Carlo Carrara – La domanda del senso. Per una filosofia del “ri-trovamento”

La domanda del senso

Carlo Carrara

La domanda del senso. Per una filosofia del “ri-trovamento” [Introduzione di Massimo Bontempelli. In appendice scritti di: Walter Kasper, Dario Antiseri, Luigi Giussani, Abraham J. Heschel, Juan Alfaro, Norbert Fischer, Bernhard Welte, Karl Rahner, Armando Rigobello, Günther Anders, Wolfhart Pannenberg, Norberto Bobbio].

ISBN 88-87296-74-X, 2000, pp. 176, formato 140×225 mm, Euro 10,00 – Collana “La ziqqurat” [3].

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Il sentiero qui percorso, muovendo i primi passi verso la necessaria chiarificazione della semantica e della polivalenza del termine «senso», seguirà la via del senso come domanda radicale, per poi proseguire sulla via del senso come problema fondamentale, per raggiungere il senso come mistero avvolgente. Tre vie con un unico intento: ri-passare la struttura ontologico-esistenziale ultima umana. Riallacciandosi poi alla situazione propria dell’uomo contemporaneo, il cammino ripercorrerà le tappe della perdita della domanda del senso, per arrivare alla mancanza del senso e all’insensatezza effettiva dominante. Tre vie con un unico intento: ri-levare l’odierna condizione umana. Gli ultimi passi volgeranno verso la ri-cerca responsabile del senso ultimo da parte di ogni singolo uomo, con la ri-proposta della domanda del senso, per un «ri-trovamento» di quanto di più umano vi sia nell’uomo. Infine, alcuni approfondimenti di noti e attuali studiosi, ricondurranno a ripercorrere in modo più particolareggiato i diversi aspetti della questione esaminata.

«[…] l’uomo contemporaneo, in genere, non sente neanche più la necessità di enunciare la scomparsa del senso ultimo, preoccupato com’è a dar vita ai «suoi» sensi; tanto è vero che il suo pensare al senso come mistero avvolgente dura per lo più quanto l’attimo di un lampo, che potrebbe comunque anche folgorarlo; il suo riflettere sul senso come problema fondamentale dura forse poco più di un’ora, giusto il tempo per supporre e dire qualcosa, per poi lasciare nuovamente il tutto sospeso nel vuoto o nel dubbio; il suo percepire il senso come domanda radicale sta invece alla circostanza che lo suscita come il sole sta a un giorno, che potrebbe tanto irradiare quanto accecare, o come la luna sta a una notte, che potrebbe tanto guidare quanto fuorviare, ma in qualunque modo stiano le cose, il domani sarà sempre un altro giorno e un’altra notte.  Per il resto del suo tempo, cioè, per tutto il tempo, l’uomo contemporaneo non fa che pensare, fare e dire «per» questo mondo, «con» questo mondo e «in» questo mondo, a se stesso, in unità con la felicità di questo mondo, da conquistare mediante la ricerca, il possesso e il godimento (per quanto frenetici, esasperati e inappagabili possano essere) di tutti quei beni che il menù del mondo gli offre (potere, denaro, successo, piaceri, divertimenti, ecc.), augurandogli “buon senso!”». «La domanda del senso rimanda al mistero della vita e del mondo che avvolge integralmente l’uomo. Non più risposte a domande, ma domande a risposte; non più soluzioni a problemi, ma problemi a soluzioni; e nemmeno tentativi di pensare qualcosa di ciò che è non ancora pensato, di aspirare a trovare qualcosa di ciò che è non ancora trovato; ma soltanto il mistero che avvolge e coinvolge l’uomo, che lo inonda con le sue imprendibili acque, tenebrose per la sua ragione, sorgente di speranza per il suo cuore» (Carlo Carrara).


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Lucio Russo – Cosa sta accadendo alla scienza?

Lucio Russo

Debbo dire innanzitutto che condivido l’idea di Marino Badiale che la scienza, come più in generale la cultura, attraversi una grave crisi (e che sia importante discuterne in modo non “accademico”, come è possibile fare su una rivista come Koiné).
D’altra parte si tratta di un fenomeno né imprevedibile né nuovo. Non si tratta di un fenomeno imprevedibile perché tutte le crescite esponenziali incontrano ovviamente prima o poi un limite naturale ed è ben noto, come Badiale ricorda, che la scienza, secondo vari indici quantitativi (ad esempio il numero dei lavori scientifici pubblicati) ha continuato a crescere esponenzialmente da ormai circa tre secoli.
La scienza, anche nel senso ristretto del termine che discuterò tra poco, esiste però da molto più tempo, per la precisione da più di ventitré secoli, durante i quali i periodi di crescita si sono alternati a “catastrofi”, stagnazioni e riprese parziali. Far coincidere la storia della scienza con l’ultimo periodo di crescita esponenziale (come in genere si fa, almeno implicitamente, restringendo le proprie considerazioni storiche a questo periodo) accredita l’idea che lo sviluppo esponenziale sia tipico della natura del sapere scientifico (come di quella del PIL), ma non corrisponde alla verità storica.
Per cercare di capire la natura della crisi attuale mi sembra necessario precisare innanzi tutto l’oggetto della discussione. Cosa intendiamo con scienza? … ´[continua a leggere cliccando qui]

Leggi e stampa il testo di 13 pagine in formato PDF:

Lucio Russo, COSA STA ACCADENDO ALLA SCIENZA?

 

Questo saggio di Lucio Russo è già stato pubblicato su Koinè, Periodico culturale, Anno X, nn. 1-2, Gennaio-Giugno 2002,  pp. 39-51; direttore responsabile Carmine Fiorillo; il volume collettaneo reca il titolo  Scienza cultura, filosofia.

Koiné

Scienza, Cultura, Filosofia

indicepresentazioneautoresintesi

Problemi tra scienza e cultura
Sintetizzare e interpretare/Darsi dei limiti/Sulla diffidenza per la filosofia/Una confutazione dello scientismo/I problemi della divulgazione/Specializzazione parcellizzante/Una catastrofe culturale?/Uno sguardo sulla cultura/Linee di resistenza/E se fosse colpa del capitalismo?/Conclusioni. Una modesta utopia.

Lucio Russo
Cosa sta accadendo alla scienza?
Premessa/Cos’è la scienza? La scienza esatta/Scienza esatta e tecnologia /Scienze biologiche (e altre scienze empiriche)/Il problema della verità/Divulgazione scientifica e imposture intellettuali/La crisi attuale/Il nuovo ruolo della biologia: le biotecnologie/Complessità /Quale futuro?

Marcello Cini
C’è ancora bisogno della filosofia per capire il mondo?
Introduzione/La svolta nella scienza dal XX al XXI secolo/L’epistemologia delle scienze della materia inerte/Una epistemologia delle scienze del mondo vivente/Il problema corpo/mente/Scienza e valori/Conclusioni.

Alberto Artosi
Lettera a uno scienziato sulla ragione, la razionalità e il razionalismo
Caro Scienziato/Bisogna guardarsi da un’immagine ingenuamente razionalistica della scienza/Anche gli scienziati più aperti sono dei razionalisti (e degli elitisti) ingenui/Bisogna sottrarsi al culto delle argomentazioni “razionali” /Il caso dell’archeoastronomia/ Il razionalismo ingenuo è intollerante/Sulla “cultura di massa”/Commiato.

Massimo Bontempelli
Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea
Popper: la teoria come congettura/Hegel e la filosofia della scienza/La teoria della verità come idealità matematica/Gödel: la logica matematica non può giustificare il proprio principio di coerenza/Matematica senza fondamento/Barrow: la base teorica universale della matematica/Hegel: la quantità come “qualità tolta”/Il gran libro della Natura è scritto in caratteri matematici?/Il risultato culturale della rivoluzione scientifica/La semplificazione galileiana del mondo reale/La quantità matematizzabile come dominabilità del mondo/I limiti del meccanicismo/La fisica delle particelle come pura astrazione teorica/Le teorie del tutto/Il determinismo dell’elettrodinamica quantistica/Feynman: la Natura è assurda/La povertà conoscitiva del determinismo matematico della fisica/Il crollo del determinismo fisico di fronte alle forme biologiche/La concezione biologistica della verità/La povertà della moderna coscienza antimetafisica /Il pregiudizio antimetafisico della mentalità odierna/Realtà e verità nella filosofia ontologic/La sapienza di Platone.

Fabio Bentivoglio
Scienza, Natura e destino dell’uomo. Riflettiamo con Aristotele
Che cosa è, oggi, la sapienza?/La Natura/Le onde e la scogliera/Un’etica per la civiltà tecnologica/Dogmi di ieri e dogmi di oggi/L’elogio del senso comune.

Jean Bricmont
Contro la filosofia della meccanica quantistica
Riassunto/Introduzione/Realismo e positivismo/Il problema della meccanica quantistica/La non località/Soluzioni possibili al problema della misura/Conclusioni/Appendice I: Il problema della misura/Appendice II: Il teorema di Bell/Appendice III: La teoria di Bohm/Appendice IV: Bibliografia/Ringraziamenti/Riferimenti.

Fabio Acerbi
Concetto ed uso dei modelli nella scienza greca antica
Il concetto di modello/La controversia storiografica: strumentalismo versus realismo/Cenni al dibattito epistemologico in età ellenistica/L’approccio per modelli nella scienza antica: alcuni esempi: a. Astronomia; b. Meccanica; c. Ottica; e. Teoria musicale; f. Medicina/Conclusioni.

Jules-Henri Poincaré
La matematica e la logica

 

 

 

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Claudio Lucchini – Alcune riflessioni sulle nozioni di felicità e di natura umana nel pensiero di Luca Grecchi.

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Esaminando le caratteristiche peculiari di quel processo di «razionalizzazione irrazionale» che è venuto via via imponendosi nella contemporaneità capitalistica, dissociando infine «la ragione dal valore degli scopi della esistenza umana»,1 Massimo Bontempelli ha cura di evidenziare il nesso che intercorre tra un siffatto paradigma di razionalità e l’ipostatizzazione storico-sociale della categoria ontologica del mezzo: «Nell’universo tecnico la razionalità non può che non avere scopi, ed essere perciò irrazionale, in quanto la tecnica appartiene per definizione alla sfera dei mezzi, non degli scopi. Finché dunque la tecnica è subordinata ad altre istanze sociali, essa è ancora compatibile con una razionalità connessa a scopi. Ma in un universo tecnico lo scopo è lo stesso apparato scientifico-tecnologico, cioè un mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo. Inoltre il nostro universo è anche un universo di merci, e la circolazione delle merci ha come scopo l’accrescimento senza limite del denaro, che è un altro mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo [ossia il suo valere come strumento indispensabile per una cieca affermazione di potenza nel contesto di una società dominata dalle strategie della lotta intercapitalistica nelle sue molteplici dimensioni economiche, politiche, culturali]».2
Sono le modalità sociali attuali, scrive a sua volta Luca Grecchi in pagine di spiccata intelligenza filosofica, a costituire il terreno più fecondo per una simile relativizzazione strumentalistica e nichilistica del valore e del senso del nostro esistere, sollecitando il generalizzarsi intensivo ed estensivo di quella crematistica per la quale si viene gravemente intorbidando l’«originario fiume umanistico» che percorre dall’inizio la storia degli uomini e reca con sé un’essenziale riferimento alla dimensione razionale, morale e comunitaria delle migliori potenzialità della natura umana.3 Se la “regola d’oro” (non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, o, positivamente, fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te) è il «principale comune denominatore, attraverso i secoli e le civiltà» di tale fiume,4 la “regola di latta” è l’espressione quintessenziale del suo contraltare dialettico, negatore e spregiatore, in nome di un cieco utilitarismo individualistico, della pienezza di un contesto di vita eticamente realizzato.5 «Nel clima antiumanistico oggi dominante rappresentato dalla regola di latta – sostiene dunque Grecchi –, l’individuo si percepisce come un atomo isolato dagli altri, e relazionantesi ad essi solo tramite un rapporto strumentale. Quando domina una simile regola, per ciascuno gli altri uomini rappresentano solo dei mezzi necessari al raggiungimento del fine della massimizzazione della propria utilità, ed il pensiero è ritenuto anch’esso soltanto o una modalità in tal senso persuasiva (relativismo, retorica, ecc.), o una modalità strumentale al raggiungimento di un determinato fine (pragmatismo, ecc.). È evidente però come tale regola costituisca solo il risultato di modalità di vita inumane, in cui all’uomo rimane sconosciuta, e dunque impedita, la propria vera essenza, e con essa la comprensione della necessità della sua cura per il raggiungimento di una condizione di felicità».6
L’incessante rinvio di Grecchi a quelle forme storicamente determinate della riproduzione sociale complessiva che inibiscono il ricco sviluppo delle possibilità ontologiche più alte del genere umano, distinguono radicalmente le sue posizioni da quelle – pur tra loro differenziate – diagnosi sui mali del nostro tempo, tendenti a ravvisare nel puro e semplice dominio della tecnica la fonte principale della relativizzazione nichilistica oggi imperante. L’enfasi sulla «centralità della tecnica» quale connotazione essenziale della società e della cultura occidentali finisce infatti col misconoscere una ben più decisiva centralità, quella del modo capitalistico di produzione, la cui dinamica, afferma correttamente Bontempelli nel suo scritto sopra citato, è invece l’unica a poter rendere compiutamente conto della «proliferazione tendenzialmente infinita delle tecniche, e [della] progressiva tecnicizzazione di ogni spazio umano».7 «Indicare la tecnica come essenza dell’Occidente» (e, in prospettiva, per il tramite del mondializzarsi dell’economia e della cultura occidentali, del mondo intero) equivale perciò, commenta ulteriormente Grecchi, ad indicare non «il fenomeno reale, ma solo la sua ombra, e questo comporta indubbiamente dei vantaggi a quegli interpreti che non vogliono inimicarsi troppo le strutture oggi dominanti. Il fenomeno reale è infatti il modo di produzione capitalistico con tutto il suo portato di ingiustizia, sopraffazione e sofferenza, di cui la tecnica capitalistica costituisce semplicemente l’apparato di funzionamento».8
Checché ne dicano Heidegger, Severino o Galimberti, la causa principale della tecnicizzazione vieppiù accresciuta dell’economia e dell’ambiente umano di vita non è dunque certamente da ricercarsi «nella struttura autoincrementativa dell’apparato tecnico», ma, in maniera ben più convincente, «nelle finalità e nelle strutture del modo di produzione sociale» che nella nostra epoca tende ad imporsi su scala globale, determinando «la derealizzazione della vera natura dell’uomo. È infatti la brama del massimo profitto (non l’incremento dell’Apparato tecnico) che conduce alle guerre ed alle attuali modalità della produzione e della distribuzione di beni e servizi. È tale esasperata brama che spezza tuttora il pianeta in ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati, integrati ed emarginati, e che pone l’alienazione come unica (ma indesiderabile) forma di eguagliamento universale. Si tratta forse di una lettura datata o retrò? Può essere, ma finché di questa lettura non verrà data una seria confutazione (ed, a nostra conoscenza, essa non è stata data), continueremo a considerare il modo di produzione capitalistico, e non la tecnica, come il cuore pulsante dell’attuale Occidente».9
Respinta una simile analisi dei guasti prodotti dalle vicende della metafisica occidentale, la quale dovrebbe appunto esprimere la sua natura nichilistica – o, se si preferisce, la sua “follia” – nel dominio planetario della tecnica, e denunciati con altrettanta forza, sulla scorta soprattutto degli studi critici di Domenico Losurdo, i tratti disumanizzanti del pensiero liberale, teoreticamente e storicamente contiguo all’atomizzazione mercificante della crematistica capitalistica,10 Grecchi sostiene risolutamente la necessità inderogabile di recuperare quella che gli appare essere l’insuperata lezione umanistica della grande filosofia greca. È stato infatti Platone, egli precisa, ad aver per primo compreso che l’essere umano «è nella sua essenza un ente razionale, morale e simbolico»,11 portatore dunque di contenuti «che purtroppo la contemporaneità ha rimosso, sfavorendone una effettiva realizzazione e condannando l’uomo all’infelicità».12 Il vero bene dell’umanità consiste infatti, secondo il decisivo insegnamento platonico e aristotelico, nella costituzione storica di un tessuto comunitario del vivere sociale che stimoli positivamente nei singoli l’attuarsi di un equilibrio armonico delle tre componenti suddette della natura umana: la razionalità – intesa soprattutto come ricerca sui significati delle cose in funzione del loro miglior utilizzo per una compiuta realizzazione etico-sociale –,13 la quale «consente di comprendere gli uomini e il mondo, nonché la corretta misura dell’approccio di ogni uomo al mondo»;14 la moralità, nella sua triplice articolazione di affetto, comunitarietà e amore,15 che «consente di rapportarsi al mondo in maniera consapevole, e di incarnare adeguati comportamenti di vita»;16 la simbolicità, che permette invece «di arricchire il proprio approccio esistenziale tenendo conto della ambivalenza dei contenuti che inevitabilmente ci si pongono innanzi».17
L’ostilità costantemente risorgente nella storia contro la possibilità medesima di definire teoreticamente sia le migliori potenzialità dell’uomo sia quella loro proporzionata ed equilibrata combinazione in cui va ravvisata, come si è detto, l’autentica felicità degli esseri umani – ostilità particolarmente accentuata nell’epoca della capillare mercificazione degli ambiti di vita e della relativizzazione consumistico-capitalistica di comportamenti, bisogni, scopi –, deve ricondursi, a parere di Grecchi, ad un duplice ordine di fattori tra loro connessi, il primo di natura antropologica, il secondo di carattere storico-sociale. «Il motivo di ordine antropologico concerne il fatto che l’uomo, come è noto, è il solo fra gli esseri viventi ad essere pienamente consapevole della propria condizione mortale. […] Proprio per l’angoscia che il tema della morte pone innanzi, l’uomo che non sa vivere in buona armonia con se stesso e col mondo tende ad identificare con la morte, ed a temere, tutto ciò che si rapporta a lui come un limite, come una chiusura. In questo senso ogni stabile definizione, ed in particolare ogni sistema di pensiero, tendono a rappresentare all’uomo la dimensione finita dell’esistenza. È anche per questo che tali tematiche sono così spesso state trascurate, rimosse e addirittura combattute nella storia del pensiero filosofico. La de-finizione essenziale dell’uomo, in particolare, è il tema che più appare come una chiusura di orizzonti di vita. Per questo il pensiero filosofico, scientifico, psicologico, letterario, poetico e artistico in genere ha sempre insistito sulla profondità insondabile dell’anima umana (la originaria tesi di Eraclito), e mai sulla struttura essenziale dell’anima stessa, mostrando nei confronti di questo tema un claustrofobico timore».18 L’angoscia antropologicamente connotata nei confronti del proprio morire è stata potentemente accentuata, nel corso della storia, dalle concrete modalità in cui si è venuta articolando la costituzione e la riproduzione della vita della società: le attuali modalità sociali infatti, ribadisce ancora una volta Grecchi, «svuotando di umanità la vita, hanno sempre più lasciato l’uomo in balia del proprio connaturato timore della morte».19
L’esplicita preferenza accordata «al pensiero filosofico greco, che faceva della cura dell’anima e dell’apertura alla vita i propri capisaldi»,20 conduce l’analisi grecchiana a ritenere portatore di indebito riduzionismo qualunque tentativo di mediare una prospettiva onto-assiologica di natura filosofica con gli apporti di una ricerca scientifica volta a chiarire i presupposti biologico-evolutivi del vario complesso di facoltà cognitive ed emozionali umane interagenti nelle concrete risposte etiche elaborate nella densa problematicità dialettica dei processi storici. Il nostro autore, a dimostrazione della validità di ciò che afferma, porta come esempio «un comportamento molto noto, quello di Socrate. Egli, pur ingiustamente condannato per empietà dagli ateniesi, decise di rimanere in cella e di bere la cicuta, nonostante la possibilità di fuga che gli fu apertamente prospettata da alcuni amici. Dobbiamo allora chiederci: Socrate decise forse di rimanere in cella a morire perché i suoi neuroni gli bloccarono le gambe? Niente affatto. Egli prese consapevolmente questa decisione in quanto comprese che la conformità agli ideali che aveva sempre sostenuto non gli avrebbe reso possibile vivere evitando il dialogo filosofico, come invece il tribunale ateniese gli imponeva. […] La biografia di Socrate mostra dunque che le questioni del senso della vita, ossia quelle che più influenzano la felicità, non si determinano sul riduttivo piano biologico, ma sul più complessivo piano umano (o filosofico)».21 Il che, se è vero qualora si pretenda di rintracciare a livello del mero scorrimento della processualità naturale la chiave per interpretare in modo ontologicamente corretto le fondamentali questioni etico-sociali umane, non toglie affatto che solo a partire da una determinata dotazione biologica (evolutivamente sviluppatasi al di fuori di ogni teleologia unitariamente operante nel corso spontaneo della natura) divenga possibile l’apertura alla storicità e alla stessa problematizzazione critica di stampo filosofico ed etico. Il rinvio alle zone cerebrali che controllano il movimento, nel contesto dell’esempio portato da Grecchi, non pare molto ben scelto. Non appena, infatti, si ponga mente al nesso che recenti studi – per fare solo un semplice esempio – hanno mostrato sussistere tra lo sviluppo dell’intelligenza sociale e la facoltà umana di metarappresentazione, l’influsso coevolutivo del linguaggio e delle sue strutture sintattiche completive su di essa, l’accesso conseguente ad una capacità di tematizzazione estesa di alternative possibili e di riflessione (entro certi limiti) autocosciente – tutto ciò ovviamente associato al possesso innato di una serie di inclinazioni empatico-simpatetiche, altruistiche, cooperative, ecc. –,22 appare chiaro come Socrate neppure si sarebbe potuto mentalmente figurare il problema che si è posto se non avesse posseduto un ventaglio articolato e innato (di nuovo, nel senso di evolutivamente formatosi, attraverso exaptation, tramite l’agire da bricoleur della selezione naturale) di facoltà e predisposizioni biologicamente determinate, le quali si manifestano e si sviluppano mediandosi concretamente coi processi storici in atto. Come scrive assai correttamente Edoardo Boncinelli, la nozione umana di male (e del suo correlativo, il bene) può svilupparsi solo in riferimento alla «capacità di confrontare una serie di circostanze con le loro capacità alternative, compiendo un’operazione riflessiva e comparativa che negli animali più evoluti è carente e può riguardare al massimo l’immediato presente, ma non il passato. L’uomo al contrario si lamenta, s’infuria, recrimina e rimpiange, almeno a partire da una certa età».23 Non esiste quindi alcuna scissione radicale tra determinatezza materiale-naturale e concreta storicità umana, dato che è solo sul fondamento della prima che la seconda può svolgersi ed influire sull’ulteriore vicenda evolutiva della specie, la quale però non può mai rescindere il suo legame con la processualità naturale in cui soltanto le ideazioni e le posizioni teleologiche degli uomini possono formarsi e operare. La moralità umana, pur dotata di una sua indiscutibile specificità, pare dunque essersi costituita a partire da «una base naturale. […] Solo gli esseri umani hanno la capacità di ragionamento morale, sanno interiorizzare i bisogni degli altri e sanno valutarli in modo disinteressato. Ma sia gli esseri umani sia gli altri primati hanno la capacità di aiutare gli altri e di non danneggiarli».24
Si comprende, alla luce di queste pur sommarie considerazioni, come il giusto, incessante rinvio di Grecchi alla natura umana quale fondamento di universale verità etico-sociale possa venire potenziato e non condurre necessariamente ad un volgare riduzionismo scientista in virtù di un processo di acquisizione concretizzante – opportunamente mediato sul piano concettuale – di ciò che la ricerca scientifica, neurobiologica, etologica, ecc. viene via via elaborando; questo, in effetti, sembra poter consentire di determinare con sempre maggior approssimazione la stessa nozione di essenza umana, sottraendola tanto alle secche di un’eccessiva genericità quanto al pericolo di un discontinuismo dualistico, che, nonostante la più volte ribadita unità psicofisica sostenuta dai greci, non può non fare capolino quando le matrici evolutivo-biologiche di fondamentali processi cognitivi ed emozionali non siano minimamente prese in considerazione.
In modo analogo, si possono già individuare da tale insieme di valutazioni i contorni del giudizio che, sia nei suoi aspetti largamente positivi sia in quelli più cautamente critici, può essere formulato a proposito di quello che lo stesso Grecchi afferma essere «il fondamento teorico» delle sue argomentazioni e di tutti i suoi scritti. «In conformità al titolo del nostro primo libro pubblicato, [la struttura metafisica sistematica che abbiamo cercato, in questi anni, di elaborare] pone l’anima umana (l’essenza dell’uomo) come fondamento della verità. Questa struttura parte da un assunto molto semplice, ma fondamentale: poiché la totalità dell’essere (ossia la totalità di ciò che è, e che l’uomo può sempre comprendere e comunicare) è tale, nella sua struttura concettuale, solo in quanto pensabile dall’uomo, ne risulta che l’uomo (e nessun altro ente, poiché l’uomo è il solo ente dotato di questa qualità) è il fondamento dell’essere. Poiché l’uomo, approcciandosi all’essere, sa comprenderne la realtà solo quando può relazionarsi all’intero mediante la propria essenza razionale, morale e simbolica (anima), ne risulta che l’anima umana è il solo fondamento della realtà dell’essere. Se si accettano queste assunzioni, si deve necessariamente addivenire ad una conclusione: che l’uomo è il solo ente in grado di attribuire significato all’essere, e che tale significato, se elaborato dalle componenti universali dell’uomo, può assumere valore di verità assoluto».25
Grecchi ha certamente ragione, nella sua duplice battaglia contro il relativismo nichilistico e le modalità sociali che potentemente lo favoriscono, a sottolineare la possibilità dell’uomo di porsi come fondamento di una verità oggettiva. Chi scrive, però, è disposto a seguirlo solo qualora si espliciti che questa verità processualmente universalizzabile non può essere altro che la verità etico-umana, risultato di processi riflessivo-ideativi e di atti teleologici del porre che non possono sussistere svincolati da quella base naturale-materiale – di per sé indifferente ad ogni scopo umano – nella quale soltanto si radica, in ultima istanza, il loro poter essere. Che ad un certo punto del processo evolutivo si costituisca, al di fuori di ogni predeterminata direzione finalistica, un ente capace di attività teleologica e progettuale, dotata di struttura alternativa ed (entro certi limiti) autocosciente, non significa affatto che il divenire storico che ne consegue e la sua oggettiva dialettica di senso riducano effettivamente a sé la totalità (estensiva ed intensiva) della realtà naturale, la quale, nello spontaneo svolgersi delle sue legalità e dei suoi processi, resta rigorosamente ateleologica. È quanto sostiene ripetutamente György Lukács nel suo approccio ontologico-materialistico all’essere sociale, rimarcando per esempio sia il costante risorgere di alternative nello svolgimento processuale della prassi umana,26 sia gli ineliminabili fattori causali che interferiscono con i processi storici («E se ora io mi rifaccio alle più alte forme di unità del reale ritorno [al seguente fatto]: la natura – tanto la natura organica quanto quella inorganica – si svolge secondo la propria dialettica e si realizza indipendentemente dalle posizioni teleologiche dell’uomo. Così la costituzione fisiologica dell’uomo e anche il suo destino psicologico dipendono, socialmente parlando, dal caso. Marx osserva giustamente a questo proposito che dipende appunto dal caso se una determinata situazione rivoluzionaria trova a capo della classe operaia un certo individuo, sebbene ciò non sia già più una circostanza meramente fisiologica o psicologica. In ogni caso rimane un residuo ineliminabile di casualità che scaturisce però dal corso meramente causale degli eventi naturali»).27
Non già, beninteso, che tali considerazioni vanifichino l’intelligente correlazione posta da Grecchi tra definizione della natura umana ed affermazione di un universalismo etico-politico fortemente polemico con le forme sociali attuali e con le loro ideologie relativistico-nichilistiche; soltanto, almeno così sembra a me, possono inquadrarla in una più convincente totalità concettuale concreta, e problematizzarla, ancorandola ad un’ineliminabile condizione di finitezza materiale, al di fuori di qualsiasi tentazione meramente pragmatica, ermeneutica, ecc., insomma al di fuori di correnti di pensiero che possano legittimare direttamente o indirettamente la prassi manipolatoria oggi imperante. Si pensi, in merito a ciò, al modo in cui le precisazioni ontologiche testé esposte possono contribuire a rendere più determinata – sempre ovviamente a parere dello scrivente – l’importante questione affrontata da Grecchi circa il carattere «stabile» di una felicità scaturente da un’avveduta consapevolezza filosofica. Rifacendosi nuovamente al grande pensiero platonico e aristotelico, il nostro autore sostiene infatti che «la felicità è la stabile condizione di chi vive la propria compiutezza umana anche contro, se necessario, le modalità sociali esistenti; l’infelicità è invece la condizione di profonda tristezza di chi non vive la propria compiutezza umana, non riuscendo peraltro nemmeno ad adeguarsi in maniera efficace alle modalità sociali esistenti; la condizione di serenità, che costituisce appunto un mixtum, è invece la condizione di chi, pur non vivendo pienamente la propria compiutezza umana, sa almeno conformarsi alle modalità sociali esistenti, apparentemente senza sofferenza».28 La filosofia greca, in altri termini, pensava correttamente «la felicità come lo stabile raggiungimento, dopo una adeguata ricerca, di una condizione di compiutezza dell’uomo. Da tale condizione indubbiamente, in alcuni momenti, era possibile anche degradare, ma sempre fermo restando il fatto che, una volta compresa e assaporata, la felicità diventava una condizione nella sua essenza non obliabile né perdibile. Contrariamente al possesso di beni esteriori, infatti, la felicità era costituita da una stabile conoscenza dell’uomo e del mondo, che si deposita nell’anima in maniera permanente. Per i Greci, dunque, la felicità non era questione di picchi da mantenere e da innalzare continuamente, come accade oggi per i grafici che indicano i profitti delle aziende. Essa era una condizione di armonica apertura alla vita (harmonìa) che può essere tale solo nella incarnazione di rapporti affettivi e comunitari».29 Ovviamente Grecchi sa benissimo che un compiuto inveramento delle più essenziali caratteristiche della natura umana non può non essere intralciata e ostacolata, in varia misura e maniera, dal dominio ontologico-sociale delle attuali forme capitalistiche di vita; per tal ragione egli, respinto ogni mortificante adattamento del progetto di vita di ciascuno alle coordinate sociali esistenti, e ribadito, di contro alla quasi totalità del pensiero contemporaneo, l’insopprimibile legame ontologico intercorrente tra l’essenza dell’uomo e il pieno dispiegarsi di un’esistenza umana felice, afferma la necessità di «rimarcare che chi consapevolmente cerca di realizzare grandi progetti di vera umanità, analizzando dapprima se stesso ed il mondo, difficilmente si illude che gli stessi possano compiutamente realizzarsi in queste modalità di vita. È anzi molto fermo nella conoscenza della quasi impossibilità di riuscire a mutare in meglio la situazione. Costui, dunque, in realtà non si illude, e pertanto non può, più di tanto, né deludersi né soffrire. La sofferenza gli deriverebbe, invece, dal non aver tentato i propri grandi progetti, il proprio sogno, la realizzazione della propria umanità in un determinato campo della vita».30
Nuovamente, se, da un lato, non si possono non sottolineare le profonde ragioni e la profonda validità teoretica della concezione ontologica della felicità proposta da Grecchi, dall’altro pare indispensabile, rispetto a quest’ultima, formulare talune precisazioni nei termini di una ontologia sobriamente materialistica. Non v’è dubbio che la felicità, quanto al suo nucleo concettuale centrale, sia in un certo senso stabile, una volta che la si intenda come un complesso di capacità, sviluppate a partire dalle più alte potenzialità della natura umana (quelle, in altri termini, concorrenti a realizzare la consapevole «genericità per sé» degli esseri umani) e universalizzabili sulla base della comune dotazione cognitiva ed emozionale della specie. Ma poiché l’intrascendibile radicamento materiale cui sono sottoposti i processi ideativo-riflessivi e gli atti del porre teleologico mediante i quali viene storicamente sostanziandosi l’autocoscienza umana, pongono sempre di nuovo gli uomini di fronte a scelte e decisioni alternative, la cui natura può costituire peraltro un essenziale terreno di ulteriore sviluppo concreto della riflessione autocosciente della specie, l’universalità della felicità e del bene umano non può che assumere la forma essenziale del processo determinato, dell’incessante – ma non relativistico perché ontologicamente fondato – lavorìo problematizzante e riflessivo, aperto a più profonde e circostanziate determinazioni: così, per esempio, il giusto richiamo alla misura cui deve essere sottoposta ogni prassi produttiva trasformatrice della natura, viene innervata di concreti contenuti oggettivamente (approssimativamente) validi dalla riflessione sorta storicamente dai problemi ecologici e antropologici generati da una dissennata accumulazione di beni in forma di merce. La felicità, nella sua maggiore o minore compiutezza, è sempre, in altri termini, l’esisto di disposizioni etiche, di abiti morali fondati sullo sviluppo concreto della propria autocoscienza umano-generica, disposizioni e abiti i quali devono sempre di nuovo rispondere alle risorgenti alternative poste dai processi reali; nel far ciò, essi devono dar prova di saper effettivamente perseguire, senza alcuna aprioristica garanzia e nei limiti di condizioni oggettive non tutte necessariamente conosciute o controllabili, lo scopo di arricchire e sviluppare la più vera (la migliore possibile) umanità dell’uomo (tesi, quest’ultima, su cui, lo ripetiamo, Grecchi ha totalmente ragione). Questo complesso problematico, peraltro, non è certo ignoto al pensiero grecchiano, che pure non sempre considera a dovere la dimensione ontologicamente processuale del bene umano rispetto alle possibilità di concretizzazione universalistica del suo concetto; in un passo assai bello, il nostro autore scrive molto efficacemente: «Così descritto, il tema morale sembra molto facile da sviluppare, ma tale in realtà non è, e ciò non va nascosto. È infatti estremamente problematico – questo il dramma della condizione umana – decidere in concreto le scelte migliori da attuare: destinare il proprio tempo e le proprie risorse ad un’attività anziché ad un’altra, ad una persona anziché ad un’altra, e così via. Ciò nonostante, in questa problematicità, la centralità della cura dell’anima, propria ed altrui, costituisce una bussola nel lungo termine infallibile».31
In che modo queste importanti affermazioni di Grecchi debbano essere intese, in rapporto alle osservazioni svolte in precedenza, dovrebbe ormai essere chiaro, così come non può non apparire chiaramente a chiunque si confronti con essi l’indiscutibile valore dei testi grecchiani qui esaminati, fecondo terreno di dialogo teorico ispirato ad un’idea profondamente sentita di verità etico-umana senza la quale la filosofia è destinata a diventare futile gioco accademico o pedestre apologia dell’esistente.

Claudio Lucchini

Il saggio è stato pubblicato su Koiné, Periodico culturale , Anno XVIII  –  NN° 1-3,  Gennaio-Giugno 2011, pp. 221-229.

Note

1 Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, Pistoia, 1998, p. 123.

2 Ibidem.

3 Cfr. Luca Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, Il Prato, Saonara (Pd), 2009, pp. 48-50.

4 Ibidem, p. 50.

5 Ibidem, pp. 50-51.

6 Ibidem, p. 51.

7 Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, op. cit., pp. 130-131.

8 Luca Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, op. cit., pp. 101-102.

9 Ibidem, pp. 104-105.

10 Ibidem, pp. 121-138. Un’efficacissima sintesi delle analisi di Domenico Losurdo è contenuta nel volumetto (da lui medesimo scritto) Il peccato originale del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1998.

11 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, Petite Plaisance, Pistoia, 2005, p. 41.

12 Ibidem, p. 40.

13 Ibidem, p. 41.

14 Ibidem, p. 94.

15 Cfr., in ibidem, p. 43.

16 Ibidem, p. 94.

17 Ibidem.

18 Ibidem, pp. 26-27.

19 Ibidem, p. 27.

20 Ibidem.

21 Ibidem, p. 38.

22 A titolo puramente indicativo, rinviamo per la trattazione di tali questioni al bel libro di Francesco Ferretti, Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana, Laterza, Roma-Bari, 2007; e agli importanti scritti di Frans de Waal, di cui ci limitiamo a menzionare Primati e filosofi. Evoluzione e moralità, Garzanti, Milano, 2008. Un’esposizione sintetica delle argomentazioni di tali autori e una loro discussione critica, inquadrate nel più ampio tentativo di abbozzare un’etica fondata su un’ontologia sociale materialistica, sono contenute nel mio Il bene come processo possibile concreto. Natura umana e ontologia sociale, Mimesis, Milano-Udine, 2010.

23 Edoardo Boncinelli, Il male. Storia naturale e sociale della sofferenza, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2007, p. 6.

24 Vittorio Girotto – Telmo Pievani – Giorgio Vallortigara, Nati per credere, Codice edizioni, Torino, 2008, p. 127.

25 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, op. cit., p. 113.

26 Cfr., a titolo di esempio, quanto Lukács scrive alle pp. 43-45 dell’ Ontologia dell’essere sociale, vol. II, Editori Riuniti, Roma, 1981.

27 Wolfgang Abendroth – Hans Heinz Holz – Leo Kofler, Conversazioni con Lukács, De Donato Editore, Bari, 1968, p. 88.

28 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, op. cit., p. 141.

29 Ibidem, pp. 120-121.

30 Ibidem, pp. 142-143.

31 Ibidem, pp. 44-45.

Il saggio è stato pubblicato su Koiné, Periodico culturale , Anno XVIII  –  NN° 1-3,  Gennaio-Giugno 2011, pp. 149-167.

 

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Henri Poincaré (1854-1912) – La matematica e la logica.

 

Poincare,Jules-Henri

Qualche anno fa ho avuto occasione di esporre alcune idee sulla logica dell’infinito, sull’impiego dell’infinito in Matematica, sull’uso che se ne fa da Cantor in poi; ho spiegato perché non ritenevo legittime certe modalità di ragionamento di cui avevano creduto potersi servire alcuni matematici eminenti. Mi tirai ovviamente addosso delle repliche violente; questi matematici erano convinti di non essersi sbagliati, credevano di avere avuto il diritto di fare quello che avevano fatto. La discussione andava per le lunghe, non che si vedessero continuamente comparire argomenti nuovi, ma per il fatto che si girava sempre nello stesso cerchio, ciascuno ripetendo quello che aveva appena detto senza far mostra di aver inteso quello che l’avversario aveva detto. Mi veniva in ogni momento spedita una nuova dimostrazione del principio contestato, per mettersi, così si diceva, al riparo da ogni obiezione; ma questa dimostrazione era sempre la stessa, con il trucco appena rifatto. Non si è quindi giunti a nessuna conclusione; se dicessi di esserne rimasto sorpreso darei un’idea triste della mia capacità di penetrazione psicologica.
In queste condizioni conviene ripetere una volta di più gli stessi argomenti, ai quali potrei forse dare una forma nuova, ma della sostanza dei quali non potrei cambiare niente, dal momento che mi pare non si sia neanche cercato di confutarli. Mi sembra preferibile cercare quale possa essere l’origine di una differenza di mentalità tale da generare queste divergenze nei punti di vista. Ho appena detto che queste divergenze irriducibili non mi avevano sorpreso, che le avevo previste fin dal primo momento, ma questo non ci dispensa dal cercarne una spiegazione; possiamo prevedere un fatto in seguito ad esperienze ripetute e trovarci tuttavia in forte imbarazzo a spiegarlo.
Cerchiamo dunque di studiare la psicologia delle due scuole rivali, da un punto di vista puramente oggettivo, come se noi stessi fossimo collocati al di fuori di queste scuole, come se descrivessimo una guerra tra due formicai; constateremo in prima battuta l’esistenza tra i matematici di due tendenze opposte nella maniera di considerare l’infinito. Per gli uni, l’infinito deriva dal finito, c’è un infinito in quanto c’è un’infinità di cose finite possibili; per gli altri l’infinito preesiste al finito, il finito si ottiene staccando un pezzettino nell’infinito.
Un teorema deve poter essere verificato ma, visto che noi stessi siamo finiti, non possiamo operare che su oggetti finiti; anche ammettendo quindi che la nozione di infinito abbia un ruolo nell’enunciato del teorema, occorre che nella verifica non se ne faccia più menzione; altrimenti la verifica sarebbe impossibile.
Porterò come esempi teoremi di questo genere: la successione dei numeri interi è illimitata, la serie

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è convergente, ecc.; ciascuno di essi può tradursi in uguaglianze o disuguaglianze in cui non figurino che numeri finiti. Questi teoremi partecipano dell’infinito, non in quanto una delle verifiche possibili ne partecipi essa stessa, ma in quanto le verifiche possibili sono in numero infinito.
Enunciando il teorema affermo che tutte queste verifiche avranno successo; ben inteso, non le si fanno tutte; ce ne sono di quelle che chiamo possibili perché non esigerebbero che un tempo finito, ma che sarebbero impossibili in pratica perché richiederebbero anni di lavoro. Mi basta che si possa concepire qualcuno abbastanza ricco ed abbastanza pazzo da tentare l’impresa pagando un numero sufficiente di aiutanti. La dimostrazione del teorema ha come scopo esattamente quello di rendere inutile questa follia.
Ha senso un teorema che non comporti alcuna conclusione verificabile? o, più in generale, un teorema qualsiasi ha senso al di fuori delle verifiche che comporta? È su questo punto che i matematici si dividono. Quelli della prima scuola, quelli che chiamerò Pragmatisti (dato che bisogna pur dare loro un nome) rispondono di no, e quando viene presentato loro un teorema senza fornire un mezzo per verificarlo non ci vedono che acqua fresca. Costoro non vogliono prendere in considerazione che oggetti che possano essere definiti in un numero finito di parole; quando nel corso di un ragionamento parliamo loro di un oggetto A che soddisfa a certe condizioni, essi sottintendono un oggetto che soddisfa a queste condizioni quali che siano le parole di cui ci si servirà per definirlo, purché queste parole siano in numero finito.
Quelli dell’altra scuola, che chiamerò per brevità Cantoriani, non sono disposti ad ammettere tutto ciò; un uomo, per quanto sia chiacchierone, non pronuncerà mai nella sua vita più di un miliardo di parole; vogliamo dunque escludere dalla Scienza gli oggetti la cui definizione richieda un miliardo di parole più una? e se non li escludiamo, perché dovremmo escludere quelli che non possono essere definiti che con un’infinità di parole, dal momento che la costruzione degli uni come quella degli altri è al di fuori della portata dell’umanità?
Quest’argomento lascia ovviamente freddi i Pragmatisti; per quanto chiacchierone sia un uomo, l’umanità sarà ancora più chiacchierona e, visto che non sappiamo quanto tempo durerà, non possiamo limitare in anticipo il dominio delle sue investigazioni; sappiamo soltanto che questo dominio resterà sempre limitato; ed anche se potessimo fissare la data della sua scomparsa ci sarebbero altri che potrebbero riprendere l’opera lasciata incompiuta sulla Terra; i Pragmatisti non avrebbero d’altronde alcuna remora ad immaginare un’umanità molto più chiacchierona della nostra, ma che conservi ancora qualcosa di umano; essi si rifiutano di ragionare sull’ipotesi di non so quale divinità infinitamente chiacchierona e capace di pensare un’infinità di parole in un tempo finito. E gli altri pensano al contrario che gli oggetti esistano, in una sorta di grande negozio, indipendentemente da qualsiasi umanità o divinità che potesse parlarne o pensarci; che in questo negozio possiamo fare la nostra scelta, che molto probabilmente non abbiamo abbastanza appetito o abbastanza denaro per comprare tutto; ma che l’inventario del negozio sia indipendente dalle risorse degli acquirenti. E da questo malinteso iniziale discende ogni genere di divergenza sulle questioni di dettaglio.
Prendiamo ad esempio il teorema di Zermelo, secondo il quale lo spazio può essere trasformato in un insieme ben ordinato; i Cantoriani saranno sedotti dal rigore, reale o apparente, della dimostrazione; i Pragmatisti gli risponderanno: Dite di essere in grado di trasformare lo spazio in un insieme ben ordinato; ebbene! trasformatelo. – Sarebbe troppo lungo. – Allora mostrateci almeno che qualcuno che avesse abbastanza tempo e pazienza potrebbe compiere la trasformazione. – No, non lo possiamo perché il numero di operazioni da fare è infinito, è addirittura più grande di Aleph-con-zero. – Potete mostrare come si potrebbe esprimere in un numero finito di parole la legge che permetterebbe di ordinare lo spazio? – No. – Ed i Pragmatisti concludono che il teorema è privo di senso, o falso, o per lo meno non dimostrato.
I Pragmatisti si pongono dal punto di vista dell’estensione ed i Cantoriani dal punto di vista della comprensione. Quando si tratta di una collezione finita, questa distinzione non può interessare che i teorici della logica formale; ma essa ci appare molto più profonda nel caso delle collezioni infinite. Se ci si pone dal punto di vista dell’estensione una collezione si costituisce per aggiunta successiva di nuovi membri; possiamo, combinando i vecchi oggetti, costruire oggetti nuovi, con questi ultimi oggetti ancora più nuovi, e se la collezione è infinita è perché non c’è ragione di fermarsi.
Dal punto di vista della comprensione, al contrario, partiamo dalla collezione in cui si trovano oggetti preesistenti, che ci appaiono in un primo momento come indistinti, ma finiamo per riconoscere qualcuno di essi perché attacchiamo loro delle etichette e li sistemiamo in cassetti; ma gli oggetti sono anteriori alle etichette, e la collezione esisterebbe anche se non esistesse nessun catalogatore che la classificasse.
Per i Cantoriani la nozione di numero cardinale non comporta alcun mistero. Due collezioni hanno lo stesso numero cardinale quando le si può sistemare negli stessi cassetti; niente di più facile dal momento che le due collezioni preesistono, e che possiamo allo stesso modo considerare come preesistente una collezione di cassetti indipendente dai catalogatori incaricati di sistemarvi gli oggetti. Per i Pragmatisti le cose non vanno in questo modo; la collezione non è preesistente, ma s’arricchisce ogni giorno: si aggiungono continuamente nuovi oggetti, che non avremmo potuto definire senza appoggiarci alla nozione degli oggetti già classificati in precedenza ed alla maniera in cui sono stati classificati. Ad ogni nuova acquisizione il catalogatore può essere costretto a rivoluzionare i cassetti per trovare il modo di incasellarla: non sapremo mai se due collezioni possano sistemarsi negli stessi cassetti, dal momento che possiamo sempre temere che sia necessario rimetterli in ordine. Per esempio, i Pragmatisti non ammettono che oggetti che possano essere definiti in un numero finito di parole; le definizioni possibili, essendo esprimibili per mezzo di frasi, possono sempre essere numerate con numeri ordinari da uno fino all’infinito. In questo rispetto non ci sarebbe che un solo numero cardinale infinito possibile, il numero Aleph-con-zero; perché diciamo allora che la potenza del continuo non è quella dei numeri interi? Sì, dati tutti i punti dello spazio che sappiamo definire con un numero finito di parole, sappiamo immaginare una legge, esprimibile essa stessa con un numero finito di parole, che li faccia corrispondere alla successione dei numeri interi; ma consideriamo ora delle frasi in cui figuri la nozione di questa legge di corrispondenza; fino ad un attimo fa esse non avevano alcun senso, in quanto questa legge non era stata ancora inventata, e non potevano servire a definire punti dello spazio; ora hanno acquistato un senso, e ci permetteranno di definire nuovi punti dello spazio; ma questi nuovi punti non troveranno più posto nella classificazione adottata, il che ci costringerà a rivoluzionarla. Ed è questo quello che vogliamo dire quando diciamo, seguendo i Pragmatisti, che la potenza del continuo non è quella dei numeri interi. Vogliamo dire che è impossibile stabilire tra questi due insiemi una legge di corrispondenza che sia al riparo da questo genere di rivoluzione; mentre lo si può fare per esempio quando si tratta di una retta o di un piano. Quindi i Pragmatisti non sono certi che un insieme qualunque abbia, parlando in termini propri, un numero cardinale; oppure che dati due insiemi si possa sempre sapere se hanno la stessa potenza, o se uno ha una potenza più grande dell’altro. Arrivano così a dubitare dell’esistenza di Aleph-con-uno.
Un’altra fonte di divergenza viene dal modo di concepire la definizione. Ci sono più generi di definizione; le definizione diretta che può farsi sia per genus proximum et differentiam specificam sia per costruzione. Osserviamo di sfuggita che si danno definizioni incomplete, nel senso che definiscono non un individuo, ma un intero genere; esse sono legittime e sono anche quelle di cui si fa uso con maggiore frequenza; ma secondo i Pragmatisti occorre sottintendere l’insieme degli individui che soddisfano alla definizione e che potremmo definire completamente in un numero finito di parole; per i Cantoriani questa restrizione è artificiale e priva di significato.
Se non ci fossero che definizioni dirette l’impotenza della logica pura non potrebbe essere contestata; potremmo allora rimpiazzare ciascun termine di una qualunque proposizione con la sua definizione; portata a termine questa sostituzione la proposizione o non si ridurrebbe ad un’identità e non sarebbe quindi suscettibile di una dimostrazione puramente logica; oppure si ridurrebbe ad un’identità ed allora non sarebbe che una tautologia più o meno abilmente camuffata.
Ma abbiamo ancora un altro genere di definizioni, le definizioni per mezzo di postulati; in generale sapremo che l’oggetto da definire appartiene ad un genere, ma quando si tratterà di enunciare le differenze specifiche queste non verranno enunciate direttamente, ma con l’aiuto di un “postulato” cui l’oggetto definito dovrà soddisfare. È così che i matematici possono definire una quantità x per mezzo di un’equazione esplicita y = f(x) oppure per mezzo di un’equazione implicita F(x, y) = 0.
La definizione per mezzo di un postulato non ha valore se non quando si sia dimostrata l’esistenza dell’oggetto definito; in linguaggio matematico ciò vuoI dire che il postulato non implica contraddizione; non si ha il diritto di trascurare questa condizione; occorre o ammettere l’assenza di contraddizione come una verità intuitiva, come un assioma, per una sorta di atto di fede; ma allora occorre rendersi conto di quello che si fa e sapere che abbiamo allungato l’elenco degli assiomi indimostrabili; oppure occorre costruire una dimostrazione in piena regola, sia per mezzo dell’esempio, sia con l’impiego del ragionamento per ricorrenza. Non è che questa dimostrazione sia meno necessaria quando si tratta di una definizione diretta, ma è in generale più facile.
Certi Pragmatisti saranno più esigenti: per considerare legittima una definizione non basterà loro che non conduca a contraddizioni nei termini, pretenderanno anche che abbia un senso, secondo il loro punto di vista particolare che ho cercato di definire prima.
Sia come sia, la logica resterà sterile, dopo l’introduzione delle definizioni per mezzo di postulati? Non possiamo più, data una proposizione, rimpiazzare in essa un termine con la sua definizione; tutto quello che possiamo fare è eliminare questo termine tra la proposizione ed il postulato che gli serve di definizione. Se questa operazione, fatta secondo quelle che potremmo chiamare le regole dell’eliminazione logica, non ci conduce ad un’identità, la proposizione non è dimostrabile per mezzo della logica pura; se conduce ad un’identità, la proposizione non è che una tautologia. Non dovremo cambiare niente nelle nostre conclusioni di poco fa.
Ma esiste un terzo genere di definizioni, il che dà origine ad un nuovo malinteso tra Pragmatisti e Cantoriani. Sono ancora definizioni per mezzo di un postulato, ma il postulato è qui una relazione tra l’oggetto da definire e tutti gli individui di un genere cui lo stesso oggetto da definire è supposto fare parte (oppure di cui sono supposti fare parte enti che non possono essi stessi essere definiti che per mezzo dell’ oggetto da definire).

È quello che accade se poniamo i due postulati seguenti:

X (oggetto da definire) ha una certa relazione con tutti gli individui del genere G;
X fa parte del genere G;

oppure i tre postulati seguenti:

X ha una certa relazione con tutti gli individui del genere G;
Y ha una certa relazione con X;
Y fa parte di G.

Per i Pragmatisti, una definizione siffatta implica un circolo vizioso. Non si può definire X senza conoscere tutti gli individui del genere G, e di conseguenza senza conoscere X che è uno di questi individui. I Cantoriani non ammettono tutto ciò: il genere G ci è dato, di conseguenza ne conosciamo tutti gli individui, la definizione ha come scopo solo quello di discriminare tra questi individui quello che ha con tutti i suoi compagni la relazione enunciata. No, rispondono i loro avversari, la conoscenza del genere non vi fa conoscere tutti i suoi individui, vi dà solo la possibilità di costruirli tutti, o piuttosto di costruirne quanti ne vorrete. Non esisteranno che dopo che siano stati costruiti, cioè dopo che siano stati definiti; X non esiste che per mezzo della sua definizione, che non ha senso se non conosciamo in anticipo tutti gli individui di G ed in particolare X. Non servirebbe a niente dire, essi aggiungono, che definire X per mezzo della sua relazione con X non è un circolo vizioso, che questa relazione è in fin dei conti un postulato che può servire a definire X; perché occorrerebbe stabilire preliminarmente che questo postulato non implica contraddizione, ma non è questo che viene fatto di solito in questo genere di definizioni. Si dimostra in primo luogo che, quale che sia il genere G, di cui tutti gli individui sono supposti conosciuti, esiste un ente X che ha con questo genere la relazione in questione; cioè che l’esistenza di questo ente non implica contraddizione; resterebbe da far vedere che non c’è contraddizione tra l’esistenza di questo ente e l’ipotesi che questo stesso ente faccia parte del genere.
Il dibattito potrebbe andare per le lunghe; ma il punto che vorrei mettere in evidenza è che, se ammettessimo questo genere di definizioni, la logica non sarebbe più sterile, e prova ne è che è stata messa in piedi una pletora di ragionamenti destinati a dimostrare proposizioni che non erano assolutamente tautologie, dato che ci sono persone che si chiedono se non siano false. Non possiamo allora che ammirare il potere che può avere una parola. Ecco un oggetto da cui non si sarebbe potuto ricavare nulla, quando non era ancora stato battezzato; è stato sufficiente dargli un nome perché facesse meraviglie. Come è stato possibile tutto ciò? Il fatto è che dandogli un nome abbiamo affermato implicitamente che l’oggetto esisteva (era cioè scevro da ogni contraddizione) e che era completamente determinato. Ora, secondo i Pragmatisti di ciò non sappiamo niente. Qual è dunque il meccanismo che rende feconda la dimostrazione? Ma è proprio semplice, si nega la proposizione da dimostrare e si mostra che ci si trova in contraddizione con l’esistenza dell’oggetto X; e ciò è legittimo solo a condizione di essere certi di questa esistenza, e, d’altra parte, se sappiamo che l’oggetto è interamente determinato. Ed in effetti se X è dedotto dal genere G per mezzo della definizione, e se in seguito completiamo il genere G aggiungendogli l’oggetto X e gli altri individui dello stesso genere che possono derivarne; e chiamiamo G’ il genere così completato e X’ ciò che verrebbe dedotto da G’ per mezzo della definizione allo stesso modo in cui X è stato dedotto da G, occorre essere sicuri che X’ sia identico ad X. Se non fosse questo il caso e se, negando la proposizione da dimostrare, si fosse condotti a due enunciati contraddittori

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come potremmo sapere che è proprio lo stesso X che figura nell’uno e nell’altro? Se X figurasse nell’uno ed X’ nell’altro le due proposizioni si scriverebbero

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ed in generale non sarebbero più contraddittorie.

Perché dunque i Pragmatisti sollevano quest’obiezione? Perché il genere G non appare loro che come una collezione suscettibile di accrescimento indefinito, man mano che saranno costruiti nuovi individui che possiedono i caratteri giusti; è così che G non può mai essere posto ne varietur, come fanno i Cantoriani, e che non si è sicuri che, per mezzo di nuove annessioni, non diventerà G’.
Mi sono sforzato di spiegare quanto più chiaramente ed imparzialmente possibile in cosa consistano le divergenze tra le due scuole di matematici; e mi sembra che se ne possa già scorgere la causa effettiva; gli studiosi delle due scuole hanno delle attitudini mentali opposte; quelli che ho chiamato Pragmatisti sono idealisti, i Cantoriani sono realisti.
C’è una cosa che ci confermerà in questo modo di vedere. Vediamo che i Cantoriani (che mi si passi questo vocabolo comodo, sebbene non voglia parlare qui dei matematici che seguono la via aperta da Cantor, e forse neanche dei filosofi che a lui si rifanno, ma di quelli che hanno le stesse attitudini in una maniera indipendente), che i Cantoriani, dicevo, parlano costantemente di epistemologia, cioè della scienza delle scienze; ed è ben inteso che tale epistemologia è del tutto indipendente dalla psicologia; essa ci deve cioè insegnare che cosa sarebbero le scienze se non ci fossero scienziati; che dobbiamo studiare le scienze, probabilmente non supponendo che non ci siano scienziati, ma per lo meno senza supporre che ce ne siano. Così, non solo la natura è una realtà indipendente dal fisico che potrebbe essere tentato di studiarla, ma la fisica stessa è inoltre una realtà che sussisterebbe se non ci fossero fisici. Si tratta proprio di realismo.
E perché i Pragmatisti si rifiutano di ammettere oggetti che non potrebbero essere definiti in un numero finito di parole? Perché essi considerano che un oggetto esiste solo quando viene pensato, e che non sapremmo concepire un oggetto pensato indipendentemente da un soggetto pensante. Si tratta proprio di idealismo. E dato che un soggetto pensante è un uomo o qualcosa che assomiglia ad un uomo, e di conseguenza un essere finito, l’infinito non può avere altro senso che la possibilità di creare tanti oggetti finiti quanti vogliamo.
Possiamo allora fare un’osservazione piuttosto curiosa. I realisti si collocano di solito da un punto di vista fisico; sono gli oggetti matematici, o le anime individuali, o ciò che essi chiamano le sostanze, ciò di cui affermano l’esistenza indipendente. Il mondo esisteva per loro prima della creazione dell’uomo, prima ancora di quella degli esseri viventi; ed esisterebbe anche se non ci fosse alcun Dio né alcun soggetto pensante. Questo è il punto di vista del senso comune, ed è solo con la riflessione che si potrà essere indotti ad abbandonarlo. I partigiani del realismo fisico sono in generale finitisti; riguardo al problema delle antinomie kantiane stanno dalla parte della tesi; credono che il mondo sia limitato. Questa è ad esempio la posizione di Evellin. Al contrario gli idealisti non hanno le stesse remore e sono pronti a sottoscrivere le antitesi.
Ma i Cantoriani sono realisti anche per quanto riguarda le entità matematiche; queste entità sembrano loro avere un’esistenza indipendente; il geometra non le crea, le scopre. Questi oggetti esistono quindi, per così dire, senza esistere, dato che si riducono a pure essenze; ma dato che, per natura, questi oggetti sono in numero infinito, i partigiani del realismo matematico sono molto più infinitisti degli idealisti; il loro infinito non è più un divenire, poiché preesiste alla mente che lo scopre; che lo ammettano o che lo neghino, sono dunque costretti a credere nell’infinito attuale.
Riconosciamo la teoria delle idee di Platone; e può sembrare strano vedere Platone classificato tra i realisti; niente è però più antitetico all’idealismo contemporaneo del platonismo, sebbene questa dottrina sia parimenti molto lontana dal realismo fisico. Non ho mai conosciuto un matematico più realista, in senso platonico, di Hermite, e tuttavia devo confessare di non avere mai incontrato nessuno più refrattario al Cantorismo. Si tratta di una contraddizione apparente, tanto più che egli ripeteva volentieri: Sono anticantoriano perché sono realista. Egli rimproverava a Cantor di creare oggetti invece di accontentarsi di scoprirli. Probabilmente a causa delle sue convinzioni religiose considerava come una sorta di empietà voler penetrare direttamente in un dominio che Dio solo poteva abbracciare, senza aspettare che Egli ci rivelasse i misteri uno ad uno. Paragonava le scienze matematiche alle scienze naturali. Un naturalista che avesse tentato di indovinare il segreto di Dio invece di consultare l’esperienza gli sarebbe parso non solo presuntuoso ma anche senza rispetto per la maestà divina; i Cantoriani gli parevano voler agire nella stessa maniera in matematica. Ed è per questo che, realista in teoria, era idealista in pratica. C’è una realtà da conoscere ed essa è esterna a noi ed indipendente da noi; ma tutto quello che ne possiamo conoscere dipende da noi, e non è altro che un divenire, una sorta di stratificazione di conquiste successive. Il resto è reale ma eternamente inconoscibile.
Il caso di Hermite è del resto isolato e non mi dilungherò ancora su di esso. In ogni epoca ci sono state in filosofia tendenze opposte, e non pare che queste tendenze siano sul punto di conciliarsi. Ciò è dovuto probabilmente al fatto che esistono animi differenti e che non si può cambiare niente in questi animi. Non c’è quindi alcuna speranza di vedersi stabilire l’accordo tra Pragmatisti e Cantoriani. Gli uomini non si capiscono perché non parlano la stessa lingua e perché ci sono lingue che non si imparano.
E tuttavia in matematica sono soliti capirsi; ma è proprio grazie a quello che ho chiamato le verifiche; esse costituiscono l’ultimo grado di giudizio, e davanti ad esse tutti si inchinano. Ma laddove queste verifiche vengano meno i matematici non si trovano in posizione migliore dei semplici filosofi. Quando si tratta di sapere se un teorema possa avere un senso senza essere verificabile, chi potrà giudicare, dato che per definizione ci si impedisce di verificare? Non ci sarebbe altra risorsa che ridurre il proprio avversario ad una contraddizione. Ma l’esperimento è stato fatto e non ha dato risultati.
Sono state segnalate molte antinomie, ed il disaccordo è perdurato, nessuno ne è uscito convinto; da una contraddizione ci si può sempre togliere d’impaccio con un espediente, voglio dire con un distinguo.

Jules-Henri Poincaré

Questo saggio di Marcello Cini è già stato pubblicato su Koinè, Periodico culturale, Anno X, nn. 1-2, Gennaio-Giugno 2002,  pp. 245-253; direttore responsabile Carmine Fiorillo; il volume collettaneo reca il titolo  Scienza cultura, filosofia.Titolo originale: Les mathématiques et la logique, capitolo V di Dernières Pensées. Parigi, Flammarion 1913. Traduzione di FABIO ACERBI.

Koiné

Scienza, Cultura, Filosofia

indicepresentazioneautoresintesi

 

Problemi tra scienza e cultura
Sintetizzare e interpretare/Darsi dei limiti/Sulla diffidenza per la filosofia/Una confutazione dello scientismo/I problemi della divulgazione/Specializzazione parcellizzante/Una catastrofe culturale?/Uno sguardo sulla cultura/Linee di resistenza/E se fosse colpa del capitalismo?/Conclusioni. Una modesta utopia.

Lucio Russo
Cosa sta accadendo alla scienza?
Premessa/Cos’è la scienza? La scienza esatta/Scienza esatta e tecnologia /Scienze biologiche (e altre scienze empiriche)/Il problema della verità/Divulgazione scientifica e imposture intellettuali/La crisi attuale/Il nuovo ruolo della biologia: le biotecnologie/Complessità /Quale futuro?

Marcello Cini
C’è ancora bisogno della filosofia per capire il mondo?
Introduzione/La svolta nella scienza dal XX al XXI secolo/L’epistemologia delle scienze della materia inerte/Una epistemologia delle scienze del mondo vivente/Il problema corpo/mente/Scienza e valori/Conclusioni.

Alberto Artosi
Lettera a uno scienziato sulla ragione, la razionalità e il razionalismo
Caro Scienziato/Bisogna guardarsi da un’immagine ingenuamente razionalistica della scienza/Anche gli scienziati più aperti sono dei razionalisti (e degli elitisti) ingenui/Bisogna sottrarsi al culto delle argomentazioni “razionali” /Il caso dell’archeoastronomia/ Il razionalismo ingenuo è intollerante/Sulla “cultura di massa”/Commiato.

Massimo Bontempelli
Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea
Popper: la teoria come congettura/Hegel e la filosofia della scienza/La teoria della verità come idealità matematica/Gödel: la logica matematica non può giustificare il proprio principio di coerenza/Matematica senza fondamento/Barrow: la base teorica universale della matematica/Hegel: la quantità come “qualità tolta”/Il gran libro della Natura è scritto in caratteri matematici?/Il risultato culturale della rivoluzione scientifica/La semplificazione galileiana del mondo reale/La quantità matematizzabile come dominabilità del mondo/I limiti del meccanicismo/La fisica delle particelle come pura astrazione teorica/Le teorie del tutto/Il determinismo dell’elettrodinamica quantistica/Feynman: la Natura è assurda/La povertà conoscitiva del determinismo matematico della fisica/Il crollo del determinismo fisico di fronte alle forme biologiche/La concezione biologistica della verità/La povertà della moderna coscienza antimetafisica /Il pregiudizio antimetafisico della mentalità odierna/Realtà e verità nella filosofia ontologic/La sapienza di Platone.

Fabio Bentivoglio
Scienza, Natura e destino dell’uomo. Riflettiamo con Aristotele
Che cosa è, oggi, la sapienza?/La Natura/Le onde e la scogliera/Un’etica per la civiltà tecnologica/Dogmi di ieri e dogmi di oggi/L’elogio del senso comune.

Jean Bricmont
Contro la filosofia della meccanica quantistica
Riassunto/Introduzione/Realismo e positivismo/Il problema della meccanica quantistica/La non località/Soluzioni possibili al problema della misura/Conclusioni/Appendice I: Il problema della misura/Appendice II: Il teorema di Bell/Appendice III: La teoria di Bohm/Appendice IV: Bibliografia/Ringraziamenti/Riferimenti.

Fabio Acerbi
Concetto ed uso dei modelli nella scienza greca antica
Il concetto di modello/La controversia storiografica: strumentalismo versus realismo/Cenni al dibattito epistemologico in età ellenistica/L’approccio per modelli nella scienza antica: alcuni esempi: a. Astronomia; b. Meccanica; c. Ottica; e. Teoria musicale; f. Medicina/Conclusioni.

Jules-Henri Poincaré
La matematica e la logica

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Marcello Cini (1923-2012) – C’È ANCORA BISOGNO DELLA FILOSOFIA PER CAPIRE IL MONDO?

Marcello Cini

  1. INTRODUZIONE

È possibile “collegare e raccordare scienza da una parte e cultura e senso comune dall’altra”? Marino Badiale risponde affermativamente, argomentando che spetta alla filosofia il compito di effettuare questa mediazione attraverso una attività razionale di sintesi e di interpretazione delle idee e dei risultati della scienza. Sintesi significa, in questo contesto, “cogliere gli aspetti concettuali più significativi di una disciplina scientifica: le categorie con le quali essa organizza il suo particolare dominio di oggetti, la metodologia nella quale sintetizza il proprio concreto operare, i valori e gli scopi conoscitivi nei quali riassume il fine della propria ricerca”. Interpretazione vuol dire “comprendere il significato culturale e umano di tutto questo, collegando i concetti fondamentali delle varie discipline con le altre dimensioni della cultura e dell’operare umano in una unità comprensibile e sensata”. Si tratta, in definitiva, di “capire cosa la scienza stessa ci dice dell’essere umano e del mondo che egli si costruisce”.
Questo è, del resto, argomenta Badiale, ciò che ha fatto la filosofia in Occidente, almeno fino a poco tempo fa: i suoi maggiori esponenti si sono posti come fine una comprensione razionale delle varie dimensioni dell’esistenza umana e della loro sintesi in una visione unitaria e armonica. Oggi, tuttavia questo obiettivo sembra diventare sempre più irraggiungibile. Due tendenze divaricanti infatti dominano da un lato la scienza e dall’altro la cultura, tanto nelle sue manifestazioni elitarie come in quelle di massa.
Da parte sua la scienza è sempre più caratterizzata da un processo esponenziale di “specializzazione parcellizzante” che esclude la possibilità di una sintesi filosofica che ne colga gli aspetti concettuali fondamentali, e vanifica dunque la ricerca di un senso complessivo per le sue azioni e i suoi fini. Al tempo stesso infatti, la filosofia, sottoposta allo stesso processo, cancella questo compito dalla sua agenda, mentre le discipline scientifiche sempre più cercano nell’autoreferenzialità della loro pratica la propria legittimazione.
La cultura di massa è a sua volta dominata dal rifiuto di “un aspetto fondamentale della tradizione filosofica occidentale” cioè della “discussione razionale sui grandi temi della vita umana: il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il modo migliore di organizzare la vita degli esseri umani”. Essa si presenta dunque come una forma di irrazionalismo diffuso, come un immane sforzo per non sapere ciò che stiamo facendo (a noi stessi e al nostro mondo).
Il procedere di questi due processi – la specializzazione parcellizzante della scienza e l’espulsione del pensiero critico dalla cultura di massa – porterebbe dunque a concludere che la riflessione filosofica di sintesi e di interpretazione inizialmente proposta è impossibile. Non resterebbe allora altro da fare, secondo Badiale, se non tentare di attestarsi su alcune linee di resistenza, nella scuola soprattutto ma anche in alcuni punti chiave all’interno delle facoltà scientifiche e delle istituzioni della ricerca, nell’attesa che la scienza diventi adulta, capace cioè di “rinunciare al desiderio infantile di onnipotenza” e di “riconoscere la propria funzione, il proprio ruolo, e quindi, contemporaneamente, il proprio valore e i propri limiti”.
Dico subito che non mi riconosco interamente in questo discorso, anche se condivido molte delle argomentazioni che lo sorreggono ed alcune delle conseguenze che se ne traggono. È come se mi trovassi di fronte a una figura che, pur essendo composta da molti pezzi che mi sono familiari, finisce, per il diverso ordine con il quale vengono disposti o per l’assenza di altri che secondo me sarebbero necessari, col rappresentare un quadro diverso da quello che appare ai miei occhi.
Fuori di metafora, mi sembra per esempio che l’analisi schematicamente riassunta in precedenza dei due processi che hanno trasformato la scienza e la cultura di massa, pur rappresentandone correttamente alcuni tratti evidenti, non colga appieno la natura della profonda svolta che entrambe queste componenti fondamentali della società contemporanea hanno vissuto negli ultimi decenni del secolo appena finito. In particolare mi sembra che questa analisi parli delle norme metodologiche e dei criteri epistemologici delle diverse discipline scientifiche come se avessero una radice comune in un ideale di scienza che in ultima analisi assume la fisica come modello. Non è un caso, mi sembra, che gli esempi utilizzati abbiano tutti a che fare con questa disciplina e che le discipline della vita e della mente non siano mai nominate.
Non tiene conto, per esempio, del fatto che, via via che si attinge ai livelli più elevati di organizzazione della materia, il consenso degli scienziati sul linguaggio disciplinare considerato appropriato si indebolisce, e si assiste alla moltiplicazione dei linguaggi adottati da gruppi diversi della comunità. Questi linguaggi non sono necessariamente in contraddizione: essi corrispondono a differenti modellizzazioni del dominio fenomenologico e a differenti punti di vista (culturali, epistemoligici, tecnologici) a partire dai quali si costruiscono le categorie concettuali e i metodi pratici utilizzati per analizzare il dominio considerato. In queste discipline sarà dunque sempre più difficile inventare un “esperimento cruciale” capace di decidere chi ha ragione e chi ha torto, perché tutti i modelli sono parziali e unilaterali. Ognuno di essi è al tempo stesso” oggettivo”, perché riproduce alcune proprietà del reale, e “soggettivo” perché il punto di vista è scelto dai gruppi diversi in conflitto fra loro.
Una rappresentazione della scienza che non assuma questa varietà di punti di vista in competizione, secondo me, impedisce a sua volta di individuare la novità e la ricchezza del compito che la filosofia si trova a dover affrontare, rispetto a quello di sintesi e di interpretazione assegnato ad essa nel saggio introduttivo; un compito che del resto appare all’autore stesso impossibile da raggiungere nelle condizioni attuali.
In questo lavoro mi propongo dunque di discutere anzitutto (§ 2) la natura della svolta che ha caratterizzato la scienza nel passaggio dal XX al XXI secolo. Successivamente analizzerò rispettivamente i rapporti fra scienza ed epistemologia, rispettivamente per le discipline della materia inerte (§ 3) e per quelle della materia vivente (§ 4) e pensante (§ 5). Il § 6 è dedicato invece al rapporto fra scienza ed etica. Nelle conclusioni (§ 7) cercherò di argomentare perché sono convinto che la filosofia sia un bisogno insopprimibile della mente umana: come l’Araba Fenice risorge sempre dalle sue ceneri.

  1. LA SVOLTA NELLA SClENZA DAL XX AL XXI SECOLO

Nel secolo appena finito l’uomo ha instaurato il suo pieno dominio sulla materia inerte. Dopo essere riuscito, nel ‘700 e ‘800, a formulare le grandi leggi universali che ne regolano le proprietà a livello macroscopico e aver individuato le diverse forme di energia di cui può essere dotata, nel ‘900 ha appreso, attraverso la conoscenza sempre più approfondita dei suoi costituenti elementari, a trasformarla in forme e aggregati nuovi, in modo da riuscire a progettare e costruire un mondo artificiale fatto di sostanze, macchine, apparati, finalizzato ad incrementare al di là di ogni immaginazione, mediante protesi sempre più potenti e penetranti, la portata e l’intensità delle proprie capacità naturali di percezione, di azione e di controllo del mondo esterno. Il nuovo secolo sarà il secolo del dominio dell’uomo sulla materia vivente e del controllo sui fenomeni mentali e sulla coscienza. La prima barriera, che separa la materia inanimata e quella vivente, sta crollando vistosamente, dopo che, da un lato, sono state decodificate le modalità di autorganizzazione della vita e sono stati identificati i geni come sue unità elementari, e, dall’altro, è stato ricostruito il processo evolutivo che ha dato origine alla immensa varietà e complessità delle sue diverse manifestazioni. La seconda, quella tra corpo biologico e mente (e, in particolare, tra cervello e coscienza) sta cedendo sotto i colpi dei progressi delle neuroscienze nell’individuazione della gerarchia delle diverse strutture cerebrali e delle loro funzioni, dai singoli neuroni fino alla rete delle loro reciproche connessioni.
Dopo aver cominciato ad apprendere come trasformare la vita in forme e aggregati nuovi, e come controllare i fenomeni mentali, gli uomini si apprestano dunque a progettare e costruire una biosfera artificiale fatta di organismi transgenici, chimere, cloni, e chissà quali altre forme viventi, regolata da una rete di menti artificiali di complessità crescente, con conseguenze imprevedibili.
È essenziale riconoscere che questa svolta cambia profondamente la natura stessa della scienza. Essa infatti comporta l’abbattimento di due steccati che tradizionalmente separavano la scienza dalle altre attività sociali umane: uno separava la scienza (in quanto conoscenza disinteressata della natura ottenuta attraverso la scoperta) dalla tecnologia (in quanto utilizzazione pratica dei risultati della prima realizzata attraverso l’invenzione), e l’altro separava le attività che si occupano difatti da quelle che si occupano dei valori che stanno alla base delle norme (etiche e giuridiche) intese a regolare le finalità e i comportamenti degli individui nei loro rapporti privati e nelle loro azioni sociali.
Entrambe queste separazioni nette tendono a scomparire. Per quanto riguarda la prima è evidente che il nesso tra la ricerca scientifica “pura”, cioè perseguita al solo scopo di conoscere in modo disinteressato la natura, e l’innovazione tecnologica, stimolata dall’interesse a inventare continuamente nuovi strumenti per soddisfare la domanda di un mercato sempre più esigente e sofisticato, si è fatto sempre più stretto, fino a diventare un intreccio difficilmente districabile. Per convincersene basta osservare quanto sia ambiguo e intimo il rapporto fra la biologia molecolare, disciplina fondamentale quant’altre mai, e l’ingegneria genetica, tecnologia di punta per eccellenza, per convincersi che è impossibile decidere se una delle due venga prima dell’altra. Lo stesso si può dire per le discipline coinvolte in tutti i problemi ambientali, o in quelle che intervengono nei fenomeni cerebrali e mentali.
Anche per quanto riguarda la separazione fra fatti e valori la svolta ha un effetto dirompente. È ormai esperienza comune che i dibattiti e le polemiche interne alla scienza cominciano a entrare nelle arene del discorso e dell’azione non scientifiche. Le scoperte scientifiche sono messe in discussione, criticate o utilizzate insieme ad altre fonti di conoscenza disponibili da parte di un pubblico sempre più vasto. Una cosa è infatti manipolare, controllare, forgiare un oggetto fatto di materia inerte e altra cosa è compiere le stesse operazioni su un organismo vivente o addirittura sull’uomo. Nel primo caso illecito coincide con l’utile, nel secondo illecito dovrebbe per lo meno dipendere anche da una valutazione di natura etica. Dunque anche la seconda separazione tende a svanire: diventa sempre più difficile decontaminare i fatti dai valori ed estirpare gli interessi dalla conoscenza. Le “verità” della scienza e gli “strumenti” della tecnologia acquistano proprietà che dipendono dal contesto. Nasce il problema del rapporto fra conoscenza e valori, cioè del nesso fra la ricerca della “verità” e il perseguimento di “retti” comportamenti individuali e collettivi.
È tuttavia evidente che la svolta non viene percepita, nell’immaginario collettivo, in tutta la sua radicalità. Sia gli scienziati che i decisori, nella sfera pubblica (politici e amministratori) come in quella privata (industriali e managers), si affannano infatti, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, a mantenere intatta l’immagine tradizionale della scienza, come ricerca disinteressata e oggettiva (avalutativa) della verità capace di rappresentare la realtà così com’è, in modo sempre più fedele e dettagliato. I primi perché sono interessati a sottolineare la continuità del “metodo scientifico” che garantirebbe una volta per tutte uno statuto epistemologico privilegiato a questa forma di conoscenza, conferendo nel contempo alla categoria un elevato prestigio sociale e non disprezzabili porte di accesso alla sfera del potere. I secondi perché sono ancor più interessati a marcare la continuità delle leggi dell’economia e del mercato come regolatrici ultime dell’introduzione di innovazione scientifica e tecnologica di qualsiasi natura nel processo produttivo. “Il fatto che una cosa abbia natura biologica e si autoriproduca –afferma a questo proposito un oscuro ma aggiornato biotecnologo di Oakland – non basta a renderla diversa da un pezzo di macchina costruita con dadi, bulloni e viti”. Portare alla luce la vera portata di questa svolta diventa dunque un primo compito essenziale della riflessione filosofica. La pionieristica opera di Gregory Bateson, questo grande “filosofo naturale”, emarginato dalla comunità scientifica quando era in vita e quasi completamente dimenticato dopo la sua morte, può essere, da questo punto di vista, assolutamente fondamentale. Altri nomi che a questo punto è d’obbligo fare sono quelli di Hans Jonas e di Paul Ricoeur. Come vedremo più avanti, non si parte da zero. Occorre però compiere un riordinamento gestaltico nell’immagine della scienza che incontra ancora molte resistenze. Sarà la forza delle cose a costringerci a farlo.

  1. 3. L’EPISTEMOLOGIA DELLE SCIENZE DELLA MATERIA INERTE

Il compito di “sintesi” assegnato da Badiale alla filosofia è indubbiamente reso difficile dai due processi – la specializzazione parcellizzante della scienza e l’espulsione del pensiero critico dalla cultura di massa – che caratterizzano la nostra società capitalistica avanzata. Mi sembra però che ci sia nella stessa definizione di “sintesi” una difficoltà più profonda, che riguarda tutta la scienza, a partire dalla fisica, la disciplina della materia inerte per eccellenza.
Mi sembra infatti che il concetto di “sintesi” inteso come “estensione a un livello molto generale e astratto di un aspetto essenziale della pratica quotidiana della scienza” sia fondato su una immagine inadeguata di questa pratica.
Secondo Badiale, essa comincia “dallo studente che, svolto il calcolo suggerito dal docente, deve capire perché esso rappresenti la soluzione del problema fisico dato”, continua con lo “sperimentatore che si sforza di interpretare i segnali che i suoi strumenti gli mandano”, arriva al “teorico che sintetizza i dati sperimentali e deduzioni matematiche in una nuova immagine del mondo”, per sfociare nella “intera prassi scientifica [che vive] di un continuo sforzo di sintesi e di interpretazione dei propri stessi risultati”.
Forse questa immagine della scienza è un po’ troppo semplice. Se fosse vera, tra l’altro,la filosofia non avrebbe mai avuto un ruolo nel suo processo di sviluppo. È essenziale infatti, per capire questo ruolo, abbandonare la vecchia immagine, criticata da Kuhn già quarant’anni fa, del progresso della scienza come processo lineare, tutto interno, di accumulazione di verità che man mano sostituiscono vecchi errori e colmano precedenti lacune. Se così fosse, in effetti, non ci sarebbe bisogno della filosofia: la “verità” verrebbe fuori da sé.
Bisogna dunque per prima cosa cominciare a distinguere fra gli aspetti concettuali che sono entrati a far parte del patrimonio comune di conoscenze, sui quali il dibattito è ormai chiuso (ma alle volte può riaprirsi: c’è voluto Einstein per rimettere in discussione, dopo due secoli di accettazione unanime, la meccanica newtoniana), e i diversi aspetti concettuali che sono, nel corso del processo di acquisizione di nuove conoscenze, oggetto di discussione e di conflitto fra i sostenitori di proposte epistemologiche e metodologiche alternative. È in questo processo che può intervenire la filosofia. Non ha senso che intervenga post factum. Una volta che gli scienziati si sono messi d’accordo la filosofia può solo fare la mosca cocchiera.
È infatti proprio nel corso di questo dibattito che si forma il consenso attorno a posizioni che via via si consolidano ed entrano a far parte del patrimonio di conoscenze accettato da tutti. A volte questo consenso non si raggiunge e la comunità si divide. Il punto fondamentale è che, anche quando il consenso è stato raggiunto su un tema controverso, il dibattito non finisce, ma si sposta su un fronte più avanzato. È il confronto fra posizioni differenti che genera la nuova conoscenza. Certo, come lo stesso Kuhn ha mostrato, ci sono periodi di svolta in cui il dibattito è particolarmente acceso e contrastato, e periodi di continuità in cui la conoscenza procede per approfondimento e allargamento all’interno di un “paradigma” riconosciuto.
Ma come si raggiunge il consenso? Non è vero che è soltanto la “natura” a decidere chi ha ragione e chi ha torto. Le esperienze “cruciali”, ci avverte Lakatos, diventano tali solo retrospettivamente, dopo che l’accordo è stato raggiunto. La valutazione delle proposte alternative in competizione avviene invece sulla base di molteplici fattori che portano all’accettazione di alcune e al rifiuto di altre. Questi fattori possono comprendere una serie di criteri differenti. Essi vanno, per esempio, da quelli adottati per esprimere un “giudizio di scientificità” sulla proposta in discussione o della sua pertinenza all’ambito disciplinare (cioè della sua compatibilità con i capisaldi della disciplina che non possono, allo stato delle cose, essere messi in discussione), fino ai criteri per giudicare dell’esistenza o meno di un problema aperto da risolvere o da accantonare (in questo caso si tratta di decidere se un certo fenomeno richiede una spiegazione oppure non ne ha bisogno perché è evidente, o può essere assunto come dato a priori). Oppure possiamo trovare criteri di carattere formale. Rientrano fra questi quelli relativi alla semplicità, all’eleganza, alla coerenza interna di una teoria o di un formalismo.
Certo sono anche importanti i criteri adottati per giudicare dell’adeguatezza empirica di una teoria. Ma non sono i soli che contano per decidere. Può accadere infatti che l’accordo o il disaccordo con una determinato esperimento sia considerato più o meno importante a seconda del grado di attendibilità di cui il paradigma dominante gode presso la comunità. In certi casi si accetta una nuova teoria nonostante il suo disaccordo con dati sperimentali che successivamente verranno smentiti; altre volte invece nuovi dati vengono ignorati per mantenere in vita la vecchia teoria in mancanza di una più soddisfacente.
È chiaro a questo punto quale sia il ruolo essenziale della riflessione filosofica nel contribuire a risolvere il conflitto fra sostenitori di punti di vista diversi e a determinarne l’esito. Essa infatti deve aiutare a formulare in forma esplicita e razionale le premesse meta teoriche, implicite o addirittura nascoste nell’inconscio individuale dei singoli scienziati, che stanno alla radice del conflitto. È un ruolo che può avere come protagonisti sia gli scienziati più creativi e consapevoli del valore culturale, esterno alla comunità, delle scelte possibili, sia i filosofi capaci di cogliere, al disotto dei dettagli tecnici formali delle diverse alternative, i loro diversi aspetti epistemologici e metodologici.
Essi possono così individuare legami fra proposte di innovazione avanzate anche in campi disciplinari diversi che tuttavia condividono la stessa “metafisica influente” (Lakatos), o gli stessi “stili di pensiero”, o gli stessi “ideali del sapere” (Amsterdamski), rintracciandone le radici nel retroterra culturale che caratterizza lo Zeitgeist dell’epoca considerata. Ha dunque ragione Badiale nel sottolineare che la riflessione filosofica è efficace quando rivela il nesso che lega una svolta concettuale introdotta in una data disciplina scientifica con i temi importanti e urgenti che permeano la cultura del contesto sociale corrispondente. Ma individuare le ragioni del contendere aiuta a capire come e dove ciò che è stato possibile una volta può ancora accadere oggi.
Gli esempi che Badiale presenta dei grandi protagonisti delle svolte importanti della scienza che sono riusciti a svolgere efficacemente questo compito di “sintesi” filosofica sono da questo punto di vista significativi, ma lasciano in ombra, mi pare, il fatto fondamentale che questa “sintesi” più che essere una conseguenza necessaria del successo del nuovo modo di descrivere la realtà, è stata un fattore importante per raggiungere questo successo nel conflitto con i sostenitori della rappresentazione dei fenomeni considerati accettata fino a quel momento.
Prendiamo il caso di Galileo, la cui “opera di costruzione e difesa della nuova scienza” è giustamente presentata come la “proposta di alcuni principi metodologici … che sono diventati costitutivi dell’immagine moderna della scienza”. Ma forse non basta il riferimento a quei principi metodologici – come quello del rapporto fra “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni”, o l’idea che il libro dell’Universo “è scritto in lingua matematica” – a spiegare la drammaticità del conflitto che oppone Galileo ai suoi oppositori aristotelici e il carattere epocale della svolta che ne è seguita.
Occorre forse riconoscere che alla base di quelle differenze c’era uno scontro su questioni filosofiche fondamentali. È infatti su questo terreno che Galileo conduce la sua battaglia, come dimostrano con evidenza i suoi dialoghi. Se si fa questo, fra l’altro, si evita di assolutizzare il famoso metodo attribuendogli quel carattere di ricetta universale ed eterna per raggiungere la verità che gli viene attribuito nei libri di scuola; una ricetta che oggi, come discuteremo fra poco, si applica male alle scienze della vita e della mente.
Il contrasto dunque non era – o non era soltanto – sul metodo, ma tra due concezioni del mondo antitetiche. Per Aristotele c’era una dicotomia netta fra il mondo sublunare, caratterizzato dall’irreversibilità, la caducità e la mutevolezza di una materia corruttibile e quello delle sfere celesti, dove regnano l’armonia, la regolarità, la perfezione del moto circolare, tutte manifestazioni di una sostanza eterna ed eterea. Per Galileo, al contrario, non c’è barriera fra cielo e terra. La sostanza dei corpi celesti è la stessa di quelli terrestri. E poiché i primi rivelano che l’unico mutamento reale è il movimento, anche sulla Terra deve essere possibile ricondurre ogni mutamento, per quanto sostanziale e irreversibile possa apparire, al moto delle sue infime parti. Al disotto delle apparenze, dunque, il mondo dei fenomeni terrestri è semplice, regolare, ripetibile, così come si mostra in cielo.
Ed è perciò intelligibile – ecco la conseguenza – a patto di imparare a “intender la lingua e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto”, che è, appunto la “lingua matematica” . Non è dunque il metodo che gli permette di scoprire come è fatto ilmondo. È la sua convinzione che il mondo è fatto in un certo modo che gli suggerisce il modo migliore per costringere la natura a dargli ragione, anche a costo di tralasciare altre evidenze empiriche contrarie (per esempio sulla questione della natura delle comete Galileo aveva torto e padre Grassi ragione). Insomma, se si ignorano le ragioni (serie, dopotutto, visto che Aristotele aveva retto per più di duemila anni) di entrambi i contendenti, la filosofia non ha più nulla da dire, perché scompare la materia del contendere. Si rischia così di precipitare dalla sfera dei più elevati dibattiti della storia del pensiero filosofico allivello di una banale lezione di fisica di liceo.
Un discorso analogo si potrebbe fare per le due figure di Cartesio e di Newton, ma ci porterebbe via troppo spazio. Mi limito a segnalare che anche qui ci sarebbe un dibattito filosofico da portare alla luce. Sarebbe interessante infatti ricordare come le differenti posizioni filosofiche di questi due grandi personaggi, esplicitate nella polemica fra Newton e i cartesiani, fossero indissolubilmente legate alle rispettive differenti concezioni del concetto di forza (per contatto o a distanza) che a loro volta sono all’origine di due diverse formulazioni, a livello tecnico, della meccanica (leggi di conservazione vs. leggi della dinamica), formulazioni che ancora oggi hanno un significato epistemologico profondamente differente (le leggi di conservazione, che per la loro generalità valgono anche nella meccanica quantistica, sono vincoli da rispettare, mentre quelle della dinamica newtoniana sono prescrizioni da eseguire).
Se dunque è vera la mia tesi, cioè che la riflessione filosofica può avere un ruolo importante nella scienza dove e quando c’è un dibattito fra scienziati portatori di varianti alternative del linguaggio disciplinare basate su presupposti meta teorici differenti, si capisce anche perché oggi questo ruolo non possa più essere esercitato all’interno della fisica. L’ultimo conflitto all’interno di questa disciplina basato su concezioni alternative del mondo, e dunque tale da investire la cultura in generale (gettando un ponte fra le due culture”) è stato quello tra Einstein e Bohr attorno alla domanda se Dio giocasse o meno ai dadi. (La questione del “realismo” è strettamente connessa a questa, ma sul loro nesso non posso dilungarmi). Risolta la questione negli ultimi decenni del secolo con la conclusione che il Personaggio è un accanito giocatore (e in questo caso la risposta della natura è stata “cruciale”), le proprietà della materia inerte, come ho cercato di argomentare nel § 2, non hanno più nulla da dire di significativo per l’uomo, e dunque per la filosofia.
È per questo che la conclusione che Badiale trae da un colloquio immaginario tra un fisico e una generica persona colta, secondo la quale “la scienza moderna si pone ormai al di fuori della cultura umana, perché non riesce più a rendere comune al genere umano il significato del proprio operare”, mi sembra ingiustificata. In primo luogo perché il confronto fra uno scienziato e una persona colta non può mai avvenire (ed è sempre stato così anche in passato) sul terreno del linguaggio specialistico della disciplina, ma soltanto su quello del suo livello meta teorico. In secondo luogo perché la fisica non è più rappresentativa della “scienza moderna”, mentre, come adesso vedremo in maggior dettaglio, è nell’ area delle discipline della vita, dell’uomo e della mente che la mediazione fra scienza e contesto culturale è oggi necessaria e possibile.

  1. UNA EPISTEMOLOGIA DELLE SCIENZE DEL MONDO VIVENTE

Ho già sottolineato all’inizio che, quando si sale ai livelli più elevati di organizzazione della tnateria, si assiste alla moltiplicazione dei linguaggi adottati da gruppi diversi all’interno di una data comunità disciplinare, fondati su differenti modellizzazioni del dominio di fenomeni considerato e su differenti punti di vista (culturali, epistemologici, tecnologici) adottati per esplorarlo. In particolare, il passaggio dalle discipline che studiano la materia inerte a quelle che si pongono come obiettivo l’investigazione del mondo della vita e di quello della mente, deve tener conto della natura della barriera che separa la materia inerte dalla materia vivente. Sorvolo per ora su quella etica, perché ci torneremo alla fine del nostro discorso. Ma mi soffermo brevemente sui suoi aspetti epistemologici ed ontologici. La logica che sta dietro alla interpretazione delle proprietà della materia inerte è riduttiva: dalla conoscenza dei componenti elementari e delle loro interazioni si risale alle proprietà del sistema. Quella che occorre adottare per spiegare le proprietà della materia vivente è una logica evolutiva: essa si basa sul riconoscimento dei due momenti indipendenti e complementari che ne sono all’origine: quello della generazione aleatoria della diversità a livello genotipico e quello della selezione da parte dei vincoli (esterni ed interni al sistema) a livello fenotipico. Questo implica che l’adozione di un criterio riduzionista (per esempio la credenza ancora diffusissima nella validità della formula “un gene=un carattere”) per la progettazione del vivente può condurre a errori macroscopici e gravissimi.
Dal punto di vista ontologico poi, la barriera stabilisce una differenza fondamentale tra i due mondi: l’assenza o la presenza di autonomia. Una volta fabbricati gli artefatti biologici sono autonomi: prevederne il futuro diventa problematico e riacchiapparli una volta che se ne sono andati in giro per il mondo addirittura impossibile.
Due libri recentissimi, uno di un biologo, Marcello Buiatti, intitolato Lo stato vivente della materia, l’altro di una epistemologa, Elena Gagliasso, intitolato Verso un’epistemologia del mondo vivente, sembrano scritti apposta per dimostrare che in queste discipline la mediazione fra scienza e contesto culturale può avere per protagonisti – come dicevo poc’anzi – sia gli scienziati più creativi e consapevoli del valore culturale, esterno alla comunità, delle scelte possibili, sia i filosofi capaci di cogliere, al disotto dei dettagli tecnici delle diverse alternative, i loro diversi aspetti epistemologici e metodologici.
Il libro di Buiatti ci insegna infatti a guardare il mondo della vita da un punto di vista che riesce ad essere tanto più originale sul piano dello schema interpretativo generale quanto più risulta solidamente ancorato alle più recenti acquisizioni fattuali della ricerca biologica. Esso dimostra che, quando uno scienziato alza gli occhi dai suoi strumenti e dai suoi calcoli, e riflette sul senso e sulle ragioni delle domande che egli stesso e i suoi colleghi pongono alla natura, le sue riflessioni non solo sono perfettamente accessibili alle “persone colte” ma introducono anche all’interno della comunità gli stimoli per un dibattito fecondo di nuove domande. In concreto il punto di vista adottato in questo libro fa cadere molte delle barriere tradizionali che separavano approcci concettuali nettamente contrapposti – per esempio fra i sostenitori della localizzazione di proprietà specifiche in strutture determinate e i sostenitori dell’esistenza di proprietà diffuse all’interno di una rete di componenti diverse – e sgretola molte separazioni rigide fra modellizzazioni differenti dei fenomeni vitali. Le conseguenze culturali di questo approccio sono profonde.
Per quanto riguarda il genoma, ad esempio, il libro dimostra, dati alla mano, l’insensatezza della pretesa corrispondenza biunivoca tra geni e caratteri: da quelli somatici a quelli caratteriali fino a quelli comportamentali (addirittura, sfiorando il ridicolo, come il “gene” dell’adulterio o dell’omosessualità). È una tesi, non solo presente ancora negli ambienti scientifici ma soprattutto prevalente nella cultura diffusa dai mezzi di comunicazione di massa, che ha basi eminentemente ideologiche e permette di giustificare le peggiori discriminazioni ed emarginazioni. La conclusione del nostro autore è categorica: “affidare a uno o pochissimi geni comportamenti sociali (non biologici) complessi [è] del tutto erroneo dal punto di vista scientifico”.
Utilissimo è dunque il contributo “filosofico” che questo libro può dare per contrastare la concezione pesantemente deterministica della vita prevalente nell’immaginario diffuso, che la considera assolutamente prevedibile una volta conosciuto il contenuto del patrimonio genetico. “Secondo questa visione – scrive Buiatti nell’ultimo capitolo – l’uso di nuove tecnologie biologiche permetterebbe di liberare noi e gli altri esseri viventi da tutti i pericoli di eccessivo disordine derivante dal rumore indotto dall’ambiente, di guasti interni, dalla stessa variabilità genetica il cui valore biologico essenziale viene accuratamente dimenticato (rimosso). Di qui l’implicita sgradevole utopia positivistica della possibilità di modificare a volontà gli esseri viventi secondo progetti reificati nella materia vivente, paralleli a quelli costruiti per l’adattamento ai nostri bisogni veri o presunti, di quella non vivente”.
Dal canto suo, sul versante della filosofia, Elena Gagliasso così ci spiega il compito che la sua ricerca si prefigge. “Il libro – leggiamo nell’introduzione – si muove costantemente tra due piani, pur scegliendo di esaminarli insieme nelle diverse sezioni. Esiste infatti una sorta di crocevia che permette, a seconda dell’utilità, di intrecciare o di distinguere due livelli di discorso mutuamente vincolati, se si vuole oggi trattare un’epistemologia specifica delle scienze del mondo vivente”. Da un lato si tratta di una epistemologia che “si è aperta a riflettere anche su ciò che investe il pensiero scientifico prima del metodo o in modo circostante ad esso: una epistemologia dunque sensibile a inseguire le varie e controverse storie plurali della ricerca, i processi del farsi concreto delle teorie e degli stili di pensiero, più che a modellizzare la storia scientifica in modo normativo”. Dall’altro abbiamo una attenzione specifica “all’arcipelago di competenze e di ‘ritagli’ sulla molteplicità di piani che mostra la natura vivente”. L’intenzione è dunque di “fornire chiavi interpretative per mettere a fuoco i mutamenti epistemologici tra filosofia della scienza in generale e filosofia delle scienze del mondo vivente.” È proprio dunque il contrario di ciò che teme Badiale quando vede una tendenza della filosofia della scienza a dividersi essa stessa in sottodiscipline mimando il movimento di specializzazione parcellizzante della scienza stessa.”
Può essere esemplare, a questo punto, per mostrare meglio in concreto in che modo oggi la riflessione filosofica possa diventare una componente essenziale del processo di crescita della conoscenza scientifica, riferirsi al dibattito in corso sul tema dell’evoluzione biologica. La figura di Stephen J. Gould ha in esso un ruolo centrale.
Egli infatti si presenta come un darwiniano che intende valorizzare l’opera di Darwin polemizzando al tempo stesso anche con gli eredi più “ortodossi”.La sua polemica nei loro confronti riguarda tre punti essenziali. Il primo riguarda la natura dei soggetti dell’evoluzione. “Secondo me – scrive in polemica con Richard Dawkins – Richard è un iperdarwinista. Per Darwin la spiegazione viene abbassata [da un Dio provvidenziale] al livello degli organismi, che perfezionano le loro caratteristiche attraverso la lotta per la riproduzione, ossia per il loro vantaggio personale. [ … ] Richard ha voluto spostare il livello di spiegazione al gradino più basso: non sono gli organismi, ma i geni che lottano per riprodursi. Gli organismi sono solo i veicoli dei geni. Ma Richard ha torto. In natura sono gli organismi che lottano fra loro. Se essi potessero essere definiti come un’addizione cumulativa di quello che fanno i geni, allora si potrebbero ricondurli ad essi. Ma non è così, perché gli organismi hanno miriadi di caratteristiche emergenti. In altre parole [e qui ritroviamo ciò che dice Buiatti; M. C.)] i geni interagiscono in modo non lineare; questa interazione definisce l’organismo, il quale non può essere ridotto a una mera sommatoria dell’azione di un gene o di quell’ altro”.
Il secondo punto riguarda il gradualismo dell’evoluzione biologica. Esso è il più noto, e ad esso si riferisce la teoria degli equilibri punteggiati formulata da Gould con Niles Eldredge negli anni ’70. A questo proposito egli commenta: “Il concetto di tempo geologico è considerato indispensabile dai darwinisti ortodossi per applicare la cosiddetta estrapolazione biouniformista: essa consiste nell’osservare i piccoli cambiamenti che si verificano nella storia delle popolazioni locali per poi estrapolarli nella scala dei tempi geologici. Ma se sul piano delle ere geologiche entrano in gioco nuove cause che non possono essere comprese nel tempo breve, allora la strategia darwinista non funziona più. Ecco perché lo stesso Darwin faceva finta di ignorare le estinzioni di massa: la geologia mette in crisi l’aspetto uniformista o estrapolazionista, del pensiero darwiniano”.
Il terzo infine riguarda l’adattazionismo. “Nel lungo periodo – egli osserva – si scopre che la storia della vita sfugge al controllo adattativo. Entrano in gioco infatti nuovi fattori contingenti, come le estinzioni in massa e l’emergere di nuove specie per via dell’equilibrio punteggiato. Il successo a lungo termine nei vari gruppi di organismi dipende più dal tasso di specializzazione che dalle morfologie costruite dalla selezione naturale”.
“È chiaro – Gould aggiunge – che in natura l’adattamento gioca un ruolo importante. La mano e il piede, per esempio, sono strutture così ben funzionanti solo in virtù della selezione naturale. “Tuttavia, egli prosegue, “alcune strutture possono emergere come semplici effetti secondari di altre che hanno scopo adattativo. Prendiamo il cervello umano: pur assolvendo a funzioni ben determinate, esso è anche un computer straordinariamente complesso che non è necessariamente il frutto della selezione naturale. Di sicuro la selezione non gli ha insegnato a leggere e scrivere, perché queste funzioni sono state acquisite molto recentemente”. Infine Gould sostiene una tesi radicale sul ruolo del caso nell’evoluzione della vita sulla Terra. Cosa succederebbe, si domanda, se il nastro della vita fosse fatto girare un’altra volta? Egli risponde che l’evoluzione è fondamentalmente il risultato della contingenza, e pertanto che il suo esito sarebbe completamente diverso se essa ricominciasse da capo. “Se ci poniamo la domanda fondamentale di tutte le epoche – perché esistono gli esseri umani? – una parte essenziale della risposta … deve essere: perché Pikaia [il nome dato a un esemplare insignificante, che mostra una traccia di rudimentale corda spinale, trovato nel giacimento fossile della Burgess shale formatasi 570 milioni di anni fa] sopravvisse alla [successiva] grande decimazione della popolazione di Burgess. Questa risposta non cita alcuna legge della natura, non contiene alcuna affermazione sui cammini evolutivi prevedibili, né alcun calcolo di probabilità basato su regole generali dell’anatomia o dell’ecologia. La sopravvivenza di Pikaia è stato soltanto un evento contingente della storia”.
Negli ultimi anni sta tuttavia affermandosi una scuola di pensiero formata da coloro che, pur ammettendo che il caso possa giocare un ruolo importante nel processo evolutivo, ritengono ragionevole affermare che alcune caratteristiche della vita si ripresenterebbero comunque invariate, in quanto risultato di regolarità emergenti dalle proprietà di autorganizzazione dei sistemi formati da un gran numero di semplici elementi reciprocamente interagenti. Questa linea di ricerca si riallaccia dunque alla tradizione della scienza “newtoniana”, tornando a rivendicare anche per la biologia il ruolo, già svolto in passato dalla fisica, di scienza nomomologica, che aspira a fornire spiegazioni universali e astoriche dei fenomeni biologici fondate su leggi matematiche strutturali o morfogenetiche (sulla scìa della tradizione della biologia della forma e della struttura che ha avuto nel ‘900 esponenti come Ludwig von Bertalanffy, D’Arcy Thompson e Conrad Waddington e i contemporanei René Thom e Brian Goodwin). Per questa scuola di pensiero, che ha come esponente di spicco Stuart Kaufmann e come centro di riferimento il Santa Fé Institute in California, l’unico modo per tentare di rispondere a questa domanda, visto che non è possibile ricominciare da capo l’evoluzione della vita sulla terra, è costruire un modello di universo “ragionevole” da sottoporre a una molteplicità di processi evolutivi in condizioni differenti, in modo da identificare quali siano le caratteristiche che compaiono comunque indipendentemente dai fattori contingenti operanti in ognuno di questi processi.
Per mezzo di questa procedura Kaufman arriva a concludere che “gran parte dell’ordine negli organismi non sia il risultato della selezione, ma della capacità di ordine dei sistemi autoorganizzati. L’ordine degli organismi è naturale, non è il trionfo inaspettato della selezione naturale contro la marea entropica montante.”
In sostanza, mentre per Gould nell’evoluzione prevale la contingenza, e dunque le forme della vita sarebbero completamente diverse se ricominciasse tutto da capo, per Kaufmann prevale l’ordine, e tutto si ripeterebbe all’incirca nello stesso modo.

  1. IL PROBLEMA CORPO/MENTE

Il tema senza dubbio più attuale e controverso, dove maggiormente i presupposti metateorici si intrecciano con il linguaggio formale adottato dando origine a una grande varietà di teorie in competizione è quello del rapporto corpo/mente, e della natura della coscienza. È interessante a questo proposito il tentativo di esplorare questo terreno esposto in un libro recente (La nature et les règles, Odile Jacob, Parigi, 1998), nel quale il neurobiologo Jean Pierre Changeux e il filosofo Paul Ricoeur affrontano il discorso alla luce rispettivamente dei risultati più recenti delle neuroscienze e delle posizioni filosofiche della fenomenologia di derivazione husserliana. È un tentativo di costruire un “terzo discorso” che rispetti al tempo stesso i vincoli imposti alla vita dell’uomo dalla materialità della sua natura e i suoi bisogni di dare un significato al suo vissuto individuale. Non è possibile, ovviamente, ripercorrere le vie che ognuno dei due ha seguito per cercare di incontrarsi. Qui mi limito a riassumere brevemente le premesse di questo dibattito.
“In che misura – si chiede all’inizio il neurobiologo – il progresso spettacolare delle conoscenze sul cervello e la sua evoluzione, l’emergere di un dominio completamente nuovo, quello delle scienze cognitive – fisiologia, biologia molecolare, psicologia e scienze umane – ci portano a riesaminare la vecchia questione” del rapporto corpo-mente, cervello-pensiero? È possibile accedere oggi a una visione più unitaria, più sintetica tra dominio riservato alla filosofia e quello delle conoscenze sul cervello e delle sue funzioni? Può un neurobiologo legittimamente interessarsi ai fondamenti della morale, e reciprocamente può un filosofo trovare materia di riflessione e di arricchimento nel campo delle neuroscienze contemporanee? Ci si può interrogare sulla relazione tra la natura e la regola?”.
Il filosofo gli risponde: “Prima ancora di affrontare queste domande, occorre sgombrare il campo dal problema tradizionale dell’ontologia fondamentale, del problema cioè se l’uomo sia fatto di una o due sostanze. La mia tesi iniziale è che i due discorsi tenuti da una parte sul corpo e sul cervello e dall’altra su quello che chiamerò il mentale, della conoscenza, dell’azione e dei sentimenti, si riferiscono a due prospettive eterogenee, cioè irriducibili l’una all’altra, cioè non derivabili l’una dall’altra. Si tratta però di un dualismo semantico, di un dualismo di prospettive. Bisogna evitare di scivolare da un dualismo di discorso a un dualismo di sostanze. L’interdizione di questa estrapolazione dal semantico all’ ontologico implica che il termine mentale che io impiego non è uguale a non-materiale, non-corporeo. Il mentale vissuto implica il corporeo, ma in un senso irriducibile al corpo oggettivo conosciuto dalle scienze della natura. Al corpo-oggetto oppongo il corpo-vissuto. Il corpo come parte del mondo, e il corpo da dove apprendo il mondo per orientarmici e viverci”.
Le posizioni di partenza sono dunque chiare. Il neurobiologo è un riduzionista che identifica l’esperienza soggettiva dei pensieri e delle emozioni con le loro tracce nelle strutture cerebrali e il filosofo è invece convinto dell’irriducibilità delle categorie del corpo-vissuto alle categorie del corpo-oggetto. Non è questa la sede per illustrare le molte questioni trattate nel corso del dibattito. Mi limito a segnalare che, pur concordando sull’obiettivo, che è quello di cercare le origini delle condotte morali nel processo di evoluzione delle specie, le reciproche posizioni restano alla fine, ancora abbastanza lontane. A mio giudizio la responsabilità maggiore ricade principalmente sul neurobiologo, che crede ancora alla unicità della rappresentazione scientifica della realtà e dunque, in ultima analisi, alla sua oggettività assoluta. Al filosofo tuttavia, che pure insiste giustamente sulla relativa autonomia dei linguaggi delle diverse discipline e sulla necessità di riconoscere l’esistenza di una sfera dell’indicibile nella psiche umana (anche se in questo dialogo stranamente non si parla mai dell’inconscio), manca la capacità di chiarire il carattere di meta linguaggio del linguaggio filosofico rispetto ai linguaggi delle discipline scientifiche. Solo a questa condizione, infatti, si apre la possibilità di andare oltre il “dialogo fra sordi” rappresentato dal confronto sterile fra le proposizioni fattuali e relazionali della scienza e i concetti che la filosofia utilizza per descrivere la soggettività della mente umana.
Conviene a questo punto passare in rapidissima rassegna le tesi di alcune delle teorie che si confrontano. Francisco Varela, un notissimo neurofisiologo recentemente scomparso che ha dedicato a questo problema gli ultimi anni della sua vita riassume il nodo della questione dicendo che “ogni scienza della cognizione e della mente deve, prima o poi, fare i conti con la condizione ineludibile secondo la quale non abbiamo alcuna idea di come potrebbe essere il mentale o il cognitivo al di fuori della stessa esperienza che ne abbiamo”. Egli presenta in uno schema grafico quattro gruppi di posizioni diverse, collocando in alto quelli funzionalisti, da un lato quelli riduzionisti, in basso quelli “rassegnati al mistero” e dall’altro lato quelli (tra i quali si colloca egli stesso) che si richiamano alla fenomenologia.
L’esponente più tipico del riduzionismo fisico è il filosofo Paul Churchland (e vicino a lui troviamo lo scopritore della doppia elica Francis Crick), secondo il quale l’attività funzionale del cervello (attività cognitiva) è una attività di calcolo distribuito parallelo (CDP). Questa attività trasforma gli input sensoriali, passando attraverso una vasta rete di connessioni sinaptiche, in output di varia natura (motoria, razionale, emotiva ecc.) o in informazioni immagazzinate in memorie di vario tipo che vengono utilizzate a loro volta nell’attività di calcolo. Sulla base di questo modello Churchland affronta l’enigma della coscienza umana. Concretamente egli propone di procedere elencando alcune caratteristiche che egli considera salienti della coscienza umana, e facendo vedere che tutte queste caratteristiche sono ricostruibili in termini neurocomputazionali, con un modello di rete neurale ricorrente di calcolo distribuito parallelo. Esse sono riproducibili mediante una semplice rete specifica, formata da tre strati di neuroni con connessioni feedfonvard e retroazioni feedbackward. “In termini neurocomputazionali – conclude Churchland – riusciamo a capire come ciascuna di queste caratteristiche possa essere realizzata, ed è concepibile che esse vengano effettivamente realizzate in una struttura fisica reale, il nostro cervello”.
Un’altra forma di riduzionismo, questa volta di tipo informatico, è quello dei fautori del programma “forte” di Intelligenza Artificiale, che anch’essi assumono come modello il computer, ma, invece di concentrarsi sulle proprietà del cervello come hardware, equiparano la mente al suo software. Secondo il filosofo Daniel Dennett, per esempio, la coscienza umana nasce dall’operazione di un qualche programma informatico, da lui definito “macchina virtuale” che “gira” sul cervello. “[Se] tutti i fenomeni della coscienza umana trovano spiegazione ‘solo’ in quanto attività di una macchina virtuale realizzata nelle connessioni astronomicamente regolabili del cervello umano, allora, in teoria, un robot programmato ad hoc, il cervello di un computer a base di silicio, sarebbe conscio, avrebbe un sé”.
Agli antipodi di entrambi troviamo da un lato Varela, e dall’altro il filosofo John Searle. Per entrambi questi autori, i riduzionisti eliminano il problema negandolo, anche se le soluzioni che essi propongono sono diverse. Per il primo, infatti, il riduzionismo “cerca di risolvere il problema eliminando il polo dell’esperienza a favore di una qualche forma di spiegazione neurobiologica a cui sarà affidato il compito di generarla. Ovvero, per dirla con la tipica rudezza di Crick: ‘Non sei che un ammasso di neuroni”‘. Egli sostiene al contrario, che “l’esperienza in prima persona è un fatto fondamentale da inserire nel futuro della disciplina”, e propone un “particolare procedimento di esplorazione dell’esperienza” secondo un approccio fenomenologico nel senso di Husserl. “Non possiamo – egli argomenta – in alcun modo immaginarci la soggettività come parte della nostra visione del mondo, perché proprio la soggettività in questione è la capacità stessa di immaginare”.
Per John Searle invece non c’è una irriducibilità sostanziale tra descrizione oggettiva in terza persona ed esperienza soggettiva in prima persona: il cervello è una macchina, ma una macchina cosciente. Il “mistero” della coscienza “verrà progressivamente rimosso quando risolveremo il problema biologico della coscienza. Il mistero non costituisce un ostacolo metafisico ad una comprensione del funzionamento del cervello; il senso del mistero deriva piuttosto dal fatto che attualmente non soltanto non sappiamo come esso funziona, ma non abbiamo nemmeno un’idea chiara di come il cervello potrebbe funzionare per causare la coscienza. “L’errore dei riduzionisti è dunque quello di tentare di duplicare i “processi mentali interiori, qualitativi e soggettivi [ … ] duplicando gli effetti osservabili del comportamento esteriore di questi processi. Sarebbe come tentare di duplicare i meccanismi interni del vostro orologio costruendo una clessidra”.
In mezzo ai due estremi troviamo due fra i maggiori protagonisti di questo dibattito, Antonio Damasio e Gerald Edelman, entrambi scienziati all’avanguardia nella ricerca di punta. Per entrambi l’idea che la ricchezza dell’esperienza umana sia indipendente dal substrato biologico è una sciocchezza. Secondo Gerald Edelman la ricchezza dell’esperienza umana del ricordo “non può essere adeguatamente rappresentata dal linguaggio impoverito della scienza informatica: ‘memorizzazione, recupero, input, output”‘.
Questo, tuttavia, non significa che ci sia qualcosa di misterioso. Al termine del libro scritto in collaborazione con Giulio Tononi, Come la materia diventa coscienza, leggiamo: “Il pensiero cosciente è un insieme di relazioni dotate di senso che vanno oltre l’energia e la materia (anche se le implicano). Che cos’è allora la mente nella quale questo pensiero nasce? La risposta è che essa è al tempo stesso materiale e dotata di senso. [ … ] Sono le strutture materiali straordinariamente complesse del sistema nervoso e del corpo che danno origine ai processi dinamici mentali e alla produzione di senso. Non è necessario postulare niente altro – né altri mondi, né altre menti o forze ancora inimmaginabili come la gravità quantistica”. Le conclusioni di Damasio (che fra l’altro ha scritto un fortunato libro intitolato L’errore di Cartesio, esempio quanto mai pertinente di intervento della filosofia in una controversia scientifica) sono simili. Per questo autore “il potere della coscienza deriva dalla connessione efficace che stabilisce fra il meccanismo biologico di regolazione della vita individuale e il meccanismo biologico del pensiero. Questa connessione è la base per la creazione di un impegno individuale che permea tutti gli aspetti dei processi di pensiero, focalizza tutte le attività di problem solving, e ispira le conseguenti soluzioni.”
È tuttavia interessante che egli sottolinei, avvicinandosi in questo a Varela, come “non sia verosimile pensare che nuove conoscenze sulla biologia che sta dietro alle immagini mentali possano produrre, nella mente di chi possiede queste conoscenze, l’equivalente dell’ esperienza di una immagine mentale nella mente dell’organismo che la crea”. In altri termini: “Quando tu guardi l’attività del mio cervello, tu non vedi quello che io vedo. Tu vedi una parte dell’attività del mio cervello mentre io vedo quello che vedo”. Questo non vuol dire, però, che la conoscenza neurofisiologica non è in grado di spiegare l’esperienza mentale. Vuol dire semplicemente che spiegare in termini scientifici come fare qualcosa di mentale è cosa completamente diversa dal fare direttamente quel qualcosa di mentale.

  1. SCIENZA E VALORI

Il ruolo del discorso filosofico nel dibattito fra proposte alternative di rappresentazione della realtà non si limita al piano epistemologico, ma assume una nuova dimensione quando si passa dalle discipline della materia inerte a quelle della materia vivente e pensante. È la dimensione dell’etica. La tradizionale separazione fra il compito di una scienza che persegue in completa autonomia l’obiettivo di acquisire conoscenza oggettiva e disinteressata, basata su “fatti” certi, e quello di utilizzarne i risultati per soddisfare i bisogni dei membri di una comunità in base a priorità e vincoli economici, sociali e morali in accordo con le norme che ne regolano la convivenza, non regge più. Il dogma della avalutatività delle affermazioni della scienza è crollato. L’ideale della “conoscenza fine a sé stessa” si rovescia nella pratica della “ragione strumentale”. Il motivo è semplice: i “fatti” non sono neutri, perché, per definizione, i “fatti” che condizionano nel bene e nel male la vita delle persone – e sono sempre di più i “fatti” di questa natura che la scienza produce direttamente – diventano carichi di “valori”. E lo diventano ancor di più quando condizionano in modo diverso la vita di persone diverse. Questo implica che, alle scelte dei problemi da affrontare, delle nuove direzioni da esplorare e soprattutto delle azioni da intraprendere, dovrebbero concorrere in modo esplicito e trasparente oltre agli scienziati con i loro dati, ai politici con le loro ideologie, alle imprese con i loro interessi, anche i soggetti sociali che di queste scelte dovranno subire le conseguenze, con la loro concretezza materiale, che esprime bisogni, condizioni di vita e aspettative per il futuro.
Dice il filosofo Hans Jonas nel suo libro dedicato al tema Tecnica, medicina ed etica: “Con quello che facciamo qui, ora, e per lo più con lo sguardo rivolto a noi stessi, influenziamo in modo massiccio la vita di milioni di uomini di altri luoghi e ancora a venire, che nella questione non hanno avuto alcuna voce in capitolo […]. Il punto saliente è costituito dal fatto che l’irrompere di dimensioni lontane, future, globali nelle nostre decisioni quotidiane, pratico-terrene, costituisce un novum etico, di cui la tecnica ci ha fatto carico; e la categoria etica che viene chiamata principalmente in causa da questo nuovo dato di fatto si chiama: responsabilità”. E ancora: “Una volta era facile distinguere fra tecnica benefica e tecnica dannosa, considerando semplicemente l’impiego dei suoi strumenti. I vomeri, si diceva, sono buoni, le spade, cattive. Ma qui salta all’occhio il tormentoso dilemma della tecnica moderna: a lungo termine i suoi ‘vomeri’ possono essere dannosi quanto le sue ‘spade”‘. E prosegue: “In questo caso sono loro, i benefici ‘vomeri’ e i loro simili, il vero problema”. È un problema che diventa ogni giorno più urgente affrontare. Già più vent’anni fa Jeremy Rifkin – un autore molto noto e molto discusso per le sue previsioni sui rischi e sulle promesse delle nuove tecnologie, considerate per lo più come profezie allarmistiche dagli esperti, dai leaders politici e dai mass media in genere, ma che a me, al contrario, sembrarono all’epoca molto realistiche – prospettava in un libro, intitolato Who should Play God? la possibilità di realizzare, entro la fine del secolo, specie transgeniche, chimere animali, cloni, bambini in provetta, e di avviare la fabbricazione di organi umani e la chirurgia genetica. Nel libro, inoltre si affermava che lo screening per le malattie genetiche sarebbe diventato una pratica diffusa, sollevando problemi molto seri di discriminazione genetica da parte di datori di lavoro, compagnie di assicurazione e scuole. Si esprimevano inoltre preoccupazioni per la crescente commercializzazione del pool genetico della Terra da parte delle aziende farmaceutiche, chimiche e biotecnologiche, e si sollevavano domande inquietanti sull’impatto potenzialmente devastante e a lungo termine che il rilascio nell’ambiente di organismi geneticamente modificati avrebbe potuto avere.
Dopo vent’anni le previsioni di Rifkin si sono avverate tutte e le sue preoccupazioni sono sempre più largamente condivise. Anzi, nuove tecnologie sempre più potenti sono state realizzate. La letteratura in proposito è ormai sterminata. Cito soltanto un documento, scritto recentemente da Bill Joy, un informatico assai noto, autore del software Java, intitolato Il futuro non ha necessariamente bisogno di noi che ha per sottotitolo Le nostre più potenti tecnologie del 21° secolo – la robotica, l’ingegneria genetica e la nanotecnologia stanno minacciando di fare degli umani una specie a rischio.
Il punto essenziale è che queste tecnologie rappresentano una minaccia diversa da quella insita nelle tecnologie precedenti: esse infatti hanno in comune un fattore di amplificazione finora sconosciuto, perché possono autoreplicarsi. Una bomba scoppia una sola volta, ma un organismo artificiale può generarne molti, e rapidamente sfuggire a ogni controllo. Non è fantascienza. È di questi giorni la notizia che una supererba infestante, nata dall’incrocio tra un’erbaccia comune e sementi di colza geneticamente modificata per resistere a tutti gli erbicidi noti, seminata all’aperto per errore, sta diffondendosi in Inghilterra producendo miliardi di danni.
La conclusione delle riflessioni di Joy è drastica: “Stiamo proiettandoci nel nuovo secolo senza un piano, né un controllo né freni. Siamo già andati troppo avanti, giù per la china per poter fermare la corsa? Forse no, ma non ci stiamo nemmeno provando, e l’ultima occasione per istituire un controllo – il punto di non ritorno – sta avvicinandosi rapidamente”.
Non nascondiamoci l’enorme difficoltà del compito che ci sta di fronte. Se già è difficile il confronto fra epistemologie diverse, il contrasto tra etiche basate su valori differenti rischia di diventare un conflitto devastante. Detto per inciso, che altro è, se non questo, lo scenario sconvolgente che si apre dopo l’11 Settembre? Ma non è questa la sede per affrontare questo discorso. Mi limito ad accennare al tenue spiraglio di luce che il dialogo, già citato, fra Changeux e Ricoeur getta su questo buio pauroso. Nella fase finale del dibattito essi affrontano infatti la questione se esistano fondamenti naturali dell’etica. Per Ricoeur il termine fondamenti naturali è ambiguo: da un lato ha il significato di elemento di base, di preliminare, e dall’altro quello di legittimazione, di giustificazione. La storia culturale dell’umanità ha portato alla coesistenza di molti sistemi di legittimazione. Il problema è di accedere allo stadio in cui più tradizioni si riconoscano come cofondatrici al fine della sopravvivenza comune. Per Changeux il termine giustificazione è pericoloso perché implica un giudizio di “giustizia” assoluta che può aprire le porte ai fondamentalismi e impedire il dialogo. Egli insiste sul fatto che epigenesi e apprendimento contribuiscono entrambi tanto alla diversità individuale che all’unità di ogni persona umana. Il termine “fondamento naturale” fa riferimento semplicemente alla sua natura materiale, a una “realtà unica e sufficiente”. Per questo un processo di intercomprensione benevolente e illuminata, in cui tutte le opinioni si esprimono, ma restano libere di evolversi è l’obiettivo al quale occorre mirare.
I temi sui quali questa fase finale si articola sono molti: ne accenno brevemente. Sul rapporto fra religione e violenza entrambi i dialoganti sono d’accordo che le religioni quasi sempre generano violenza. Tuttavia, la differenza fondamentale che li separa riemerge ancora una volta. Per Changeux solo il linguaggio scientifico può eliminare la violenza, mentre per Ricoeur la critica al settarismo delle religioni può soltanto farsi facendo ricorso alla sfera del “fondamentale religioso” dell’esperienza umana alla quale solo attraverso il linguaggio del “religioso” si può accedere. Di qui deriva anche una diversa concezione del cammino verso la tolleranza. Per lo scienziato, a partire dalla constatazione dei conflitti generati dalle differenze cuI tura li, è necessario sforzarsi di riflettere sui fondamenti di un etica universale e di trovare dove si situa concretamente quello che il filosofo designa come “fondamentale”. Per quest’ultimo invece, non può essere la scienza che detiene da sola la chiave del problema della violenza tra gli uomini. La tolleranza non consiste solo nel sopportare ciò che non si può impedire. “È dall’interno della mia relazione con il fondamentale che posso comprendere che ci sono altre convinzioni oltre alla mia”.
Infine, il problema dello scandalo del male. Qui, nonostante la diversità dei punti di vista l’obiettivo è, nella sostanza, comune. Per lo scienziato la ricerca della conoscenza oggettiva e il dibattito argomentato e critico che l’accompagna possono farci meglio comprendere la violenza e le sue origini, e arbitrare più efficacemente i conflitti in vista di una pacificazione. L’obbiettivo è la formazione di una etica laica, che non faccia intervenire alcuna metafisica superiore, ma, partendo da fatti oggettivi e da ingiunzioni pratiche “civilizzatrici”, valutabili in termini delle loro conseguenze, faccia appello all’immaginario mobilitando la sfera del simbolico per mettere in sinergia il desiderio, e magari anche il piacere con il normativo.
Il filosofo è d’accordo, a patto di considerare, alla base di questa etica universale laica, tre correttivi: il primo è il riconoscimento che c’è del religioso anche al di fuori della mia religione. Il secondo è che non c’è solo il religioso delle altre religioni, ma anche il non religioso dei miei contemporanei; il terzo è il pensare la politica come regola procedurale per vivere insieme in una società dove ci sono religiosi e non religiosi. Termina così questo dialogo serrato e non inutile.

  1. CONCLUSIONI

Cerchiamo di trarre le fila. Che non basti la scienza per capire il mondo, ma ci sia anche bisogno della filosofia, mi sembra dunque ovvio. Direi di più. Non basta nemmeno la filosofia. Direbbe Bateson che ci vogliono anche, per esempio, l’arte, la bellezza, il gioco, l’umorismo e persino il sacro. Ma il vero drammatico problema è che nella società contemporanea tutto è ormai ridotto a merce, e dunque che non si può capire il mondo senza andare al supermercato.
Nel XX secolo il meccanismo di accumulazione del capitale si è fondato sulla formazione del profitto nel processo di produzione delle merci materiali (molecole) e sull’espansione del loro consumo da parte dei lavoratori stessi (fordismo). Di qui ha avuto origine il conflitto drammatico tra capitale e lavoro che ha segnato il secolo “breve”. Nel XXI secolo il meccanismo di accumulazione del capitale sempre più si fonderà sulla formazione del profitto nella produzione di merci immateriali (bit) (“informazione”, “conoscenza” o, semplicemente “comunicazione”). Più propriamente la formazione del profitto si sgancia dal “tempo di lavoro”, perché le merci immateriali possono essere moltiplicate all’infinito senza costo, e dunque il profitto, una volta fatto il prototipo, può crescere illimitatamente al crescere del consumo.
La necessità da parte del capitale di invocare una continuità tra la new economy e la old economy deriva dal tentativo di mantenere il vecchio meccanismo di accumulazione (valido per la produzione di merci materiali), che sta entrando in crisi per limiti fisici (saturazione di mercati, disastri ecologici, ecc.), anche per un processo produttivo di beni che per natura potrebbero essere fruiti da tutti i membri della società. Per sopravvivere ed espandersi il capitale ha bisogno di rendere artificiosamente scarsi i beni che potrebbero essere liberamente fruiti da tutti.
La proprietà fondamentale dei beni immateriali è infatti che, a differenza di quelli materiali, la fruizione da parte di un “consumatore” non ne impedisce la fruizione da parte di altri. Le merci immateriali, in realtà non si “consumano”. In un disco non è la plastica che conta, è la canzone che c’è incisa. Ma la canzone non si consuma se io l’ascolto: la possono ascoltare altre milioni di persone. Il trucco del capitale sta nel far credere che la merce venduta è indissociabile dal suo supporto materiale, e giustifica in tal modo le leggi che vietano la riproduzione libera del contenuto. Ma se anche il supporto diventa immateriale, il trucco si scopre (mi dicono che è facile scaricare canzoni da Internet senza pagare una lira, anche se le case discografiche fanno il diavolo a quattro per impedirlo).
C’è di più. Anche le relazioni fra persone diventano merce. Nessuno può più comunicare con gli altri se non paga un pedaggio al capitale che ha ridotto a merce tutti i mezzi indispensabili per mettere in relazione reciproca i membri della società. Senza queste merci l’individuo non può sopravvivere come individuo sociale. Diventa rifiuto, spazzatura, scompare.
In questo quadro che si può fare? Mi limito a poche osservazioni su alcune questioni urgenti. La prima riguarda le incertezze. Gli “scienziati”, per definizione, si occupano solo di quei fatti dei quali possono acquisire certezza. Essi tendono dunque a selezionare i temi che possono dare risultati certi, finalizzati al raggiungimento di un obiettivo ben determinato, a breve termine. Si accontentano, per esempio, di dire: “non ci sono evidenze certe che la tal cosa sia dannosa”. Oppure cercano rimedi per disastri già avvenuti (AIDS, mucca pazza).
I “decisori” a loro volta utilizzano queste certezze come base di partenza per realizzare gli obiettivi da perseguire sulla base dei loro “valori”. Anch’essi vogliono risultati, sul terreno sociale, a breve termine. Dicono: “visto che la tal cosa non è dannosa possiamo utilizzarla per ciò che riteniamo essere un obiettivo prioritario (a seconda della situazione sviluppo economico, salute, sicurezza o quant’altro possa far vincere le elezioni)”.
Ma chi si occupa delle incertezze? Chi si occupa dei costi che forse noi stessi, ma certamente qualcun altro, già oggi o in un futuro più o meno prossimo, dovrà pagare per i benefici che le certezze delle tecnologie di punta possono riversare nell’immediato su di noi? Perché di questi costi nessuno parla? Perché nessuno si domanda, per esempio, se la creazione, la produzione di massa e il rilascio su vasta scala nell’ ambiente naturale di migliaia di forme di vita manipolate geneticamente non causeranno un danno irreversibile alla biosfera, facendo dell’inquinamento genetico una minaccia per il pianeta ancora più grave dell’inquinamento nucleare e chimico? Oppure si domanda che conseguenze potrebbe avere per l’economia globale e per la società ridurre il pool genetico del mondo allo stato di proprietà intellettuale brevettata sotto il controllo esclusivo di un ristretto numero di multinazionali? O ancora si chiede quale sarà la condizione umana in un mondo dove i bambini vengono progettati geneticamente – certo, per il loro bene – e dove le persone vengono identificate, classificate e discriminate in base alloro genotipo?
Il primo obiettivo è dunque: orientare la ricerca pubblica verso la previsione di scenari futuri e sui mezzi di prevenzione dai pericoli dei “vomeri”.
La seconda questione riguarda i conflitti di interesse. Come facciamo ad essere sicuri che le scelte del capitale siano le migliori possibili dal punto di vista dei soggetti sociali inevitabilmente e pesantemente coinvolti, che non sono una generica “umanità”, ma i popoli, le classi, le categorie economiche, le comunità culturali, gli individui, che si trovano oggi e si troveranno domani a doverne subirne le conseguenze, nel bene e nel male?
Gli interessi dei diversi soggetti sociali sono in genere diversi, ma molti sono in conflitto con gli interessi delle multinazionali. Produttori di prodotti locali messi fuori mercato dalla produzione di massa. Malati che non si possono pagare le medicine delle grandi imprese farmaceutiche (Mandela vs. Big Pharma). Masse escluse dall’istruzione. Popolazioni derubate delle ricchezze contenute nel genoma delle specie vegetali e animali che vivono nelle nicchie ecologiche dei loro paesi. Comunità cacciate dalle terre di origine dalle catastrofi “naturali” prodotte dalle modificazioni climatiche e dalle catastrofi economiche e belliche. Nuovi lavoratori atipici privi di qualunque protezione sociale. E così via.
Il secondo obiettivo è dunque: favorire la diversificazione, difendere i più deboli dall’esclusione dall’accesso ai beni resi artificiosamente scarsi dal capitale. La terza questione riguarda come affrontare il tema della libertà della ricerca. Molti scienziati temono che un controllo sociale della loro attività invocato per prevenire disastri o evitare pericoli (principio di precauzione) possa imporre loro divieti inaccettabili (“non si può mettere il lucchetto al cervello” è il loro slogan) o addirittura forzarli a seguire cammini impercorribili. Invocano il dogma tradizionale della avalutatività delle affermazioni della scienza per rifiutare ogni ingerenza esterna. Tullio Regge, per esempio, polemizzando con me sulla rivista Le Scienze, dopo aver ribadito che “il mondo scientifico deve attenersi ai fatti ed esporli, ma sono i politici a decidere”, attribuisce agli ambientalisti la pretesa di avere la “certezza assoluta” che un determinato agente non nuoccia alla salute o comunque non abbia effetti dannosi, e, argomenta che “non esiste attività umana a rischio nullo” per concludere che “il principio […] diventa così strumento per bloccare innovazioni ideologicamente sgradite”. Ma, come accade per la Libertà senza aggettivi, il limite alla libertà di ognuno è la libertà altrui. Perciò la libertà di fare ricerca nell’interesse di un soggetto particolare non può impedire la formulazione di vincoli per la prevenzione dei danni possibili e il controllo sociale a vari livelli (locale, regionale, nazionale e internazionale) sui costi e benefici dalla utilizzazione dei suoi risultati. Il terzo obiettivo deve essere dunque l’istituzione di sedi competenti (magistratura tecnoscientifica) per giudicare conflitti derivanti da uso improprio della ricerca. Strettamente connessa con la precedente è dunque la domanda: Chi paga la ricerca? La ricerca privata deve essere libera, ma deve essere pagata da chi ha un interesse diretto a farla. La ricerca pubblica deve avere due obiettivi. Il primo è quello di sviluppare ricerca senza obiettivi immediati di utilizzazione o con obiettivi di utilizzazione senza scopo di lucro. Il secondo, l’abbiamo già detto, è quello di controllare quella privata nell’interesse dei cittadini e delle generazioni future. Il quarto obiettivo deve essere dunque: rendere praticabile l’adozione del principio di precauzione. Infine una domanda di scottante attualità: Si può brevettare la vita? Poiché il brevetto è stato istituito per proteggere una invenzione e la scoperta non è per principio brevettabile, occorre concludere che gli organismi viventi, anche se artificialmente modificati non possono essere brevettati. Ogni ogm è una modifica di un organismo naturale, e la natura non si brevetta. Del resto gli elementi transuranici artificiali, in quanto ottenuti da modificazione di elementi naturali non sono stati brevettati. Tagliare il cordone ombelicale che lega la ricerca alla produzione di conoscenza in forma di merce è il solo modo per assicurare la libertà di ricerca. Le imprese potranno brevettare i procedimenti specifici per ottenere un determinato prodotto vivente, ma non il prodotto stesso. Solo in questo modo la ricerca riacquisterà un ampio ventaglio di motivazioni, giustificazioni, stimoli, al di fuori dell’unico imperativo attuale, che, come dice Giorgio Bocca si riduce alla regola: “attenersi a ciò che rende e trascurare ciò che non dà guadagni”. Il quinto obiettivo dunque è: la vita non si brevetta.

Marcello Cini

Questo saggio di Marcello Cini è già stato pubblicato su Koinè, Periodico culturale, Anno X, nn. 1-2, Gennaio-Giugno 2002,  pp. 53-76; direttore responsabile Carmine Fiorillo; il volume collettaneo reca il titolo  Scienza cultura, filosofia.

Koiné

Scienza, Cultura, Filosofia

indicepresentazioneautoresintesi

 

Problemi tra scienza e cultura
Sintetizzare e interpretare/Darsi dei limiti/Sulla diffidenza per la filosofia/Una confutazione dello scientismo/I problemi della divulgazione/Specializzazione parcellizzante/Una catastrofe culturale?/Uno sguardo sulla cultura/Linee di resistenza/E se fosse colpa del capitalismo?/Conclusioni. Una modesta utopia.

Lucio Russo
Cosa sta accadendo alla scienza?
Premessa/Cos’è la scienza? La scienza esatta/Scienza esatta e tecnologia /Scienze biologiche (e altre scienze empiriche)/Il problema della verità/Divulgazione scientifica e imposture intellettuali/La crisi attuale/Il nuovo ruolo della biologia: le biotecnologie/Complessità /Quale futuro?

Marcello Cini
C’è ancora bisogno della filosofia per capire il mondo?
Introduzione/La svolta nella scienza dal XX al XXI secolo/L’epistemologia delle scienze della materia inerte/Una epistemologia delle scienze del mondo vivente/Il problema corpo/mente/Scienza e valori/Conclusioni.

Alberto Artosi
Lettera a uno scienziato sulla ragione, la razionalità e il razionalismo
Caro Scienziato/Bisogna guardarsi da un’immagine ingenuamente razionalistica della scienza/Anche gli scienziati più aperti sono dei razionalisti (e degli elitisti) ingenui/Bisogna sottrarsi al culto delle argomentazioni “razionali” /Il caso dell’archeoastronomia/ Il razionalismo ingenuo è intollerante/Sulla “cultura di massa”/Commiato.

Massimo Bontempelli
Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea
Popper: la teoria come congettura/Hegel e la filosofia della scienza/La teoria della verità come idealità matematica/Gödel: la logica matematica non può giustificare il proprio principio di coerenza/Matematica senza fondamento/Barrow: la base teorica universale della matematica/Hegel: la quantità come “qualità tolta”/Il gran libro della Natura è scritto in caratteri matematici?/Il risultato culturale della rivoluzione scientifica/La semplificazione galileiana del mondo reale/La quantità matematizzabile come dominabilità del mondo/I limiti del meccanicismo/La fisica delle particelle come pura astrazione teorica/Le teorie del tutto/Il determinismo dell’elettrodinamica quantistica/Feynman: la Natura è assurda/La povertà conoscitiva del determinismo matematico della fisica/Il crollo del determinismo fisico di fronte alle forme biologiche/La concezione biologistica della verità/La povertà della moderna coscienza antimetafisica /Il pregiudizio antimetafisico della mentalità odierna/Realtà e verità nella filosofia ontologic/La sapienza di Platone.

Fabio Bentivoglio
Scienza, Natura e destino dell’uomo. Riflettiamo con Aristotele
Che cosa è, oggi, la sapienza?/La Natura/Le onde e la scogliera/Un’etica per la civiltà tecnologica/Dogmi di ieri e dogmi di oggi/L’elogio del senso comune.

Jean Bricmont
Contro la filosofia della meccanica quantistica
Riassunto/Introduzione/Realismo e positivismo/Il problema della meccanica quantistica/La non località/Soluzioni possibili al problema della misura/Conclusioni/Appendice I: Il problema della misura/Appendice II: Il teorema di Bell/Appendice III: La teoria di Bohm/Appendice IV: Bibliografia/Ringraziamenti/Riferimenti.

Fabio Acerbi
Concetto ed uso dei modelli nella scienza greca antica
Il concetto di modello/La controversia storiografica: strumentalismo versus realismo/Cenni al dibattito epistemologico in età ellenistica/L’approccio per modelli nella scienza antica: alcuni esempi: a. Astronomia; b. Meccanica; c. Ottica; e. Teoria musicale; f. Medicina/Conclusioni.

Jules-Henri Poincaré
La matematica e la logica

Antonio Fiocco – Emanuele Severino considera ineluttabile il trionfo della Tecnica (cioè il capitalismo): il suo ripristino dell’ontologia è apparente e fuorviante, dunque innocuo per il potere

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Oltre l’Occidente: Emanuele Severino

Non si intende entrare nel merito della visione globale della filosofia di Emanuele Severino. In questa sede ci si propone di isolare, per quanto possibile, la porzione del suo pensiero eventualmente utilizzabile come possibilità di liberazione nei confronti di un sistema sociale ritenuto iniquo. Si è peraltro consci che questo filosofo vede nella cultura di sinistra – intesa nella sua accezione storica ormai travolta dall’utilitarismo crematistico – semplicemente una delle varie forme in cui si manifesta l’evoluzione della civiltà occidentale. Di conseguenza è importante dire subito che questa civiltà è da lui criticata globalmente e nei suoi stessi principi fondativi comuni a tutto il pensiero filosofico fin qui apparso e quali si sono perpetuati dai Greci ai nostri giorni. Anche dal marxismo in particolare, dunque, e senza distinzione fra pensiero marxiano e successiva ortodossia marxista, Severino si dissocia radicalmente. D’altra parte una indagine è inevitabile, visto che un testo[1] del pensatore avanza, come dice il breve tratto introduttivo, questa intrigante, problematica, sfida: è possibile, senza essere marxisti, riuscire là dove il marxismo ha fallito?
Severino considera che i Greci, per primi nella storia del pensiero umano, concepiscono l’essere e il nulla in assoluta, reciproca opposizione, divisi da una distanza infinita. In precedenza non era così. Per es.: «Nella civiltà mediterranea pre-greca il mancato ritorno [dalla morte; A.F.] è interpretato come una lunga assenza: nella sua interezza, la vita dell’uomo è un ciclo infinito di morti e di rinascite».[2] Ma con i primi pensatori greci matura la persuasione che ogni cosa esce dal nulla, vive una precaria esistenza e ritorna nel nulla. Qui occorre fare attenzione, giacché «il niente non può produrre alcunché – un principio che, appunto, include la coscienza della assoluta negatività del niente».[3] I mattoni che costituiscono una casa esistevano prima della casa, quando la casa era un non-essere, e le macerie persistono quando la casa è distrutta, cioè è ritornata nel nulla. Analoghe considerazioni si possono fare per qualsiasi altro ente, come, per es., anche un corpo umano. «È impossibile un divenire che non sia il divenire di un sostrato permanente; e tuttavia il divenire è sempre un divenire dal non-essere […] non esiste un ‘puro divenire’ senza sostrato; mentre ciò che non è così salvo è appunto l’insieme delle affezioni di tale sostanza, l’insieme delle cose del mondo, che, in quanto tali, cioè nella loro specifica individualità, escono dal loro essere state niente e tornano a essere niente, mentre, quanto alla loro sostanzialità, preesistono nella sostanza ‘sempre salva’ (Aristotele), da cui si generano e rimangono in tale sostanza, nella quale si corrompono».[4] In questo senso, dunque, i Greci «intendono il divenire come il dibattersi delle cose tra l’essere e il niente»[5] e «solo se si crede che le cose siano flessibili, oscillanti fra l’essere e il niente, ci si può proporre di fletterle e di controllare la loro oscillazione. Se la volontà di potenza è la volontà di dominare il mondo, la forma originaria della volontà di potenza è appunto la fede nell’esistenza del dominabile, cioè la fede nell’esistenza del divenire».[6] Già prima dell’ontologia greca, cioè in un contesto considerato da Severino una sorta di preistoria inconscia dell’Occidente, la coscienza umana ammetteva un certo grado di manipolazione del reale, «ma col pensiero greco incomincia l’epoca della flessione estrema del mondo […] proprio perché la flessione percorre l’infinita distanza tra l’essere e il niente, la volontà di potenza incomincia ad essere infinita […] la sua creatività e distruttività incominciano a essere assolute».[7] Ma in tutto questo, nota il filosofo, è contenuta una insolubile contraddizione, poiché, se è evidente e perfino tautologico dire, con Parmenide, che tutto «ciò che è, è», il divenire non può esistere, «perché, se l’essere diviene (si genera e va distrutto), non è».[8] Donde il nichilismo di tutta la cultura occidentale.
Severino addirittura si spinge, in un affascinante saggio, che si può considerare quasi una risposta al Cratilo platonico,[9] a scorgere ed esaminare , nel lessico delle grandi lingue indoeuropee, la natura della scissione fra l’inflessibile e il dominabile e come questi caratteri abbiano un timbro diverso e riconoscibile.
Secondo Severino, dunque, tutte le forme di pensiero, le civiltà, le religioni, i sistemi filosofici, le forme artistiche, politiche ed economiche dell’Occidente si sono sviluppate all’interno di questo originario stato della coscienza e per soddisfare l’indiscussa persuasione che ne sta al fondo. Tuttavia «la civiltà della tecnica è la forma più rigorosa di questa fede»,[10] perché conferisce un dominio pratico sulla realtà di una efficacia enormemente superiore alle forme precedenti e via via abbandonate dall’uomo perché rivelatesi insufficienti allo scopo, come la stessa ricerca filosofica e il Cristianesimo. Così, per secoli, da Eschilo[11] a Hegel, la fede nel dominio del mondo si è espressa con la tradizione epistemico-metafisica e con l’affermazione di un «Senso unitario, immutabile e divino della realtà», nel cui interno soggiogante risultava però prevedibile, contraddittorio e dunque impossibile il divenire, la cui evidenza rimaneva tuttavia incontestabile.
Affinché il divenire fosse veramente tale, fosse davvero libero e la volontà di potenza potesse estrinsecarsi totalmente, era necessario il tramonto di tutte le strutture immutabili evocate fino a quel momento dall’uomo, come Dio, la natura, l’anima, l’autorità dello Stato, la storia, i valori morali, il diritto, i canoni estetici, ecc. Dopo Hegel la filosofia imbocca coerentemente la strada dello smantellamento di tutte queste false certezze (per fare un solo esempio, pensiamo al ruolo avuto da Nietzsche in tal senso), per consegnare la realtà a uno stato di precarietà completa, di virtuale nullità e dunque totalmente dominabile.[12] Il pensiero marxista, che si propone di modificare la realtà, è considerato come una forma evoluta della volontà di potenza. Tuttavia, in quanto tensione verso una meta precisa e limitante, la società senza classi, ed in quanto erede della concezione universalistica di Hegel, esso è a sua volta e inesorabilmente, secondo Severino, un Immutabile destinato, come testimonierebbe il crollo del “socialismo reale”, al tramonto. La sconfitta di Trotskij e della “rivoluzione permanente” su scala mondiale nei confronti della concezione staliniana del “socialismo in un solo paese”, sarebbe già stata, a suo tempo, un chiaro indice di questo tramonto. Così, comunque, si ignora a priori l’eventualità che possano esistere interpretazioni e sviluppi che rendano la dottrina di Marx (indipendentemente dal crollo del “socialismo reale”) un patrimonio aperto e attuale. Pensiamo certo al “marxismo occidentale”, pur con i suoi limiti, ma soprattutto alla più recente necessità di una riformulazione della filosofia idealistica implicita nel pensiero originale di Marx, secondo il magistero del recentemente scomparso Costanzo Preve.
Oggi, dunque, secondo l’impostazione di Severino, ogni sistema politico e/o economico, ogni ideologia e religione, ormai manifestamente private di verità, si configurano come altrettante fedi o come altrettante volontà in lotta contro altre volontà. La democrazia diretta viene liquidata come ingenuamente utopica, cioè come una specie di “angelo caduto dal cielo”. Di norma, comunque, per democrazia Severino intende , a seconda dei casi, o la democrazia liberale (contrapposta al socialismo, a sua volta sempre inteso come “reale” e dunque fallito inesorabilmente), o la “sovranità della maggioranza” (in una accezione che ne rimarca un aspetto assolutistico). Queste forme di democrazia trarrebbero la loro legittimazione esclusivamente dalla forza di prevalere su altri sistemi di governo più esplicitamente autoritari, come quelli propugnati da coloro che ritengono di avere scoperto la Verità e di doverla imporre a tutti, come, per es., nello stato teocratico. Analogamente, l’antifascismo è legittimo solo finché ha la capacità pratica di prevalere sul fascismo, ma potrebbe essere indifferentemente il contrario. Un pluralismo come quello sancito dalla Costituzione italiana, che prevede una convivenza di culture diverse che non mirino a sopraffarsi vicendevolmente, viene implicitamente considerato un mito.[13] È superfluo aggiungere che la possibilità di un comunismo considerato come l’essenza stessa della democrazia (autogoverno politico e autogestione economica) non viene nemmeno presa in considerazione da Severino.
Una conseguenza non da poco di questa impostazione è che verrebbe a cadere la comunque apparente dicotomia originaria fra “mito” (inteso come interpretazione soggettiva e favolistica della realtà, la cui forma compiuta è la religione) e “logos” (come ricerca di una verità oggettiva), da cui nacque la filosofia. Infatti anche le verità frutto di ricerca razionale appaiono ormai come fedi.[14]
Comunque sia, la forza che prevale sulle altre, attualmente, è il capitalismo, con tutto il suo carico di miserie e di dolore. Ebbene, «l’accusa di immoralità, oggi rivolta al capitalismo […] si fonda sull’etica. Ma l’etica non è più in grado di essere un ‘fondamento’. Essa è una volontà, alla quale si contrappongono altre forme di volontà».[15] Ogni valore, come abbiamo visto, sarebbe ormai evidentemente anacronistico. “Liberté, Egalité, Fraternité”, al di là della funzione distorta o astratta che hanno avuto per le democrazie borghesi, non avrebbero quindi motivo di sussistere nemmeno come concretamente realizzabili dal comunismo. Ora, una definizione di “valore” è: «Carattere delle cose che consiste nel loro essere più o meno degne di stima. – ‘Il vero compito della ragione è di esaminare il giusto valore di tutti i beni la cui acquisizione sembra che in qualche modo dipenda dalla nostra condotta’ (Descartes)».[16] E quale «carattere delle cose» è più «degno di stima» della sopravvivenza della specie umana? Se, come è evidente, lo sfruttamento e l’alienazione portati dal capitalismo hanno condotto il mondo sull’orlo della distruzione, che altro mai potrà salvarlo se non la “nostra condotta” ispirata ai genuini valori comunitari di quella civiltà greca tanto deprecata dal nostro autore? Ma Severino invece afferma che «la distruzione dell’uomo non è la definizione dell’errore» e che «è follia (cioè errore), perché essa è negazione della verità. Ma che ne è oggi della verità».[17] La verità epistemica tradizionale e incontrovertibile oggi non esiste più nella civiltà moderna e dunque questo vuoto lascerebbe spazio alla verità, all’essere, alla «filosofia futura» del Severino stesso, per la quale «se il destino di tutte le cose, dalle più umili alle più grandiose, è di essere non trasformabili, non producibili e non distruggibili, non creature di un dio, non manipolabili, allora esse sono l’inafferrabile, il non dominabile, il necessario, l’eterno. Il destino è l’impossibilità del dominio».[18] Ogni azione umana, anche la più nobile, in quanto conseguente inesorabilmente a una forma variante di volontà di potenza, sarebbe minata dallo stesso male che intendesse curare e dunque destinata al fallimento. «Che cosa dovremo fare, allora, per evitare l’errore e la violenza? Ma è proprio necessario che si debba fare qualcosa? Il ‘fare’ è uno dei tanti nomi della vita; e se la vita è errore, anche la domanda ‘che fare?’ è errore ed è errore rispondervi. (Ma anche l’inerzia e la rinuncia alla vita sono modi di fare, cioè di vivere)».[19]
Ma affermare che la devastazione e la sofferenza sono una illusione e che tutto e tutti sono da sempre e per sempre nella gioia dell’essere, come può dispiacere all’essenza della devastazione e della sofferenza? Se esistesse una «Nous» capitalistica (secondo una espressione di Pasolini in una lontana trasmissione televisiva) sarebbe ben felice di sentirsi così assolta da ogni colpa…
Per Severino, dunque, il costruire (trarre le cose dal nulla) ha la stessa natura del distruggere (spingere le cose nel nulla), poiché entrambi condividono l’illusione della totale dominabilità delle cose stesse. Chi scrive, tuttavia, ritiene che non si possa sfuggire all’agire, secondo il senso ficthiano caro al filosofo Diego Fusaro, e di conseguenza vede nel costruire (per es. rapporti positivi tra gli uomini tramite la politica) il mezzo di una volontà che può essere più decisiva della volontà avversa. Non è credibile che guerre, devastazioni e sfruttamento avvengano necessariamente, all’interno del “divenire greco”, altrimenti anche il contenuto di questa tesi diverrebbe una di quelle verità dogmatiche che non si possono giustificare. Lo stesso Severino, auto-obbiettandosi se non abbia comunque un senso, anche all’interno della cultura occidentale, adoperarsi per evitare la guerra e costruire la pace, concede: «Certamente. E per ottenere questo risultato si danno da fare coloro che hanno a cuore le sorti dell’umanità», ma «lavorano per la pace dei morti [quali saremmo tutti all’interno del senso greco del divenire; A.F.]. E meritano riconoscenza da parte dei morti che sognano di essere vivi per merito loro».[20]
Quindi, ribadendo che all’interno dell’Occidente le devastazioni e le ingiustizie sono sostanzialmente conseguenti, di fatto Severino giudica inemendabili le modalità sociali che le causano. La tesi proposta è che se si viola ciò che si considera inviolabile, come la dignità umana, significa che non è veramente inviolabile e le lamentele in tal senso sarebbero solo il pianto del perdente.[21] Di fronte a questa logica si va al di là di ogni confutazione disapprovazione. Ma per Severino affidarsi all’indignazione non ha significato: «Per migliaia di anni gli uomini sono vissuti senza avvertire questa indignazione. E l’indignazione può tornare nell’oscurità».[22] Dunque il filosofo dichiara un punto di vista non al di sopra, ma al di là di ogni parte in campo sul pianeta. Ma nei suoi giudizi, l’operazione intellettuale che di fatto si realizza è la svalutazione di ogni aspirazione e di ogni tentativo pratico di superare l’orizzonte dell’orribile presente, per fornire una prospettiva talmente irreale da non poter sussistere nemmeno come speranza, cioè un preteso tramonto dell’Occidente (sempre inteso come la dimensione filosofica e pratica scoperta dai Greci), cui comunque assisterebbero in pochi o nessuno, se nel frattempo la distruzione non sarà fermata.

La scienza e la tecnica (ovvero il feticismo tecnologico)

Essenziale, nel pensiero del nostro filosofo, è il rapporto con la scienza e la sua applicazione pratica, la tecnica. Non esiste una reale dicotomia fra la cultura filosofica e la cultura scientifica. È vero che mentre la prima si propone una visione globale del reale, la seconda, invece, isola settori di indagine particolari e sempre più ristretti. Ma questo sezionamento separa le cose tra di loro e dal tutto allo scopo di renderle più facilmente dominabili. Ne risulta una efficacia di intervento sulla realtà nemmeno lontanamente paragonabile alle forme pre-scientifiche. Quindi la tecno-scienza realizza sempre più compiutamente ciò che comunque è sempre stata l’esigenza ultima anche dell’umanesimo che l’ha preceduta e preparata: la volontà di potenza.[23]
D’altra parte, se una qualsiasi forma umanistica di pensiero rappresenta una struttura immutabile e dunque una fede, a sua volta «l’azione tecnologica [che si basa sulla presunta ripetibilità dei fenomeni; A.F.] è possibile solo in quanto si ha fede, ossia non si dubita di ciò che la coscienza scientifica conosce come ipotesi e quindi come dubitabile».[24]
L’insieme di uomini e mezzi che esercitano la potenza nella sua forma moderna viene definito «Apparato tecnico-scientifico». Esso è sorto come uno strumento, in particolare del capitalismo, ma la competitività sfrenata con il socialismo reale e all’interno del capitalismo stesso, nonché la necessità dell’Occidente di mantenere la supremazia nei confronti del resto del mondo, avrebbero generato, secondo Severino, un’inversione da mezzo a scopo. E cita come precedente il suggestivo esempio del denaro, che, sorto inizialmente come strumento per far circolare gli oggetti, poi diviene scopo della produzione degli oggetti stessi, ormai concepiti come merci. Le ideologie e i sistemi economici sarebbero costretti dalla loro stessa logica interna ad aumentare indefinitamente la loro potenza tecnico-scientifica, fino a subordinare a questa e a snaturare progressivamente i loro scopi iniziali. Per es., secondo Severino, il crollo del socialismo sovietico non sarebbe dovuto a motivi economici e/o politici, ma all’esplodere della contraddizione insita nell’esistenza di un sistema con retaggi ideologici tali da costituire un ostacolo all’incremento della Potenza tecnologica. Stadio finale dell’evoluzione dell’Occidente (e, ormai, di tutto il pianeta), l’«Apparato» incarna e riassume l’esigenza di beatitudine del Paradiso cristiano, nonché esprime compiutamente il Superuomo nietzscheano. Esso non è neutrale e non può essere guidato: «Ha un’etica propria e un proprio scopo da realizzare: l’accrescimento indefinito della propria potenza».[25] Per questo inesorabile scopo, alcuna importanza possono avere ingiustizie e miserie, ma nel momento in cui ne fosse raggiunto il culmine, sarebbero possibili perfino l’«autogoverno democratico» dei popoli e il soddisfacimento di tutte le esigenze umane prima ineluttabilmente neglette perché considerate d’ostacolo al Fine ultimo e purché tali, naturalmente, da non pregiudicare la Potenza stessa, che assumerebbe i requisiti del Dio della tradizione.
Questa visione complessiva sembra distante dalla realtà. È vero che i sistemi economici affidano alla scienza e alla tecnica le loro ambizioni di supremazia, ma è anche vero che senza interessi pratici, concreti, e in particolare di una potenza sociale di cui il capitalista è l’agente, secondo la lezione di Karl Marx, questo «Apparato» non solo non sarebbe sorto, ma la sua evoluzione-corsa verso l’onnipotenza non avrebbe motivo di esistere. È vero che l’«Apparato» è prodotto dalla civiltà occidentale, ma sempre, con ogni evidenza, solo come strumento per l’ascesa indefinita di quel sistema di rapporti sociali e materiali che di questa civiltà è l’attuale, ma non necessariamente definitivo, compimento: il modo di produzione capitalistico. Ciò non toglie che in questo contesto l’«Apparato» possa anche assumere una connotazione mistica, un significato astratto, come la “merce” o lo “Stato democratico” di marxiana memoria, ma sempre e comunque in modo funzionale, come negli esempi citati, ai rapporti di forza nella società. In definitiva, se la fuoriuscita dal capitalismo sarebbe la Tecnica, cioè lo stesso principio di dominio espresso in modo asettico, metaforico e dunque innocuo, ci troviamo di fronte a una tesi inutilizzabile ai fini dell’emancipazione dell’uomo.

Il modello giapponese

Un significativo esempio di banalizzazione della realtà si nota nell’analisi, compiuta da Severino, del «modello giapponese». Per un verso essa è condivisibile: i principi socialdemocratici del welfare e della democrazia industriale sono estranei alla cultura giapponese, ma il prevalere pratico del modello di produzione nipponico, afferma Severino, non è un semplice fatto storico riguardante quella particolare civiltà. Tutto, però, si riduce alla riaffermazione del consueto schema generale: «Nel successo del modello giapponese dell’impresa si rende più visibile che altrove l’inevitabilità del processo in cui ogni forza ideologica [il sistema aziendale militarizzato impregnato di spirito nazionalista; A.F.] che tenta di controllare l’Apparato e di servirsene come mezzo per la realizzazione di uno scopo ideologico, è destinata a fallire e a subordinare la realizzazione dei propri scopi alla realizzazione dello scopo che l’Apparato possiede di per sé stesso».[26]
In tal modo, intanto, non si tiene conto che è il capitale ad appropriarsi di tutto ciò che favorisce i suoi scopi (come attesta appunto l’espansione del modello toyotista, e precedentemente fordista, con lo smantellamento e la sussunzione di modi di vivere, culture, nonché istituzioni preesistenti). Ma soprattutto qui non c’è coscienza, invece, del fatto che «la tecnologia viene inclusa come parte integrante della strategia aziendale, nello studio di quelle che complessivamente vengono definite ‘attività’ che creano ‘valore’, non in forma separata, tecnicistica e neutrale, ma a fianco del lavoro vivo rappresentato, quale risorsa fondamentale e centrale, come capitale umano. La razionalità del sistema viene spinta al di là della massimizzazione del profitto, il che non vuol dire che non sia più il profitto stesso il fine della produzione capitalistica, bensì che l’orizzonte decisionale deve progettare la profittabilità d’impresa in un più lungo andare, proprio per garantirne una permanenza certa a fronte del suo movimento in caduta».[27] Dunque l’applicazione della tecnologia in realtà viene sapientemente dosata dal capitale, poiché se diminuisce troppo la quota di lavoro vivo fornita dall’operaio, si verifica la temuta tendenziale caduta del saggio di profitto. Sono fattori di questo tipo, dunque, a risultare sempre preminenti e non, invece, lo sviluppo di questo fantomatico apparato fine a sé stesso. A chi analizza la nuova organizzazione tecnologica del lavoro, anche da un punto di vista cronologico risulta che essa è stata applicata solo come completamento di un precedente programma di ristrutturazione volto ad «aumentare intensità e condensazione del lavoro, e non la produttività»,[28] poiché è principalmente il lavoro vivo, umano, per ammissione degli stessi tecnici aziendalisti, che conferisce valore al prodotto finale, la merce. Certo Severino potrebbe affermare che da una contraddizione di questo tipo si evincerebbe solo un ipotetico singolo conflitto di interessi fra tecnologia e capitale destinato a risolversi, a lungo termine, con il prevalere della prima. Ma, daccapo, da dove trarrebbe , la tecnologia, questa presunta tendenza all’affermazione, essa che è sorta e sussiste totalmente sussunta al capitale, come ormai ogni realtà di questo pianeta?

Storia e ideologia

Funzionale e conseguente alla visione generale di Severino è una parte descrittiva contenuta nei suoi libri, dove più facilmente si può cogliere un determinato grado di distorsione. Citiamo solo qualche esempio: «Le democrazie prevalgono sulle dittature e i totalitarismi, lo stesso capitalismo non concepisce più sé stesso come legge naturale eterna».[29] Tesi opposta a quanto constatiamo giorno per giorno con la globalizzazione e tutta l’ideologia neoliberista che vi è cresciuta sopra, nonché con il tramonto dei principi giuridici fondamentali della civiltà occidentale. Inoltre, il Cristianesimo e la democrazia, anziché essere , caso mai, sostanzialmente funzionali o sovrastrutturali al capitalismo (sebbene la religione abbia ormai perso la funzione di legittimazione del potere e sia considerata solo un intralcio per la liberalizzazione consumistica dei costumi), secondo Severino sarebbero forme ideologiche in concorrenza con esso. Di conseguenza, «non si profila allora una situazione in cui anche il Cristianesimo e la democrazia dovranno o cedere alla strapotenza dell’organizzazione capitalistica della società, oppure resistere e organizzarsi secondo i criteri dell’efficienza scientifico-tecnologica, rinunciando sempre di più a se stessi?».[30]
Sinceramente, è difficile concepire dei “partigiani” del Cristianesimo o della “democrazia” impegnati in una corsa tecnologica per battere il capitalismo.
Ancora: «Il capitalismo dovrà rendersi conto che distruggendo la terra, distrugge sé stesso». Dunque esso sarebbe costretto a limitare la corsa al profitto per salvaguardare la base naturale della produzione economica, cioè, secondo Severino, a rinunciare a sé stesso e volgere al «declino».[31] Non solo sembra troppo debole e artificioso come argomento, ma allora, inoltre, il capitalismo sarebbe già declinato per il semplice fatto di aver consentito, a suo tempo, uno stato sociale.
Inoltre: «Oggi si riconosce che, contrariamente a quanto pensava Marx, la produzione capitalistica fa aumentare il livello di vita delle masse delle società industriali»,[32] affermazione, questa, che lasciamo alla riflessione del lettore sufficientemente informato sullo stato di cose esistente anche nelle “società industriali”, che vede un ineluttabile degrado della qualità di vita di masse sempre più imponenti.
Poi: il capitalismo si sarebbe convinto, a suo tempo, «che il perfezionamento del macchinario, il cui sottoprodotto era il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’elevazione del salario, avrebbe consentito un maggior incremento del profitto».[33] Ebbene, questo «miglioramento» e questa «elevazione» sembrano quanto meno discutibili. Inoltre, «il capitalismo è anche la forza che oggi consente la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra»,[34] e di conseguenza, secondo Severino, la sua esistenza sarebbe da considerarsi necessaria. Forse è così per la banale constatazione che si tratta dell’unico modo di produzione ormai rimasto e in ogni caso è il primo che non garantisce la sopravvivenza dei suoi schiavi salariati.
Proseguiamo con gli argomenti storici. La lotta contro il comunismo, nel dopoguerra, «per essere efficace doveva essere segreta», e quindi «inevitabilmente illegale (e chi se ne meraviglia e se ne scandalizza o è ingenuo o mente), giacché in regime di democrazia parlamentare tutto ciò che è legale deve essere pubblico».[35] Per cui, «sembra dunque necessario depenalizzare le forme illegali della lotta anticomunista,[36] tranne che nel caso del terrorismo di Stato, con relative stragi. Ma solo perché – si affretta a specificare il filosofo – ciò sarebbe improponibile davanti all’opinione pubblica… Infine Severino afferma che a suo tempo il Partito Comunista avrebbe rinunciato (sottinteso: a malincuore) alla sua scontata natura antidemocratica per adeguarsi ai canoni della Costituzione. Dunque il PCI avrebbe compiuto solo perché costrettovi dalla situazione internazionale post-bellica il doloroso passo di giungere al rispetto di quell’insieme di super-norme che esso stesso – ignora Severino – come grande componente della società, in sede di Assemblea Costituente, aveva grandemente contribuito a elaborare! E tutto il lungo travaglio degenerativo di questo partito, conseguente alla sua natura storicista e produttivista, dall’iniziale intransigenza bordighiana, alla guerra di posizione gramsciana, alla democrazia progressiva togliattiana, al consociativismo, ecc. fino allo auto-scioglimento finale, è rimosso in maniera stupefacente.
Si nutriva, dunque, la speranza di udire quasi un nuovo verbo o quantomeno di ricevere un conforto, da una sponda autorevole, nel confronto impari con il grigio “pensiero unico” filocapitalista dominante. Purtroppo, invece, nei suoi testi E. Severino elabora poche tesi tagliate con l’accetta, entro le quali costringe quella realtà che si vede andare in ben altre direzioni, compiendo così un’operazione avente lo scopo di comprovare la validità delle sue analisi sulla cultura occidentale e che diventa comunque funzionale all’ideologia dominante qualunque sia la sua intenzione soggettiva. C’è un aspetto sostanzialmente ignorato nella visione “politica” di Severino. Si tratta dell’aspirazione dei popoli al miglioramento delle condizioni di esistenza, che può essere più o meno consapevole o evoluta, ma è una forza sostanzialmente mai completamente riducibile alle costrizioni oggettive, economiche, politiche o “tecnologiche” che la comprimono.
Nelle analisi sull’esistente elaborate da Severino domina un pragmatismo cinico e assoluto. Dunque, per quanto il filosofo miri a porsi al di là di ogni parte ideologica , è difficile non scorgere in questa linea di pensiero delle conseguenze che infine si sposano con le istanze di una cultura di “destra economica”, per usare ancora questa vecchia categoria. Infatti il preconizzato trionfo del pragmatismo tecnologico non costituisce la vittoria di una tendenza neutra, bensì rappresenta l’affermarsi di un totalitarismo inedito, ma pur sempre classista. C’è il sospetto che Severino sia sostanzialmente ben accetto nel mondo della cultura dominante non solo perché considera ineluttabile il trionfo della Tecnica (cioè il capitalismo) come Heidegger e Galimberti, ma anche perché il suo ripristino dell’ontologia è apparente e fuorviante, dunque innocuo per il potere. Il concetto severiniano dell’essere (che lo scrivente ritiene inconcepibile, sul piano strettamente logico, senza il suo contraltare, il nulla) non ha niente a che fare con l’eternità dei significati umani,[37] né con la totalità sociale, e ovviamente, se si accetta la dottrina della deduzione sociale delle categorie , nemmeno con la interpretazione dell’essere parmenideo come metafora di una stabile e buona legislazione come difesa dall’attacco crematistico , interpretazione cara al compianto filosofo Massimo Bontempelli. Infine, l’estensione integralista del principio di non contraddizione alla nientificazione degli enti empirici ricorda – mutatis mutandis – l’arbitrarietà con la quale Engels applicò la dialettica hegeliana al mondo della natura. Tutto questo si può interpretare come l’apoteosi di un “intelletto astratto”.

Antonio Fiocco

Note

[1] E. Severino, Il declino del capitalismo, Rizzoli,1993.

[2] E. Severino, Il giogo, Adelphi,1989, pag. 61.

[3] Ibidem, pag. 85.

[4] Ibidem, pagg. 85-86.

[5] E. Severino, La filosofia futura, Rizzoli, 1989, pag. 10.

[6] Ibidem, pag. 16.

[7] Ibidem, pag. 119.

[8] E. Severino, Il giogo, op. cit., pag. 88.

[9] E. Severino, Destino della necessità, Adelphi,1980. Il saggio in questione è contenuto in questo testo.

[10] E. Severino, La filosofia futura, op. cit., pag. 17.

[11] Eschilo viene considerato da Severino come un grande filosofo che si esprime nella forma della tragedia.

[12] «La grandezza del pensiero greco porta sulla terra il bagliore della follia estrema in cui tutte le cose sono annientate», in: E. Severino, La guerra, Rizzoli, 1992, pag. 96.

[13] «Il dialogo è lo scontro tra due fedi, che ancora non si è tradotto nella bruta violenza fisica […]. Il dialogo è il momento teorico della violenza», in: E. Severino, La guerra, op. cit., pag. 85.

[14] Ma, se è così, non è una “fede” anche quella «filosofia futura» indicata dal Severino quale radicale alternativa al pensiero occidentale?

[15] E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag. 106.

[16] André Lalande, Dizionario critico di filosofia, edizione italiana, Mondadori,1980.

[17] E. Severino, La guerra, op. cit., pagg. 21-22.

[18] Ibidem, pag. 136.

[19] Ibidem, pag. 70.

[20] Ibidem, pag. 96.

 [21] E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag.110: «Ogni decisione è dunque innocente. Innocente anche ogni uccisione».

[22] E. Severino, La guerra, op. cit., pag.134.

[23] «La religione, l’arte, la morale sono azioni tecniche che si trovano in contraddizione con la propria essenza tecnica e quindi sono destinate a risolversi in quella forma tecnica che non è in contrasto con la propria essenza», in: E. Severino, Destino della necessità, op. cit., pag. 250.

[24] Ibidem, pag. 390

[25] E. Severino, La filosofia futura, op. cit., pag. 114.

[26] Ibidem, pag. 81.

[27] Carla Filosa, Gianfranco Pala, La qualità è quantità: totale, in “Marx centouno” n. 15, pag. 61.

[28] Ibidem, pag. 59.

[29] E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag. 18.

[30] Ibidem, pag. 51.

[31] «Il capitalismo è la volontà che il profitto non sia limitato da alcunché. Perseguire il profitto insieme a qualche altro scopo complementare – come la salvaguardia della Terra – significa uscire dal capitalismo», in E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag. 94. Infatti, per inciso, tutto indica comunque che il capitalismo non intenda salvaguardare la Terra.

[32] Ibidem, pag. 74.

[33] Ibidem, pag. 77.

[34] Ibidem, pag. 101.

[35] Ibidem, pag. 176.

[36] Ibidem, pag. 188.

[37] Per questo si rimanda al grande saggio di Massimo Bontempelli, Filosofia e Realtà, C.R.T.- Petite Plaisance.

Autori, e loro scritti

B

B

Richard Bach – Non dar retta ai tuoi occhi e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda con il tuo intelletto, allora imparerai come si vola.

Gaston Bachelard (1884-1962) – L’immaginazione è la facoltà di formare immagini che superano la realtà, che cantano la realtà, testimonianza del processo di scoperta da parte dell’animo del proprio mondo, il mondo in cui vorrebbe vivere, il mondo in cui è degno di vivere.

Gaston Bachelard (1884-1962) – Come abitiamo il nostro spazio vitale, come mettiamo radici, giorno per giorno, in un “angolo del mondo”? La casa è il nostro angolo del mondo, il nostro primo universo. ogni spazio veramente abitato reca l’essenza della nozione di casa.

Michail Bacthin (1895-1975) – Il riso autentico non esclude la serietà, ma la purifica dal dogmatismo, dall’unilateralità, dalla sclerosi, dal fanatismo, dalla perentorietà, dalla intimidazione. Il riso è una forma interiore e non esteriore.

Michail Bachtin (1895-1975) – Una sola voce non porta a termine nulla e nulla decide. Due voci sono il minimum della vita, il minimum dell’essere. Essere significa comunicare dialogicamente.

Michail Bachtin (1895-1975) – La comprensione creativa non rinuncia a sé. Di grande momento per la comprensione è l’extralocalità del comprendere. Nel campo della cultura, l’extralocalità è la più possente leva per la comprensione. Un senso svela le proprie profondità, se si incontra e entra in contatto con un altro, altrui senso: tra di essi comincia una sorta di dialogo. Senza proprie domande non si può capire creativamente alcunché di altro e di altrui (ma, naturalmente, le domande devono essere serie, autentiche).

Michail Bachtin (1895-1975) – La vera vita della persona è accessibile soltanto a una penetrazione dialogica alla quale essa si apre liberamente in risposta. Nell’uomo vi è sempre qualcosa che solo lui può scoprire nel libero atto dell’autocoscienza e della parola, che non si assoggetta alla determinazione esterna ed esteriorizzante.

Michail Bacthin (1895-1975) – La vita può essere compresa dalla coscienza solo nella responsabilità concreta. Una filosofia della vita non può che essere una filosofia morale. Si può comprendere la vita solo come evento, e non come essere-dato. Separatasi dalla responsabilità, la vita non può avere una filosofia; separatasi dalla responsabilità, essa è, per principio, fortuita e priva di fondamenta.

Michail Bachtin (1895-1975) – Non tutti i motivi che entrano in contraddizione con l’ideologia ufficiale degenerano in un indistinto discorso interno e muoiono. Solo che all’inizio esso si svilupperà in una cerchia sociale ristretta, entrerà nel sottosuolo della salutare clandestinità politica. Proprio così si forma un’ideologia rivoluzionaria in tutte le sfere della cultura.

Bronisław Baczko (1924-2016) – Rari sono coloro che spontaneamente proclamano di essere utopisti. Di norma sono gli altri a chiamarli così, intendendo con ciò presentarli come sognatori, inventori di chimere.

Marino Badiale – Problemi tra scienza e filosofia.

Alain Badiou – Metafisica della felicità reale, DeriveApprodi.

Alain Badiou – L’amore è sempre la possibilità di assistere alla nascita del mondo. Non può ridursi all’incontro perché si tratta di una costruzione, la durata che lo porta a compimento. È prima di tutto una costruzione durevole, un’avventura ostinata. L’amore vero è quello che trionfa durevolmente: chiede cura, ripetizioni, vive sotto il segno della replica. L’amore è comunista in questo senso: il vero soggetto dell’amore è il divenire della coppia e non la soddisfazione degli individui che la costituiscono.

Andrea Bajani – Bisognerà prima o poi tornare al “coltivare”, quando si nomina la scuola. Bisognerà ricordarsi del contadino metaforico che coltiva di nascosto dentro l’etimologia della parola Cultura, e che dentro la scuola dovrebbe trovare terra fertile.

Michail A. Bakunin (1814–1876) – Cercando l’impossibile, l’uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.

Michail A. Bakunin (1814–1876) – Lottiamo per il pieno sviluppo e il completo godimento da parte di ognuno di tutte le facoltà e potenzialità umane realizzate attraverso l’educazione, l’istruzione e la prosperità materiale.

Massimo Baldi – «Paul Celan. Una monografia filosofica». A rendere unica l’opera di Celan c’è la sua inesausta volontà di autocomprendersi e di correggersi, sempre nel cuore del poema, nella tensione che in esso si genera tra la lingua degli uomini e l’impiego spesso idiomatico che ne fa il poeta.

Beatrice Balsamo – Elogio della dolcezza, partendo dal dato etimologico per scandagliarne la lettura psicanalitica, quella sociologica e quella filosofica … la dolcezza ha a che fare con il gusto dell’uomo per l’uomo.

Honoré de Balzac (1799-1850) – Quale bel libro non si potrebbe scrivere raccontando la vita e le avventure di una parola, le cui risonanze, così belle ancora nella Grecia, s’indeboliscono attraverso i progressi delle nostre successive civiltà.

Marwan Barghouti – «L’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace». – Onore, Rispetto e Libertà per Marwan Barghouti, prigioniero da 14 anni di Israele.

Marwan Barghouti – Noi non ci arrenderemo. Lotta per la Dignità e i Diritti, ecco il nome della nuona lotta dei prigionieri palestinesi. È nella natura umana rispondere alla chiamata per la libertà, a prescindere dal prezzo che si avrà a pagare.

Alessandro Barile – Il verso della storia. Discutendo del libro di Sante Notarnicola, «La nostalgia e la memoria».

Claudia Baracchi – Incontrare l’antico può liberare risorse inattese per il pensiero, mettere a fuoco domande che non hanno cessato di riguardarci. E l’amicizia è il nome di un’apertura all’inconsueto.

Claudia Baracchi – L’universalismo moderno sorge nell’astrazione. Invece, per l’esperienza antica, l’universale sorge nell’ampliamento d’orizzonte capace di cogliere la tessitura complessiva. Il filosofo rivela l’umano proprio nello slancio dell’umano oltre se stesso, in quell’apertura al possibile e nel possibile. Così, l’esplorazione del possibile trasgredisce e rivolta i confini del noto.

Claudia Baracchi – Amicizia è disposizione verso il bene, verso il bene della vita, e non richiede conformismo. Tra amici similitudine e reciprocità vanno intesi alla luce di una propensione all’eccellenza, al perfezionamento della vita.

Claudia Baracchi – Filosofia antica e vita effimera. Migrazioni, trasmigrazioni e laboratori della psiche.

Claudia Baracchi, Bookcity 2020 – Esseri umani, farfalle, mostri e la filosofia come terapia della psiche. Con Claudia Baracchi, analista filosofa e Anna Stefi, filosofa e psicologa.

Claudia Baracchi – Non va ridotto a sintomo il bisogno di raccoglimento, di riflessione, che è risposta in qualche modo ribelle al regime dell’apparire. La libertà è essenzialmente categoria dello spirito.

Alvaro Barbieri – Il «Milione» in un’edizione completa e nella traduzione latina dell’opera, accompagnata da una moderna traduzione in italiano appositamente preparata, con numerosi passi del perduto originale dettato da Marco Polo.

Roland Barthes (1915-1980) – A cosa serve l’utopia? A produrre del senso. Un tempo si spiegava la letteratura attraverso il suo passato; oggi attraverso la sua utopia. Il senso è fondato come valore e l’utopia permette questa nuova semantica.

Roland Barthes (1915-1980) – Il mondo è pieno di segni. Decifrare i segni del mondo significa lottare sempre con una certa innocenza degli oggetti.

Giovanni Bartolomei da Prato – «Per Antonio Melis»: magia della memoria degli umani che quando quell’oscura lotteria si porta via un amico od un maestro di conservar l’essenza ha l’arte e l’estro.

Maria Cristina Bartolomei – La tenerezza è reciprocità, paritarietà, assenza di sottomissione, cancellazione della figura del dominio, del padrone e del suddito.

Giorgio Bassani (1916-2000) – Nella vita se uno vuol capire, capire sul serio, come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta, meglio da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare.

Francesco Bastiani/ Luigi Pulcini – Storia delle poco conosciute macchine fotografiche italiane.

Georges Bataille (1897-1962)  – La noia rivela ciò che è il nulla dell’essere rinchiuso in se stesso. Questo nulla interno lo respinge verso l’angoscia.

Georges Bataille (1897-1962)  – La verità di una poesia è forte e piena e del tutto sovrana al confronto col voluminoso pacchetto azionario del capitalista, la cui debole verità deriva dalla paura con la quale il mondo soggioga il lavoro.

Charles Pierre Baudelaire (1821-1867) – L’immaginazione è la regina del vero. Liberando il possibile compresso nel dato, l’immaginazione con ciò stesso libera il divenire, ovvero il “poter-essere-altrimenti” delle cose, crea un mondo nuovo.

Jean Baudrillard (1929-2007) – La morte è immanente all’economia politica. È per questo che essa si vuole immortale.

Jean Baudrillard (1929-2007) – L’uomo non smette di espellere quello che egli è, quello che prova, quello che significa ai propri occhi con tutti gli artefatti tecnici che egli ha inventato, e all’orizzonte dei quali sta scomparendo.

Jean Baudrillard (1929-2007) – Non c’è più scambio simbolico al livello delle formazioni sociali moderne. Non più come forme organizzatrici.

Anna Beer – Note dal silenzio. Le grandi compositrici dimenticate della musica classica.

Ludwig van Beethoven (1770-1827) – Essere costretti a diventare filosofi ad appena 28 anni non è davvero una cosa facile e per l’artista è più difficile che per chiunque altro. Soltanto la virtù può rendere felici, non certo il denaro. Parlo per esperienza. È stata la virtù che mi ha sostenuto nella sofferenza.

Samuel Bellamy (1689-1717) – Loro rubano ai poveri coperti dalla legge, mentre noi deprediamo i ricchi forti solo del nostro coraggio!

Bartolomeo Bellanova – Riflessioni sul saggio di Etienne De La Boetie: “Discorso sulla servitù volontaria”.

Anna Beltrametti – C’è anche un pensiero delle donne? Le donne del teatro greco sono laboratori di utopia infiniti. Sono talmente forti in questa loro energia utopica di un mondo da rifondare, da rinnovare, di un mondo possibile, che è la filosofia stessa ad attingere al loro pensiero.

Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti

Anna Beltrametti – Il punto più alto che Platone tocca nelle riflessioni sulla paura è proprio il reciproco implicarsi di potere personale e paura. Paura che l’uomo di potere riesce ad incutere ai suoi governati, ma anche paura provata dall’uomo di potere nei confronti di chi è migliore di lui, come pure della paura che ha di tutta la schiera di manutengoli che, dopo averlo lusingato, vogliono essere lusingati e pretendono lusinghe.

Anna Beltrametti – Populismo: da oggi alla scena originaria, comica e nera di Aristofane. Per contendersi il favore del Popolo, trasformato da soggetto politico in oggetto (in merce), i contendenti si rivelano per quello che sono: strumenti, burattini di un’élite che li manovra e li usa senza apparire.

Anna Beltrametti – «La letteratura greca. Tempi e luoghi, occasioni e forme». L’intento è di contrastare periodizzazioni secche, di mostrare come le forme si modifichino o si conservino non solo nel tempo o in funzione delle occasioni a cui rispondono, ma anche in relazione ai luoghi segnati da cerimonie e rituali specifici, da consuetudini culturali precise.

Anna Beltrametti – Philosophical Fear and Tragic Fear: The Memory of Theatre in Plato’s Images and Aristotle’s Theory

Walter Benjamin (1892-1940) – «Esperienza» . Il giovane farà esperienza dello spirito e quanto più dovrà faticare per raggiungere qualcosa di grande, tanto più incontrerà lo spirito lungo il suo cammino e in tutti gli uomini. Quel giovane da uomo sarà indulgente. Il filisteo è intollerante.

Walter Benjamin (1892-1940) – Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.

Walter Benjamin (1892-1940) – La malinconia tradisce il mondo per amore di sapere. Ma la sua permanente meditazione abbraccia le cose morte nella propria contemplazione, per salvarle.

Walter Benjamin (1892-1940) – Che cos’erano per me i miei primi libri? Io non leggevo un libro, vi entravo, vivevo tra le sue righe; e quando lo riaprivo dopo un’interruzione, ritrovavo me stesso nel punto in cui ero rimasto.

Walter Benjamin (1892-1940) – L’esperienza è in ribasso. Un’indigenza di nuova specie si è abbattuta sugli uomini, la nostra povertà di esperienza. È povertà non solo di esperienze private, ma di esperienze umane in genere, è una nuova barbarie.

Walter Benjamin (1892-1940) – Il capitalismo è pura religione cultuale, senza tregua e senza pietà, che non purifica ma colpevolizza, non è riforma dell’essere, ma la sua riduzione in frantumi. Il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma.

Walter Benjamin (1892-1940) – I bambini si ritrovano nel mondo esterno in modo del tutto graduale, e solo nella misura in cui esso diventa loro familiare come un’interiorità a loro adeguata. L’interiorità di questa visione risiede nel colore.

Walter Benjamin (1892-1940) – Il capitalismno è la celebrazione di un culto sans rêve et sans merci, senza tregua e senza pietà.

Mirella Bentivoglio – Il cuore della consumatrice ubbidiente.

Nina Nikolaevna Berberova (1901-1993) – «Il giunco mormorante»: C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla.

Bernard Berenson (1865-1959) – Le creazioni più soddisfacenti sono quelle che esprimono carattere, essenza. La loro semplice esistenza ci appaga.

John Berger – L’attività dei ricchi è costruire muri, compreso il muro del denaro. La strategia della resistenza è questa …

Susanna Berger – The Art of Philosophy: Visual Thinking in Europe from the Late Renaissance to the Early Enlightenment

John Berger – Il momento in cui inizia un pezzo musicale.

Henri Bergson (1859-1941) – La memoria non è la facoltà di disporre dei ricordi in un cassetto. E cos’è la coscienza? Coscienza significa in primo luogo memoria. Ogni coscienza è anticipazione del futuro, è il tramite tra ciò che è stato e ciò che sarà, un ponte gettato fra il passato e il futuro.

Henri Bergson (1859-1941) – Il nostro carattere se non la sintesi della storia che abbiamo vissuto fin dalla nascita. È con tutto il nostro passato che noi desideriamo, vogliamo ed agiamo.

Henri Bergson (1859-1941) – Quando seguo con gli occhi sul quadrante di un orologio il movimento delle lancette non misuro una durata, come pare si creda, mi limito a contare delle simultaneità, il che è molto diverso.

Ludwig von Bertalanffy (1901-1971) – La società umana non è una comunità di formiche controllata dalle leggi della totalità sovraordinata

Enrico Berti – La mia esperienza nella filosofia italiana di oggi.

Enrico Berti – Per una nuova società politica.

Enrico Berti – La capacità che una filosofia dimostra di risolvere i problemi del proprio tempo è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché essa sia giudicata eventualmente capace di risolvere i problemi di altri tempi, o del nostro tempo, e dunque possa essere considerata veramente “classica”.

Enrico Berti – Ciò che definisce l’uomo è anzitutto la parola. Non è del tutto appropriata la traduzione latina della definizione di uomo messa in circolazione dalla scolastica medievale, cioè animal rationale, la quale si basa sulla traduzione di logos con ratio. Certamente l’uomo è anche animale razionale, ma il concetto di logos è molto più ricco di quello di “ragione”.

Enrico Berti – È risonata più volte la proclamazione heideggeriana della fine dell’epoca della metafisica. Di fatto è esistita, e quindi ha una storia. Anche le più famose negazioni di essa sono state ridimensionate, e la metafisica appare oggi ancora viva e vigorosa.

Enrico Berti – Nichilismo moderno e postmoderno.

Enrico Berti – Nessuno vorrà ritornare a concezioni metastoriche e disincarnate della filosofia. Il far filosofia non può essere infatti un’attività a buon mercato, non comportante alcun rischio, ma deve costar caro […].

Enrico Berti – «Scritti su Heidegger».

Enrico Berti – Recensione al libro di Maurizio Migliori, «Il “Sofista” di Platone. Valore e limiti dell’ontologia». Per migliori il “Sofista” mostra che in Platone l’amore del dialogo supera ogni desiderio di affermare tesi particolari.

Enrico Berti – La crematistica va contro la stessa natura dell’uomo, è ingiusta e immorale. Vorrei una città in cui l’uomo realizzi tutte le proprie capacità, non solo fisiche, ma anche spirituali, per mezzo dell’educazione, dell’arte, della scienza, della filosofia.

Enrico Berti – Aristotele non era un teologo.

Enrico Berti – La fortuna di Aristotele nella storia della cultura. Oggi le sue idee sono tornate in auge in tanti modi: come l’irreversibilità del tempo di I. Prigogine, l’unità mente-corpo o il continuo matematico in R. Thom. Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni.

Enrico Berti – Pensare con la propria testa? La filosofia deve essere insegnata a tutti per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa”. Filosofare significa fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro.

Enrico Berti – Il platonismo ha il grande merito di mostrare che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile. Un messaggio che lascia indifferente chi se la spassa, ma non chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.

Enrico Berti – Nuovi studi aristotelici. Volume V – Dialettica – Fisica – Antropologia – Metafisica

Enrico Berti – Il dio di Aristotele.

Giuseppe Berto (1914-1978) – Un padre non può pretendere che un figlio lo ami con la stessa intensità.

Georg W. Bertram – L’arte è prima di tutto un’esperienza che si realizza concretamente nella prassi umana. È una forma specifica di prassi riflessiva, è una prassi di libertà. È politica e si occupa dell’uomo. Anzi ne è responsabile e in quanto tale ha capacità trasformative.

Michèle Bertrand – L’homme ne cesse jamais d’appartenir à l’imaginaire, alors même qu’avec constance il poursuit le dessein de decouvrir (par la connaissance) la structure de l’univers ou sa propre verité singulière. Ce sont deux modes d’être et de penser, et non deux mondes.

Robert C. Berwick e Noam Chomsky – «Perché solo noi. Linguaggio ed evoluzione». L’analisi genetica di caratteri come il linguaggio è attualmente una sfida fondamentale per la genetica evolutiva umana.

Cardinale Bessarione (1403-1472) – I libri vivono, discorrono, parlano con noi, ci insegnano, ci ammaestrano, ci consolano: se non ci fossero si cancellerebbe anche la memoria degli uomini.

Bruno Bettelheim (1903-1990) – Una lettura della fiaba «I tre porcellini». Non dobbiamo ingannare noi stessi: la lotta sarà lunga e difficile, e inciderà su tutte le nostre energie morali e spirituali, se vogliamo non un “nuovo mondo” alla Huxely, ma un’epoca dominata dalla ragione e dall’umanità.

Piero Bevilacqua – Cosa è un bosco? Per avere valore, la bellezza ha bisogno di una domanda, direbbero gli economisti, ma una domanda intrinsecamente antieconomica vale a dire una soggettività umana in grado di contemplare disinteressatamente delle forme visibili che si presentano come belle, uniche e irriproducibili.

Marie-Henri Beyle, Stendhal (1783-1842) – Le azioni ispirate da una vera passione mancano raramente di produrre il loro effetto.

Bhagavad-Gītā – Queste sono qualità proprie degli uomini virtuosi.

Enzo Bianchi – Il passato meditato, riletto, pesato, confrontato aiuta la nostra sapienza a divenire un distillato di eventi, sentimenti, azioni, parole vagliate al crogiolo dell’esistenza, purificate, diventate essenziali!

Peter Bichsel (1935) – Ogni vita produce una storia se si è capaci di raccontarla. Progettiamo dunque una società narrante.

Beniamino Biondi – La disciplina giuridica del settore cinematografico in Italia.

Fernando Birri – «Para que el lugar de la Utopia, que, por definiciòn, està en “Ninguna Parte”, esté en alguna parte».

Fernando Birri (1925-2017) – … pero sueña con los ojos abiertos

Elizabeth Bishop – L’arte di perdere.

Alberto Giovanni Biuso – Recensione del libro “Discorsi sulla morte” di Luca Grecchi.

Alberto Giovanni Biuso – Recensione al libro di Roberto Marchesini «Alterità. L’identità come relazione»

Alberto Giovanni Biuso – Recensione al libro di Renato Curcio «L’EGEMONIA DIGITALE. 
L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro». La colonizzazione dell’immaginario scandisce «un progresso tecnologico inesorabilmente avverso ad ogni anelito di progresso sociale».

Alberto Giovanni Biuso – Il «maestro vuoto» è la vittoria della separazione tra gli umani, della negazione della natura sociale di Homo sapiens, è il trionfo della distanza come vero e proprio paradigma antropologico, psicologico, etico.

Alberto Giovanni Biuso – Quei labirinti temporali che redimono il dolore. Recensione del libro «Fenomenologia e patografia del ricordo» di Pio Colonnello.

William Blake (1757-1827) – Vedere un Mondo in un granello di sabbia, e un Cielo in un fiore selvatico, tenere l’Infinito nel cavo della mano e l’Eternità in un’ora.

Maurice Blanchot – La lettura fa del libro quel che il mare e il vento fanno con le opere forgiate dagli uomini. La lettura conferisce al libro l’esistenza brusca che la statua “sembra” dovere solo allo scalpello. Il libro ha bisogno del lettore per farsi statua.

Maurice Blanchot (1907-2003) – Una giusta risposta è sempre radicata nella domanda. Vive della domanda. La risposta autentica è sempre vita della domanda.

Maurice Blanchot (1907-2003) – La cultura lavora per il tutto. Il suo orizzonte è l’insieme. L’ideale della cultura è di riuscire a comporre un quadro d’insieme, delle ricostruzioni panoramiche che permettano di situare in una stessa prospettiva Schoenberg, Einstein, Picasso, Joyce – e possibilmente anche Marx.

Maurice Blanchot (1907-2003) – Tra il mondo liberal-capitalista, il nostro mondo, e il presente dell’esigenza comunista (presente senza presenza) non c’è che il tramite di un “dis-astro”, di un cambiamento d’astro. C’è domanda, eppure nessun dubbio. C’è domanda, ma nessun desiderio di risposta.

Karen Blixen (1885-1962) – Perché «Petite Plaisance»? Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? La prima dote è l’immaginazione.

Ernst Bloch (1885 – 1977) – Chi è scialbo si colora come se ardesse. La via esteriore è la più facile. Apparire più che essere: questo il suo motto.

Ernst Bloch (1885-1977) – Tutto ciò che vive ha un orizzonte. Dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta, e sono i morti, cioè i naturalisti e gli empiristi, che qui seppelliscono i loro morti.

Ernst Bloch (1885-1977) – È la filosofia la scienza in cui è viva, ha da esser viva, la consapevolezza del tutto. La filosofia ha a cuore soprattutto l’unità del sapere. La filosofia sta sul fronte.

Ernst Bloch (1885-1977) – L’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà. L’utopia non è fuga nell’irreale, è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione.

Ernst Bloch (1885 – 1977) – «Vita brevis, ars longa», i regni passano, un buon verso resta eterno; in queste convinzioni legate all’arte ha posto solo l’opera plasmata. Nasce un’«ars longa», adornata dal nome della loro «vita brevis».

Ernst Bloch (1885-1977) – I filosofi dei nostri giorni hanno familiarizzato con il nihil. L’immagine di desiderio del nulla l’ha formulata Heidegger. il nulla di Jaspers e di Heidegger è tinto e ornato di penne di pavone, proprio in prospettiva del suo incanto di morte.

Ernst Bloch (1885-1977) – L’utopia è una forza di anticipazione, l’elemento più dinamico e attivo della coscienza anticipante, che costituisce l’anima profonda della speranza per creare spazio alla vita ed essenzializzarsi.

Ernst Bloch (1885–1977) – La speranza non è rinunciataria. È superiore all’aver paura, non è né passiva come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccata nel nulla. Si espande, allarga gli uomini invece di restringerli.

Ernst Bloch (1885-1977) – La filosofia avrà coscienza del domani, prenderà partito per il futuro, solo se saprà della speranza, in caso diverso non saprà più nulla. L’«essere-per-la-morte» vuol conglobare nel proprio fiasco ogni interesse diverso e per indebolire la nuova vita, fa sembrare fondamentale, ontologica, la propria agonia.

Marc Bloch (1886-1944) – L’incomprensione del presente cresce fatalmente dall’ignoranza del passato. L’errore non si propaga, non si amplia, non vive che ad una condizione: trovare nella società in cui si diffonde un terreno di coltura favorevole. Una notizia falsa nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita.

Norberto Bobbio (1909-2004) – Non dissipare il poco tempo che ti rimane. Ripercorri il tuo cammino. Ti saranno di soccorso i ricordi. Nella rimembranza ritrovi te stesso, la tua identità, nonostante i molti anni trascorsi, le mille vicende vissute.

Giovanni Boccaccio (1313-1375) – «Ah, ch’ io possa spogliarmi d’ogni volgarità … Vivo povero per me stesso. E sono più contento con alcuni dei miei libercoli, di quanto non lo siano i re con le loro grandi corone».

Severino Boezio (475 d.C.-525) – Chi può dettar leggi agli amanti? | Suprema a sé l’amore è legge.

Danila Boggiano – Libro prezioso questo di Margherita Guidacci sulle Sibille che qui, nella poesia, non pre-dicono, ma ricordano sino alla dimensione confessionale dell’ultima parte in prosa in cui Margherita ci prende per mano …

Antonio Bonacchi – Che lavoro fai? …IL VIOLINISTA! Sì, ma di lavoro? Arte, mestiere, misteri del suonare il violino.

Brice Bonfanti-Ludovic Burel – «Avatars de Rousseau».

Brice Bonfanti – «Canti d’utopia». L’ominide reale non è vero, e l’umano vero, astratto. Ma che l’astratto penetri il reale, la forma la materia, il generico l’empirico! Finito l’ominide, l’umano è infinito.

Brice Bonfanti – Lo scrittore Arno Bertina in dialogo con il poeta Brice Bonfanti. una triade di epopee popolari, una triade di civiltà, una triade di popoli […] una triade d’amore.

Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) – La stupidità è un nemico del bene assai più pericoloso della malvagità.

Dietrich Bonhoeffer (1905-1945) – La qualità è il nemico più potente di ogni massificazione. La liberazione interiore dell’uomo per una vita responsabile è l’unico reale superamento della stupidità. La stupidità può essere superata soltanto con un atto di liberazione.

Luis Bonilla-Molina – È in atto una gigantesca controriforma educativa sponsorizzata dall’Ocse e dalla Banca mondiale.

Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA.

Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?

Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.

Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.

Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».

Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.

Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’unico luogo in cui è possibile custodire la memoria del passato è la progettazione del futuro, così come l’unico modo per progettare un futuro ricco di essere è quello di costruirne il progetto con le memorie del passato.

Massimo Bontempelli (1946-2011) – C’è un filo teoretico nichilistico che unisce Heidegger, Galimberti e Severino: l’oscuramento del capitalismo nello scenario della tecnica. Per Galimberti non c’è varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente ed offre solo una filosofia dell’impotenza e dell’adattamento.

Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’uomo, proprio perché elevato al di sopra della vita meramente biologica da una divina capacità di conoscenza, deve mantenere tale elevazione con il distacco dall’immediatezza vitale che è costituito dalla coscienza della certezza della morte. Sapere il bene e il male e sapere la morte sono due lati indisgiungibili di una stessa realtà, che non è né animale né divina, ma specificamente umana.

Massimo Bontempelli – Gesù di Nazareth, uomo nella storia, Dio nel pensiero, ci ha dato la simultanea figurazione metastorica della forza creatrice dell’amore, del valore universale dell’individualità, della priorità assiologica della giustizia, del principio della speranza, che sono, filosoficamente parlando, le dimensioni di esistenza della libertà, e le articolazioni concettuali della verità logico-ontologica.

Massimo Bontempelli (1946-2011) – «Filosofia e realtà». Ripensare la metafisica come percorso per ritornare alla realtà, “sinolo dinamico di esistenza e sostanza”: la sostanza non vive fuori della storia, ma si svela nel visibile empirico dando ad esso senso e concretezza.

Jorge Luis Borges (1899-1966) – Il libro è un asse di innumerevoli relazioni.

Jorge Luis Borges (1899-1966) – Ogni persona che passa nella nostra vita è unica.

Jorge Luis Borges (1899-1986) – Non c’è libro meno bisognoso di prologo di questo, dalla genesi indolente, formato da una sedimentazione di prologhi …

Eugenio Borgna – Gli orizzonti di senso della speranza sono infiniti. La peranza è come un ponte che ci fa uscire dalla solitudine, e ci mette in una relazione senza fine con gli altri. La speranza è anche dovere, ricerca infinita di senso.

Eugenio Borgna – La saggezza, la prudenza e la sapienza sono modi di vivere che sembrano ormai superati, e anzi temuti, perché estranei ai modelli oggi dominanti: la fretta, l’accelerazione, la tendenza a mettere fra parentesi i valori, il sacrificio, l’interiorità, la gentilezza, la generosità …

Silvana Borutti – Una comunità che si costituisce sull’assunzione della responsabilità dell’altro deve connettere l’ethos non alla polis costituita, ma piuttosto alla polis in costituzione, deve legiferare perché siano tutelate le condizioni della comunità che viene.

Barbara Botter – Aristotele non voleva essere un teologo e la teologia era da lui ritenuta una narrazione poetica sui “viventi immortali e felici”.

Michelangelo Bovero – L’ideologia (neo)liberista concepisce il mercato come una sorta di istituzione suprema e sovrana, e promuove a valore assoluto un’idea di libertà che tende a confondersi con la semplice assenza di regole, ossia con quella che Kant chiamava «libertà selvaggia».

Houria Bouteldja – Giancarlo Paciello, legge il libro «I bianchi, gli ebrei e noi». L’amore rivoluzionario di Houria Bouteldja.

Svetlana Boym (1959-2015) – È in atto una epidemia globale di nostalgia. Il XX secolo iniziò con un’utopia – gettata via negli anni Sessanta – e finì con una nostalgia, rifiuto della responsabilità individuale e collettiva per il futuro.

Ray Bradbury (1920-2012) – Sostanza (identificazione della vita), tempo per pensare (tempo di pensare a questa identificazione, di assimilare la vita), diritto di agire in base a ciò che apprendiamo. Rileggiamo “Fahrenheit 451”.

Vitaliano Brancati (1907-1954) – Gli sciocchi mancano della capacità di discernimento. Lo sciocco non distingue, non discerne. Il potere di cui è orgoglioso è quello di trovare simili le cose più diverse.

Georges Braque (1882-1963) – La verità esiste, non s’inventa che la menzogna. Bisogna divenire il tempo… L’eterno è la negazione della vita, della libertà.

Anna Bravo (1938-2019) – Non dobbiamo smembrare e sminuzzare l’interezza dell’esperienza partigiana. Le donne erano contemporaneamente partigiane in armi o gappiste e membri di gruppi di difesa delle donne. Domina l’immagine di nonviolenza come assenza di conflitto, ma non è così, poiché la nonviolenza riconosce che vi è in atto un conflitto terribile.

Fernanda Elisa Bravo Herrera – Tracce e percorsi di un’utopia: L’emigrazione italiana in Argentina. Il libro di Bravo Herrera, ovvero come si riempie un vuoto culturale.

Fernanda Elisa Bravo Herrera – Parodias y reescrituras de tradiciones literarias y culturales en Leopoldo Marechal.

Salvatore Bravo – Ricerca ed esodo in Massimo Bontempelli. L’essere umano ha bisogno di senso, verità e bene. Questo il messaggio che ci lascia per il nostro cammino nella verità e verso la verità.

Salvatore Bravo – L’integralismo aziendale ha il volto del diversity management. Vera Libertà è emancipazione dall’utile iscritto nel recinto dell’aziendalizzazione, è autonomia nella comunità liberata dai postulati del plusvalore.

Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?

Salvatore Antonio Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.

Salvatore Antonio Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.

Salvatore Bravo – Per il fiorire del nostro essere umani è necessario relazionarsi con il dono delle parole. Senza parole di senso si è condannati alla condizione di un’impossibile animalizzazione

Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.

Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.

Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.

Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.

Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.

Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.

Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.

Salvatore Bravo – Sei ancora capace di scandalizzarti come K. Marx ? La «pietra d’inciampo» («scandalum») è anche qualcosa che rende presente il tuo cammino. Pensa allora allo scandalo del denaro e del possesso,pensa alla tua e altrui libertà interiore .

Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.

Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.

Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.

Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.

Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.

Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».

Salvatore Antonio Bravo – Il mercato e l’asservimento della Scuola: il mito dell’orientamento consapevole. Ciò che occorre invece è tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali.

Salvatore Antonio Bravo – Marx poeta nel suo anelito all’universale: «Non rimaniamo immobili Senza volere né fare niente. Non subiamo passivamente il giogo ignominioso. Il desiderio, la passione, l’azione sono parte di noi».

Salvatore Antonio Bravo – L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria.

Salvatore A. Bravo – Il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro.

Salvatore Bravo – Estetiche del turbocapitalismo. La paideia negativa e nichilistica dell’immagine. Contrapporre alla notte delle immagini la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine.

Salvatore Bravo – Il flâneur, passeggiatore annoiato, è l’uomo massa della società dell’abbondanza che vive nella distanza dallo sguardo altrui. Essere astratto e distratto vive l’esperienza senza simbolizzarla in prassi, al servizio del sistema mediante le protesi tecnologiche, che esigono automatici comportamenti.

Salvatore Bravo – L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone. Il radicamento nell’attimo fa del soggetto un ente che si piega alle circostanze.

Salvatore Bravo – Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto, con la sua promessa dell’Eden restituisce soltanto un corpo esausto e violento, come nel mito della caverna di Platone. Si immilla la frustrazione. Il capitalismo oggi esige che l’uomo lotti contro se stesso oltre che contro gli altri.

Salvatore Bravo – Il disorientamento gestaltico e le parole valigia. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.

Salvatore Bravo – Il modello Marchionne trasforma gli uomini in soldati dell’efficienza, inibisce ogni discussione sul senso e sulla dignità del lavoro, il cui scopo non è la sopravvivenza biologica, ma l’espressione di sé, della propria identità, la conoscenza di se stessi, come afferma la Costituzione. Il lavoratore è persona, non un servo dell’azienda.

Salvatore Bravo – L’umanesimo del lavoro in Marx. Il lavoro dell’«uomo macchina» distrugge il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi perché il lavoro coatto brucia la creatività e inibisce la possibilità di costruire e produrre secondo le leggi della bellezza.

Salvatore Bravo – Tecnica e cultura classica. La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Cultura classica come formazione alla libertà consapevole.

Salvatore Bravo – La teoretica di E. Severino resta in una condizione di indeterminatezza che rende la sua metafisica avulsa da ogni dinamico radicamento storico. Non resta che filtrare dal pensatore de «La Struttura originaria» gli elementi di inquietudine concettuale che possono esserci di ausilio per decodificare il presente.

Salvatore Bravo – Lo sradicamento è vita fuori dalla storia, dalla coscienza, dalla comunità in cui la vita fiorisce. Lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, è associare il bene solo alla quantità. Ma se il bene è la quantità, il male è per tutti.

Salvatore Bravo – ll presente non è tutto, lo diviene in assenza di domande. La domanda è già utopia concreta. Per pensare l’utopia concreta l’immaginazione è imprescindibile, essa è operazione critica, domanda radicale e filosofica, è una diversa rappresentazione del presente: mentre configura il futuro, opera nel presente investendolo di nuova vita. Un mondo senza pensiero ed immaginazione empatica è solo distopia.

Salvatore Bravo – L’epoca dello straniamento. Se ignoriamo che cosa mai noi siamo come potremo conoscere l’arte per render migliori noi stessi? Dalla peccaminosità assoluta alla colpevole innocenza. La vera trasgressione è il pensiero critico contro l’attività perenne senza consapevolezza.

Salvatore A. Bravo – Il bisogno di filosofia è un bisogno autentico, in quanto filosofare è proprio dell’essere umano. Nulla è facile, ma tutto diventa più difficile in un mondo senza teoretica.

Salvatore A. Bravo – Vogliamo ricordare Costanzo Preve, l’uomo e il filosofo che, con la sua resistenza al capitalismo speculativo, ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dal nietzschiano “ultimo uomo”. È sceso nelle profondità sistemiche della nostra epoca e scandagliato filosoficamente la genesi dell’odierno economicismo nichilistico.

Salvatore A. Bravo – Le metafore nella filosofia. La metafora è bussola concettuale per guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente.

Salvatore A. Bravo – Plebe e popolo: rivoluzione passiva e tecnologie. Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata. Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio. Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato. Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere.

Salvatore A. Bravo – La prudenza è virtù che coniuga qualità e misura dando un significato alla quantità, determinandola. La società dell’imprudenza si concretizza nella forma del nichilismo economicistico.

Salvatore A. Bravo – Senza progettualità, in un mondo senza virtù e nell’epoca della normalità del male, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete.

Salvatore A. Bravo – Ma che genere di uomini è questo? Quod genus hoc hominum? Quale barbara patria permette un’usanza simile? Quaeve hunc tam barbara morem permittit patria? Ci negano il rifugio dell’arena; muovono guerra impedendoci di scendere a terra e di fermarci sulla spiaggia. L’impegno civile è resistenza antropologica.

Salvatore A. Bravo – I barbari e l’Occidente. La comunità è il luogo del dono. La barbarie è l’incapacità di pensare la possibilità del dono. La bellezza germina nel pensiero che medita sull’esperienza. L’edonismo struttura un mondo senza intelligenza.

Salvatore A. Bravo – Massimo Bontempelli interprete di Karl Marx. Marx era prima di tutto un rivoluzionario: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto.

Salvatore A. Bravo – La laicità all’epoca dell’integralismo laicista. Si può resistere alla mutazione antropologica messa in atto dal capitale assoluto in nome dell’aziendalizzazione della vita, della parola, delle relazioni.

Salvatore A. Bravo – La pedagogia del coding. Pensare come una macchina. L’efficienza è l’obiettivo finale. L’obbiettivo e disellenizzare. Il coding è costruzionismo attivistico. Al coding si può opporre la cultura classica.

Salvatore A. Bravo – La superstizione scientista. La verità è qualche cosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica.

Salvatore A. Bravo – L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve.

Salvatore A. Bravo – Storia, filosofia ed oblio in Massimo Bontempelli. Sulla necessità di coniugare lo studio della storia e della filosofia di fronte alla pianificazione dell’oblio alienante e nichilistico.

Salvatore Bravo – Superare L’inquietudine e l’indifferenza nell’estasi del camminare eretti, con l’entusiamo che scaturisce nell’anima da un punto originale che genera valore e determina valore, continuando ad ardere anche dopo tutte le catastrofi empiriche. È necessario, oggi, difendere il diritto alle passioni.

Salvatore A. Bravo – Salviamo le Cattedrali dalle fiamme del plusvalore.

Salvatore Bravo – Siamo nella rete della globalizzazione della chiacchiera, ma abbiamo l’illusione di essere liberi. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto.

Salvatore Bravo – Populismo pedagogico e scuola senza concetto. La scuola facile non libera, non permette al pensiero di configurarsi, ma lo destruttura in chiacchiera. La scuola difficile e dell’impegno educa alla domanda, forma alla temporalità distesa e densa di contenuti.

Salvatore Bravo – La filosofia è per sua natura anticrematistica e comunitaria. è resistenza all’inverno dello spirito che avanza. L’uscita dallo “stato capitale” necessita della radicalità della filosofia, senza di essa non vi è prassi, non vi è verità, non vi è domanda, ma solo l’antiumanesimo.

Salvatore Bravo – I nuovi «dannati della terra» sono in grado di sfidare la paura. L’essere umano è pensiero, coscienza. per quanto forte sia il condizionamento, nessun potere potrà occupare lo spazio interiore dell’uomo, perché l’infinito è nell’essere umano.

Salvatore Bravo – Il 23 Novembre del 2013 veniva a mancare Costanzo Preve. Ci lascia una importante eredità morale e filosofica: cercare verità, complessità, libertà dalle conventicole. La filosofia non ha il compito di rassicurare, ma di porre domande, rinunciando alle facili risposte.

Salvatore Bravo – Intellettuali, parola e potere.

Salvatore Bravo – La filosofia umanizza, strappa l’essere dall’abbandono in cui vive, per consegnarlo a se stesso, al suo progettare nella storia. Scindere la verità dalla prassi e dalla responsabilità dispone l’essere umano alla passività. Ma così la filosofia diviene gioco ed intrattenimento per mediocrità acculturate.

Salvatore Bravo – La voce del padrone sulla scuola della sola “quantità”. In campo la «Fondazione Agnelli» ed «Eudoscopio».

Salvatore Bravo – Filosofia e ordine del discorso. La «passione durevole» di György Lukács per la filosofia è finalizzata a trascendere i condizionamenti del capitalismo che vuole anestetizzare la corrente calda del pensiero critico perché nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi dell’emancipazione.

Salvatore Bravo – L’irrazionale-razionale del capitalismo si palesa con la legge della “nuova civiltà”: l’arbitrarismo.

Salvatore Bravo – L’automa è l’ideale del nuovo integralismo economicista: sussumere il corpo, l’anima e le relazioni. Ma dove regna la quantificazione la vita si consuma e si logora nell’utile. Vivere è aprirsi al mondo con le nostre domande di senso.

Salvatore Bravo – Il vessillo dell’Occidente consumistico è la libertà astratta dell’homo consumens. La modernità trionfante soddisfa l’istinto dell’animalità troglodita.

Salvatore Bravo – Il mito del progresso e Pasolini. Il simulacro (capitalismo) non nasconde la verità, ma non ha verità e teme di svelare il nulla che è.

Salvatore Bravo – Pensare la didattica alternativa e non subirla. Se un docente è stato capace di trasmettere contenuti, metodi, motivazioni, se ha testimoniato con il suo impegno silenzioso la consapevolezza del suo ruolo non vi è distanza che possa cancellare ciò che si è radicato nella profondità relazionale di ciascuno.

Salvatore Bravo – Il disprezzo come modalità di governo. Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza «covid 19». il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Salvatore Bravo – Tutti promossi, perché la cultura e l’impegno non sono un valore, ma un limite al mercato. La didattica smart non insegna a pensare, ma solo a dare il minimo della preparazione che serve al mercato.

Salvatore Bravo – Il trionfo della malinconia nella società dello spettacolo nega la parola che è festa della vita. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.

Salvatore Bravo – Tra guerra e paura. La lotta all’epidemia è descritta nella forma di una guerra capillare e pervasiva che irrora la comunità, fino a trasformarla in un luogo chiuso in cui regna la paura dell’altro. Nella guerra la prima vittima è la verità, scriveva Eschilo.

Salvatore Bravo – Le osservazioni pedagogiche di Kant sono oggi un monito. Il fine più alto dell’educazione è la responsabilità verso il futuro.

Salvatore Bravo – L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli. Filosofia Storia Pedagogia

Salvatore Bravo – Scrive Nietzsche che la mancanza di senso storico è il difetto ereditario dei filosofi. Perciò, da ora in poi, è necessario il filosofare storico, e, con esso, la virtù della modestia. Coniugare filosofia e storia è una delle modalità per trascendere le vuote verità.

Salvatore Bravo – Capitale e felicità sono un ossimoro. Il buon luogo, dove vivere una vita all’altezza della propria umanità, è la necessaria utopia che progetta l’uscita dalla caverna, l’esodo dalla schiavitù del dolore senza senso, esigendo in premessa una una rivoluzione culturale ed educativa di lunga durata.

Salvatore Bravo – Modelli per la prassi. Luca Grecchi è un pensatore originale. La sua attività di ricerca testimonia che, anche in tempi di miseria dell’abbondanza, è possibile il riorientamento.

Salvatore Bravo – La scuola adattiva “amica” del mercato e “straniera” alla comunità. Cultura significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento  della coscienza umana che dura tutta la vita.

Salvatore Bravo – Riscoprire la concentrazione, il «theoretikós bíos» dei greci, la theoría. Così l’uomo si sottrae alla pervasività dell’eccesso di stimoli, ritorna a vivere la pienezza del tempo del pensiero, ad immergersi nel mondo per agire in esso secondo un progetto.

Salvatore Bravo – La ricerca di Luca Grecchi non solo rende palese l’assenza della metafisica nella filosofia di oggi, ma tenta di rielaborarne i fondamenti, non rinunciando alla progettualità onto-assiologica e alla verità e tracciando la via per una metafisica umanistica.

Salvatore Bravo – Senza adeguata formazione assiologica e culturale, senza «urto qualitativo», la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine. La libertà è nel desiderio della qualità del vivere.

Salvatore Bravo – Sul viso di Giulio Reggeni si è riversato tutto il male del mondo. La giustizia per Reggeni e per le vittime delle armi, è possibile solo se si lotta per un’economia della pace, per un’economia al servizio della persona.

Salvatore Bravo – La scuola virtuale del ministro Azzolina vuole studenti che ricevano pochi contenuti, ma edotti nell’uso non consapevole del digitale, dispersi in un presente senza passato.

Salvatore Bravo – La moltiplicazione dei bisogni indotti comporta l’inibizione dell’autentico desiderio che così diviene immediatezza, sensazione da soddisfare in tempi brevi, alienazione da se stessi e dalla comunità, luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà.

Salvatore Bravo – La engelsiana dialettica della storia è non solo antiumanistica, ma favorisce forme di sudditanza rafforzando comportamenti fatalistici e minando l’essenza stessa del comunismo, la quale è emancipazione comunitaria, tensione positiva tra libertà del singolo e libertà della comunità.

Salvatore Bravo – La rete è simbolo effettuale di una pervasiva madre matrigna anaffettiva che ingloba l’umanità, la omogeneizza, privandola di ogni determinazione sino a renderla un immenso indistinto nel quale le identità si assottigliano fino ad evaporare, inibibendo vera crescita e umanistica formazione.

Salvatore Bravo – Una lettura critica del libro di Antonio Damasio, «Alla ricerca di Spinoza, Emozioni sentimenti e cervello».

Salvatore Bravo – Con questo libro sulla «Dolcezza» Luca Grecchi ci dona la possibilità di un riorientamento gestaltico con cui guardare ex novo il mondo nella sua verità. Non basta essere gentili. Senza gratuità e dolcezza non vi è comunità.

Salvatore Bravo – La «SuperLega» Calcio impone i «nuovi gladiatori» come modello mercantile del capitalismo assoluto. Liberare il gioco dalla competizione distruttiva è un imperativo etico e sociale.

Salvatore Bravo – Liberarsi del dominio e non delle identità di genere. La libertà non è la pratica del nulla, ma la tensione tra le identità, il cui fine è conoscersi per donarsi.

Bertolt Brecht (1898-1956) – Gli amanti costruiscano il loro amore conferendogli alcunché di storico, come se contassero su una storiografia. L’attimo non vada perduto

Bertolt Brecht (1898-1956) – Il commercio non è mai pacifico. Parole come «commercio pacifico» nella storia non hanno un posto. I confini che le merci non possono superare, vengono superati dagli eserciti.

Brecht Bertolt – Cinque difficoltà per chi scrive la verità.

Bertolt Brecht (1898-1956) – Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.

Bertolt Brecht (1898-1956) – Il singolo lavoratore ha tutta la mia simpatia. Ma quando pretende di intervenire sul meccanismo dei profitti, io dico allora: fermo. Tu sei un lavoratore, ossia lavori, ma quando non lavori più e scioperi, allora non sei più un lavoratore, ma un soggetto pericoloso, ed io intervengo.

Selene Iris Siddhartha Brumana – La polivocità della nozione di ‘sistema’ . Modi della sua declinazione filosofica nel pensiero antico e contemporaneo. Energeia e dynamis in Aristotele. Prospettive contemporanee del dibattito.

Mario Brunello – «Silenzio», Il Mulino, 2014. «Più penso al silenzio e più la musica mi parla».

Giordano Bruno (1548-1600) – Malamente potranno approvar questa filosofia color che, mercenari ingegni, poco e niente solleciti circa la verità, si contentano saper secondo che comunmente è stimato il sapere; amici poco di vera sapienza, bramosi di fama e riputazion di quella; vaghi d’apparire, poco curiosi d’essere.

Piero Brunori, Il “nuovo che avanza” nei principi generali del diritto amministrativo

Martin Buber (1878-1965) – L’immagine utopica è un’immagine di ciò che «deve essere», di ciò che colui che immagina desidera che sia. Questa immagine prima e originaria è un desiderio.

Georg Büchner (1813-1837) – La drammaturgia critica di un rivoluzionario: La morte di Danton – Leonce e Lena – Woyzeck.

Michail Afanas’evič Bulgakov (1891-1940) – Ogni potere é una violenza contro gli uomini e verrà il tempo in cui non ci saranno più né il potere di Cesare né altri poteri. L’uomo si trasferirà nel regno della verità e della giustizia dove non sarà necessario nessun potere.

Andrea Bulgarelli, Alessandro Monchietto – SINISTRA E IDEOLOGIA DEL PROGRESSO.

Luigi Tedeschi intervista Andrea Bulgarelli, coautore con Costanzo Preve del libro “Collisioni – Dialogo su scienza, religione e filosofia”.

Andrea Bulgarelli – «Costanzo Preve marxiano», intervista a cura di Luigi Tedeschi sul libro “Invito allo Straniamento” II.

Luis Buñuel (1900-1983) – Bisogna incominciare a perdere la memoria, anche solo a pezzi e bocconi, per rendersi conto che è proprio questa memoria a fare la nostra vita. Una vita senza memoria non sarebbe una vita, così come un’intelligenza senza possibilità di esprimersi non sarebbe un’intelligenza. La nostra memoria è la nostra coerenza, la ragione, l’azione, il sentimento. Senza di lei, siamo niente.

Edward Burne-Jones (1833-1898) – La passione della lettura nella pittura.

Antonino Buttitta (1933-2017) – L’unica via per uscire dalle secche mortali del formalismo, è quella di considerare unitamente ai problemi del significato dei fenomeni studiati anche quelli del loro senso.

Byung-Chul Han – La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo. Non è necessaria alcuna riflessione o pensiero. Essa resta coscientemente infantile, banale, svuotata di qualsiasi profondità. Nessuna interiorità si nasconde dietro la sua superficie levigata. Giova dismettere vesti levigate accogliendo l’invito di Rilke: «Tu devi cambiare la tua vita».

Byung-Chul Han – L’anestesia permanente nella società palliativa derealizza il mondo. Il ‘like’ conduce allo smantellamento della realtà. Solo la vita che vive, che è capace di provare dolore riesce a pensare. All’intelligenza artificiale manca proprio questa vita del pensiero, che non è calcolo né artificiale intelligenza.

Autori, e loro scritti

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Antonio Machado (1875-1939) – Imparate da voi stessi quanto più limitato di quel che non si pensi è l’àmbito del necessario. Io vi insegno l’amore per la filosofia degli antichi greci e il rispetto per la sapienza orientale.

Niccolò Machiavelli (1469-1527) – Insegnare ad altri quel bene che per la malignità dei tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, acciocché, essendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo.

Mauro Magini – Il mio amico Platone. Riflessioni su società, religione, vita.

Paolo Maddalena, L’alienazione dei beni demaniali. È in vendita l’ambiente?

Romano Màdera – Entro le coordinate del capitalismo globale la tendenza a consumare si accoppia con quella a spettacolarizzare ogni aspetto della vita.

Sergio Maifredi – Alla ricerca della saggezza perduta. Platone, ovvero la bellezza del sapere.

Angelo Magliocco – Il dualismo bìos/zoè e lo stato d’eccezione in Giorgio Agamben.

Vladimir V. Majakovskij (1893-1930) – L’amore è la vita, è la cosa principale. Dall’amore si dispiegano i versi, e le azioni, e tutto il resto. L’amore è il cuore di tutte le cose. Se il cuore interrompe il suo lavoro, anche tutto il resto si atrofizza, diventa superfluo, inutile.

Curzio Malaparte (1898-1957) – L’uomo nella fortuna, l’uomo seduto sul trono del suo orgoglio, della sua potenza, della sua felicità; l’uomo vestito dei suoi orpelli e della sua insolenza di vincitore è uno spettacolo ripugnante.

Gustav Mahler (1860-1911) – Lo spirito può affermarsi solo attraverso il mezzo di una forma chiara. La tradizione è la custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere.

Fausto Manara – La dolcezza è uno stato dell’anima che non ha nulla a che fare con l’essere subalterni o sottomessi, ma è la strada per riscoprire un’umanità ormai delirante, per aprirci agli altri promuovendo i valori che la caratterizzano: accettazione, tolleranza, comprensione, empatia, ascolto e disponibilità.

Mario Mancini – La cultura cortese ci consegna innumerevoli “scene di lettura”. Il libro assume anche una funzione di riferimento, di orientamento per i comportamenti. L’illustrazione forse più impressionante la dobbiamo a Boccaccio, nell’«Elegia di madonna Fiammetta».

Mario Mancini – Lanza è stato un grande grecista, ma in questo libro scavalca ogni barriera accademica avventurandosi nel folklore, nel mondo delle fiabe e nei magnifici territori della letteratura universale. Un filo rosso, sottile ma tenace, è sotteso a tutte le sue analisi: lo statuto del soggetto e i confini della ragione.

Vito Mancuso – Tutti vivono, solo alcuni esistono. Vivono ma non esistono, perché in-sistono, perché cioè si collocano dentro, dentro la catena alimentare o di altro tipo, della vita. Alcuni, invece, e-sistono, hanno il coraggio di collocarsi fuori, di esistere nel senso radicale del termine.

Nelson R. Mandela (1918-2013) – Un uomo che sceglie di privare della libertà un altro uomo, è in realtà prigioniero, a sua volta, dell’odio, dei pregiudizi e della limitatezza del suo spirito.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1891-1938) – Tristia. «Tutto fu in altri tempi, tutto sarà di nuovo; solo ci è dolce l’attimo del riconoscimento».

Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1891-1938) – La libreria della prima infanzia ti accompagna per tutta la vita. Ma chi sono i nemici della parola?

Alberto Manguel – La mia biblioteca è una sorta di autobiografia. Nel proliferare degli scaffali vi è un libro per ogni istante della mia vita. Segnano i miei anni come le pietre bianche che indicano la strada di un pellegrino.

Thomas Mann – La conoscenza umana e l’approfondimento della vita umana hanno un carattere di maggiore maturità che non la speculazione sulla Via Lattea. Il vero studio dell’umanità è l’uomo.

Thomas Mann (1875 – 1955) – L’arte è come se ricominciasse ogni volta da capo. Essa non minaccia la vita poiché è creata per dare alla vita la vita dello spirito. È alleata del bene, e nel suo fondo vi è la bontà. Nata dalla solitudine, il suo effetto è il ricongiungimento.

Thomas Mann (1875-1955) – L’uomo era dunque il prodotto della curiosità di Dio di conoscere se stesso. Ma anche la Somma Saggezza poteva non bastare del tutto a prevenire errori.

Thomas Mann (1875-1955) – Sì, oggi vengon su gli istituti industriali e gli istituti tecnici e le scuole di commercio; il ginnasio e l’educazione classica sono improvvisamente ‘bétises’ e tutti pensano a niente altro se non a miniere … a industrie … e a far soldi … bravi! Ma anche un poco stupido, no?

Karl Mannheim (1893-1947) – L’utopia impedisce alla realtà esistente di tramutarsi in assoluta. Noi consideriamo come utopie tutte le idee trascendenti una situazione data, le quali hanno comunque un effetto nella trasformazione dell’ordine storico-sociale esistente. Una mentalità si dice utopica quando è in contraddizione con la realtà presente.

Aldo Manuzio (1449-1515) – Abbiamo deciso di dedicare tutta la vita all’utile dell’umanità. Questo vogliamo giorno dopo giorno sempre di più, finché vivremo.

Giacomo Manzù (1908-1991) – Non temete la natura.

Mariangela Maraviglia – David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza (1916-1992). «A me interessa la scelta di stare dalla parte dell’“uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico”, capitato in una società di ladri, caricato di ferite, spogliato e lasciato mezzo morto ai margini della strada».

Franz Marc (1880-1916) – Noi viviamo nell’apparenza anziché vedere l’essenza delle cose. La maschera delle cose ci acceca a tal punto che non possiamo scoprire la verità.

Marcel Marceau (1923-2007) – Un gesto non basta, è necessario che un pensiero lo rivesta; e inoltre che il disegno che dà forma a questo pensiero sia rigoroso. Il gesto che non sia sostenuto liricamente è solo un disegno nello spazio.

Jesús Marchamalo – Toccare i libri. Una passeggiata romantica e sensuale tra le pagine in tempi come i nostri di vertigine digitale.

Daniela Marcheschi – Leopardi e l’umorismo, 2010.

Giusi Marchetta – Lettori si cresce.

Fabrizio Marchi – Contromano. Critica dell’ideologia politicamente corretta. Il capitalismo in quanto nichilista è flessibile, si adatta ad ogni contesto pur di sopravvivere.

Ignacio Marcio Cid – La psicoterapia filosófica de Epicuro

Ignacio Marcio Cid – Note e riflessioni sul libro di Enrico Berti, «Scritti su Heidegger»

Franco Marcoaldi – Torna alla luce il libro «Lo stolto» di Diego Lanza, grande classicista mosso da inesausta curiosità conoscitiva che varca ogni orto disciplinare. Ed ecco Bertoldo, Arlecchino, Pinocchio e il brutto anatroccolo, ma anche, e soprattutto, Socrate. In testa e in coda al libro due testi esemplari di Massimo Stella e Gherardo Ugolini.

Marco Aurelio (121-180) – È necessario che l’uomo conosca ciò che compie, perché è dell’uomo civile il capire che egli opera per il bene comune. Il vitigno che ha prodotto un grappolo non domanda altro dopo aver dato finalmente il suo frutto.

Marco Aurelio (121-180) – Com’è breve il tempo dalla nascita alla dissoluzione. Che cosa dunque può accompagnarci nel vivere? Una sola e unica realtà: la filosofia.

Andrea Marcolongo – I Greci si esprimevano in un modo che considerava l’effetto delle azioni sui parlanti. Loro, liberi, si chiedevano sempre “come”. Noi, prigionieri, ci chiediamo sempre “quando”.

Herbert Marcuse (1898-1979) – L’uomo ad una dimensione riconosce se stesso nelle proprie merci; l’apparato produttivo assume il ruolo di un’agente morale.

Herbert Marcuse (1898-1979) – È possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi.

Herbert Marcuse (1898-1979) – Se vogliamo costruire una casa di abitazione nel posto in cui sorge una prigione, dobbiamo prima demolire la prigione, altrimenti non possiamo neppure iniziare i lavori.

Herbert Marcuse (1898-1979) – Il presupposto fondamentale della rivoluzione, la necessità di un cambiamento radicale, trae origine dalla soggettività degli individui stessi, dalla loro intelligenza e dalle loro passioni, dai loro sensi e obiettivi. La soggettività liberatrice si costituisce nella storia interiore degli individui. Solo come straniamento l’arte svolge una funzione cognitiva. Essa comunica verità non comunicabili in nessun altro linguaggio: essa contraddice.

Herbert Marcuse (1898-1979) – La spontaneità soggettiva dell’uomo moderno viene trasferita sulla macchina, della quale è al servizio, così da subordinare la sua vita al “realismo” nei confronti di un mondo nel quale la macchina è il soggetto attivo e lui il suo oggetto.

Herbert Marcuse (1898-1979) – Un filosofo può commettere molti sbagli, ma in Heidegger non si trattò di un errore, bensì di un tradimento della filosofia e di tutto quello che essa rappresenta. allora rimane un’unica filosofia, una filosofia della rinuncia, della resa.

Herbert Marcuse (1898-1979) – La fantasia ha un proprio valore di verità. L’immaginazione tende alla riconciliazione dell’individuo col tutto, del desiderio con la realizzazione, della felicità con la ragione.

Herbert Marcuse (1898-1979) – La solidarietà e la comunità si basano sulla subordinazione dell’energia distruttiva e aggressiva all’emancipazione sociale degli istinti vitali.

Herbert Marcuse (1898-1979) – L’uomo sarà libero quando la realtà avrà “perso la sua serietà”, e all’uomo, non più condizionato dal bisogno e dalla necessità, sarà consentito di “giocare” con le sue facoltà e potenzialità e con quelle della natura.

Giovanna Marini – Lamento per la morte di Pasolini … solo a morire lì vicino al mare

Gabriel Garcia Màrquez (1927-2014) – Hai avuto l’amore in casa e non hai saputo riconoscerlo.

Gabriel García Márquez (1927-2014) – Gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce. la vita li costringe ancora molte altre volte a partorirsi da sé.

Henri-Irénée Marrou (1904-1977) – Tutte le nostre idee sull’uomo si collegano a una certa filosofia dell’uomo. Conoscere storicamente, significa sostituire a un dato, di per se stesso incomprensibile, un sistema di concetti elaborati dallo spirito.

Angela Martini, Crediti, moduli e competenze,

Karl Marx – Cristalli di denaro: “auri sacra fames”.

Karl Marx – Il denaro è stato fatto signore del mondo.

Karl Marx – Il denaro uccide l’uomo. Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore.

Karl Marx – La natura non produce denaro.

Karl Marx (1818-1883) – A 17 anni, nel 1835, Marx già ben sapeva quale sarebbe stata la carriera prescelta: agire a favore dell’umanità, perché operando per la comunità nobilitiamo noi stessi. «Il più felice è quegli che rese felice il maggior numero di uomini. Quando abbiamo scelto la condizione nella quale possiamo più efficacemente operare per l’umanità, allora gli oneri non possono più schiacciarci».

Karl Marx (1818-1883) – Il capitale, per sua natura, nega il tempo per una educazione da uomini, per lo sviluppo intellettuale, per adempiere a funzioni sociali, per le relazioni con gli altri, per il libero gioco delle forze del corpo e della mente.

Karl Marx (1818-1883) – La patologia industriale. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo.

Karl Marx (1818-1883) – Sviluppo storico del senso artistico e umanesimo comunista. La soppressione della proprietà privata è la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane. Il comunismo è effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, è reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo.

Karl Marx (1818-1883) – Il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità.

Karl Marx (1818-1883) – Gli economisti assomigliano ai teologi, vogliono spacciare per naturali e quindi eterni gli attuali rapporti di produzione.

Karl Marx (1818-1883) – Per sopprimere il pensiero della proprietà privata basta e avanza il comunismo pensato. Per sopprimere la reale proprietà privata ci vuole una reale azione comunista.

Karl Marx (1818-1883) – Noi non siamo dei comunisti che vogliono abolire la libertà personale. In nessuna società la libertà personale può essere più grande che in quella fondata sulla comunità.

Karl Marx (1818-1883) – La sensibilità soggettiva si realizza solo attraverso la ricchezza oggettivamente dispiegata dell’essenza umana.

Karl Marx (1818-1883) – Vi sono momenti della vita, che si pongono come regioni di confine rispetto ad un tempo andato, ma nel contempo indicano con chiarezza una nuova direzione.

Karl Marx (1818-1883) – Quando il ragionamento si discosta dai binari consueti, si va sempre incontro a un iniziale “boicottaggio”.

Karl Marx (1818-1883) – L’arcano della forma di merce. A prima vista, una merce sembra una cosa ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Ecco il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.

Karl Marx (1818-1883) – Ogni progresso compiuto dall’agricoltura capitalista equivale a un progresso non solo nell’arte di DERUBARE L’OPERAIO, ma anche in quella di SPOGLIARE LA TERRA, ogni progresso che aumenta la sua fertilità in un certo lasso di tempo equivale a un progresso nella distruzione delle fonti durevoli di tale fertilità.

Karl Marx (1818-1883) – Il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio è essenzialmente protestante. La fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi.

Karl Marx (1818-1883) – L’uomo «totale», è l’uomo che si appropria del suo essere onnilaterale. L’uomo ricco è l’uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane, l’uomo in cui la propria realizzazione esiste come necessità interna, in una società in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo.

Karl Marx (1818-1883) – Non è per vergogna che si fanno le rivoluzioni. La vergogna è già una rivoluzione, è una sorta di ira che si rivolge contro se stessa. E se un’intera nazione si vergognasse realmente, diventerebbe simile a un leone, che prima di spiccare il salto si ritrae su se stesso.

Karl Marx (1818-1883) – L’economia ha come suo dogma la rinuncia a se stessi, la rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai, quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutti i sensi fisici e spirituali sono stati sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti: sostituiti dal senso dell’«avere».

Karl Marx (1818-1883) – La vera essenza del denaro è il fatto che la proprietà di una cosa materiale esterna all’uomo, diventa proprietà del denaro. La persona umana, la morale umana è diventata essa stessa articolo di commercio, un materiale per l’esistenza del denaro. Finché l’uomo non si riconosce come uomo, finché non ha organizzato umanamente il mondo, questa comunità appare sotto la forma dell’estraniazione.

Karl Marx (1818-1883) – A proposito di «Amazon»: gli uomini scompaiono davanti al lavoro. Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente, è tutt’al più la carcassa del tempo. Ogni limite si presenta come un ostacolo da superare. Il capitale tende a trascendere il soddisfacimento tradizionale dei bisogni esistenti. Il movimento del capitale è senza misura.

Karl Marx (1818-1883) – Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso. Occorre trasformare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato.

Giuliana Martirani – Tenerezza è dire grazie con la vita: e ringraziare è gioia perché è umile riconoscimento di essere amati.

Edoarda Masi (1927-2011) – Una «rivoluzione culturale»: utopia necessaria nella società di oggi, che assume il profitto a valore dominante e universale, così come predicano gli apologeti del presente, i cinici ideologi del «mercato».

Edoarda Masi (1927-2011) – Lu Xun classico solitario. La libertà di essere e restare comunisti si associa alla rivendicazione di autonomia dello scrittore in quanto tale dall’autorità politica.

Abraham Maslow – La malattia può consistere nel “non” accusare alcun sintomo quando invece dovrei accusarlo.

Stefania Massari – Pensiero è essenzializzazione. Il «Menone». L’aporeticità dell’eristica e la risolvibilità della dialettica.

Edgar Lee Masters (1868-1950) – Mandate a memoria anche solo pochi versi di verità e bellezza.

Paola Mastrocola – «La passione ribelle»: Il treno non si ferma? Ma siamo sicuri? E ribellarci? Chi studia è sempre un ribelle. Com’è che non viene mai in mente a nessuno? Se oggi qualcuno volesse ribellarsi al mondo com’è diventato, se decidesse così, di colpo, di non stare più al gioco, di scendere dal treno in corsa, studiare potrebbe essere la mossa vincente.

Paola Mastrocola – Come per il letto di Penelope e Ulisse, conserviamo i nostri segreti, le zone biografiche nascoste e solo nostre, e riserviamole davvero a pochi, soltanto a coloro nei quali è bello riconoscerci, ritrovare quel che siamo come in uno specchio.

Henri Matisse (1869-1954) – Un grande amore, capace di ispirare e sostenere questo sforzo continuo verso la verità.

Henri Matisse (1869-1954) – L’espressione essenziale di un’opera dipende quasi interamente dalla proiezione del sentimento dell’artista. Occorre un grande amore, capace di ispirare e sostenere questo sforzo continuo verso la verità.

Henri Matisse (1869-1954) – Nel campo dell’arte, il creatore autentico non è solo un essere particolarmente dotato, è un uomo che ha saputo ordinare in vista del loro fine un insieme di attività, delle quali l’opera d’arte è il risultato finale.

Ugo Mattei – La moneta, la proprietà privata sulla terra e il lavoro salariato, sono invenzioni umane che hanno il fine di astrarre a scopo di commercio valori qualitativi di per sé unici e non riproducibili.

Ugo Mattei, Alessandra Quarta – L’acqua e il suo diritto. La politica economica in materia di acqua deve abbandonare la logica del profitto.

William Somerset Maugham (1874-1965) – In età avenzata siamo disposti a intraprendere compiti che da giovani evitavamo perché avrebbero richieto troppo tempo.

Rollo May (1909-1994) – Tendere significa anche occuparsi di qualcuno, mostrare sollecitudine per l’altro.

Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano

Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.

Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli.

Fernanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.

Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.

Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.

Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.

Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».

Fernanda Mazzoli – Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.

Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.

Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.

Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.

Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.

Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.

Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.

Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva

Fernanda Mazzoli – La ripresa, finalmente! Ma chi guida la task force incaricata di traghettare il Paese fuori dell’emergenza da Covid 19? La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione

Fernanda Mazzoli – L’io minimo ai tempi dell’epidemia. Lo spiritello esangue e pervicace della mentalità di sopravvivenza. Sopravvivere diviene preferibile a vivere nella consapevolezza.

Fernanda Mazzoli – La speranza, nel libro di Arianna Fermani, forte della sua fragilità,  è apertura e rischio, si oppone alla paura, si accompagna alla fiducia e alla perseveranza, abita il campo della libertà, si confronta con la scelta, osa pensare il possibile (quando appare ancora impossibile) cercando di rendere realizzabile lo sperabile,  è slancio verso il futuro, immaginazione creatrice, fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento. È scommessa educativa, paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori».

Fernanda Mazzoli – La colpevolizzazione delle condotte individuali non conformi ai corretti stili di vita è assurta a dispositivo ideologico tanto semplice quanto efficace, perfetto per tempi come i nostri, allergici al ragionamento complesso e al pensiero dialettico.

Fernanda Mazzoli – Quei nostri morti: Angelo Appiani, Arturo Chiappelli, Arturo Malagoli, Roberto Rovatti, Ennio Garagnani, Renzo Bersani. Modena 9 gennaio 1950.

Fernanda Mazzoli – Vecchi e nuovi amici dell’umanità.

Fernanda Mazzoli – Cronache dal mondo libero.

Melania G. Mazzucco – Il museo del mondo, Einaudi, 2014.

Luciano Mecacci – Ogni cognizione umana ha un fondamento storico-sociale.

Virgilio Melchiorre – La finitudine del nostro sguardo è anche l’insuperabile limite d’una prospettiva: ci permette di guardare, ma non di guardarsi insieme a ciò che guardiamo.

Herman Melville (1819-1891) – L’invidia è dunque un tale mostro? Siccome l’invidia alberga nel cuore, non nel cervello, nessun grado di intelligenza offre garanzia contro di essa.

Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847) – Questo è appunto il bello dell’arte.

Pascal Mercier – Non vorrei vivere in un mondo senza cattedrali o in quello che demonizza il pensiero critico esigendo amore per gli sfruttatori.

Fabio Merlini – Sotto il regime dell’immediatezza qualsiasi prospettiva di lungo periodo risulta preclusa. L’assenza di prospettiva è resa effettuale dall’immediatezza, cioè l’appiattimento sul dato. Vivere nell’immediatezza significa vivere nella ripetizione di sé, privarsi di quella ulteriorità che fa dell’esistenza, oltre che uno spazio di esperienza, anche un orizzonte di attesa.

Alberto Meschiari – Il disincanto di Weber aveva ceduto alla tecnica. Ma oggi ha preso la forma della mercificazione di ogni esistente. La razionalità neoliberista ha spinto sempre più verso un progressivo processo di desolidarizzazione.

Alberto Meschiari – Gentilezza è presa di distanza critica dai disvalori, riconoscimento della comune vulnerabilità e del comune destino, esercizio consapevole di una protesta, è un atto etico nel rifiuto della reificazione delle relazioni umane.

Anne Michaels – Non c’è vera assenza se resta almeno il ricordo dell’assenza. Una voce ci riscuote. Andiamo più vicini, tentiamo di distinguere bene le parole. È questo che fa cominciare o finire l’amore: cominciamo a capire le parole.

Jean-Claude Michéa – Una «comunità» composta esclusivamente da uomini d’affari mossi dalla cupidigia e da uomini di legge osservanti delle procedure è semplicemente invivibile.

Louise Michel (1830-1905) – Non voglio difendermi e non voglio essere difesa, appartengo completamente alla rivoluzione sociale e mi dichiaro responsabile delle mie azioni. Viva la Comune di Parigi.

Carlo Michelstaedter (1887-1910) – «Il danaro, il mezzo attuale di comunicazione della violenza sociale sarà come divinità assunto in cielo, diventerà del tutto nominale, un’astrazione».

Carlo Michelstaedter (1887-1910) – Così l’anima mia si discolora e si dissolve indefinitamente che fra le tenui spire l’universo volle abbracciare.

Maurizio Migliori – Non c’è opera e non c’è argomento trattato in cui Aristotele non si misuri con i suoi predecessori.

Maurizio Migliori – La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni. Platone è l’incontro con la grande bellezza e ci insegna che la filosofia è la scienza degli uomini liberi.

Maurizio Migliori – Il pensiero classico vuol capire il mondo, la cui complessità non viene messa in dubbio, e che quindi deve essere affrontato con una pluralità molto elastica di strumenti

Maurizio Migliori – La bellezza della complessità. il fatto che la verità si dà sempre con dei limiti e sempre in un gioco di relazioni, non implica la rinuncia alla verità, ma al suo carattere assoluto.

Maurizio Migliori, Luca Grecchi – Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli.

Maurizio Migliori – Opportunità e utilità di un approccio multifocale. Un contributo alla lotta contro il relativismo e contro la semplificazione che caratterizza l’orizzonte dell’attuale “cultura di massa”.

Maurizio Migliori e Arianna Fermani – «Filosofia antica. Una prospettyiva multifocale». Questo volume aiuta a tornare, con stupore e gratitudine, alle feconde origini del pensiero occidentale, per guardare finalmente, con occhi nuovi, il mondo e noi stessi.

Maurizio Migliori – Per Platone, ogni comunicazione filosofica deve essere sottoposta a vincoli per ragioni educative e filosofiche, in quanto solo la conquista personale caratterizza la crescita filosofica. Si deve aiutare l’interlocutore a scoprire i problemi che il reale e il ragionamento ci pongono davanti e, quindi, le soluzioni. Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta da un essere umano.

Massimo Mila (1910-1988) – Mella musica vi è un’originalità dello stile che non dipende dalla novità del linguaggio.

Massimo Mila (1910-1988) – Capire la musica è una facoltà, che può essere più o meno sviluppata. Non è un titillamento dell’immaginazione, godimento passivo, distensione e abbandono alla fantasticheria irresponsabile. È un’operazione attiva dell’intelligenza e della memoria, implica tensione mentale.

don Lorenzo Milani (1923-1967) – Gli uomini non sopportano che si scriva loro la verità.

Henry Miller (1891-1980) – La modernità che abbruttisce, la città folle, l’uomo malato di se stesso, ci hanno fatto abbandonare la via che in noi stessi (noi siamo i nostri stessi salvatori) deve portare dalla morte alla vita, dalla follia alla serenità.

Charles Wright Mills (1916-1962) – Una percezione vigile oggi implica la capacità di smascherare continuamente e infrangere gli stereotipi del giudizio e dell’intelligenza.

Czesław Miłosz (1911-2004) – Bisogna evitare la compagnia delle persone che glorificano il nulla. Non è ammesso lasciarsi dominare dalla disperazione a causa dei nostri sbagli, perché il passato non è chiuso e riceve il suo senso dalle nostre azioni future.

Eugène Minkowski – Il tempo vissuto – L’azione etica apre l’avvenire davanti a noi perché resiste al divenire: è la realizzazione di quanto vi è di più elevato in noi.

Eugène Minkowski (1885-1972)  – La morte, mettendo fine alla vita, la inquadra interamente, in tutto il suo percorso. È la morte che trasforma il succedersi o la trama degli avvenimenti della vita in “una” vita. Non è nel nascere ma è col morire che si diventa un’unità, “un uomo”.

Eugène Minkowski (1885-1972) – È lo slancio vitale che dà un senso alla vita e costituisce quanto vi è in essa di più essenziale. Questo slancio sempre vivo crea l’avvenire e non può essere racchiuso in una sezione trasversale della coscienza, e si tende, come un arco, oltre tutte le sezioni di questo genere.

Eugène Minkowski (1885-1972) – La ricchezza dell’avvenire che libera dalla morsa dell’attesa.

Eugène Minkowski (1885-1972) – La vita consiste in una ricreazione continua di una prospettiva di vita, tracciandola e costruendola con le nostre mani.

Eugène Minkowski (1885-1972) – L’attesa ingloba tutto l’essere vivente, sospende la sua attività e lo immobilizza. È una sospensione di quell’attività che è la vita stessa.

Eugène Minkowski (1885-1972) – Noi vediamo il presente diventare il passato, ma perché il passato ha presa sul presente, come pure sull’avvenire. Se riusciamo a riunire le tre forme del tempo è perché introduciamo il passato nel presente e nell’avvenire.

Gabriela Mistral (1889-1957) – Canto ciò che tu amavi, vita mia. Ti aspetto senza limiti né tempo. Tu non temere notte, nebbia o pioggia. Vieni per strade conosciute o ignote. Chiamami dove sei, anima mia.

Alessandro Monchietto – «Da capo senza fine. Il marxismo anomalo di Georges Sorel».

Alessandro Monchietto – «L’euro come metodo di governo. Il ciclo di Frenkel, le ragioni degli squilibri dell’eurozona e la mezzogiornificazione delle periferie europee».

Alessandro Monchietto, Andrea Bulgarelli – RIVOLUZIONE NEOLIBERALE. PER UNA CRITICA CONSAPEVOLE.

Alessandro Monchietto: Intervista a Costanzo Preve (Estate 2010, «Socialismo XXI»).

Alessandro Monchietto – Defatalizzare la realtà è il compito che ci attende.

Alessandro Monchietto – Dialettica dell’illuminismo. Diagnosi della società contemporanea, critica della ragione strumentale.

Alessandro Monchietto – Le molte facce del neoliberismo: squilibrio distributivo e crisi finanziaria. Intervista a cura di Luigi Tedeschi.

Luigi Tedeschi intervista Alessandro Monchietto su «Sorel, determinismo e marxismo».

Alessandro Monchietto – Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi.

Alessandro Monchietto – Marx tra scienza e utopia. Oggi è forse meno irresponsabile tratteggiare un’utopia fondata, che diffamare come utopia condizioni e possibilità che già da molto tempo sono diventate possibilità realizzabili.

Rodolfo Mondolfo (1887-1976) – Che cosa è la rivendicazione della humanitas.

Rodolfo Mondolfo (1877-1976) – Una rivoluzione non è un atto momentaneo di violenza. È la sostituzione di nuove forme di vita e d’azione alle precedenti: di forme che debbono costantemente mantenersi ed attuarsi, e richiedono per ciò un orientamento nuovo e deciso degli spiriti.

Rodolfo Mondolfo (1887-1976) – Alle origini della filosofia della cultura

Rodolfo Mondolfo (1887-1976) – Il vero maestro non è un somministratore di conoscenze, ma uno svegliatore di spiriti. La forma necessaria dell’indagine è il dialogo con se stessi e con gli altri. La libertà del pensiero e della sua espressione sono elemento e condizione imprescindibili per la realizzazione del fine che si impone a tutti in comune.

Rodolfo Mondolfo (1887-1976) – Moralisti greci. La coscienza morale da Omero a Epicuro

Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592) – A mesure que la possession du vivre est plus courte, il me la fault rendre plus profonde et plus pleine.

Michel E. de Montaigne (1533-1592) – Bisognerebbe chiedere chi sappia meglio, non chi sappia di più. Lavoriamo solo a riempire la memoria, e lasciamo vuoti l’intelletto e la coscienza. Come possa accadere che un animo ricco della conoscenza di tante cose non ne divenga più vivo e sveglio, ancora non so.

Marco Montagnino – Chiunque voglia approfondire il pensiero di Parmenide e di Zenone non può non confrontarsi con l’interpretazione che ne propone Livio Rossetti.

Eugenio Montale (1896 – 1981) – La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta, la sua direzione non è nell’orario. La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli.

Eugenio Montale (1896–1981) – Antico è ciò che si nasconde tra le parole imprevedibili, mai palesate, mai scritte, mai dette per intero, che non hanno né un prima né un dopo perché sono l’essenza della memoria.

Tomaso Montanari – Costruire una società critica, una società del dissenso, è la condizione vitale per il futuro della democrazia.

Thomas Moore – L’educazione è un “e-ducere”, un tirare fuori la nostra natura, la manifestazione della nostra essenza, il dispiegarsi delle nostre capacità, il rivelarsi delle nostre possibilità. L’educazione dell’anima porta all’incanto del mondo e all’accordo del sé. A volte sostare per il melisma dà all’anima la sua ragion d’essere.

Agus Morales – Non sono soltanto migranti e rifugiati. Sono donne e uomini come noi. tutti siamo in procinto di un esodo. Comunicazione e orientamento sono i nuovi bisogni urgenti per tutti. Questa è crisi dei diritti umani e della dignità.

Giorgio Morandi (1890-1964) – Ritrovare il significato delle cose per ricominciare a guardare le cose. Quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose.

Elsa Morante (1912-1985) – L’evasione non è per me. Solo chi ama conosce. Povero chi non ama!

Elsa Morante (1912-1985) – Hanno trasformato tutti i valori reali della vita umana, l’arte, l’amore, l’amicizia, in merci da comprare e intascare.

Roberto Mordacci – Ritorno a Utopia. Il nucleo originario e tuttora pulsante dell’utopia deve essere in qualche modo riportato alla luce proprio contro le sue distorsioni, che sono divenute prevalenti nel senso comune contemporaneo. La navigazione è data all’ingegno di ognuno e di tutti.

Roberto Mordacci – Il cinema pensa. Ma, se non adottiamo un modo di fruire un film con una postura e uno sguardo filosofico avremo perduto l’occasione di incontrare una verità. La filosofia autentica è pensiero vivo che prova a darsi una forma, a mettersi in gioco, ad immergersi nella vita e ci aiuta a cogliere nel cinema la sua autenticità di riflessione visiva, di pensiero per immagini.

Vittorio Morfino – Utopia e critica immanente di fronte al capitalismo: il polo di una conoscenza non fine a se stessa, ma capace di aprire degli orizzonti di azione, e il polo di una politica che non sia un mero manovrare nel quadro esistente, ma che a partire da esso sappia guardare oltre, valorizzando le forze che in esso sono già date.

Lewis Henry Morgan (1818-1881) – La proprietà è diventata una potenza in sé, sfuggita al controllo della popolazione. La mente umana assiste sconcertata agli sviluppi della sua stessa creazione.

Christopher Morley (1890-1957) – In un vero libro c’è una intera nuova vita.

William Morris (1834-1896) – Impegnamoci a custodire il giusto ordinamento del paesaggio terrestre, per evitare di tramandare ai nostri figli un tesoro minore di quello lasciatoci dai nostri padri. Non rendiamo la terra un deserto di speranze (quale essa era una volta), ma anche una prigione disperata.

William Morris (1834-1896) – Qual è lo scopo della Rivoluzione? Certamente quello di rendere felici gli uomini.

William Morris (1834-1896) – Ci sono due generi di lavoro, uno buono e uno cattivo. Nell’uno è insita la speranza, nell’altro no. È degno dell’uomo fare il primo genere di lavoro, e degno dell’uomo è rifiutare il secondo. Nella speranza, vivremo da uomini: né il presente può darci ricompensa maggiore.

Luigina Mortari – L’utopia che orienta il presente discorso è l’«utopia ragionevole» di una società che coltiva il massimo di sensatezza relazionale possibile.

Luigina Mortari – Non è possibile pensare la ricerca di una buona qualità della vita in modo solipsistico. Tutto quanto rispetto al bene non sia frutto di un investimento personale di pensiero non diventa orizzonte. Quando si evita la fatica della ricerca rigorosa, si possono vedere solo idee storte, mentre solo la ricerca seria consente di “udire cose luminose e belle”.

Luigina Mortari – “Pensare” risponde alla necessità di stare alla ricerca di orizzonti di senso. A muovere il pensare è il desiderio di significato. Il non pensare liberamente è segno di una vita non vissuta nella sua essenza.

Luigina Mortari – Vivere è imparare a nascere, continuare a nascere, elaborando momento per momento i propri vissuti. Si tratta di fare propria la fatica, cognitiva ed emotiva insieme, di trovare i modi della propria originale trascendenza.

Giupeppe Moscati – «Strategie macro-retoriche» di Livio Rossetti. L’importanza di decifrare i meccanismi della comunicazione. La macro-retorica intorno a noi.

Evanghelos Moutsopoulos – «La musica nell’opera di Platone». La musica è autentica bellezza nel momento in cui persegue ciò che è meglio per l’uomo, e trova il suo coronamento nell’amore del bello, dove si manifestano il bene e la verità.

Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) – In un’opera le parole sono scritte unicamente in funzione della musica.

Levis Mumford (1895-1990) – Gli utopisti trattano sempre la società come un tutto unico. La nostra civiltà ha poi diviso la vita in compartimenti. Sono giunto dunque a considerare il pensiero utopista come l’opposto dello spirito unilaterale, partigiano, specialistico.

Edvard Munch (1863-1944) – Il racconto è lo scopo di ogni arte.

Massimo Mungai – Rendiamo la solitudine strumento per far germogliare le nostre emozioni e per dare nuovo valore al silenzio, atto preparatorio al comunicare con gli altri.

Iris Murdoch (1919-1999) – La virtù che eccelle gratuitamente ci sorprende nell’arte così come fa spesso nella vita reale. Bisogna essere buoni senza secondi fini.

Robert Musil (1880-1942) – Ogni grande libro spira amore per i destini dei singoli individui che non si adattano alle forme che la collettività vuol loro imporre. Abbiamo troppo poco intelletto nelle cose dell’anima.

Robert Musil (1880-1942) – Il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere. Solo se si è pronti a considerare possibile l’impossibile si è in grado di scoprire qualcosa di nuovo.

Robert Musil (1880-1942) – La conoscenza della natura umana insegna a riconoscere e apprezzare l’altra persona da quella maniera nobile, quasi non tangibile e tuttavia essenziale e completa, di essere uomo e spirito.

Giorgio Riolo – Nota introduttiva a Fëodor M. Dostoevskij, «Delitto e castigo».

Fëodor M. Dostoevskij 0x


Giorgio Riolo
NOTA INTRODUTTIVA A FËODOR M. DOSTOEVSKIJ, DELITTO E CASTIGO

 

I.

Una nota iniziale sui classici, soprattutto in relazione ai grandi russi Dostoevskij e Tolstoj. Molti classici sono “inattuali”, troppo inattuali. Al massimo grado questi scrittori e pensatori. Sorti, formati, plasmati in una realtà e in una storia affatto particolare come la Russia. Totalmente aliena rispetto al nostro tempo e alla nostra realtà.
Ma i classici, e in particolare Dostoevskij e Tolstoj, sono per ciò stesso più attuali che mai. Sono attuali perché ci scuotono e ci gettano brutalmente addosso, in faccia in certi casi, la semplice verità. Che il mondo in cui siamo immersi e in cui ci culliamo, beatamente in molti e molte, con le nostre false certezze, sicumere, arroganze, anche ammantato sotto il generale “disincanto” e il generale “postmoderno”, non è l’ultima parola della storia. Non è il migliore dei mondi possibili.
Ci “relativizzano”. Esistono altri mondi e altre storie, non necessariamente migliori, anzi molto peggiori come quelle della Russia di cui adesso parliamo, ma queste relativizzazioni ci fanno crescere, maturare. E la cultura è relazione, relativo, nesso, ponte verso altro. Così come avviene nel potente processo di “decolonizzazione”.
“Decolonizzare la mente”, il potente processo, assieme al potente processo di emancipazione sociale e politica, così propugnato e descritto dal grande Frantz Fanon. Non solo per il colonizzato che vuole, e deve, emanciparsi. Ma soprattutto per il colonizzatore, per noi, eredi delle malefatte del colonialismo. E l’Occidente, anche e soprattutto capitalistico, è irrimediabilmente colonizzatore.
Come può un contesto ormai votato al “disincanto”, al postmoderno, al “non esistono più grandi narrazioni”, al “non esistono più pensieri e valori forti”, se non, sottaciuti, impliciti, i valori forti del consumismo, del narcisismo, dell’individualismo totalizzante, capire il contesto di una Russia dove il mare del popolo russo era costituito da contadini poveri, la quasi totalità analfabeti, dove la religione cristiana, ortodossa o scismatica (i Vecchi Credenti) o di eretici egualitari come i Duchobory (vedremo con Tolstoj) ecc., svolgeva un ruolo fondamentale e dove l’attesa messianica di redenzione, in vario modo, era operante, nel contesto soprattutto di una Chiesa ortodossa ufficiale vero supporto spirituale e materiale dello zarismo?
Dove esisteva il fenomeno, per noi incomprensibile, dei pellegrini, degli sbandati e dei vagabondi (Padre Sergio di Tolstoj è anche questo). Dove la miseria era dominante anche e soprattutto nei contadini emancipati dalla servitù della gleba, dopo il 1861-1863, e inurbati nelle grandi città, Pietroburgo e Mosca in primo luogo, dove l’alcolismo era così diffuso, vera piaga sociale e antropologica, dove la miseria e l’alienazione era grande nella classe dei “decaduti” (impiegati, funzionari dell’enorme apparato burocratico zarista, nobili, intellettuali, artisti ecc.), dove molti studenti erano giovani energici, ardenti di conoscenza e di azione (Herzen e Lavrov e “andare al popolo”, Il divino e l’umano di Tolstoj è anche questo, e Dostoevskij nella sua vita e Raskolnikov…).
Dove infine il dispotismo e l’oscurantismo zarista e la sua polizia non lasciavano spazio a visioni e pratiche “riformistiche” e allora l’attesa di una “rivoluzione” palingenetica si imponeva, era la via obbligata per chi non sopportava più quello stato di cose. Dai primi rivoluzionari, narodniki o populisti russi, al successivo movimento rivoluzionario guidato dai marxisti e “socialdemocratici” di allora.
“Da dove nascono le rivoluzioni?”. La semplice domanda di un grande storico francese a proposito della rivoluzione francese. La domanda di sempre da porre ai “disincantati”, molti a sinistra, il grande esercito degli ex.

 

II.

Nato a Mosca nel 1821, Dostoevskij muore a San Pietroburgo nel 1881. Assieme a Tolstoj, è uno dei grandi della letteratura russa e della letteratura di ogni tempo. Inizia presto a scrivere e a pubblicare (Povera gente, Il sosia, Le notti bianche). Entra da giovane nel circolo dei socialisti fourieristi a San Pietroburgo, attorno a Petraševskij. Arrestato e rinchiuso nel 1849 con i suoi compagni alla Fortezza Pietro e Paolo, subisce il terribile trauma, che aggraverà in seguito le sue crisi di epilessia, della finta esecuzione. Dopo la deportazione in Siberia e l’esperienza e la conoscenza dei carcerati e del popolo russo (Memoria di una casa di morti), compie alcuni viaggi in Europa e riprende l’attività di scrittore.
Nella febbrile produzione letteraria scriverà grandi romanzi come Delitto e castigo, I demoni, L’idiota, Il giocatore, I fratelli Karamazov e splendidi racconti o romanzi brevi come La mite, L’eterno marito, Memorie del sottosuolo ecc. Nel 1881, poco prima della morte, tiene il discorso in onore di Puskin nel centenario della nascita. L’enorme folla alla commemorazione lo acclamerà come uno dei maggiori esponenti della vita e della cultura russe.

 

III.

Non si comprenderanno mai i grandi scrittori russi e in particolare Tolstoj e Dostoevskij se non si conosce il contesto della Russia, si diceva prima. Il contesto significa la sua storia, la società, la sua morfologia sociale, la sua cultura profonda, la cultura dello “alto” e la cultura del “basso” ecc.
La peculiarità dello sviluppo storico della Russia, la sua arretratezza, la presenza dell’autocrazia dispotica zarista e quindi la mancata modernizzazione della stessa nel decisivo secolo XIX, il mancato sviluppo capitalistico, il mancato sviluppo della classe sociale, portatrice di questo sviluppo, la moderna borghesia ecc. fecero sì che l’intellettualità (scrittori, filosofi, critici letterari, studenti) assumesse in Russia una funzione sociale formidabile.
Lo scrittore russo, da Puškin a Cechov, a Gorkij, attraverso i due giganti Tolstoj e Dostoevskij, svolse in Russia un ruolo di guida e di critica sociale e politica totalmente sconosciuto in qualsiasi paese dell’Occidente europeo. Lo scrittore, l’intellettuale di quella Russia si sentono “chiamati” all’impegno in tante forme. E spesso non possono che essere scrittori d’opposizione.
Anton Cechov, in un’occasione, disse che compito del letterato era di far prendere coscienza e di impostare correttamente i problemi. Altri avrebbero dovuto poi attivarsi per risolverli. Tolstoj fu riformatore sociale anche perché, oltre a porre i problemi, li ha voluti affrontare e tentare di risolverli, facendo leva sul mondo contadino russo, a partire dalla sua utopia (in senso positivo) patriarcale contadina. Dostoevskij cercò anch’egli a suo modo di dare delle risposte. Molte sbagliate, anche reazionarie.
Come il fare affidamento non solo al cristianesimo dei Vangeli, come sosteneva Tolstoj, ma anche alla Chiesa istituzionale ortodossa (“l’idea slava”). Essendo il socialismo il suo cruccio costante (una sorta di pentimento e di rivalsa per le sue scelte giovanili nel circolo Petraševskij, con le terribili conseguenze a cui andò incontro). Ma fu soprattutto un eccezionale esploratore, un profeta, per la capacità di porre lucidamente un intero spettro di problemi esistenziali, psicologici, culturali, sociali e politici alle quali le generazione a lui posteriori dovevano, e devono tuttora, dare risposta, cercare di risolvere.
Uno solo, tra i tanti, che molto ci sta a cuore. Con I demoni, soprattutto nelle parole di Šigalëv, Dostoevskij anticipa profeticamente i caratteri dello “assoluto” di cui si sente portatore il cosiddetto rivoluzionario. Quando questi in realtà è il portatore di un terrore verso i propri compagni. Verso i comunisti stessi, non contro i veri nemici, come avvenne tragicamente nello stalinismo. E come avviene in altri contesti e con altre denominazioni, addirittura supposte o sedicenti contrarie, antistaliniste, ma il cui modello, il cui metodo, il cui archetipo è lo stalinismo stesso.
Nella sua enorme produzione letteraria, Dostoevskij intese sempre svolgere, in vario modo, i problemi esistenziali e i problemi politico-filosofici che erano emersi nel corso della sua vita. Dalla sensibilità precoce per il male nel mondo (la lettura del Giobbe della Bibbia), per la violenza, soprattutto sui bambini e sugli innocenti, fino alla religione, ai problemi posti dal cristianesimo-cattolicesimo e il ruolo della figura di Cristo, del Gesù vivente, fino al rapporto della Russia con l’Occidente. Dalla “eterna idea slava” e dalla “anima russa” al fermo convincimento che dal destino della Russia e del suo popolo dipendesse il destino del mondo intero, dell’umanità intera.
Da qui la sua ossessiva lotta contro il socialismo, il progressismo, il nichilismo e il razionalismo-scientismo ottocenteschi. A suo modo di vedere, prodotti “artificiosi” dell’Occidente e non originari, non radicati nel profondo “suolo” russo.
Thomas Mann aveva stabilito un parallelo. Tra Goethe e Schiller e tra Tolstoj e Dostoevskij. Goethe e Tolstoj, figli della “salute” e della natura, Schiller e Dostoevskij, figli della “malattia”, della continua tensione dell’anima e delle contraddizioni che inevitabilmente ne scaturiscono. Solidi esponenti dell’aristocrazia agiata i primi, di origini borghesi ma con tratti plebei i secondi. Anche per le traversie e per le angustie della vita che ebbero a sperimentare. Dostoevskij anche periodi di vera e propria fame.
Mentre Tolstoj è “omerico” e i suoi personaggi sono a loro modo conchiusi, rotondi, completi, Dostoevskij è “drammatico” e i suoi personaggi sono complessi, contraddittori, problematici, ambivalenti, aperti a sviluppi imprevedibili.
Dostoevskij a Majkov “Mi chiamano psicologo, è falso. Io non sono che un realista in senso più alto, cioè descrivo tutti gli abissi dell’anima umana”. “Dovunque e in tutto arrivo al limite estremo, in tutta la mia vita ho sempre oltrepassato il limite”. Il problema del bene e del male e della “polifonia” della natura umana (spesso, nella stessa persona, al contempo l’abiezione, “la nostalgia del fango” e la ricerca del sublime, l’elevatezza morale e spirituale, la mitezza, la generosità). E “romanzo polifonico” è spesso caratterizzato ogni suo romanzo. “Romanzo totale”, romanzo sociale, romanzo filosofico, romanzo psicologico, romanzo politico. Così anche Delitto e castigo. Con in più anche “romanzo poliziesco”.
Dostoevskij nella sua vita, dopo l’esperienza socialista e il trauma della finta esecuzione, scoprì nel cristianesimo ortodosso dei semplici dell’intatto e bambino popolo russo, la via per la salvezza umana. “Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità”. Depositaria di tutto ciò è comunque la Chiesa ufficiale ortodossa russa. Altra via sarà indicata da Tolstoj e da qui la sua scomunica da parte della suddetta Chiesa nel 1901.
Dostoevskij nega il socialismo, ma tutto invoca il socialismo, l’emancipazione, una società di liberi ed eguali, la fraternità umana realizzata. Il potente simbolo, l’archetipo, è il discorso dell’eroe positivo Alëša Karamazov alla “pietra” del bambino Iljušečka nel finale de I fratelli Karamazov.
Nel tempo di Dostoevskij e nel nostro tempo. L’eterno problema del rapporto tra individuo e società, tra individuo e comunità. L’eterno problema della dialettica, in Dostoevskij spesso compresenza, del bene e del male. Anche e soprattutto nell’esasperazione di individui così “isolati” nel loro travaglio psichico e morale, nella loro tormentata continua messa a prova della loro anima (“I go to prove my soul” di Robert Browning, non è solo quando noi leggiamo e ci confrontiamo con il mondo dell’opera, del grande romanzo).
Il principe Miškin, Rogozin, Ivan Karamazov, Mitja Karamazov, Stavrogin, Verchovenskij, Kirillov, Rodion Raskolnikov e tutta la genia di personaggi creati dal genio di Dostoevskij, ognuno a suo modo vive questa continua e mai risolta dialettica, nella società e nella comunità degli uomini e delle donne e nello sconfinato spazio interiore, morale e intellettuale.

 

IV.

Nel 1865-1866, dopo l’improvvisa morte del fratello e i debiti per sostenere la famiglia del morto e i debiti per le riviste e le attività editoriali intraprese col fratello stesso. In una fase travagliata della sua vita eppure così creativa, Dostoevskij scrive il grande romanzo pietroburghese. Parigi è la città-mondo per eccellenza ed è il grande teatro nel quale molta parte della produzione letteraria di Balzac, ma anche di Stendhal, Hugo, Flaubert, si dispiega. Così Pietroburgo, città-mondo nella Russia del tempo.
La miseria dei caseggiati, delle stanzucce, delle bettole, dei vicoli di Pietroburgo. La miseria di una umanità così variegata. Il giovane, ex studente di legge ma che ha abbandonato gli studi perché povero, Raskolnikov, memore, forse inconsciamente di tutto ciò, della promessa tipicamente ottocentesca e napoleonica che ogni giovane fornito di grande talento, ma che è povero, non ha mezzi, ha comunque “nello zaino il bastone da maresciallo”, dopo la Rivoluzione per eccellenza, può e deve uscire dalla sua condizione. Erede dei tanti Julien Sorel (Stendhal), Rastignac, Lucien Chardon ecc. (Balzac). E allora una vecchia usuraia può e deve essere derubata e uccisa perché il fine non è semplicemente individualistico, ma allude ad altro.
I duelli e i confronti, anche intellettuali e morali, tra Raskolnikov e Porfirij Petrovič, questo particolarissimo, curioso giudice istruttore, il quale nella sua apparente trascuratezza, comprende e riesce a entrare nel mondo intellettuale e morale del giovane assassino fino a indurlo alla aperta confessione.
L’ex impiegato, ora decaduto e alcolizzato, Marmeladov e la sua famiglia. La pura, generosa, sacrificata Sonja (a suo modo, una Crista, come i tanti Cristi di Dostoevskij, non ultimo il principe Miškin). La quale deve prostituirsi per sostenere la povera sua famiglia e che nell’incontro con Raskolnikov trova un essere umano su cui esercitare la sua purezza, la sua intatta fede, la sua speranza di redenzione. Ed è proprio Sonja che induce il giovane a ravvedersi e a pentirsi e che lo seguirà in Siberia nella deportazione per espiare la pena comminata dopo il processo.
In mezzo ai tanti personaggi del romanzo (Dunja, Lebezjatnikov, Razumichin, Lužin, i Marmeladov ecc.), Svidrigajlov ha una sua parte importante. L’ambivalenza tipicamente dostoevskiana. Gaudente, carnale, libidinoso, pedofilo ecc. Ma anche a suo modo generoso e aiuta i figli di Marmeladov ormai orfani di entrambi i genitori.
“Romanzo polifonico” per eccellenza.

 

BIBLIOGRAFIA MINIMA – FËODOR M. DOSTOEVSKIJ – DELITTO E CASTIGO

Retroterra storico

Storia contemporanea della Russia in un buon manuale di storia per le scuole superiori. Si indica in primo luogo:

Bontempelli-Bruni, Storia e coscienza storica, Trevisini Editore, Milano (in tre volumi, quindi le parti contenute nel terzo, dalla rivoluzione decabrista al populismo russo e ai movimenti rivoluzionari di fine Ottocento e di inizio Novecento).
Una bella monografia sulla storia della Russia è quella di Valentin Gitermann, Storia della Russia, La Nuova Italia.

Monografia e saggi su Dostoevskij

Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi (nel vol. IV, le parti dedicate ai russi e a Dostoevskij in particolare nel capitolo “Il romanzo sociale in Inghilterra e in Russia”). Opera classica e da tenersi in casa, ora ristampata.

Fausto Malcovati, Introduzione a Dostoevskij, Laterza

György Lukács, Saggi sul realismo, Einaudi (il capitolo dedicato a Dostoevskij), Michail Bachtin, Dostoevskij, Einaudi.

 

Edizioni italiane del romanzo Delitto e castigo

Nelle edizioni economiche Classici Einaudi Tascabili, Classici Feltrinelli, Bur Rizzoli, Oscar Mondadori e Newton Compton. Consiglio una delle prime due traduzioni menzionate (con relative introduzioni). L’edizione Einaudi Tascabili contiene come introduzione un bellissimo saggio di Leonid Grossmann, uno dei massimi studiosi di Dostoevskij.

Giorgio Riolo


Giorgio Riolo – Leonardo Sciascia e la letteratura come smascheramento del mondo e delle trame del potere

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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Roberto Fineschi – Rileggere Marx con le lenti della filologia.

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Rileggere Marx con le lenti della filologia

di Roberto Fineschi

È uscita la nuova edizione italiana del I libro del Capitale per le Opere Complete di Marx ed Engels. Il curatore, Roberto Fineschi, ci spiega perché era necessario mettere mano a questa opera di rinnovamento editoriale (sinistrainrete, 24-3-2013)

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1. La nuova edizione del I libro del Capitale da me curata per le Opere Complete di Marx ed Engels (vol. XXXI, Napoli, La città del sole, 1600 pagine) è il tentativo di presentare al lettore italiano lo stato dell’arte dopo le significative novità emerse nel corso della pubblicazione della nuova edizione storico-critica, la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2), monumentale progetto in 114 volumi in corso di realizzazione da quasi quarant’anni e lungi dal completamento[1].
La circolazione delle opere di Marx è stata scarsa negli ultimi decenni; recentemente si è assistito alla ripresa di alcune pubblicazioni, fatto da salutare positivamente. Tuttavia, nella quasi totalità dei casi si sono semplicemente riproposti i vecchi testi, oppure li si è ripresentati sulla base delle edizioni tradizionali. La grande novità della MEGA consiste invece, sostanzialmente, nell’aver mostrato come molte delle opere più significative di Marx fossero in realtà una cosa diversa rispetto a quelle storicamente lette. A cambiare sono quindi non tanto, o non solo, le interpretazioni di Marx o Engels, ma la stessa base testuale su cui tali interpretazioni si sono sviluppate o possono svilupparsi. La nuova edizione del primo libro del Capitale muove, prima nel mondo occidentale, da questa premessa.
È noto che Marx non ha pubblicato personalmente il secondo ed il terzo volume; fu Engels a farlo dopo la sua morte, rispettivamente nel 1885 e nel 1894. Per il secondo, egli disponeva di 8 manoscritti redatti dal 1864 alla fine degli anni 70, a livelli assai diversi di compiutezza, nessuno comunque pronto per la stampa[2]; per il terzo aveva sostanzialmente un grande manoscritto del 1864/5 e poche rielaborazioni successive di scarsa ampiezza[3].
Il terzo libro, seppur uscito per ultimo, è dunque, in verità, poco più che allo stato di abbozzo; meglio vanno le cose per il secondo, benché, pure in questo caso, non esista in alcun modo una versione definitiva. Il primo libro è apparentemente quello più compiuto, in quanto Marx stesso ne dette alla stampe due edizioni tedesche – 1867 e 1872/3 – ed una francese – 1872-5 –, tutte con moltissime varianti. Anche del primo, tuttavia, non disponiamo di un’edizione definitiva in quanto l’ultima uscita nel tempo, la francese, è considerata da Marx migliore per il contenuto, ma decisamente insufficiente a livello linguistico[4]. Nel 1883, anno della morte di Marx, Engels diede alle stampe la terza edizione tedesca, alla quale Marx non partecipò in prima persona; aveva lasciato degli indici e delle annotazioni a margine nelle edizioni precedenti, ma sarà Engels a seguire e a non seguire le sue indicazioni[5]. Da ciò sono risultate situazioni paradossali, per es. relativamente alla divisione in capitoli e sezioni, per cui chi segue l’edizione francese ed inglese ha una divisione, chi segue la tedesca e le traduzione da essa derivate, ne ha un’altra. L’unico testo pubblicato da Marx è paradossalmente quello su cui ci si intende meno. Insomma: per comprendere Marx non si può prescindere dalla complessa stratificazione del testo, che, nel caso della teoria del capitale, consiste di ben 15 volumi in 24 tomi, vale a dire tutta le seconda sezione della MEGA.


2.
Questa edizione intende presentare al lettore italiano tutti i testi a noi pervenuti che Marx scrisse con l’intenzione esplicita di realizzare il I libro del Capitale. Nel far questo si è cercato di tener conto di un certo numero di traduzioni esistenti – italiane e non –, sia da un punto di vista linguistico che editoriale in senso più generale. Nessuna di esse – ad eccezione, in parte, dell’edizione in castigliano a cura di P. Scaron – è all’altezza della problematica odierna. Il fatto fondamentale è infatti che oggi, dopo la MEGA, non si sa esattamente cosa pubblicare quando si intende dare alle stampe il I libro del Capitale. Qual è l’edizione di riferimento se non ne esiste una di ultima mano di Marx? Si è visto che non è possibile utilizzare la francese per vari motivi. Le scelte sono allora due: o la II ed. tedesca, o la IV (in cui Engels continua ad inserire (pochi) passaggi dalla francese, ma che per il resto è quasi uguale alla III). Nel 1975, in chiave antiengelsiana e con l’idea di pubblicare un “autentico” testo marxiano, nella sua edizione in castigliano Scaron decise di usare la II, mettendo come varianti le versioni successive. Se questa scelta è per certi aspetti legittima, si presta tuttavia a critiche a mio parere sostanziali; la principale è la seguente: troviamo in nota, e non nel testo principale, parti non solo considerate da Marx superiori, ma effettivamente da lui pubblicate nell’ed. francese; i materiali “vecchi” si trovano invece nel testo principale. Usando al contrario la IV (sostanzialmente uguale alla III), si ha almeno la maggior parte di quel contenuto nel corpo del testo. Si noti comunque, per es., come nessuna delle due scelte (II o IV ed. tedesca) presenti il testo principale secondo la suddivisione “finale” dell’ed. francese. In realtà, unica soluzione sarebbe pubblicare tutte le edizioni integrali, operazione editorialmente proibitiva. “Creare” un’opera, ricostruendo il testo sulla base dei manoscritti marxiani per il I volume sarebbe operazione redazionale, di cui sarebbe difficile valutare la “marxianità”. In questa edizione è parso dunque ragionevole adottare come base testuale la IV ed. tedesca del 1890 a cura di Engels; rispetto ad essa si sono date le principali varianti di tutte le altre (I, II, III ed. tedesca, ed. francese). I testi di riferimento sono quelli apparsi nella MEGA, II sezione, voll. 5-10.
Non si fornisce tuttavia solo il tradizionale testo del Capitale con le sue varianti; oltre ad esse (centinaia di pagine) si ha la prima traduzione del Manoscritto 1871-1872, presentato secondo la ricostruzione critica data nel vol. 6 della II sezione della MEGA; si tratta di un testo molto interessante, in quanto è il cantiere di lavoro per la totale riscrittura del primo capitolo sulla Merce del 1867 e della relativa appendice per i “non-dialettici” in preparazione della II ed. tedesca e dell’ed. francese. Esso dà delle indicazioni fondamentali su come leggere il testo a stampa. Si ha infine una nuova traduzione del cosiddetto VI capitolo inedito tratto dal manoscritto 1863/4 secondo quanto pubblicato nella MEGA, II sezione, vol. 4.1.
Vediamo infine, brevemente, come sono strutturati i due tomi. Nel primo il lettore trova il testo della IV ed. tedesca. Nel secondo tomo si hanno le varianti dalla I, II e III edizione tedesca e dalla francese, i due manoscritti indicati (I parte del Manoscritto 1863-65 – il cosiddetto “VI capitolo inedito” – ed il Manoscritto 1871/2) e tutti gli strumenti critici: glossario, note esplicative e indici (pesi e misure, letteratura citata, nomi, argomenti). Si tratta, complessivamente, di circa 1600 pagine.


3.
Per quanto riguarda la traduzione, è noto il detto “traduttore-traditore”; valido in genere, esso assume un particolare significato nel caso del Capitale, un mix di linguaggio hegeliano, sarcasmo pubblicistico, verve umoristica, e via dicendo. Difficile rendere tutto ciò. Si è cercato di fare il possibile per la vivacità dello stile, ma, in relazione alle problematiche più strettamente scientifiche, è parso necessario dedicare alcune pagine alla spiegazione della traduzione di alcuni termini chiave. Le scelte fatte in questa nuova edizione si legano, infatti, ai problemi emersi dal confronto fra le traduzioni esistenti e le problematiche metodologiche sviluppatesi parallelamente alla pubblicazione della nuova edizione storico-critica.
Si era inizialmente pensato di utilizzare la traduzione Cantimori e di dare semplicemente le varianti. Pur restando essa un valido strumento anche a distanza di tempo, ci si è resi conto, tuttavia, di come, similmente a quanto accaduto nella maggior parte delle traduzioni occidentali esistenti, non si fosse riusciti in quella sede a risolvere vari e significativi problemi legati alla complessità categoriale del testo, soprattutto nei primi capitoli. Tale insufficienza ha reso impossibile a chi non potesse accedere al testo tedesco una più profonda comprensione delle problematiche metodologiche e dell’effettivo sviluppo categoriale.
Per quanto riguarda la quarta edizione tedesca, si sono allora ritradotti ex-novo i primi sette capitoli e si è significativamente rivista la parte restante (le traduzione delle varianti e degli altri manoscritti sono tutte nuove). Come accennato, per un principio di trasparenza e chiarezza, si è deciso di rendere conto delle scelte di traduzione in un ampio glossario. Tradurre un certo termine in un certo modo significa, infatti, fare delle scelte interpretative. Se ciò è inevitabile, pare corretto palesarlo. Ecco qui una lista di alcune delle categorie interessate di ciascuna delle quali si rende: Veräußerung/Entäußerung, Ding/Sache, wirklich/reell, darstellen/vorstellen/repräsentieren, Erscheinung/Schein e varie altre.
Per questa via, il lettore ha accesso al testo tedesco e, se pur dissentisse con la scelte adottate, avrebbe la possibilità di risalire al termine/categoria in questione.


4.
Non in questa sede vorrei parlare delle possibili nuove interpretazioni del testo, per non sovrapporle al carattere critico dell’edizione. In maniera più generale mi pare si possa tuttavia affermare che diverse delle interpretazioni tradizionali, anche relativamente a punti fondamentali diventati senso comune perché trasformati in assiomi da manuale, paiono, direi, “imprecise” ad una lettura filologica e disinteressata del testo. Con ciò intendo dire che anche sviluppi sofisticati della teoria di Marx, risultato di dibattiti complessi e di grande valore conoscitivo, non di rado hanno preso le mosse da una non precisa formulazione dei presupposti. Credo che il grande contributo della filologia, in un momento di crisi e ristagno generale nel panorama teorico in qualche modo connesso a Marx, stia non tanto nel far rivivere dibattiti secolari ormai sostanzialmente chiusi da decenni, o nell’andar oltre quel Marx mal letto, quanto nel ripensare la correttezza delle premesse di quelle interpretazioni, il loro fondamento filologico. A me sembra che, pur nell’ampio spettro delle letture possibili, la filologia aiuti ad escluderne alcune sicuramente infondate, o a dare maggiore o minore supporto ad altre plausibili. A mio parere è questa la scelta più proficua e scientificamente feconda da fare e mi auguro che questa nuova edizione possa contribuire in tal senso.

Roberto Fineschi

[1] Per maggiori informazioni sulla MEGA rimando al mio Un nuovo Marx, Roma, Carocci, 2008 ed al volumetto in corso di pubblicazione MEGA2, Marx ritrovato, a cura del compianto A. Mazzone, Roma, Mediaprint.

[2] Sui manoscritti per il II libro rimando al mio Il secondo libro del Capitale dopo la MEGA2 in “Marxismo oggi”, 2010/3, pp. 32 ss., ripreso nella nuova introduzione al menzionato libro curato da A. Mazzone. pp. 25 ss.

[3] Sui principali problemi legati al manoscritto per il terzo libro del 1864/5 in rapporto al libro a stampa, rimando al mio Ripartire da Marx, Napoli, La città del sole, 2001, pp. 370 ss.

[4] Il fatto che Marx stesso abbia detto che questa edizione era da preferire ha spinto molti a ritenerla migliore “in generale”. In realtà, la ricostruzione filologica permette di mostrare con estrema precisione quali siano le migliorie e quali i difetti. Senza entrare nel merito di questo dibattito, per il quale rimando alla mia Introduzione al Capitale, si può affermare che le migliorie sono da trovarsi nella settima sezione sull’accumulazione, mentre i difetti sono….la traduzione stessa, che per circa un terzo del testo si discosta significativamente dall’originale, al punto che non vi si trova addirittura il concetto di “valorizzazione”!

[5] Cfr. K. Marx, Verzeichnis der Veränderungen für den ersten Band des “Kapitals“ in K. Marx, F. Engels, Gesamtausgabe, sez. II, vol. 8, Berlin, Dietz, 1989.

Roberto Fineschi ha studiato filosofia ed economia a Siena, Berlino e Palermo. Fra le sue pubblicazioni ricordiamo Ripartire da Marx (Napoli 2001), Marx e Hegel (Roma 2006) e Un nuovo Marx (Roma 2008). Vincitore del premio Rjazanov, è membro dell’International Symposium on Marxian Theory, con il quale ha pubblicato vari saggi e libri, fra cui Re-reading Marx. New perspective after the critical edition, Palgrave 2009.


Dove, in «sinistrainrete»,
si parla di e con Roberto Fineschi

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... cola Abbagnano, Storia della filosofia, Vol. III, Cap.10, “Marx”, 3. La critica al “misticismo logico” di Hegel. [13] Roberto Fineschi, Marx e Hegel, Carocci, 2006, pag. 17. [14] Karl Marx, Il Capitale, ...Created on 30 October 2015
32. Marco Gatto: Il ritorno della dialettica
... rato da Marx, vedi invece la prospettiva disegnata da Massimo Mugnai in Il mondo rovesciato. Contraddizione e «valore» in Marx, Bologna, il Mulino, 1984, in part. pp. 125-139. [21] Cfr. Roberto Fi ...Created on 06 December 2013
33. Tommaso Redolfi Riva: Teoria critica della società?
... . [28] Ibid. [29] T. W. Adorno, Einleitung in die Soziologie, cit., p. 58. [30] K. Marx, Il Capitale, MEOC, XXXI, a cura di Roberto Fineschi, Napoli, Città del Sole, p. 85.  ...Created on 27 November 2013
34. Giovanni Sgro’: Sul cosiddetto «Capitolo sesto inedito» di Marx
... ta di tre blocchi di testo: alcune pagine singole, il capitolo sesto ed alcune note sparse. La traduzione è di Giovanni Sgro’ ed è stata rivista insieme al curatore della nuova edizione (Roberto Fineschi), ten ...Created on 11 November 2013
35. Riccardo Bellofiore: Il Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto, e la sua costituzione
... soprattutto sul ruolo gnoseologico della dialettica, mostrando la connessione interna di oggetti e concetti, ma apre anche a una sorta di legame ‘ontologico’ debole tra Hegel e Marx. Roberto Finelli (2004) ...Created on 28 October 2013
36. Oscar Oddi: La crisi secondo Riccardo Bellofiore
... Bellofiore e Roberto Fineschi “Marx in questione. Il dibattito “aperto” dell’International Symposium on Marxian Theory”, La Città del Sole, 2009, pp.352, € 25,00, per un quadro, parziale ma esaustivo, ... Created on 07 July 2012
37. Alfonso Gianni: Karl Marx, le revenant
  ... giovane da quello maturo; se addirittura si ritiene il primo in aperta contraddizione nei confronti del secondo, come un ostacolo alla sua comprensione; se si dipinge , come in parte fa Roberto Finelli, ...Created on 04 June 2012
38. O.Calcagno e G.Ragona: Il ritorno di Marx in Italia
... ma che comunque si presenta caratterizzato da spiccati elementi d’innovazione,9 a partire dalla scelta del curatore Roberto Fineschi di presentare il testo del 1867 in una traduzione profondamente rivista, ...Created on 18 May 2012
39. Oscar Oddi: Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia
... rivendica l’attualità della dialettica di Hegel, del socialismo scientifico di Marx, della critica del colonialismo di Lenin e del comunismo critico di Gramsci, e infine le riflessioni di Roberto Finelli, ...Created on 18 October 2011
40. M.Badiale e M.Bontempelli: Una risposta dovuta
... xista, sui cui studi evidentemente Moro non è aggiornato (sarebbero da vedere soprattutto quelli di altissimo livello di Roberto Fineschi), c’è un unico punto nel quale egli fa una obiezione che ha qualc ...Created on 17 May 2011
41. Tommaso Redolfi Riva: Recensione a “Marx e Hegel”
Recensione a Marx e Hegel di R. Fineschi* di Tommaso Redolfi Riva Con questo studio Roberto Fineschi continua il proprio percorso di ricerca iniziato con la pubblicazione di un’importante rilettura ...Created on 16 January 2011
42. Riccardo Bellofiore: Marx e la fondazione macro-monetaria della microeconomia
... rxiana relativa alla «legge del prezzo» in quel volume: una assunzione necessaria all'analisi della «formazione del capitale» nella sua purezza. Questo processo essenziale, in quanto nucleo della valor ...Created on 11 January 2011
43. Riccardo Bellofiore: Risposta a Basso su “Marx in questione”
... 8 gennaio Luca Basso ha recensito il volume Marx in questione (Città del Sole, 2009) che ho curato con Roberto Fineschi, e che raccoglie alcuni degli scritti degli autori dell'International Symposium in Marx ...Created on 23 November 2010
44. Enzo Modugno: Alla scoperta del moro
...  (Marx in questione, a cura di Riccardo Bellofiore e Roberto Fineschi). Sono molti gli aspetti del capitalismo che l'opera di Marx, un secolo e mezzo dopo, riesce ad interpretare con insuperato rigore: perfi ...Created on 15 July 2010
45. Michele Nobile: Il marxismo italiano, senza Capitale
... prospettive, Mimesis, Milano 2005, a cura di Roberto Fineschi 4 Cristina Corradi, «Storia dei marxismi in Italia: un tentativo di sintesi», in Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento, ...Created on 13 April 2008

Alcuni libri di

Roberto Fineschi

 

Karl Marx. Rivisitazioni e prospettive, Mimesis, 2005

Karl Marx. Rivisitazioni e prospettive, Mimesis, 2005

Marx ed il marxismo non sono la stessa cosa. Il marxismo è stato un movimento storico-politico caratterizzato da luci e ombre (e ovviamente non solo da ombre) che a Marx si è ispirato. Ma credere che a questa esperienza storica si possa ridurre il lascito e la portata teorica di un autore così importante non è solo sbagliato, è una sciocchezza. Questo libro si ripropone di contribuire alla sua riscoperta attraverso approcci diversi, interdisciplinari, tutti volti a mettere in luce il senso di esperienze passate nella prospettiva di un possibile utilizzo attuale e futuro. Perché la fine della moda non significa la fine del pensiero.

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Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Caroci, 2006

Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Carocci, 2006

Il libro affronta il rapporto Marx-Hegel alla luce di un’analisi filologica dei testi e di larga parte del dibattito italiano e internazionale svoltosi intorno alla questione. Cerca di ricostruire lo sviluppo della comprensione marxiana di Hegel, per definire rigorosamente che cosa egli intenda quando dice “Hegel” e “dialettica”, che mette poi a confronto con gli scritti di Hegel. In tale confronto individua da una parte limiti significativi e dall’altra mostra che l’origine di essi deriva dalla ricezione del maestro nella sinistra hegeliana. Attraverso la distinzione fra la comprensione marxiana e gli scritti di Hegel, l’autore dimostra la coerenza interna di tutte le affermazioni marxiane su Hegel, quindi in che senso la sua sia una teoria dialettica.

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Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del Capitale, La Città del Sole, 2006

Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del Capitale, La Città del Sole, 2006

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Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA), Carocci, 2008

Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA), Carocci, 2008

Marx è un autore per molti aspetti nuovo. Questo libro è uno dei primi studi italiani che, alla luce degli inediti, si cimenta con la ricostruzione del pensiero dell’autore tedesco. Quattro i suoi nuclei tematici: la presentazione dell’edizione critica e del dibattito che l’ha accompagnata; il I libro del Capitale, che possiamo leggere oggi nella sua stratificazione redazionale; un’analisi critica delle potenzialità di questo testo per lo sviluppo di una teoria dei soggetti storici; alcuni aspetti del marxismo italiano.

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Marx-Engels, Opere complete, vol. 31, La Città del Sole, 2011 a cura di R. Fineschi

Marx-Engels, Opere complete, vol. 31, La Città del Sole, 2011 a cura di R. Fineschi

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Roberto Fineschi – Tommaso Redolfi Riva – Giovanni Sgro’ (a cura di), Karl Marx 2013, «Il ponte», LXIX (2013), nn. 5-6 (maggio-giugno 2013).

Roberto Fineschi – Tommaso Redolfi Riva – Giovanni Sgro’ (a cura di), Karl Marx 2013, «Il ponte», LXIX (2013), nn. 5-6 (maggio-giugno 2013).




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