisme conscient de ses devoirs, discret sur ses vertus, désirant réserver l’inaccessible champ libre à la fantaisie de ses soleils, et décidé à payer le prix pour cela» («di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo»). Resistenza è fatta di speranza, ma vive di perseveranza e di responsabilità che lega la voce di Hypnos alla voce misteriosa, che non ha centro né origine, ma ovunque risuona, di tutto ciò che vive: uomini, animali, alberi, montagne, astri.

——

I frammenti citati sono tratti da Feuillets d’Hypnos in Réné Char, Fureur et mystère, Gallimard, Paris, 1967 e da me tradotti. L’opera di Char è stata tradotta in italiano da grandi poeti come Giorgio Caproni (per Feltrinelli) e Vittorio Sereni (per Einaudi).

Fernanda Mazzoli

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Il testo completo di 10 pagine scaricabile in PDF

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[1] M. Blanchot, L’entretien infini, Gallimard, Paris, 1969, p. 452.

[2] Da ora, a lato della citazione comparirà solamente il numero corrispondente all’ordine cronologico del frammento.

[3] Letteralmente “macchia”, “boscaglia”, il termine ha finito per indicare la Resistenza sul territorio francese.

[4] Char, che aveva esordito nel 1930 con Ralentir travaux, scritto in collaborazione con Breton e Eluard, si rifiutò fermamente di pubblicare alcunché durante il periodo dell’occupazione.

[5] M. Blanchot, L’entretien infini, op. cit., p. 439.

[6] M.-F. Delecroix, in R. Char, Les feuillets d’Hypnos, Gallimard, Paris, 2007, pp. 111-112.

[7] Cfr. Le poème pulverisé in R. Char, Fureur et mystère, Gallimard, Paris, 1967.

[8] M. Blanchot, L’entretien infini, op. cit., pp. 439-446.

[9] Cfr. C. Baudelaire, Spleen in Les fleurs du mal.


Albert Camus , René Char- Correspondance (1946-1959)

Albert Camus , René Char, Correspondance (1946-1959)

En trente-trois morceaux suivi de Sur la Poésie, Le Bâton de rosier, Loin de nos cendres et de Sous ma casquette amarante (entretiens)

En trente-trois morceaux

Le Maråtåeau sans maître suivi de Moulin premier

Le Marteau sans maitre

Le Visage nuptial suivi de Retour amont

Le Visage nuptial suivi de Retour amont

Lettera amorosa suivi de Guirlande terrestre

Lettera amorosa suivi de Guirlande terrestre

Paul Celan , René Char-Correspondance (1954-1968)

Paul Celan , René Char-Correspondance (1954-1968)

Poèmes Choisis et lus par l'auteur

Poèmes Choisis et lus par l’auteur

Raúl Gustavo Aguirre , René Char- Correspondance (1952-1983)

Raúl Gustavo Aguirre , René Char- Correspondance (1952-1983)

René Char , Zao Wou-ki-Effilage du sac de jute Suivi de Lettres en chemin

René Char , Zao Wou-ki-Effilage du sac de jute Suivi de Lettres en chemin

A. Camus, La Postérité du soleil-Photographies d'Henriette Grindat. Itinéraire de René Char

A. Camus, La Postérité du soleil-Photographies d’Henriette Grindat. Itinéraire de René Char

Commune présence

Commune présence

Feuillets d'Hypnos

Feuillets d’Hypnos

Poèmes en archipel

Poèmes en archipel


Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.

Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.

Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».

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Salvatore A. Bravo – Senza progettualità, in un mondo senza virtù e nell’epoca della normalità del male, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete.

David Foster Wallace 05

Ci sono due giovani pesci che nuotano
e a un certo punto incontrano un pesce anziano
che va nella direzione opposta,
fa un cenno di saluto e dice:
– Salve ragazzi. Com’è l’acqua? –
I due pesci giovani nuotano un altro po’,
poi uno guarda l’altro e fa:
– Che cavolo è l’acqua?
David Foster Wallace, Questa è l’acqua

[clicca qui per leggere la pagina di Wallace]

Salvarore A. Bravo

L’epoca della normalità del male

 

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Sommario

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I pesci di David Foster Wallace

Dialettica spazio-tempo

L’ipostasi merce e la natura consumante dell’uomo nichilista

Cura maniacale del corpo e pornografia di se stessi

L’antiumanesimo del sistema Capitale

Un mondo senza virtù

Genealogia del Capitale e dello stato presente

La prima domanda da porre

Lottare contro la “normalità” e non contro la “banalità” del male

La perenne tensione dell’ostilità predatoria

L’economicismo è la negazione del libro (dell’umanesimo)

Senza modelli progettuali,
non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete

 

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***
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I pesci di David Foster Wallace

Ci sono totalitarismi impliciti – e dunque non riconosciuti – che agiscono capillarmente con modalità pervasive, difficilmente identificabili. Il problema è il percorso per riconoscere il totalitarismo implicito e l’integralismo in cui siamo immersi, come pesci in acqua. In genere, non si è capaci di discernere la qualità ambientale ed ideologica che si respira e ci trasforma, in una parte di un tutto, poiché la normalità, l’abitudine all’indifferenza come al parossismo del valore di scambio congela ogni attività critica domandante. L’animale è parte integrante dell’ambiente, è specializzato e funzionale al suo contesto di sopravvivenza, non lo cambia, non può trasformarlo, perché in assenza del linguaggio e della rappresentazione non può agire su di esso per riconfigurarlo, e quindi ne è passivamente parte, come il pesce nell’acqua che non può rappresentarsi l’acqua e di conseguenza non può immaginare un altro modo di vivere. La tecnocrazia, nella stessa maniera, sempre più persuade che lo stato attuale è l’unico mondo possibile, dunque siamo come pesci in acqua, senza linguaggio per ripensare l’ambiente socioeconomico in cui siamo gettati.

***

Dialettica spazio-tempo

Non è necessario organizzare squadre di pompieri pronte a bruciare libri ed a proibire la lettura come in Fahrenheit 451. Il potere economico ha assimilato il potere politico: oggi utilizza mezzi meno palesi, fa appello all’esemplificazione, ai processi di alienazione, alle miserie dell’abbondanza per lobomotizzare l’essere umano, per sottrarre all’ente generico (Gattungswesen) le sue potenzialità, il suo essere un animale simbolico. Aldo Capitini definiva il totalitarismo consumista una forma di “americanismo-pompeiano”: l’eccesso, la dismisura è la legge dell’integralismo economico. La spazializzazione contro la temporalità vissuta ed in quanto tale storica e dotata di senso, è la dialettica che sostanzia il totalitarismo economico. Per Kant è il tempo l’intuizione che dà senso allo spazio, per il totalitarismo economico, lo spazio deve assimilare lo spirito (Geist).

***

L’ipostasi merce e la natura consumante dell’uomo nichilista

La spazializzazione agisce in modo da occupare gli spazi per sottrarre con la stimolazione delle immagini, degli idola-merce, ogni possibilità di prassi del soggetto che sottoposto al “bombardamento etico” del libero mercato, abdica ad ogni valutazione critica sul senso e sulla congruità del contesto in cui è disperso. Lo spazio pervade i tempi della mente sottoponendola ad un’accelerazione osmotica di desideri, riducendola ad un porto nel quale le merci sono scaricate e caricate. La spazializzazione della vita è dinanzi ai nostri sguardi, ma come il pesce nell’acqua, non ci rappresentiamo il mondo merce, non lo nominiamo: eppure esso c’è , è l’ipostasi e noi siamo l’accidente. Il processo di animalizzazione dell’essere umano, a questo punto, non necessita di squadre di pompieri pronte ad incenerire, con i libri, i pensieri autonomi e disfunzionali al sistema capitale, ma agisce riempendo gli spazi di merce sottraendo al libro, alla sospensione della valorizzazione, ogni possibilità di diventare reale.
Le grandi librerie si riempiono di oggetti di ogni genere, di conseguenza gli imprenditori delle multinazionali del libro, non sono antitetici al sistema capitale, ma complementari, al punto che il potenziale lettore trova in una libreria, non solo libri, ma anche carabattole, stoviglie, mezzi multimediali: la distrazione dal libro, dal pensiero critico, è così organizzato all’interno degli spazi nei quali invece, si dovrebbe organizzare e riorganizzare l’apparato simbolico: il fine è solo vendere, per cui il libro è reso eguale a qualsiasi merce.
Non è necessario che vi siano i pompieri ad inibire la lettura, si agisce per la dimenticanza del libro, della coscienza oppositiva e critica, ostruendo i canali nutritivi della temporalità, inaridendo la natura umana generica per definirla nei termini di natura consumante, ed osservante agli obblighi della legge del libero scambio.

***

Cura maniacale del corpo e pornografia di se stessi

Il passo ulteriore dell’asfissia-merce è l’adattarsi dell’essere umano alle leggi del mercato, al punto di percepire se stesso come “capitale umano”: una merce un po’ speciale, da immettere nel mercato delle competenze e della competizione previa ostentazione della merce in oggetto. La pornografia di se stessi. La spazializzazione è la messa in vendita sul mercato della “cura di sé” che – a dispetto dell’ultimo Foucault – non è affatto la messa in atto di liberi processi di soggettivizzazione, ma è unicamente cura maniacale del corpo, tentativo di ridurlo a corpo morto, a pura spazializzazione ben tornita, cartina di tornasole per rendere più vendibili le proprie competenze comprate nel circuito della “offerta formativa”.

***

L’antiumanesimo del sistema Capitale

Il modo di produzione capitalistico nega la natura degli esseri umani, pone la persona sullo stesso livello degli animali non umani: questi ultimi si caratterizzano per essere specializzati in una particolare funzione; il capitalismo specializza l’essere umano rendendolo funzione in una particolare attività produttiva. È negata la polisemia simbolica dell’essere umano: nel capitalismo assoluto l’essere umano è sempre più consumatore senza limiti, piuttosto che produttore. È opportuno rammentare la lezione di Marx, che a soli ventisei anni, aveva compreso gli effetti antiumanistici del sistema capitale:

«La creazione pratica d’un mondo oggettivo, la trasformazione della natura inorganica è la riprova che l’uomo è un essere appartenente ad una specie e dotato di coscienza, cioè è un essere che si comporta verso la specie come verso il suo proprio essere, o verso se stesso come un essere appartenente ad una specie. Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; produce solo sotto l’impero del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente difronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno della specie, a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza». [1]

***

Un mondo senza virtù

Marx descrive un mondo senza virtù, senza aretè (ἀρετή), parola greca in italiano poco traducibile, perché la virtù per i Greci era la realizzazione di sé. Essa è bellezza, perché generativa (Platone, Simposio), è l’umano nella forma finalistica: ciascuno ha un’indole, un dono/virtù (cristianamente: i “talenti”), che deve affinare e formare, affinché la sua vita sia degna di essere vissuta; divenendo se stesso, l’essere umano si stacca dallo stato ferino, dall’immediatezza dei bisogni riordinandoli in una dimensione universale. Pertanto Aristotele può affermare[2] che lo sviluppo virtuoso dell’intelletto india, rende simili alla divinità. Giustizia e felicità coincidono nella visione greca: la Politeia (Πολιτεία) di Platone presuppone non solo la giustizia, ma anche la felicità, poiché ogni cittadino occupa un ruolo che corrisponde alla propria natura e pertanto è felice. Senza la dimensione temporale non vi è telos (τέλος), ma solo il bieco meccanicismo che riduce l’essere umano ad un ente gettato in uno spazio senza tempo e dunque sottratto alla storia. La lotta personale e collettiva è tenere in vita il proprio senso, la fedeltà al proprio destino contro l’integralismo economico meccanicistico. Naturalmente non è sufficiente. Perché la prassi sia parte del quotidiano, si deve elaborare un progetto collettivo a più voci. Ma senza questa prima forma di resistenza non vi alcun inizio, alcun agere, ma solo l’ipostasi mercato, che curva le parole, le espressioni dialogiche nella forma merce, e dunque il dispositivo (Gestell) si installa per parlare per noi, i posseduti dall’economia di mercato.

***

Genealogia del Capitale e dello stato presente

L’emancipazione dal capitalismo assoluto non può prescindere dalla conoscenza critica. Massimo Bontempelli, filosofo e storico, nel suo scritto L’ Agonia della scuola italiana chiarisce che sapere critico è quel sapere capace di mettere in discussione i fini, mentre la tecnocrazia didattica si sofferma sulle abilità tecniche per giungere a fini già prestabiliti ed indiscutibili. L’emancipazione necessita di una messa in discussione dei fini, mediante i processi archeologici-genealogici della Filosofia. Il metodo processuale tipico della Filosofia – e strutturatosi in particolare con Rousseau, Marx e Foucault – rimette in discussione l’ipostasi mercato rimappando dati e necessità che invece, attraverso di esso, appaiono nella loro umanità, non più un destino senza destinazione, ma potenzialità interne alla storia umana. Un nuovo asse culturale è dunque imprescindibile al fine della prassi, altrimenti si sarà condannati a vivere nell’eterna ripetizione del presente, esposti alla precarietà come al male di vivere come fosse una necessità ontologica.

***

La prima domanda da porre

Bisogna, dunque, reimparare a domandare, ed in ciò la Filosofia è un ausilio non sostituibile:

«Le domande da porre non sarebbero: Quali tipi di sapere volete squalificare dal momento che chiedete: è una scienza? Quali soggetti parlanti, discorrenti, quali soggetti d’esperienza e di sapere volete dunque “minorizzare” quando dite: “Io che faccio questo discorso, faccio un discorso scientifico, e sono uno scienziato”? Quale avanguardia teorico-politica volete intronizzare per staccarla da tutte le forme circolari e discontinue del sapere?».[3]

La prima domanda da porre è “Chi parla?”. Abbiamo smesso di chiedercelo. I libri, come la Storia, muovono a questa domanda che desostanzializza i feticci per porre la verità della Storia: lo Spirito umano. Senza la domanda fondamentale “Chi parla?”, il mercato continuerà a parlare, a decidere, ad imperare sui sudditi e sugli esecutori. Si narra che l’imperatore che decise la costruzione della grande muraglia fece bruciare tutti i libri, tranne i libri di medicina. A chi gli chiedeva perché avesse bruciato anche i libri di Storia, l’imperatore rispose che sono sempre un pericolo per il governo in corso.

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Lottare contro la “normalità” e non contro la “banalità” del male

Anche oggi libri e Storia sono minacciati dal potere economico che – per eternizzarsi – deve rimuovere dallo spazio i libri e ridurre la Storia a semplice successione temporale, a semplice presenza nel curriculum scolastico. Il potere si sottrae, così, al giudizio, poiché per la Storia insegna a riconoscere il male e dunque non lo rende “normale”, al punto da non riconoscerlo. Lo Spirito del mondo (Weltgeist), la prassi che porta verso l’emancipazione e la libertà si ritira dall’umanità: al suo posto non resta che il tempo privato dalla sua teleologia. La normalità del male, per George Mosse, è la condizione per l’affermarsi dei totalitarismi, e non la banalità del male della Arendt:

«Non mi pare dunque adeguato parlare della banalità del male, come fa Hannah Arendt. Trovare un’altra espressione è difficile, ma io parlerei della normalità di un male che minaccia in forme estreme il nostro secolo […] Che cosa c’era nella mente? Innanzitutto questo pensiero chiaramente espresso in un famoso discorso di Himmler: abbiamo visto tutti questi cadaveri, e tuttavia restiamo forti. Ritengo che Hannah Arendt non sia nel giusto parlando di banalità del male».[4]

***

La perenne tensione dell’ostilità predatoria

La normalità del male è la precarizzazione della vite oggetto dei capricci del mercato e della legge del profitto. Il paradigma del nuovo ordine mondiale è l’utile che si concretizza nell’individuo astratto, avulso dalla comunità che usa tutto e tutti al fine di ottenere il massimo risultato possibile. La condizione della normalità del male è simile allo stato di natura descritto da Hobbes nel Leviatano. Ogni individuo nello stato di natura vive perennemente la tensione dell’ostilità predatoria, è come se il cielo minacciasse continuamente tempesta, per cui lo stato di precarietà è presente anche nei periodi brevi di calma:

«Infatti la guerra non consiste soltanto in una battaglia od in una serie di operazioni militari, ma in un periodo di tempo in cui appare chiara la volontà di combattere, e perciò l’elemento tempo deve essere considerato come compreso nella natura della guerra, così come lo è nella natura delle mutazioni atmosferiche. Infatti come la natura di una burrasca non consiste soltanto in uno o due scrosci di pioggia, ma nella inclinazione al cattivo tempo per molti giorni insieme; così la natura della guerra non consiste nei suoi particolari episodi, ma in un atteggiamento ostile, durante la durata del quale non vien data requie al nemico».[5]

***

L’economicismo è la negazione del libro (dell’umanesimo)

Libri e prassi sono filologicamente legati, sono il luogo dove lo Spirito dell’umanità prende forma per simbolizzare dialetticamente il tempo. La glorificazione dell’economicismo ha il suo puntello adamantino nella negazione del libro e della lettura. Ogni resistenza deve iniziare dall’attività pratico-teoretica della lettura. Contro il nichilismo economico e dello spettacolo il libro può essere una fenditura nel sistema, un diniego silenzioso dello stato presente. Senza la cultura del libro e della mediazione razionale consustanziale ad essa, non resta che l’incultura dell’immediato, la quale, mentre promette e lusinga con le sue aspettative, forgia le catene del nichilismo, il cui tempo è contenuto nella guerra di tutti contro tutti, nella condizione di spettatore dinanzi agli effetti della globalizzazione.

***

Senza modelli progettuali, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete

Per ricostruire un’azione politica, è necessario lo studio in cui trovare modelli mediati razionalmente nella presente storia: senza modelli progettuali, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che ripete se stesso. I modelli progettuali, in modo comparativo, dispongono al pensiero. La pedagogia del nichilismo, la distruzione dei contenuti – a favore della tecnodidattica che pone i libri in uno stato di minorità – è il germe che veicola la tirannia dell’economia sulla politica, è la negazione della cittadinanza. Contro tutto questo, sono possibili soluzioni plurali, ma rimane la centralità del pensiero teoretico/pratico.

 

[1] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, paragrafo XXIV.

[2] Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b30-31.

[3] M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi Torino 1977, p. 170.

[4] G. Mosse, Intervista sul nazismo, Laterza, Bari 1997, pp. 72-73.

[5] T. Hobbes, Leviatano, Utet Torino, pp. 158-159.

 

 


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Andrea Rovere – Cade in questi giorni il quinto anniversario della morte del filosofo Costanzo Preve. Scriveva: «L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere».

Preve Costanzo 026

 

 

Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.

 

 

Andrea Rovere

Cade in questi giorni

il quinto anniversario della morte

del filosofo Costanzo Preve, nato a Valenza,

he ha vissuto molte mattinate alessandrine

 

  

 

costanzo-preve_mr copia    «Siamo nell’epoca in cui un signore [l’artista Piero Manzoni] ha potuto inscatolare la sua merda e venderla col nome di Merda d’Artista. Ora: una società che quota in borsa la merda d’artista, pagandola migliaia di Euro, anziché prendere a calci nel sedere questo signore per uno scalone, è una società chiaramente malata».

 

Sono parole di Costanzo Preve, filosofo e politologo di origini valenzane di cui pochi giorni fa, esattamente il 23 novembre, ricorreva il quinto anniversario della morte.
E già da qui, da queste poche righe, s’intuisce il genuino spirito anticonformista di Preve, di un uomo che ha vissuto praticando con coerenza la lezione dei filosofi greci dell’antichità, il loro richiamo a farci interpreti di una critica feconda e quotidiana dell’esistente per giungere alla verità, e che di tale coerenza ha pagato il prezzo.

Se infatti di questo grande pensatore, umile come tutti i veri grandi, si parla ancora troppo poco – e magari con un po’ di sufficienza –, è perché la sua voce è stata sistematicamente silenziata per decenni. Lui, autore di tanti saggi importanti che le maggiori case editrici si rifiutavano di pubblicare, e che le riviste specializzate evitavano accuratamente di recensire, nei salotti buoni dell’intellighenzia del Belpaese non ci è mai entrato, poiché scomodo, indisponibile al compromesso, e di un’onestà intellettuale che mal si combina al conformismo culturale di un’Italia che, da questo punto di vista, non è mai stata tanto “italietta” quanto negli ultimi quindici anni.
“Rossobruno”, gli gridavano da sinistra; “comunista”, facevano eco a destra. Ma la realtà è che Preve non era uomo da potersi tirare in ballo nello squallido gioco delle etichette oggi tanto in voga, ed è proprio questa sua libertà, questa sua indifferenza alle mode intellettuali e ai diktat del politicamente corretto, che proprio non poteva essere tollerata là dove si decide chi debba assurgere al rango d’intellettuale e chi no. Ovviamente a prescindere dai meriti.

 

indicepresentazioneautoresintesi

 

E così Preve è rimasto in disparte. Uno dei più attenti studiosi ed originali interpreti di Marx e del marxismo a livello internazionale, nonché analista politico raffinato e autore di saggi di carattere filosofico profondamente ispirati come Lettera sull’umanesimo e Una nuova storia alternativa della filosofia, ai quali il tempo renderà giusto merito, ha patito l’emarginazione e l’ostracismo di coloro i quali, una volta egemonizzati i circoli intellettuali più influenti, hanno sterilizzato quasi completamente il dibattito culturale italiano producendo mediocrità a tonnellate.

196G

Una nuova storia alternativa della filosofia.
Il cammino oltologico-sociale della filosofia

indicepresentazioneautoresintesi

Costanzo Preve, invece, era tutto tranne che un mediocre. E se oggi ci si comincia finalmente ad accorgere di lui, se si discutono tesi di laurea sulla sua opera, e se in generale è cominciata una riscoperta del pensiero previano quantomeno all’interno degli ambienti più sensibili alla voce di chi ha sempre cantato fuori dal coro, è soprattutto grazie all’attività divulgativa di chi, allievo e amico, ha beneficiato in prima persona dell’opportunità di un confronto di idee con un uomo che ha fatto del logos socratico il proprio stile di vita.

Ed era proprio qui, in uno dei bar del centro di Alessandria, che Preve trascorreva talvolta i suoi sabati mattina da quando, insieme all’amico ed ex allievo Alessandro Monchietto (oggi coordinatore didattico all’Università degli Studi di Torino), aveva preso a frequentare quello che sarebbe diventato uno dei confidenti più cari del filosofo, oltre che un collaboratore stimato la cui opinione era presa in attenta considerazione nonostante il grosso divario di età fra i due. Mi riferisco a Luca Grecchi, docente all’Università di Milano Bicocca (ecco perché Alessandria, città a metà strada fra Torino, dove abitava Preve, e Milano), saggista, nonché direttore della rivista filosofica Koinè e coautore con Preve d’una pubblicazione del 2005 dal titolo Marx e gli antichi Greci.

 

indicepresentazioneautoresintesiinvito alla lettura

È lui che abbiamo voluto raggiungere telefonicamente per avere viva testimonianza di quelle mattinate alessandrine spese a “praticare la filosofia”, oltre al breve ritratto inedito di un maestro che ha lasciato un vuoto pesante nel cuore di coloro che come Grecchi, Monchietto e Diego Fusaro, oggi noto ai più grazie alla ribalta mediatica di cui è oggetto da alcuni anni a questa parte, hanno saputo apprezzarlo tanto come studioso quanto per le sue qualità umane.
Il professor Grecchi ci dice di quando lo conobbe nel 2002. Fu lui, allora neodirettore di Koiné, a rivolerlo a tutti i costi come collaboratore della rivista, dalla quale Preve si era allontanato in seguito ai dissidi con il filosofo Massimo Bontempelli; e sempre lui a curarne la pubblicazione dei testi più recenti nella collana di cui è tuttora responsabile, «il Giogo», della casa editrice Petite Plaisance di Pistoia.
Grecchi ci dà poi un’idea del Preve insegnante, dal momento che Costanzo parlava spesso della sua quarantennale esperienza di professore di liceo, restituendoci l’immagine di un uomo profondamente consapevole dell’importanza del ruolo di educatore, pieno di energia, di entusiasmo, e coinvolgente come solo chi ha forte passione per ciò che insegna sa essere.
Del resto, Preve viveva la filosofia come prassi quotidiana, con l’atteggiamento di chi preferisce l’agorà all’accademia, poiché è lì che si fa davvero filosofia.

 

indicepresentazioneautoresintesi

Su questo, forse anche grazie a quelle mattinate alessandrine spese a fare esperienza filosofica insieme a Costanzo, sarà lo stesso Grecchi a scrivere un libro che già nel titolo – Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia – allude alle difficoltà che si riscontrano oggi a praticare autenticamente la filosofia all’interno delle facoltà universitarie, dove spesso e volentieri è la conoscenza specialistica e non la ricerca della verità e del bene a finire al centro.

Fra l’altro, questo breve saggio uscirà in libreria proprio nel 2013, anno della morte di Preve.

In quegli ultimi mesi, i contatti fra i due filosofi erano soprattutto telefonici a causa delle condizioni di salute di Costanzo, come chiarisce Grecchi già nel bellissimo ricordo pubblicato sul sito di Petite Plaisance, alcuni giorni dopo la morte dell’amico.

 

Luca Grecchi,
Per l’amico Costanzo Preve. Un ricordo personale

 

Alle chiacchierate qui nella nostra città, dove era quasi sempre Preve a tener banco attraverso aneddoti e preziosi spunti di riflessione, si sostituiva così la dimensione del colloquio, lungo i fili che collegano Torino e Milano. Tuttavia, la memoria di quelle ore trascorse insieme è ancora assai viva in chi rimane oggi a testimoniare ciò che Costanzo Preve era nel profondo: uno strenuo e appassionato cercatore della verità, oltre che una persona buona e un caro amico.
Ma qual è l’eredità di Costanzo Preve? Grecchi non ha dubbi circa l’importante lascito di questo pensatore nato proprio qui nella nostra provincia. Un’eredità data dagli spunti disseminati un po’ ovunque nei suoi numerosi libri, ancora tutti da approfondire, e in modo particolare dall’originalissima interpretazione di Marx e di Hegel che il filosofo valenzano (ci piace pensarlo valenzano, anche se crescerà a Torino) ha elaborato nel corso di una vita votata alla filosofia.
Frequentatore e amico di tanti fini intellettuali come Norberto Bobbio, Gianfranco La Grassa e Alain De Benoist, solo per citarne alcuni, questo signore laureato in scienze politiche a Torino, perfezionatosi in filosofia a Parigi – dove studiò con filosofi del calibro di Sartre e Althusser – e in ellenistica ad Atene, che si esprimeva correttamente in sei lingue e che ha scritto più di cinquanta libri, nondimeno possedeva l’umiltà indispensabile a sottoporre a critica severa per primo se stesso e le proprie idee. Non era raro sentirlo ammettere i propri sbagli, come quando si definì un “ragazzo presuntuoso” ricordando il giorno in cui durante un confronto a casa di Jean-Paul Sartre, insieme ad altri studenti della Sorbona, Preve lo contraddisse bruscamente e quasi lo insultò, salvo poi rendersi conto tempo dopo di aver detto delle sciocchezze dettate dall’inesperienza e dalla foga della gioventù. «Non posso ricordare con piacere questo colloquio, poiché mostrai semplicemente la mia arroganza di giovane estremista ventenne». Così il Preve maturo si esprimerà riguardo quella giornata, dandoci una lezione preziosa con l’implicito invito a vivere autenticamente, e quindi a riconoscere i nostri errori per migliorarci e per sgombrare il campo dagli ostacoli sulla via della verità.
Virtù che Grecchi sembra riconoscergli fino in fondo al di là delle parole che utilizza, poiché già dal tono di voce con cui si esprime sull’onda dei ricordi è molto chiaro ciò che prova: gratitudine.
Questa è stata quantomeno la mia impressione. Tanto che solo quando prendiamo a parlare di ciò che sta germogliando dai semi che Preve ha lasciato cadere lungo il suo percorso, Luca – così il professor Grecchi m’invita a rivolgermi a lui fin da subito, considerando anche me in qualche modo un amico di Costanzo – si rabbuia un poco. Ad oggi, di germogli ancora non se ne vedono sbucare. Ma Grecchi è convinto sia solo questione di tempo, poiché le grandi intuizioni necessitano talvolta di molti anni per venir colte ed elaborate.
Il tempo di Costanzo Preve deve dunque ancora venire. Questo il destino di tutti coloro che hanno rappresentato l’avanguardia del pensiero. E questa la convinzione di tutti noi che i suoi libri li abbiamo letti, amati, e anche criticati come lui per primo avrebbe voluto.

 

Andrea Rovere

 

 

 Articolo già pubblicato su:

Alessandria oggiAlessandria oggi

del 29-11-2018


Venturi non immemor aevi

 

Nel pensiero di Costanzo che vivendo ci fu caro,
pensiamo la sua memoria, ma… Venturi non immemor aevi.

 

Il cartiglio sullo stemma di uno del martiri della Rivoluzione napoletana del 1799, Gennaro Serra di Cassano, reca una scritta che, per la sua espressione incipitale (Venturi), sollecita a proporne la lettura (o la rilettura) anche a tutti gli estimatori e amici di Costanzo:

Venturi non immemor aevi

Vi si esprime l’esigenza di saldare il passato al futuro e il futuro al passato. Il futuro che si riverbera così nel passato, come il passato – quasi transitando per il presente – attende, a sua volta, la sua ventura rammemorazione, orientando il futuro stesso. Come se il futuro svernasse nel passato, raccogliendo le aspettative e le speranze sinora inascoltate in vista della loro realizzazione. E dunque, caro Costanzo, “ad multos annos” per i semi che hai lasciato: questo l’augurio, per una nuova “avventura” che occorre desiderare (avventura, l’andare verso le cose future, ad ventura), aspirando e impegnandosi sempre a dare un senso alla propria vita proiettandola nell’altrove della “buona utopia”, che è assoluta negazione dell’indeterminato capitalistico, una concreta “utopia comunitaria” perseguita secondo itinerari da inventare, progettare, non immemor aevi venturi. È questa la sostanza della “passione durevole” che a partire da Lukács hai trasmesso a molti.

Carmine Fiorillo

*[Non immemor, Non immemore / Aevi (genitivo di aevus, aevi; età, vita, epoca, periodo della storia passata, esistenza, speranza o durata della vita umana) / Venturi (genitivo di venturus, venturi; venturo, futuro; come sostantivo neutro venturum, venturi: il futuro)].

 


Costanzo Preve

Storia dell’etica

indicepresentazioneautoresintesi

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Costanzo Preve

Storia della dialettica

indicepresentazioneautoresintesi

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Costanzo Preve

Storia del materialismo

indicepresentazioneautoresintesi

 


Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013
Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.
Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.
Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.
Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez
Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.
Costanzo Preve – Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante
Costanzo Preve – Religione Politica Dualista Destra/Sinistra. Considerazioni preliminari sulla genesi storica passata, sulla funzionalità sistemica presente e sulle prospettive future di questa moderna Religione
Costanzo Preve – Invito allo Straniamento 2° • Costanzo Preve marxiano ci invita ad un riorientamento, ad uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo.
Costanzo Preve (1943-2013) – Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca (luglio 2012) de “Il Bombardamento Etico”. Un libro che è ancora più attuale di quando fu scritto, sedici anni or sono.
Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica
Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.
Costanzo Preve (1943-2013) – Il Sessantotto è una costellazione di eventi eterogenei impropriamente unificati. Il mettere in comune questi eventi eterogenei è un falso storiografico.
Costanzo Preve (1943-2013) – «Il convitato di pietra». Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza, senza la fatica del concettualizzare

 


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Koinè – «Per una scuola vera e buona». La scuola per essere buona deve essere prima di tutto vera. La scuola pietrificata di oggi disconosce la questione di fondo: vero è ciò che è conforme al fondamento. Bene è tutto ciò che si prende cura del fondamento, cioè dell’uomo.

Koinè 2018

Vero è ciò che è conforme al fondamento.
Bene è tutto ciò che del fondamento,
ossia dell’uomo,
si prende cura.

 

 

Per una scuola vera e buona

Per una scuola vera e buona

ISBN 978-88-7588-248-8, 2018, pp. 272,  Euro 25

indicepresentazioneautoresintesi

 

Locandina Koinè, Per una scuola vera e buona

Locandina Per una scuola vera e buona

 

Logo-Adobe-Acrobat-300x293   Locandina Koinè, Per una scuola vera e buona   Logo-Adobe-Acrobat-300x293

 

Testata KoinèLogo-Adobe-Acrobat-300x293  L’unione di conoscenza e virtù costituisce la struttura portante di ogni serio modello educativo, rivolto ad una concreta ricerca della verità  Logo-Adobe-Acrobat-300x293

Testata Koinè

 

La scuola per essere buona deve essere prima di tutto vera.

Il libro affronta la questione della scuola pietrificata di oggi che disconosce una questione di fondo: vero è ciò che è conforme al fondamento, bene è tutto ciò che del fondamento, cioè dell’uomo, si prende cura. Qualsiasi approccio a questo tema in chiave riduttivamente economicistica o aziendalistica non consente infatti minimamente di coglierne lo spessore reale.
Né è possibile, sulla base di una concezione dell’umanità dell’uomo come semplice prassi empirica e funzionalismo sociale, capire realmente cosa è in giuoco nella scuola. Il tema della scuola rimanda infatti al significato dell’educazione umana, del rapporto tra le generazioni, della temporalità, della cultura. L’unione di conoscenza e virtù costituisce la struttura portante di ogni serio modello educativo, rivolto ad una concreta ricerca della verità.

Contributi di:

Eros Barone, Alberto G. Biuso, Salvatore A. Bravo, Giovanni Carosotti, Lucrezia Fava, Arianna Fermani, Carmine Fiorillo, Luca Grecchi, Silvia Gullino, Rossella Latempa, Claudio Lucchini, Romano Luperini, Fernanda Mazzoli, Alessandro Pallassini, Lucio Russo, Franco Toscani, Lorenzo Varaldo.

 

In copertina:
Marc Chagall, L’Acrobata (The Acrobat), 1914.
Per Marc Chagal l’acrobata è utopia che cerca – da una prospettiva inusuale –
un nuovo equilibrio, su un filo teso sull’orlo di un mondo alla rovescia.


 

Carmine Fiorillo – Luca Grecchi

Dalla Nota introduttiva

Luca GrecchiRingraziamo tutti gli studiosi
che a questo numero hanno partecipato,
apportando il proprio prezioso contributo di riflessione su un tema,
quello educativo,
sempre centrale e che,
anche quando non esplicitamente affrontato,Carmine Fiorillo
rimane sempre l‘implicito riferimento
di tutte le pubblicazioni
di Petite Plaisance.

 


Fernanda Mazzoli

La centralità delle conoscenze:
una bussola per uscire dalle secche dell’aziendalismo

 

Fernanda Mazzoli
L’educazione ai tempi del liberismo
La deconcettualizzazione dell’insegnamento
La storia negata
Il maestro negato
Una scuola forte è possibile?
Indicazioni bibliografiche sul tema


Franco Toscani

Sul senso e sul declino della nostra scuola

Scuola e panaziendalismo
L’alienazione scolasticaFranco Toscani
Don Lorenzo Milani
e l’esperienza della “scuola di Barbiana”:
una lotta per la cultura e il linguaggio,
per l’eguaglianza e la dignità delle persone
La testimonianza della ‘Scuola di Barbiana’ e la sua eredità odierna
La scuola e la “mutazione antropologica”
Maestri e allievi. Per una etica della responsabilità
Friedrich Nietzsche e gli interrogativi sull’avvenire delle nostre scuole
La Bildung e il destino della civiltà planetaria

 

 


Lucio Russo

Per una scuola in grado di trasmettere cultura

Per una scuola
in grado di trasmettere cultura,Lucio Russo
è essenziale interrogarsi
su quale cultura
si voglia trasmettere e perché


Claudio Lucchini

La merce a scuola ovvero la scuola della merce

La merce a scuolaClaudio Lucchini
ovvero la scuola della merce:
riflessioni

sulle tendenze
antropologico-sociali
sottese alla pratica scolastica attuale


Alberto Giovanni Biuso

Per la παιδεία

Scuola e politicaAlberto Biuso
Conoscenze e competenze
Socratismo e comportamentismo
Marketing e analfabetismo
Europa e παιδεία


Salvatore A. Bravo

Il freddo, implacabile strangolamento della παιδεία

L’ecolalia pedagogica
Pedagogia senza fondamento
La didattica breve e il neolinguaggio pedagogicoSalvatore Bravo
L’homo oeconomicus
La scuola azienda
Trascendere le classi per strutturare lo sradicamento
Conclusioni


Arianna Fermani

L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano
Riflessioni sulla παιδεία in Aristotele

I. Osservazioni preliminari
Originalità e attualità della riflessione aristotelica sull’educazione
II. Primo scenario educativo: l’educazione precede l’etica
II.a L’insegnabilità della virtù: limiti e caratteristiche
II.b L’emotional training e l’educazione “delle” passioniArianna Fermani
II.c Ulteriori articolazioni del modello educativo
III. Secondo scenario educativo: l’educazione è l’etica
III.a Educazione e metodo della ricerca
IV. Riflessioni conclusive


Romano Luperini

Insegnare la letteratura oggi

 

Ogni educazioneRomano Luperini
presuppone

una utopia,
la esige
***
Appendice


Alessandro Pallassini

Note sugli apparati riproduttivi societari, guardando alla scuola

I. Introduzione
II. Produzione e riproduzione societaria.Alessandro Pallassini
Brevi cenni
III. Mutamenti del sistema societario
e mutamenti nell’educazione latamente intesa
IV. Scuola-lavoro: possibili omologie
V. Conclusioni (molto provvisorie)
VI. Bibliografia utilizzata


Eros Barone

La crisi dei saperi socratici: una sfida per l’‘humanitas’

I. Società di mercato e saperi socratici
III. Quale rapporto tra il vero e l’utile nel sapereEros Barone
e nella formazione?
III. I “saperi che servono” fra nichilismo antisocratico
e ideologia del ‘politicamente corretto’
IV. Il riscatto dei saperi socratici: utilità, eredità, identità
IV. Futuro dell’‘humanitas’ e ‘humanitas’ del futuro


Giovanni Carosotti

L’«ideologia» della Buona Scuola

Una didattica autoproclamatasi “innovativa”
Un apparato ideologico per formare nuovi soggetti
Una dimostrazione di dissenso:
dall’Appello per la Scuola pubblica alla sua contestazione
Una critica delle ideologie rivolta al concetto di «competenza»
La scelta impositivaGiovanni Carosotti
Una salutare critica delle ideologie
La pseudo scienza delle competenze
L’azzeramento
della pluralità storiografica ed ermeneutica delle discipline
Una scuola di sorveglianti e sovergliati, misurati e misuratori
Breve riflessione sul quantitativo


Rossella Latempa

L’ossessione valutativa

Il mito dell’oggettivitàRossella Latempa
L’imbracatura ortopedica
della valutazione scolastica
Matematizzazione dell’essere umano


Lorenzo Varaldo

La posta in gioco

 

È in gioco il sapere dell’umanitàLorenzo Varaldo
La nostra Dichiarazione di oggi
***
Dichiarazione finale della Conferenza Nazionale
del 19 maggio 2018 per l’abrogazione della legge 107


Fernanda Mazzoli

Per una seria cultura generale comune

Una proposta di Lucio RussoFernanda Mazzoli
Recensione al libro
Lucio Russo,
Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista


Lucrezia Fava

Λόγος, linguaggio, tempo

Dai seminari heideggerianiLucrezia Fava
di Le Thor
Recensione
al libro
Martin Heidegger, Seminari


 

 

Silvia Gullino

Una appassionata ricostruzione della filosofia aristotelica

Alla ricerca del luogo
in cui la sapienza teoretica si radica nell’umano
Recensione al libro
Claudia Baracchi, L’architettura dell’umano.
Aristotele e l’etica come filosofia prima



Per far memoria

del nostro impegno sul tema della scuola

Metamorfosi della scuola

Metamorfosi della scuola italiana

Anno 2000, pp. 304, Euro 20

indicepresentazioneautoresintesi

 

Testata KoinèLogo-Adobe-Acrobat-300x293  L’unione di conoscenza e virtù costituisce la struttura portante di ogni serio modello educativo, rivolto ad una concreta ricerca della verità  Logo-Adobe-Acrobat-300x293

Testata Koinè

Contributi di:

Fabio Acerbi – Marino Badiale – Giuseppe Bailone – Fabio Bentivoglio – Piero Bernocchi – Lucio Bontempelli – Massimo Bontempelli – Paolo De Martis – Adolfo Scotto Di Luzio – Federico Dinucci – Giampiero Giampieri – Giulio Ferroni – Emanuele Narducci – Fabrizio Polacco – Costanzo Preve – Lucio Russo – Livio Sichirollo – Roberto Signorini – Lorenzo Varaldo

Sommario

Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?, di Massimo Bontempelli
La scuola sospesa, di Giulio Ferroni
Alcune osservazioni sui contenuti dell’insegnamento, di Lucio Russo
Orwell 2000, di Fabrizio Polacco
Sulle sorti della matematica e della fisica nella scuola superiore, di Fabio Acerbi
L’insegnamento delle discipline scientifiche e la storia della scienza, di Lucio Bontempelli
30 tesi contro la Scuola-Azienda e l’Istruzione-Merce, di Piero Bernocchi
La catena dei perché. Riflessioni sulle radici del “Concorso Berlinguer”, di Costanzo Preve
Autonomia didattica e libertà di insegnamento, di Federico Dinucci
Chi non sa nulla, insegna ad insegnare, di Paolo De Martis
Che buon pro facesse (e faccia) il “Verbo”, di Giampiero Giampieri
“L’agonia della scuola italiana”: un libro controcorrente, di Fabio Bentivoglio
Una lettura critica del libro “L’agonia della scuola italiana”, di Roberto Signorini
Il libro di Antonio La Penna “Sulla scuola”, di Emanuele Narducci
L’insegnante trova le sue parole. Perché un “no” ai salari di merito, di Lorenzo Varaldo
Il libro verde della Pubblica istruzione, di Giuseppe Bailone
Il Liceo classico, di Adolfo Scotto di Luzio
Il resistibile declino dell’università. Ragioni per un titolo, di Livio Sichirollo
Il nome delle libellule. Breve riflessione sulle culture popolari, di Marino Badiale


L'agonia della scuola italiana

Massimo Bontempelli

L’agonia della scuola italiana

Anno 2000, pp. 144, € 10,00

indicepresentazioneautoresintesi

La scuola italiana nel suo insieme è oggetto, per la prima volta dopo tre quarti di secolo, di una riforma complessiva ed incisiva. Le innovazioni che vi sono introdotte, però, esaminate attentamente nei loro effetti concreti, risultano tutte profondamente negative, sia sul piano della formazione educativa dei giovani, che su quello della professionalità degli insegnanti e della trasmissione di un sapere degno di questo nome. Il carattere pubblico e nazionale del sistema dell’istruzione, e la sua capacità di promuovere lo spirito critico e l’autonomia di giudizio dei giovani, ne risultano gravemente compromessi.
Questo disastro è il prodotto di una cultura dogmatica e ideologizzata dei promotori della riforma, che li rende incapaci di pensare su un piano conoscitivamente alto, ed eticamente valido, il nesso tra scuola e società. Tale cultura è peraltro funzionale alle inconfessate esigenze totalitarie di un determinato sistema di potere.
La scuola italiana, a questo punto, potrà essere salvata soltanto dalla resistenza consapevole degli insegnanti che vogliono continuare ad essere educatori.

Il libro si articola in sette capitoli:
L’innovazione distruttiva
Il didatticismo di regime
L’autonomia aziendalistica
L’educazione negata
La stupidità rivelata
La scuola del totalitarismo neoliberista
Il destino della scuola


Buoni e cattivi maestri

Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri

Anno 2003, pp. 160, Euro 15

indicepresentazioneautoresintesi

 

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Testata Koinè

Contributi di:

Guido Armellini – Andrea Bagni – Antonia Baraldi Sani – Fabio Bentivoglio – Carlo Bolelli – Massimo Bontempelli – Francesco Borciani – Marcello Cini – Vittorio Cogliati Dezza – Luca Grecchi – Corrado Maceri – Fabiano Minni – Bruno Moretto – Cesare Pianciola – Gianna Tirandola – Marcello Vigli

La scuola e il fondamento, di Luca Grecchi
Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, di Francesco Borciani
Sapere di polis, di Andrea Bagni
Il quinto postulato, di Fabio Bentivoglio
Quale scuola per quale Stato?, di Marcello Vigli
L’intelligenza del tranviere, di Guido Armellini
Partiamo dalle nuove sfide, di Vittorio Cogliati Dezza
Il cappotto del professore, di Antonia Baraldi Sani
La scuola della Repubblica tra Stato, Regioni e sussidiarietà, di Corrado Mauceri
Evoluzionismo: un ponte tra due culture, di Marcello Cini
Sul sapere critico, di Carlo Bolelli
La convergenza del centrosinistra e del centrodestra
nella distruzione della scuola italiana, di Massimo Bontempelli
Il tutto e le parti, di Guido Armellini
L’esperienza del referendum in Emilia Romagna, di Bruno Moretto
Intervista immaginaria di Ignazio Olloy al Professor E. De Candi, di Fabiano Minni
L’esperienza del referendum in Veneto, di Gianna Tirondola
Lettera aperta ai partiti della sinistra sulla scuola
Venti anni di attività, di Cesare Pianciola


Il sogno di una scuola

Maria Luisa Tornesello

Il sogno di una scuola

Lotte ed esperienze didattiche negli anni Settanta: controscuola, tempo pieno, 150 ore.

Allegato il CD-ROM per Windows con l’audiovisivo Oltre il libro di testo: parole ed esperienze di opposizione nella scuola dell’obbligo degli anni Settanta,
di Maria Luisa Tornesello e Roberto Signorini.

ISBN 978-88-7588-006-4, 2006, pp. 416, Euro 27

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Si manifesta ormai da più parti l’esigenza di considerare con metodo scientifico la storia degli anni Settanta, superando sia l’urgenza della testimonianza personale che la rimozione di un materiale impegnativo e «scomodo». Questo discorso vale in modo particolare per la scuola, in quegli anni al centro dell’attenzione con analisi, pratiche, lotte, che presto e abbastanza superficialmente sono state liquidate o «demonizzate».
In realtà la scuola, e in particolare la scuola dell’obbligo, è il punto d’incontro dei problemi che in quel momento agitano la società italiana. È un vero e proprio laboratorio di idee e progetti vissuti come rivoluzionari: partecipazione democratica, non delega, autonomia e potere dal basso.
Questo libro è una prima ricostruzione di quei fermenti, caotici ma aperti e vitali. Esso si basa su una documentazione inconsueta (prese di posizione politiche e sindacali dei «nuovi insegnanti», lavori degli studenti, materiale didattico delle scuole sperimentali e dei corsi 150 ore, documenti di programmazione didattica, produzione dell’editoria didattica alternativa), in cui è possibile cogliere il profondo cambiamento rispetto al passato, la ricchezza del dibattito e delle proposte didattiche, l’impegno civile.

 

 


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