Salvatore A. Bravo – Pilocchio. Storia di un Pinocchio dei nostri giorni. Pinocchio, sintomo di un mondo disumanizzato, è la vitalità di chi cerca la guarigione, perché l’avventura della vita esige partecipazione, e la salvezza è sempre possibile, se si rinuncia ad un individualismo senza storia e bellezza.

Pinocchio - Collodi

Salvatore A. Bravo

Pilocchio. Storia di un Pinocchio dei nostri giorni

ISBN 978-88-7588-294-5, 2021, pp. 128, Euro 15

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Quarta di copertina

Rileggere Pinocchio è come trovarsi palesate, senza per questo cadere nella disperazione e nel pessimismo, le armi più efficaci che il potere usa per dominare. Le avventure di Pinocchio sono le nostre avventure, sono l’inquietudine che non si rassegna ad una vita anonima, sono l’incessante tensione per uscire dalla “caverna platonica degli inganni”. Pinocchio, sintomo di un mondo disumanizzato, è altresì la vitalità di colui che cerca la guarigione. I processi di identificazione con il burattino favoriscono il riattivarsi di energie critiche, per cui rileggere Pinocchio può significare l’inizio di un processo di emancipazione dalla “banalità del male” in cui siamo immersi, e che spesso rimuoviamo per cedere agli automatismi senza concetto. Il testo di Collodi ci invoca al dialogo, ci sollecita ad affinare lo sguardo nella profondità del buio delle “caverne in cui siamo inconsapevoli prigionieri”. All’antiumanesimo del pessimismo è necessario contrapporre la forza storica della vita, la quale non si lascia prosciugare dal sole nero del potere, ma sa leggere il presente utilizzando le categorie del pensiero, generatrici di possibilità. Solo la parola libera: ne è testimonianza la storia di Pinocchio. Il burattino insegna a bambini e adulti che l’avventura della vita esige partecipazione, che la salvezza è sempre possibile, se si rinuncia ad un individualismo senza storia e bellezza. La maieutica filosofica necessita di simboli che favoriscano il logos. L’opera di Collodi, quindi, si presta ad esse­re un insospettato veicolo di consapevolezza comunitaria.


A mo’ di introduzione

Perché rileggere Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino?
La risposta è nello sguardo che scruta il presente e guarda il futuro, un futuro in cui si addensano ombre che necessitano di essere pensate. Nel testo di Collodi sono presenti i pericoli della modernità.
L’obnubilamento della ragione oggettiva impedisce la razionalità critica, e senza razionalità oggettiva si è incapaci di dare una direttiva politica ed etica al vivere comunitario. Prodigiose scoperte si susseguono, ma le «passioni tristi» sono le protagoniste dell’Occidente globalizzato. La razionalità soggettiva che persegue fini puramente individualistici nel disprezzo di ogni vincolo comunitario ed etico è la norma dello stato presente. La solitudine dell’uomo globale è la verità perennemente occultata dalla pubblica ragione pervertita ed addomesticata in chiacchiera senza concetto. La scienza e l’economia – nella loro tragica alleanza – sono mezzi e strumenti per trasformare ogni ente, ogni vita, ogni contingenza in plusvalore. Tutto è possibile: anche convertire Pinocchio in asino da spettacolo, fino ad usare la pelle dell’asino Pinocchio per produrre un tamburo.
Pinocchio ci racconta della minaccia che incombe ad opera della tecnocrazia. Il Prometeo scatenato è tra di noi, ogni «euristica della paura» è dimenticata nel sonno della razionalità e cade nel nichilismo. H. Jonas, con l’euristica della paura, ci ha donato non solo un criterio etico per l’azione, ma anche ci ha invitati a pensare le prodigiose forze distruttive di cui disponiamo. Se un’azione comporta la possibilità di effetti incontrollabili e distruttivi bisogna, pertanto, astenersi dal compierla. Responsabilità ed etica sono un binomio non scindibile. Pinocchio è il racconto di un tortuoso cammino verso la responsabilità, la quale dev’essere responsabilità verso se stessi e verso la comunità nella quale si vive.
Senza tali fondamenti concreti ogni appello alla responsabilità è solo propaganda mediatica senza risultato. Dinanzi all’abisso si diseduca all’impegno civile, e si spingono popoli e nazioni ad abbandonarsi al consumo. Pinocchio è il segno di un pericolo che è tra di noi. Singoli, popoli e nazioni vivono l’esperienza di una regressione generale verso forme di immaturità collettiva social­mente indotta. Un mondo di omuncoli, “Pinocchi”, che vivono tra la menzogna e la bugia non può che generare dei mostri nella generale infelicità.
Pinocchio per diventare “persona” ha avuto un punto di riferi­mento costante: “Geppetto” che cerca e attende. L’attualità – senza riferimenti umani ed ideologici – rischia di abbandonare le nuove generazioni ad una deriva regressiva senza scampo e salvezza.
Ogni realtà – per il capitalismo – dev’essere tradotta in economia, in salto verso il PIL, unica divinità sopravvissuta nel crepuscolo del sacro e della razionalità oggettiva. Il contesto descritto da Collodi è governato dal profitto e dall’utile. Pinocchio, d’altra parte, è il sintomo della malattia della modernità, vuole «solo correre dietro le farfalle», rifiuta il suo radicamento nella storia con l’impegno necessario. È la divina indifferenza, l’individualismo che esige il mondo a sua misura. È una figura della crisi, e specialmente la soluzione non può che avvenire attraverso il «travaglio del negativo».
Collodi è ottimista, in quanto Pinocchio vivrà il male per uscirne “persona” che ha visto l’abisso in cui è possibile perdersi; e dunque ha trasceso il male: la tragedia di cui è stato protagonista non ha preso il sopravvento. Il mondo di Pinocchio è un’età senza pensiero, dove si calcola, ma non si pensa.
Il potere si mostra nella sua crudezza sugli ultimi, e specialmente vive e si consolida nella testa dei dominati (Maestro Ciliegia). Geppetto è l’antitesi di un mondo che sa solo calcolare, è il padre amorevole che ha rinunciato all’utile per creare.
Geppetto è trasgressivo, è l’antitesi dell’homo oeconomicus, è l’umanità che resiste, malgrado la povertà materiale, è la fonte sempre viva dell’universale che non può essere completamente negato, pur in una realtà senza cuore e senza scampo. Geppetto è la paternità assediata che si rigenera in solitudine.
Geppetto non ha mai rinunciato alla speranza di generare la vita. È il padre che deve donare il principio di realtà al figlio che antepone il principio di piacere al principio di realtà.
Le disavventure di Pinocchio sono acuite dal contesto che nega ogni vera formazione per corrompere ed usare, per deviare dal tempo profondo del progetto e sospingere verso il tempo frammentato, negli attimi che si susseguono sotto l’egida dell’eccesso, dell’Eden pronto a ribaltarsi in incubo ed a svelare la sua verità. Pinocchio vive gli anni della sua formazione in un mondo dominato dalla disuguaglianza e dall’arbitrio. Pinocchio deve ricreare “il mondo” per poter sfuggire alla distopia del quotidiano.

La storia di Pinocchio è comparabile alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel, in cui l’autocoscienza diviene consapevole di sé con l’errare dialettico, con la riflessione sull’esperienza che eleva dal particolare all’universale. Senza l’attraversamento delle contraddizioni e delle resistenze è impossibile attuare le potenzialità che ogni persona reca e serba nel suo scrigno. Tutto “lavora”, affinché la paideia di Pinocchio non si concretizzi e resti burattino tra le mani di un potere invisibile ed onnipresente.

Pinocchio è la tragedia nell’etico, è l’attraversamento delle caverne e delle false verità, in cui si inciampa nel cammino per diventare esseri umani. Pinocchio scende nella profondità di se stesso per ritrovarsi essere umano. La profondità di Pinocchio non è kantianamente astratta, ma concreta, poiché incontra nel suo “io” la collettività di cui è parte integrante. La parte e il tutto dapprima confliggono per poi ritrovarsi in una unità rispettosa delle differenze. Nella discesa conosce e riconosce il proprio creatore, Geppetto, è il figlio che cerca il padre per un nuovo incipit.
Creatore e creatura nel mondo della vita sono figure che albergano in ogni relazione umana. È il figlio che non si confonde con il padre, ma desidera averlo accanto, riconosce l’autorevolezza e l’autorità amorevole del padre in un mondo che già si delinea senza padri. Il riconoscimento dell’archetipo paterno non significa che il figlio non possa assumere comportamenti “paterni” verso il suo creatore. Prima di iniziare vorrei soffermarmi su una parola che ricorre spesso nel racconto: povertà.
Il racconto di Collodi è una denuncia della povertà, ma errano, credo, coloro che si limitano a dare a tale parola – nell’equilibrio del racconto – una valenza riferita alla sola povertà materiale. Pinocchio è divorato più volte dalla fame, al punto da mangiare ciò di cui mai avrebbe pensato di potersi nutrire. Denuncia delle condizioni delle classi subalterne nell’Italia di fine Ottocento.
Accanto a questo livello d’analisi, nello scorrere del testo si incontrano molte forme di povertà: l’animalità avida, del Gatto e della Volpe; la corruzione del potere del Giudice scimmia, fino al divertimento senza limite del paese dei balocchi. Le povertà sono il pericolo eterno dell’umanità. Il racconto, apparentemente per bambini, in realtà è capace di visualizzare – in una serie di immagini – l’eterno che accompagna ogni vita durante la sua formazione. L’eterno è simbolizzato, ma anche storicizzato, in quanto vi è la descrizione di un mondo nelle grinfie del guadagno.
Collodi denuncia le pratiche economiche finalizzate all’accumulo e scorge gli effetti futuri di una realtà senza fondamenti etici, che ha venduto l’anima per soddisfare i suoi desideri. Pinocchio e Geppetto sono due resistenti, non venderanno l’anima per i loro desideri inautentici, perché alla fine vivranno della comune radice che li unisce, senza la quale non vi è umanità, non vi è progetto, ma solo vita biologica senza senso. Alla fine del racconto Pinocchio sostiene passo passo Geppetto, incontrano il Gatto e la Volpe, ma Pinocchio non cade più nella trappola delle loro parole, perché «le povertà sono state sconfitte».
Le povertà sono il velo di Maya che occulta allo sguardo la sua profondità. Alla fine del racconto il velo di Maya cade e Pinocchio riconosce in Geppetto una parte di sé da amare e sostenere nella cura costante dell’amore vicendevole. Il velo di Maya che cade è la luce della ragione che si ritrova con l’emotività positiva, e ciò consente a Pinocchio di riconoscere la verità del Gatto e della Volpe e di soppesarne correttamente le parole. Imparare ad essere umani significa saper ascoltare le parole come parte di una totalità concreta che viene a noi e ci invoca ad una complessa ermeneutica. Pinocchio è la vita nella sua ricca potenzialità che si confronta con le povertà che ne minacciano lo splendore.
Pinocchio e Geppetto sono nella bocca del pescecane fin dall’inizio del racconto, sono all’interno di una realtà storica, in cui la sussunzione è un destino che divora gli ultimi ed i piccoli. L’incontro con il pescecane è l’incontro-scontro con “l’apparir del vero” senza il quale ogni inizio ed emancipazione sono impossibili.

S. Bravo


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Fallimenti e ricostruzioni teoriche. Note su Gianfranco La Grassa.

Gianfranco La Grassa 01

Salvatore Bravo

Fallimenti e ricostruzioni teoriche

Note su Gianfranco La Grassa

Gianfranco La Grassa (Conegliano, 19 gennaio 1935) è un post-marxista, definizione generica e nel contempo embrionale, perché la galassia del post-marxismo è abitata da un mondo plurale, in cui convivono una molteplicità di posizioni e tendenze, ma non è ancora chiaro quale prevalga. È un pensatore che segna il passaggio dal crollo del marxismo a una nuova postura di sinistra ancora incerta, quindi, dai tratti indefiniti, benché usi le categorie marxiane per leggere il presente. Il punto di partenza di La Grassa è constatare il sostanziale fallimento del comunismo reale, poiché la classe operaia non è stata capace di gestire l’apparato industriale. Di fondo vi è un limite teorico di Marx e del marxismo che ha “ridotto” la contrapposizione tra capitale e salario a semplice opposizione giuridica tra proprietari e non proprietari. La realtà storica effettiva, invece, non è semplice antitesi giuridica, ma opposizione tra capacità di gestione manageriale della proprietà (dominanti) e sulla sponda opposta l’incapacità decisionale dei subalterni (dominati), i quali sono subalterni non solo per la condizione economica, ma specialmente perché sono esclusi dai circuiti decisionali delle imprese e del capitale. Il comunismo reale ha palesato tale “privazione culturale” con l’effetto che la rivoluzione è ricaduta su se stessa, si è burocratizzata, ha nuovamente escluso gli operai ed i contadini dalla gestione del potere. Il lavoratore collettivo produttivo ipotizzato da Marx, quale punto nodale per la messa in atto del comunismo non si è materializzato, poiché si è riformata una nuova classe di gestori del potere economico di cui la classe operaia è stata suddita. Nella visione di Marx il capitalismo si sarebbe trasformato in capitalismo finanziario (III Libro del Capitale), per cui i padroni avrebbero lasciato la gestione delle fabbriche agli ingegneri e ai tecnici, i quali si sarebbero dovuti alleare con gli operai, al fine di controllare collettivamente le fabbriche, ribaltando il potere, e liberando operai e classe media. I padroni, ormai “aristocrazia della finanza”, si sarebbero dedicati a “produrre” plusvalore in borsa, il parassitismo finanziario con la loro autoesclusione dalla diretta gestione della produzione sarebbe stato l’inizio della rivoluzione.
La classe operaia idealizzata da Marx quale motore universale della storia, non aveva e non ha le competenze per una simile operazione politica e strutturale, essa è stata un mito catalizzatore che ha mostrato “nella storia” la sua verità. Il comunismo non ha mantenuto le sue promesse, il disincanto per le condizioni dei subalterni si è congiunto con il fallimento predittivo di Marx. La successione stadiale ipotizzata da Marx è stata cancellata dalla storia effettiva. I due elementi hanno prodotto il collasso del comunismo, la sua effettiva scomparsa e il disincanto generalizzato.
La Grassa non si definisce marxista, sperimenta una nuova identità partendo dall’analisi delle condizioni presenti del capitalismo. La verità nuda e cruda del comunismo è davanti a noi, distogliere lo sguardo significa solo rimandare il problema senza risolverlo:

“Perché l’elemento decisivo di tale teoria consisteva nella supposta oggettiva funzioni emancipatrice universale della classe operaia considerata nella sua (quasi) totalità ( le “masse proletarie”) oppure con più specifico riferimento alla sua presunta avanguardia che ne rappresentava la coscienza – il manifestarsi dell’incapacità rivoluzionaria di detta classe, che non si volle mai riconoscere formulando una sequela di ipotesi ad hoc sempre più inconsistenti, condusse infine al ripiegamento su una costruzione socialistica da parte dello Stato. In definitiva, ebbe la sua rivincita il socialismo di Stato Lassalle, aspramente criticamente e sbeffeggiato da Marx[1]”.

L’incapacità operaia di gestire la produzione con la classe media si è confermata non solo ad Est, ma anche ad Ovest. Dinanzi ad una simile verità storica non resta che prendere atto dell’incapacità della classe operaia di essere la protagonista del movimento rivoluzionario, per cui bisogna congedarsi dai miti marxisti e marxiani per un sano principio di realtà da cui riteorizzare ex novo l’alternativa:

“Il passaggio dalla proprietà al potere di disporre fu per l’epoca – in cui la lotta dei comunisti rivoluzionari (che si consideravano neoleninisti) e dei marxisti rinnovatori mirava a sconfiggere dall’interno il presunto neorevisionismo delle dirigenze PCUS e di praticamente tutti i partiti comunisti, salvo per un breve periodo (fino alla morte di Mao nel 1976) quello cinese – un evento liberatorio, di cui è oggi estremamente difficile rendersi conto. Tale passaggio manteneva ferma la convinzione della centralità rivoluzionaria della classe operaia, non riprendendo quindi il concetto di lavoratore collettivo cooperativo, poiché era fin troppo evidente, anche in seguito all’esperienza accumulata nell’ambito del capitalismo occidentale, che le potenze mentali e le funzioni direttive della produzione (in realtà dei processi di lavoro) dimostravano di non essere per nulla in grado, malgrado alcune speranze sollevate dal movimento del 1968, di staccarsi dal potere delle classi proprietarie e di criticare queste ultime in funzione di una – in realtà mai innescata, né all’ovest né all’est – riappropriazione reale dei mezzi di produzione (capacità di utilizzarli per i propri fini, ecc.) da parte dell’intero corpo lavorativo[2]”.

 

Capitalismo e razionalità strategica
L’analisi “oggettiva” di La Grassa per teorizzare il movimento anticapitalistico parte dall’errore teorico di fondo dei marxisti, i quali hanno effettuato un riduzionismo puramente giuridico ed economicistico, per cui bisogna “ripartire” da un macroelemento economico, tecnico e sociale, ovvero più che la lotta tra capitale e lavoro salariato, è la lotta strategica tra gli imprenditori ad essere la forza sostanziale e dinamica del capitalismo che ha raggiunto la sua espressione evidente nella contemporaneità. Tale lotta non può che avvenire in presenza di altissime competenze manageriali che si traducono in strategie per conquistare i mercati e per conquistare le strutture statali al fine di affermare la supremazia dei gruppi in lotta tra di loro. La razionalità strategica diviene il perno operativo dei gruppi imprenditoriali-manageriali in lotta che per conquistare mercati, politica e Stato con forme concorrenziali aggressive che La Grassa denomina “conflitti strategici” con cui appropriarsi di quote di mercato e con esso “zone d’influenza” sociale, culturale e politica. Il denaro è per i “dominanti” un mezzo per conquistare un potere sempre più vasto, per penetrare in aree sempre più vaste della politica come della produzione culturale. In questo contesto “i dominanti” non sono assimilabili alle classi agiate, perché per essi il denaro è solo uno strumento per ritagliare porzioni sempre più larghe di potere, e lo stesso Stato è interno a questa strategia, esso non è caratterizzato da omogeneità strutturale, ma dietro la parvenza dell’unità è mosso dalle forze strategiche in campo:

“Concentrare l’attenzione teorica e analitica solo sull’oligopolio e/o la concorrenza, in quanto forme diverse di mercato, è appunto conseguenza di quella impostazione che pone al centro i problemi della proprietà o meno dei mezzi di produzione e che considera l’impresa solo come unità produttiva. Se teoria e analisi vengono fondate sul concetto di conflitto strategico, la lotte per le quote di mercato, e le varie forme di quest’ultimo, vengono ricomprese nel più vasto orizzonte dello scontro interdominanti per le zone d’influenza, sia con riguardo alle diverse sfere sociali (economica come politica e culturale) sia riferendosi, in senso geopolitico, alle diverse aree della formazione capitalistica mondiale[3]”.

La lotta strategica produce nuovi bisogni, per vendere nuovi prodotti. L’agire strategico si rafforza mediante la cultura del consumo, con l’omogeneizzazione delle scelte dei consumatori/dominati orchestrata dai gruppi manageriali. La razionalità strategica non agisce semplicemente incrementando la produzione, ma “studia” strategie di condizionamento sociale per cambiare modi di vita, tradizioni e morali, per cui il “nuovo prodotto” non è solo un elemento materiale che produce plusvalore, ma è veicolo di nuovi modelli culturali che calano dall’alto delle strategie manageriali e che colgono i consumatori nel ruolo dei “dominati” nel lavoro come fuori di esso:

“L’anello di congiunzione tra esterno e interno dell’impresa capitalistica, tra i ruoli della strategia di conflitto interimprenditoriale e quelli di coordinamento interno orientato al minimax, è rappresentato dalle innovazioni di prodotto[4]”.

 

Crisi e opportunità
Il conflitto strategico interimprenditoriale è il tallone di Achille del capitalismo, poiché le lotte per la conquista imperiale di quote di mercato e potere sempre più ampie a livello globale, e le tensioni interne per controllare gli apparati statali da usare per favorire i gruppi in ascesa espone il capitalismo a crisi, le quali possono essere un’opportunità per il suo ribaltamento. Non vi sono le fasi stadiali marxiste a profetizzare il cambiamento, pertanto la crisi è una partita aperta, in cui si muovono sia movimenti anticapitalistici, sia movimenti ed ideologie di diverso genere. La crisi è un momento fluido come il potere del capitale, è un’improvvisa fessurazione del potere all’interno del quale possono agire forze dinamiche di opposizione. Non vi è nulla che assicuri il risultato, ma nelle crisi ci si gioca una possibilità di cambiamento verso destra o verso sinistra non realizzabile nei momenti di “solidità fluida” del capitalismo:

“E’ in una situazione di simile complicatezza – per nulla affatto caratterizzata da un’omogenea massa di dominati in movimento in movimento contro la minoranza dei dominanti – che deve destreggiarsi l’eventuale gruppo di azione strategica per la trasformazione anticapitalistica. La tensione morale, di cui ho detto, è condizione necessaria ma non sufficiente; ad essa deve aggiungersi la capacità di analisi delle condizioni di possibilità che la crisi, con la lotta acuta scoppiata tra i dominanti per il rivoluzionamento delle posizioni di supremazia precedenti la crisi stessa, apre alla trasformazione anticapitalistica. Non c’è nulla di precostituito, nessuna ricetta di carattere generale in grado di indicare le modalità, storicamente specifiche, delle azioni strategiche che i gruppi mossi da intenti trasformativi della formazione sociale esistente debbono compiere per ottenere successo; mai immancabile, più spesso contrarie[5]”.

Gianfranco La Grassa ha sicuramente posto in essere problematiche rimosse dal marxismo ufficiale. Non si può per le sue posizioni teoriche definirlo un comunista, diventa difficile collocarlo all’interno di una categoria ben determinata, ciò non necessariamente è negativo, benché senza un’appartenenza esplicita il quadro teorico rischia di desertificarsi in assenza di tensione dialettica. Nella teoria del filosofo di Conegliano non vi è un fondamento metafisico, pertanto non è chiaro il percorso che “le forze morali anticapitalistiche dovrebbero percorrere”. Le crisi possono essere momenti congiunturali di grandi opportunità, ma in assenza di un fondamento metafisico è facile che l’opposizione anticapitalistica si sciolga in una pletora di posizioni, poiché il semplice “anticapitalismo”, non può tenere assieme movimenti e partiti che si connotano sempre più per la loro pluralità frammentata, mentre i fondamenti metafisici comuni permettono con più facilità di trovare compromessi e progettualità chiare da perseguire. Il soggetto che dovrebbe in situazione di crisi operare la svolta, non è in alcun modo esplicitato. Si può dubitare della formazione improvvisa in una situazione emergenziale di un soggetto rivoluzionario, credo che esso debba configurarsi nei periodi di apparente quiete del sistema, giacché il capitalismo non è solo conflittuale a livello globale, ma anche al suo interno agisce secondo modalità “distribuitive” che creano squilibri economici e di potere e specialmente produce una “qualità di vita” non rispondente ai bisogni umani. Il tema dell’alienazione è aggirato e la “normale violenza” che scorre nel sistema può, invece, diventare il nucleo concettuale trasversale per aggregazioni progettuali condivise. La Grassa ci offre strumenti per decodificare il presente, ma non ci aiuta ad orientarci verso il futuro che, in tale contesto, risulta nebuloso e distante, e ciò può demotivare la ricerca di un’alternativa al capitalismo come “stile di vita”. I gruppi che tumultuosamente si muovono nella crisi, in assenza di fondamenti metafisici e preparazione dialettica, possono sviluppare tendenze distruttive quanto il capitalismo:

“Nella crisi dunque – ma è solo in essa che si muovono in senso proprio, e tumultuosamente, le masse – i gruppi strategici trasformativi debbono attuare la guerra di movimento, e puntare piuttosto direttamente al controllo degli apparati del potere statale[6]”.

 

Ricominciare da Marx?
L’incapacità manageriale degli operai evidenziata da La Grassa ha un senso all’interno del capitale, ma rovesciato il capitalismo la gestione delle imprese e delle fabbriche dovrebbe essere non certo fondata sul paradigma manageriale che risponde alla logica della razionalità strategica e competitiva, ma sul servizio e sulla soddisfazione dei bisogni delle comunità. Non sono pochi gli esempi, anche se isolati, di operai che gestiscono direttamente imprese con un’organizzazione solidale. Il fallimento del comunismo e la momentanea vittoria del liberismo rischiano di oscurare la complessità dei fenomeni storici, i quali se sono letti sotto il “solo” cono d’ombra dell’evidente sconfitta storica, rischiano di eternizzare il liberismo. La storia non è prevedibile, pertanto si può ipotizzare che sia possibile ripensare il comunismo su nuova fondamenta e concettualizzando la sconfitta storica. Se si rinuncia a tale progetto si diventa complici della trasformazione della società in un “eterno mercato”. Un punto teorico da cui ricominciare, lo esplicita lo stesso La Grassa, il comunismo teorizzato da Marx esaltava l’individualità comunitaria, mentre il comunismo reale ha appiattito le individualità come la partecipazione:

“Sono tuttavia convinto che secondo Marx e il migliore marxismo – non certo quello, ad es., dei “sessantottini”; né quello sindacale, ecc. – il comunismo volesse e dovesse esaltare l’individualità, non avvilirla né soffocarla. Non si predicava un egualitarismo grigio, conformistico, piatto, buono per portare in primo piano i mediocri, privi di ogni idea propria, annientando invece le qualità di spicco, come purtroppo accadde nel “socialismo reale” (e in molti partiti comunisti). A ciascuno secondo il suo lavoro non significava, per Marx, far soltanto riferimento alla quantità, al tempo di lavoro, ma anche alla sua creatività e originalità. Altrimenti non nasce mai il nuovo, tutto continua in una routine mortificante che, alla fine, provocherà la rivolta contro “l’uomo medio”, quello di cui vorrei ci si ricordasse sempre la definizione datane da Pasolini, tramite il personaggio del regista interpretato da Orson Welles, nel suo forse più bel gioiello cinematografico: La ricotta da Rogopag. Nemmeno però si può accettare il tipo di competitività che regna nella nostra società, nel capitalismo borghese e ancor più in quello dei funzionari del capitale: una lotta fondata sulla sopraffazione, la coercizione, l’inganno, la menzogna, l’ipocrisia, il raggiro, e chi più ne ha più ne metta; e molto spesso, ovviamente, sull’uccisione (di massa), le guerre e distruzioni immani, le torture, ecc[7]”.

Si potrebbe ricominciare da Marx per ricostruire il comunismo, malgrado gli errori teorici e storici senza abiurarlo: non si deve buttare il bambino con l’acqua sporca. Marx non è rimasto sepolto solo sotto il crollo del muro di Berlino, ma specialmente è stato ideologizzato dal comunismo reale fino a renderlo prigioniero delle nomenclature che lo hanno congelato in un lungo e sterile inverno. Prima di abbandonare Marx e il comunismo si potrebbe riprendere la lettura di Marx per trarne le potenzialità irrigidite dalla corrente fredda della storia, e per “esplorare” le potenzialità sistemiche non ancora esplicitate. Il comunismo ha una storia breve, pertanto come tutti i movimenti di grande respiro non possono essere giudicati e congedati per i risultati ottenuti in un tempo relativamente breve. Si “obliano”, pertanto, nella veloce liquidazione le conquiste che il comunismo ha favorito in Occidente come in Oriente. Se si afferma che la vittoria del capitalismo è “totale[8]”, l’effetto inibente diventa drammatico, ed è facile perdere con la speranza, la creatività e la lucidità storica. La vittoria del capitalismo, può essere l’inizio della sua fine, perché è fondato sull’illimitato, e dunque, perso ogni limite ed opposizione è possibile che mostri la sua verità, maciullando Stati e persone, con l’effetto di svelare la sua “intima” verità spaventevole. La verità è tutto, affermava Hegel, per cui il giudizio dev’essere sulla totalità aperta al futuro dell’esperienza trascorsa, e non certo finalizzata solo a conteggiare gli errori. La posizione di Costanzo Preve verso il marxismo reale è indubitabilmente più complessa, rileva i limiti teorici di Marx, evidenzia le tragedie storiche del comunismo reale e le sue conquiste, il confronto dialettico con “il tutto” lo porta al comunitarismo quale forma di comunismo democratico con fondamenta metafisiche:

“Nell’ultimo saggio di La Grassa, insieme a una certa interpretazione di Marx che paradossalmente io stesso condivido in buona parte (ma per un settario se non la condividi tutta sei un analfabeta ignorante), ci sono due affermazioni: comunismo e marxismo sono morti, la prima; e la storia non è storia delle lotte di classe fra dominanti e dominati, la seconda. E’ possibile commentarle senza essere investiti di pittoreschi insulti e di accuse di non conoscere Marx, oppure no? Tutti capiscono che non appena alcune tesi vengono affidate alla carta stampata diventano “pubbliche”, ed esiste ancora il kantiano “uso pubblico della ragione”. Esiste per tutti, salvo che per La Grassa. Ripeto quello che per me è il punto essenziale: chi si mette sul terreno della falsificazione epistemologica del marxismo e del comunismo sceglie di interpretare Marx come il portatore di una semplice scienza previsionale non filosofica, che come tutte le scienze previsionali non filosofiche cade sotto il criterio popperiano della falsificazione[9]”.

Il crollo del comunismo teorico e storico lascia uno spazio aperto di potenzialità, si può uscire dal comunismo, ma questa è una possibilità, non è una necessità determinata da “ragioni superiori”, si può scegliere anche di proseguire il cammino di emancipazione all’interno della storia comunista senza dogmatismi, e trasformando i fallimenti in spessore teorico da cui riprendere l’iter della storia emancipativa.

Salvatore Bravo

***

[1] Gianfranco La Grassa, Il capitalismo oggi dalla proprietà al conflitto strategico Per una teoria del capitalismo, Petite Plaisance Pistoia 2004, pag. 15.

[2] Ibidem, pag. 24.

[3] Ibidem, pag. 89.

[4] Ibidem, pag. 81.

[5] Ibidem, pp. 180-181.

[6] Ibidem, pag. 183.

[7] Gianfranco La Grassa, Nel tempo della globalizzazione non si può invocare una rinascita di Karl Marx, occorre un ripensamento ‘globale’ dell’intera sua prospettiva storica.

[8] Costanzo Preve – Gianfranco La Grassa, Oltre la gabbia d’acciaio, Vangelista, 1994, pag. 15.

[9] Costanzo Preve, Note su Gianfranco La Grassa, 24/10/2011, in pauper class.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Copertine e schede editoriali (231-240) – Maura Del Serra, Lorenzo Dorato, Marco Penzo, Camilla Migliori, Margherita Guidacci, Moreno Fabbri, Luca Grecchi, Carmine Fiorillo, Salvatore A. Bravo.

231-240

231
Lorenzo Dorato, Relativismo e universalismo astratto. Le due facce speculari del nichilismo. Bene e Verità come concetti “rivoluzionari” alla base di un universalismo sostanziale e di una critica radicale del capitalismo. ISBN 978-88-7588-134-4, 2015, pp. 80, formato 140×210 mm., Euro 8 – Collana “Il giogo” [63]. In copertina: Annibale Carracci, Allegoria della Verità e del Tempo, 1584 – 1585, Royal Collection, Hampton Court.

232
Marco Penzo, La nostra libertà. ISBN 978-88-7588-137-5, 2015, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 7. In copertina: Giulio Biondi, La Staccionata, 2014.

233
Camilla Migliori, La carriera di Edipo. Prefazione di Daniele Orlandi. ISBN 978-88-7588-140-5, 2015, pp. 96, formato 130×200 mm., Euro 10, Collana di teatro Antigone [13]. In copertina: Edipo e i responsi dell’oracolo, collage di Camilla Migliori.

234
Margherita Guidacci, Il pregiudizio lirico. Consigli a un giovane poeta. ISBN 978-88-7588-143-6, 2015, pp. 48, formato 130×200 mm., Euro 3. In copertina: Federico Garcia Lorca, Amore, 1919.

235
Moreno Fabbri, Per una solidarietà globale. Insostenibilità e antispecismo: sarà l’etica a darci un futuro? ISBN 978-88-7588-128-3, 2015, pp. 48, formato 130×200 mm., Euro 4. In copertina: Gustav Klimt, L’albero della vita (1905-1909), particolare.

236
Giorgio Penzo, Orson Welles fra “Quarto Potere” e “Il Processo”. ISBN 978-88-7588-130-6, 2015, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 12. In copertina: Orson Welles e due fotogrammi da Quarto Potere e Il Processo.

237
Luca Grecchi – Carmine Fiorillo, «Euro sì, Euro no». Oltre la dimensione afasica della “gabbia d’acciaio” capitalistica.  ISBN 978-88-7588-136-8, 2015, pp. 20, formato 130×200 mm., Euro 2. In copertina: René Magritte, La sera che cade, 1964.

238
Salvatore Antonio Bravo, Potere e alienazione in Foucault ISBN 978-88-7588-142-9, 2015, pp. 48, formato 130×200 mm., Euro 4. In copertina: E. Munch, Sera sul viale Karl Johan, 1892, Commune Rasmus Meters Collection.

239
Carmine Fiorillo, Maschere di tecnodemocrazia. Simulacri della derealizzazione ISBN 978-88-7588-144-3, 2015, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 5. In copertina: E. René Magritte, The lowers.

240
Maura Del Serra, Teatro. Prefazione di Antonio Calenda. ISBN 978-88-7588-138-2, 2015, pp. 864, formato 130×200 mm., Euro 35. Collana “Antigone” [15]. In copertina: Beato di Liébana. Miniatura del Beato de Fernando I y Sancha (Codice B.N. Madrid Vit. 14 -2).



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Copertine e schede editoriali (241-250) – Sante Notarnicola, Daniele Orlandi, Andrea Bulgarelli, Costanzo Preve, Luca Grecchi, Mauro Magini, Valentino Bellucci, Beniamino Biondi, Chiara Guarducci, Gabriella Putignano, Salvatore A. Bravo, Raoul Vaneigem.

241-250

241
Sante Notarnicola, La farfalla. Versi rubati, a cura di Daniele Orlandi. ISBN 978-88-7588-151-1, 2015, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 5. In copertina: Marco Perroni, Prison, 2015.

242
Andrea Bulgarelli – Costanzo Preve, Collisioni. Dialogo su scienza, religione e filosofiaISBN 978-88-7588-153-5, 2015, pp. 96, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [64]. In copertina: Juan Gris, Libro, 1913.

243
Luca Grecchi, Discorsi sulla morte.  ISBN 978-88-7588-155-9, 2015, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 7 – Collana “Il giogo” [65]. In copertina: La ginestra sul Vesuvio.

244
David Ciolli, Infinito semplice. le storie del piccolo maestro wu daoISBN 978-88-7588-157-3, 2015, pp. 80, 105×155 mm., Euro 7 – Collana “lo spazio della vita” [3]. In copertina: David Ciolli, Il Maestro, disegno, 2015.

245
Mauro Magini, Il mio amico Platone. Riflessioni su società, religione, vita.  ISBN 978-88-7588-159-7, 2015, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 13. In copertina: Henri Matisse, Tempere ritagliate per la Cappella di Saint-Marie du Rosaire a Vence.

246
Valentino Bellucci, Da Pitagora a “Guerre Stellari”. Il sapere esoterico dei veri illuminati. ISBN 978-88-7588-161-0, 2016, pp. 98, formato 140×210 mm., Euro 15. In copertina: Leonardo da Vinci, Autoritratto, disegno a sanguigna su carta, 1515. Biblioteca Reale, Torino.

247
Beniamino Biondi, La disciplina giuridica del settore cinematografico in Italia. ISBN 978-88-7588-163-4, 2016, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 13. In copertina: Insegna e vecchio cinema comunale di Crespino (RO), Agosto 2005. Foto di Enrico Andreotti. L’insegna è caduta nel 2006.

248
Chiara Guarducci, Bye Baby Suite. Con uno scritto di Francesco Vasarri. ISBN 978-88-7588-165-8, 2016, pp. 64, 105×155 mm., Euro 8 – Collana “Antigone”. In copertina: ‘Mari Line’, di Laura Cioni.

249
Gabriella Putignano, Quel che resta di Raoul Vaneigem. ISBN 978-88-7588-167-2, 2016, pp. 64, 105×155 mm., Euro 8. In copertina: Dino Di Bonito, Singapore.

250
Salvatore Antonio Bravo, Foucault e la razionalità debole. ISBN 978-88-7588-171-9, 2016, pp. 80, 130×200 mm., Euro 8. In copertina: R. Magritte, Il volto del genio, 1926.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Copertine e schede editoriali (251-260) – Giovanni Stelli, Margherita Guidacci, Margherita Pieracci Harvell, Alessandro Monchietto, Domenico Segna, Piotr Zygulski, Salvatore A. Bravo, Elena Irrera, Armando Marozzi, Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Silvia Fazzo, Arianna Fermani, Giovanna R. Giardina, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta, Luca Grecchi, Franco Toscani, Diego Fusaro, Diego Melegari.

251-260

251
Giovanni Stelli, Tre lezioni sulla politica di Aristotele. ISBN 978-88-7588-169-6, 2016, pp. 112, 140×210 mm., Euro 13, Collana “il giogo” [66]. In copertina: Processione panatenaica, blocco VI, rilievo del fregio est del Partenone (Museo dell’Acropoli di Atene) – Fidia (bottega) – 442-438 a.C.

 252
Margherita Guidacci Margherita Pieracci Harvell, Specularmente. Lettere, studi, recensioni. A cura di Ilaria Rabatti. ISBN 978-88-7588-173-3, 2016, pp. 144, 140×210 mm., Euro 15, Collana “Egeria” [18]. In copertina: Lucio Fontana, Concetto Spaziale, Le Chiese di Venezia, 1961.

253
Irene Ginanni Edi NataliDiego PancaldoAntonella Spitaleri Fausto Tardelli, Ordo Amoris. ISBN 978-88-7588-150-4, 2016, pp. 128, 140×210 mm., Euro 13. In copertina: Auguste Rodin, L’eterna primavera, ca. 1884.

254
Alessandro Monchietto (a cura di), Invito allo straniamento. II. Costanzo Preve marxiano. Contributi di: Andrea Bulgarelli, Oliviero Calcagno, Diego Fusaro, Luca Grecchi, Gianfranco La Grassa, Diego Melegari, Rodolfo Monacelli, Giacomo Pezzano, Francesco Ravelli, Franco Toscani. ISBN 978-88-7588-152-8, 2016, pp. 176 formato 140×210 mm., Euro 15 – Numero speciale di Koinè – Collana “Il giogo” [67]. In copertina: Costanzo Preve. In quarta di copertina: Dziga Vertov in una sovrimpressione sulla sua telecamera; Erwin Piscator entra nel Teatro Nollendorf, Berlino, 1929.

255
Domenico Segna, Un caso di coscienza. Giuseppe Gangale e “La Rivoluzione protestante”. ISBN 978-88-7588-154-2, 2016, pp. 128, 140×210 mm., Euro 15. In copertina: Busti di Giovanni Calvino nel Museo della Riforma a Ginevra.

256
Piotr Zygulski, Il meccanico del marxismo. Introduzione critica al pensiero di Gianfranco La Grassa. Postfazione di Augusto Illuminati. ISBN 978-88-7588-158-0, 2016, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “Divergenze” [51]. In copertina: Saverio Mazzeo, Gianfranco La Grassa, meccanico del marxismo, 2016. Acrilico su tela.

257
Salvatore Antonio Bravo, L’ultimo uomo. ISBN 978-88-7588-160-3, 2016, pp. 80, 130×200 mm., Euro 8.
In copertina: Claude Lorrain, Veduta di Delfi con una processione sacrificale, part., 1650. Roma, Galleria Dodia Pamphilj.

258
Elena Irrera, Figure del bello nella filosofia di Aristotele ISBN 978-88-7588-162-7, 2016, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 7– Collana “Il giogo” [68]. In copertina: Immagine tratta da un video realizzato da Philip Scott Johnson. In alto, a sinistra: Scultura greca del periodo classico, part.

259
Armando Marozzi, Il ritorno del represso. Verso una nuova teoria dell’emancipazione.
ISBN 978-88-7588-161-1, 2016, pp. 416, formato 140×210 mm., Euro 25 – Collana “Divergenze” [52]. In copertina: Francisco Goya, Los fusilamientos del tres de mayo, Museo del Prado, Madrid.

260
Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Silvia Fazzo, Arianna Fermani, Giovanna R. Giardina, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta, Sistema e sistematicità in Aristotele, a cura di Luca Grecchi.

ISBN 978-88-7588-202-0, 2016, pp. 256, formato 140×210 mm., Euro 25– Collana “Il giogo” [69]. In copertina: Raffaello Sanzio, Scuola di Atene: Aristotele, Musei Vaticani, part.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Copertine e schede editoriali (271-280) – Salvatore A. Bravo, Marco Penzo, Claudio Lucchini, Massimo Mungai, Gabriella Putignano, Giacomo Degli Esposti, Matteo Caffiero, Luca Grecchi, Alessandro Monchietto, Giacomo Pezzano, Lorenzo Dorato, Antonio Fiocco, Alessandro Monchietto, Staffan Nihlén, Gabriella Putignano.

271-280

271
Salvatore Antonio Bravo, L’epoca del PILinguaggio. ISBN 978-88-7588-191-7, 2017, pp. 96, formato 130×200 mm., Euro 12 – Collana “Divergenze” [59]. In copertina: Kumi Yamashita, Light and Shadow.

272
Marco Penzo, Attimi. ISBN 978-88-7588-189-4, 2017, pp. 80, formato 130×200 mm., Euro 10. In copertina: Marco Sallese, Venature, foto a Bagno Vignoni (Siena), 2016.

273
AA. VV., Quale progettualità. L’uomo è un essere progettuale. Grecchi, Sulla progettualità – A. Monchietto, Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di L. Grecchi – C. Lucchini, La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano – A. Fiocco, Difendere in tutti i modi la progettualità – A. Pallassini, Note marginali per la progettazione di un comunismo della finitezza a partire da Spinoza – L. Grecchi, Perché la progettualità – C. Lucchini, Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo – L. Dorato, La progettualità come necessaria riflessione sui destini collettivi e sociali – G. Pezzano, Commento all’articolo di L. Grecchi “Sulla progettualità” e Commento all’articolo di L. Grecchi “Perché la progettualità?” – L. Grecchi, Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano – G. Pezzano, Il vero punto filosofico da scavare è che cosa si voglia intendere con “progettualità” – L. Grecchi, Una prima conclusione sulla progettualità. ISBN 978-88-7588-187-0, 2017, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [74]. In copertina: Wassily Kandinsky, Shallow-Deep, 1930.

274
Claudio Lucchini, L’etica umana tra natura e storia. Sulla possibilità di un universalismo radicalmente democratizzante.
ISBN 978-88-7588-185-6, 2017, pp. 96, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “Il giogo” [75]. In copertina: Vincent van Gogh, I mangiatori di patate, 1885. Museo Van Gogh di Amsterdam.

275
Staffan Nihlén, La prudenza del segno. ISBN 978-88-7588-183-2, 2017, pp. 40, formato 163×223 mm., Euro 5, Collana “Egeria [19]. In copertina: Staffan Nihlén, Senza titolo, 2016.

276
Massimo Mungai, Ombreggiature. Poesie. Racconti brevi. ISBN 978-88-7588-181-8, 2017, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 10. In copertina: Christian Rohlfs, Conversazione tra clown, 1912.

277
Giorgio Penzo – Marco Penzo, Stanley Kubrick. ISBN 978-88-7588-179-5, 2017, pp. 96 formato 140×210 mm., Euro 13.
In copertina: Stanley Kubrick

278

Gabriella Putignano (a cura di), Cantautorato & Filosofia. Un (In)Canto possibile. Contributi di: Stefano Daniele, Corrado De Benedittis, Gianluca Gatti, Federico Limongelli, Francesco Malizia, Raffaele Pellegrino, Giacomo Pisani, Gabriella Putignano. ISBN 978-88-7588-175-7, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 12 – Collana “Il giogo” [77].

279
Alessandro Pallassini, Finitezza e Sostanza. Sulla fondazione della libertà politica nella metafisica di Spinoza.
ISBN 978-88-7588-172-6, 2017, pp. 288, formato 140×210 mm., Euro 25 – Collana “Il giogo” [78]. In copertina: Sigillo di Baruch Spinoza, che riporta come emblema, oltre alle sue iniziali, una rosa selvatica e il motto in latino “caute”.

280
Gian Giacomo Degli Esposti, Matteo Caffiero (a cura di), Passeggiando per Pistoia. L’essenziale è invisibile agli occhi. Postfazione di Cristiano Vannucchi. ISBN 978-88-7588-168-9, 2017, pp. 136, formato 170×240 mm., Euro 12.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Si devono riaprire «i chiostri de la verità» come diceva Giordano Bruno, abbandonando la «zona grigia» dei sopravvissuti in cui vorrebbero chiuderci i catalizzatori del consenso quando accettiamo la “menzogna conosciuta” come verità.

Giordano Bruno Verità
Gustav Klimt, Nuda Veritas, particolare.
Salvator Rosa (1615-1673), Allegoria della menzogna.

Salvatore Bravo

Si devono riaprire «i chiostri de la verità» come diceva Giordano Bruno,
abbandonando la «zona grigia» dei sopravvissuti in cui vorrebbero chiuderci
i catalizzatori del consenso quando accettiamo la “menzogna conosciuta” come verità.

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La pratica della menzogna conosciuta
In questi decenni difficili l’inaudito e l’osceno spesso sono il pane quotidiano, ma nulla accade, niente sembra portare effetti sostanziali nella prassi politica e comunitaria. La meraviglia panica innanzi a tale realtà-verità dovrebbe essere oggetto di una riflessione profonda da parte di uomini e donne di buona volontà che vivono la difficile pratica della verità. In un quadro storico apparentemente razionale, ma in realtà irrazionale, servile e malinconico, tutto sembra accadere, ma nulla cambia, non vi è prassi, ma solo abitudine ed indifferenza. L’informazione – con la sua abbondanza di fonti – rende possibile constatare che la verità degli accadimenti – narrati secondo la liturgia ufficiale – non è tale. Rppure sembra che la verità non emerga. Se si pone ascolto alle conversazioni comuni è palese che, in media, non si ha fiducia alcuna nella narrazione mediatica, eppure si finge di credere, e passivamente si torna alle attività quotidiane. La verità non è seppellita da sovrastrutture complesse, ma è dinanzi a noi. Anche quando si ha il sospetto che il racconto ufficiale non corrisponda al vero, nulla si fa per approfondirlo: lo si accetta per sopravvivere quietamente. In tale contesto raccontare la verità dei fatti di cronaca non sortisce risultato alcuno, difficilmente si ottiene il passaggio all’autocoscienza individuale e collettiva. I processi di riconfigurazione del reale storico non sembrano effettuarsi, si vive in una dimensione forse “assolutamente nuova”, in un limbo tra verità e “menzogna conosciuta”: si intravede forse la verità, ma si pratica la menzogna. Tale comportamento è divenuto ora di massa: i popoli si nutrono di questo nuovo veleno che penetra nel corpo delle istituzioni come nelle relazioni interpersonali, nelle parole e negli sguardi, creando una sostanziale sfiducia nella prassi. Si vive nella caverna platonica, pare volutamente. La verità e la “menzogna conosciuta” convivono senza procurare conflitti etici o lacerazioni interiori. La vita si riduce all’attimo presente. Si strappa l’attimo senza contestualizzarlo. Ci si accontenta di ritagliarsi attimi di vita (lasciando sullo sfondo l’ombra della verità) e si accetta la pratica della “menzogna conosciuta” o anche soltanto sospettata. Regna la divina indifferenza. Pertanto, ogni evento di cronaca – con le sue liturgie – resta confinato in un spazio e in un tempo sospeso, la vita continua senza che nulla accada. I recenti fatti di cronaca, la complessità pandemica, l’uccisione dell’ambasciatore in Congo sono eventi che vengono accettati secondo le liturgie ufficiali, pur sapendo che il vero non è detto. Eppure ciò non muove a ricercare, non attiva una azione autonoma di indagine alla ricerca della verità. Si assiste semplicemente all’ennesimo spettacolo in scena fingendo di credere allo spettacolo della menzogna.

Scenografia della menzogna
Primo Levi ci ha insegnato – in I sommersi e i salvati – la tragedia della contemporaneità, ci ha indicato una verità evidente che non possiamo ignorare e che può servirci come categoria per capire il nostro difficile presente: normalmente si sceglie di essere parte della zona grigia, ovvero la verità evidente è saputa, ma non ci si schiera, ci si limita a sperare di non cadere vittime della macchina della menzogna che uccide la verità come gli esseri umani. La zona grigia si globalizza. Sappiamo tutti che la finanza governa, che la politica è al servizio degli interessi superiori della finanza, che la democrazia – dapprima ridotta a semplice procedura senza sostanza – ora è sospesa anche nella sua pratica procedurale. Sappiamo che in Africa non muoiono martiri e santi, ma uomini e donne, che l’aziendalizzazione delle istituzioni privilegia i possidenti ed esclude dai servizi il popolo. I servizi sociali senza i quali i popoli sono plebi, sono “offerti” secondo una qualità associata al reddito, eppure nulla accade, benché l’ingiustizia sia evidente. La menzogna è trasmessa, secondo formule linguistiche, che ammiccano alla verità, e la trasformano in menzogna. Il linguaggio da casa dell’essere-verità è divenuto la casa della menzogna conosciuta. Si sopravvive in questa palude grigia, in cui gradualmente si diffonde un razzismo che classifica le genti secondo il censo, eppure si plaude al multiculturalismo, ai diritti individuali, ci si scandalizza dei feminicidi, la ritualizzazione è ascoltata, come se ci si credesse, sapendo che sono solo scenografie della menzogna. Mettere in atto processi genealogici di ricategorizzazione del reale significherebbe “responsabilità e coinvolgimento personale”. Si preferisce fingere di acconsentire alle versioni ufficiali, pur sapendo che mentono. Il potere crea catalizzatori di consenso, a cui si aderisce nominalmente, ma si ha il sentore che la ricostruzione è troppo semplice, troppo ripetitiva e che i fatti non possono essere spiegati con semplice logica manichea. Si finge di credere sperando di scampare al pericolo ed alla responsabilità personale: si sopravvive, perché la zona grigia è fatta di sopravvissuti.

Nichilismo passivo
Cercare la ragione profonda del successo della zona grigia è arduo, e ci si può spostare da cause storiche contingenti: la caduta del comunismo novecentesco, la lotta per la sopravvivenza nella globalizzazione liberista sfibra le energie, in quanto si deve lottare per difendere ciò che domani nella competizione potrebbe essere tolto, per cui l’atomocrazia – col suo carico di solitudine – diviene la normalità quotidiana. Vi è una realtà più profonda, forse, che rafforza l’indifferenza davanti alla verità sospettata e conosciuta ed alla pratica della menzogna, ed essa è che l’Occidente ha sostituito la verità con l’esattezza, per cui verità e menzogna sono equiparate, sono niente, perché l’esattezza numerica e scientifica ha divorato la verità, è stata la “cattiva maestra” dell’Occidente. L’esattezza è entrata nel cuore e nell’anima dell’Occidente, si è sviluppata una monomania collettiva: tutto è riportato alla sola quantità, pertanto non vi sono altre categorie razionali con cui disporsi e sentire gli accadimenti. Solo l’esattezza parla e muove all’agire. L’educazione all’imprenditorialità generalizzata ha tale fine ultimo, per cui se si uccide un intero continente per i suoi minerali che servono per l’informatica e l’energia pulita ciò è coerente con l’esattezza, e la realtà dello sfruttamento e della violenza non provocano scandalo. La verità è complessità logica, dialettica ed etica, per cui il potere domina perché la zona grigia è complice e vittima di questa diseducazione globale alla verità. L’aziendalizzazione delle istituzioni e della vita non provocano azioni e reazioni, perché l’esattezza esige che la vita sia normalmente mercificata, e le parole della mercificazione sono l’unico linguaggio dell’Occidente: la zona grigia sa che tale prassi è la verità, ma accetta l’esattezza come fosse l’unica strada percorribile, pur sapendo ed intuendo che tale modalità di vivere non rientra nel “bene”.

Ogni agire politico deve confrontarsi con il rischio di infrangersi contro l’esattezza, contro l’abitudine ad agire solo perseguendo interessi personali legati all’utile. Si può ipotizzare che quando gli ultimi residui di resistenza saranno trascesi, non si avranno più paradigmi per discernere e sospettare che le versioni ufficiali sono ideologiche. Si deve, affinché ciò non accada, lavorare per la verità, per riportare in luce la differenza tra verità e menzogna. Ancora una volta è la filosofia che può riportare la verità al centro del suo discorso gnoseologico ed ontologico, in modo che la democrazia divenga pratica e ricerca della verità, e non un ideale ideologico da usare per far accettare i “bombardamenti etici”, l’irrilevanza e l’omogeneità culturale come mezzo per privare persone e popoli della loro identità. Spetta a coloro che ascoltano la tragedia etica del presente riprendere il cammino verso la verità sapendo che non vi è certezza del risultato. Si devono riaprire «i chiostri de la verità»[1] come diceva Giordano Bruno nella Cena de le ceneri. Ognuno può dare il proprio contributo a tale operazione filosofica, nessuno è escluso. Siamo all’anno zero, pertanto bisogna cominciare da tale verità per capire il presente.

 

Salvatore Bravo

[1] Giordano Bruno, La cena de le ceneri, Einaudi Torino, 1995 p. 20.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Per Draghi «L’euro è irreversibile». Per G. Zagrebelsky «la materia della politica oligarchica è costituita dal denaro e dal potere, e dal loro reciproco collegamento: il denaro alimenta il potere e il potere alimenta il denaro». Il denaro di Draghi domina nel tempo e sul tempo. Capitalismo senza tempo.

Zagrebelsky Gustavo Mario Draghi 01
Salvatore Bravo
Per Draghi «l’euro è irreversibile».
Per G. Zagrebelsky «la materia della politica oligarchica è costituita dal denaro e dal potere,
e dal loro reciproco collegamento: il denaro alimenta il potere e il potere alimenta il denaro».
Il denaro di Draghi domina nel tempo e sul tempo. Capitalismo senza tempo.

Moneta irreversibile
«L’euro è irreversibile»,[1] con tale affermazione Draghi svela l’integralismo antidemocratico dell’Europa della finanza. L’irreversibilità dell’euro materializza i propositi della nuova religione della finanza. Con l’annuncio di Draghi la storia si è conclusa, ciò che verrà dopo è irrilevante, perché l’euro decreta lo spartiacque tra il passato ed il presente eternizzato. Siamo tutti fedeli, ai piedi dell’altare dell’euro, ormai dogma ideologico dell’infallibilità della finanza.
L’euro non è una moneta, ma un progetto totalitario indiscutibile. Tornano in mente le utopie dei totalitarismi riconosciuti del Novecento: dal nazionalsocialismo hitleriano all’Unione Sovietica passando per il Fascismo, ogni totalitarismo si è dichiarato eterno, si è presentato come l’eterno in terra, come la trascendenza realizzata e conclusa nell’immanenza. Il tempo nell’ideologia totalitaria è sempre eguale, è un tempo consumato nella pienezza del presente.
Non vi è nessun vuoto, nessuna possibilità che possa generarsi nuova vita con innovative strutture temporali di senso. Il tempo dell’euro è tempo del silenzio, in cui i poteri forti usano le istituzioni democratiche per svuotarne il senso.
Draghi ha sentenziato nel Parlamento (la parola Parlamento rimanda al parlare, alla dialettica della democrazia dolosamente ignorata) che l’euro è una verità ontologica indiscutibile. Alla nuova divinità ci si può solo adeguare, purché l’euro viva: bisogna liberarsi dalle attività economiche in difficoltà affondate dalla pandemia e dal lockdown da loro decretato e gestito.

Eucarestia del denaro
Le affermazioni in Parlamento seguono le polemiche sulla selezione naturale delle attività in difficoltà. Lo scopo è evitare le insolvenze, perché è il denaro che deve guidare il mondo, dev’essere raccolto, difeso ed adorato, malgrado le sofferenze dei perdenti. La nuova “eucarestia” è tra di noi, nessuna particola va persa o dispersa, ma va contenuta nel calice delle banche. Pertanto i potenziali insolventi vanno lasciati al loro destino. In fondo, chi fallisce è colpevole. La religione della colpa riappare, i dannati che scontano la pena in terra sono i deboli, coloro che non sono stati abbastanza forti da resistere alle lotta per conquistarsi una porzione di mercato. Calvinismo perverso e mondano che decreta il nuovo tempo dell’apocalisse economica senza escatologia, poiché per i perdenti ed i falliti non c’è presente e non c’è futuro. Sono i nuovi esodati dell’euro, sono i nuovi dannati colpiti dall’indifferenza dei vincenti e dal timore di coloro che vivono nella zona grigia, già descritta da Levi, che temono di essere associati ai perdenti.
Il distanziamento sociale è parte del disegno “euro”: si insegna la distanza emotiva, si sclerotizzano le emozioni per poter praticare il transumanesimo economico e tecnologico. La distanza abitua a considerare l’alterità un ostacolo sul percorso della propria sopravvivenza biologica ed economica. Liberismo, digitalizzazione delle relazioni si rendono organiche di un unico disegno sociale: realizzare il transumanesimo economico. Ogni limite umano dev’essere superato. Nel trascendere ogni limite si struttura una nuova società governata da potentati tecnocratici (multinazionali, banche, centri di ricerca robotica e digitale) che divorano i più deboli, li usano e ne determinano il destino e le scelte.

Euro senza tempo
L’euro nasce, come direbbe Marx, «grondante di sangue e sudiciume», ma possiamo aggiungere l’«euro» domina nel tempo e sul tempo. In quanto «irreversibile», tacita il linguaggio e trasforma le parole in sentinelle frecciate del presente. Le parole della democrazia sono sostituite dalla contabilità senza teleologia. L’euro occupa ogni spazio ed ogni tempo, in tal modo il futuro è fuorigioco, non resta che la malinconia del presente senza fecondità.

Gli Europei sono chiamati ad un mistico silenzio dinanzi all’euro che si innalza ed incombe come il fato a cui niente e nessuno può sfuggire. Il terrifico che si accompagna a ciò è la complicità dei rappresentanti del popolo che ancora una volta hanno stracciato il mandato elettorale “in nome dei superiori interessi” della nazione.
L’interesse principale in uno Stato democratico è la democrazia, pertanto l’interesse del popolo non è stato messo in atto. Il popolo non ha votato l’euro dichiarato da un uomo della finanza «irreversibile».
Oggi le oligarchie festeggiano il vuoto politico ed etico in cui navighiamo, e che ha permesso il loro radicarsi. L’«euro irreversibile» è la dimostrazione della verità a cui ci si è abituati, ovvero che il denaro ed il potere non sono mezzi per realizzare dei fini, ma sono diventati il fondamento che produce un sistema nichilistico; essi sono perseguiti in se stessi, come fossero il bene supremo. La tragedia etica dell’Occidente è in questa verità feroce che pone le condizioni per il transumanesimo, per l’abbandono dell’Umanesimo blandamente citato dal Presidente del Consiglio, il quale non rammenta che l’Umanesimo ha quale centro la dignità dell’essere umano e non certo il tintinnio minaccioso della moneta unica a cui corrisponde il pensiero unico. Scrive Gustavo Zagrebelsky in La maschera democratica dell’oligarchia:

«Ora, che l’oligarchia assuma le forme della democrazia non è senza significato. Che ci si trovi in una democrazia oligarchica o in un’oligarchia democratica, al netto della contraddizione sostanziale, significa pur sempre qualche cosa. Non dobbiamo pensare che si tratti di un puro inganno: l’oligarchia che per affermarsi ha bisogno di forme democratiche quanto meno non può adottare strumenti di violenza esplicita per supplire al deficit di consenso, e deve mantenere ferme le procedure democratiche, sebbene cerchi di svuotarle di senso dall’interno. E se le procedure restano ferme, c’è sempre la possibilità di rianimarle, di ridare al guscio il suo contenuto. È comunque significativo che, parlando delle oligarchie nel nostro tempo e nel nostro paese, si possa e si debba aggiungere “oligarchie in forma democratica” (non direi oligarchie democratiche, perché questo creerebbe una contraddizione). Passando all’oligarchia come concentrazione del potere, chiediamoci che cosa è oggetto del potere oggi. Qual è la materia della politica oligarchica nel nostro tempo. A mio parere, la materia della politica oligarchica è costituita dal denaro e dal potere, e dal loro reciproco collegamento: il denaro alimenta il potere e il potere alimenta il denaro. L’uno è strumento di conquista, di garanzia e di accrescimento dell’altro. Vorrei richiamare l’attenzione su questo punto, che secondo me è il segno più caratteristico dell’epoca in cui viviamo. In altri tempi, si poteva dire che potere e denaro fossero mezzi, non fini. La politica serviva ad altre cose, per esempio a rovesciare i rapporti di classe o a equilibrarli, a promuovere la cultura, ad alleanze e guerre di espansione, alla conquista di altri paesi e alla “civilizzazione” del proprio o di altri popoli. Il denaro, a sua volta, veniva La maschera democratica dell’oligarchia – considerato uno strumento, per cose buone o per cose cattive, ma in ogni caso era finalizzato a qualcos’altro; gli Stati drenavano denaro con il prelievo tributario per fare guerre, per espandere i confini, per la gloria delle case regnanti, per alimentare lo splendore delle corti regie, e così via. Il denaro che produce denaro, come accade tipicamente nell’usura, è stato nei secoli oggetto di condanna o, almeno, di sospetto. Ma con la finanziarizzazione dell’economia, per di più in dimensione mondiale, il meccanismo del denaro che produce se stesso, il denaro investito al fine di produrre altro denaro, come nell’albero degli zecchini di Collodi, ha finito d’essere un mezzo ed è diventato un fine. Siamo in pieno in un circolo vizioso. Viviamo stretti da un serpente che si morde la coda, l’uroboro del mito che, per sopravvivere, fa terra bruciata attorno a sé».[2]

Con l’obbligo ad accettare l’euro come «irreversibile» ogni maschera è caduta. Ora sta ai popoli, e non solo al popolo italiano, difendere la democrazia dalla tracotanza delle oligarchie che si auto-percepiscono al sicuro, poiché la paura pandemica associata a decenni di vuoto politico e comunitario hanno rafforzato la certezza dell’intramontabilità del loro potere. Sta al popolo rialzarsi, sta a noi capire e cambiare percorso rispetto ai diktat del nuovo potere totalitario. L’arte può venirci in aiuto più delle parole, dovremmo cominciare a pensare ed a guardare con intensità Il quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, per rompere la fosca nube della rassegnazione che si estende minacciosa sulle nostre speranze. I “no” che non sono stati pronunciati, sono ora sul percorso per ricostruire un futuro possibile, e con essi bisogna cominciare a confrontarsi per riattivare la prassi.

Salvatore Bravo

[1] Mario Draghi al Senato (17-02-2021): «Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro».

[2] Luciano Canfora – Gustavo Zagrebelsky, La maschera democratica dell’oligarchia, Laterza, Bari 2015, pp. 4-5.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Copertine e schede editoriali (291-300) – Mario Vegetti, Salvatore A. Bravo, Antonio Vigilante, Giancarlo Chiariglione, Silvia Fazzo, Miguel Pereira, Francesco Verde, Alessandro Alfieri, Costanzo Preve.

291-300

291
Mario Vegetti, Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico. ISBN 978-88-7588-227-3, 2018, pp. 208, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [84]. In copertina: Frammento di cratere a calice a figure rosse [scena dell’Edipo Re di Sofocle] (330-320 a.C.) e Papiro de Oxirrinco [frammento degli Elementi di Euclide].

292
Salvatore A. Bravo, Il cacciatore globalizzato nel capitalismo assoluto. ISBN 978-88-7588-229-7, 2018, pp. 160, formato 130×200 mm., Euro 15 – Collana “Divergenze” [60]. In copertina: Hieronymus Bosch, Trittico del Giudizio di Vienna (1482), particolare del pannello centrale (Giudizio Universale).

 293
Antonio Vigilante, Dell’attraversamento. Tolstoj, Schweitzer, Tagore. ISBN 978-88-7588-223-5, 2018, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 13. In copertina: Rabinadranath Tagore, n. 56, inchiostro colorato su carta,1933. Collezione Rabindra Bhavana.

294
Mario Vegetti, Scritti sulla medicina ippocratica. ISBN 978-88-7588-225-9, 2018, pp. 416, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [86]. In copertina: Rilievo dal santuario di Anfiarao a Oropo, 400-350 a.C., Atene, Museo Archeologico Nazionale.

295
Giancarlo Chiariglione, Le forme informi della frontiera. Lo sguardo del cinema western sulla storia americana. ISBN 978-88-7588-221-1, 2018, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [1]. In copertina: Il giudice E. Cotton Winchell sulla cima del monte californiano a cui diede il suo nome nel 1888: incarnazione dell’autentico “uomo del Wild West”.

296
Silvia Fazzo, Alexander Arabus. Studi sulla tradizione araba dell’aristotelismo greco. Prefazione di Marwan Rashed. ISBN 978-88-7588-220-4, 2018, pp. 256, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [87]. In copertina: Frammenti dal commento perduto di Alessandro di Afrodisia al De Generatione et corruptione di Aristotele. Bibliothèque Nationale de France, Ms. Parisinus Arabus 5099, f° 130b.

297
Miguel Pereira, Diario (12-10-1944/24-11-1944). Nuova edizione riveduta e corretta. ISBN 978-88-7588-224-2, 2018, pp. 80, formato 140×210 mm., Euro 10. In copertina: Frontespizio autografo del Diario di Miguel Pereira.

 298
Francesco Verde, A cosa serve oggi fare storia della filosofia? Una modesta riflessione.
ISBN 978-88-7588-222-8, 2018, pp. 80, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [88]. In copertina: Ritratto d’uomo che sospende la lettura, attribuito a Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino, databile al 1529 e conservato presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna.

299
Alessandro Alfieri, Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino. ISBN 978-88-7588-218-1, 2018, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [2]. In copertina: Il volto di Django Freeman (Jamie Foxx) in una scena del film Django Unchained, 2012, scritto e diretto da Q. Tarantino.

300
Costanzo Preve, L’alba del Sessantotto. Una interpretazione filosofica. [Nuova edizione riveduta e corretta]. ISBN 978-88-7588-216-7, 2018, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 7 – Collana “Divergenze” [5]. In copertina: M.C. Escher, Ritratto di G.A. Escher, padre dell’artista. Litografia, 1935.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Copertine e schede editoriali (301-310) – Mario Vegetti, Fabio Acerbi, Jean Bricmont, Massimo Bontempelli, Marcello Cini, Marcella Continanza, Arianna Fermani, Marino Gentile, Giancarlo Paciello, Salvatore A. Bravo.

301-310

301
Mario Vegetti, Scritti sulla medicina galenica. ISBN 978-88-7588-215-0, 2018, pp. 464, formato 140×210 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [89]. In copertina: Galeno e Ippocrate. Affresco del XIII secolo. Anagni, Cripta del Duomo.

302
Fabio Acerbi, Concetto e uso dei modelli nella scienza greca antica. ISBN 978-88-7588-214-3, 2018, pp. 92, formato 140×210 mm. [liberamente scaricabile in PDF] – Collana “Il giogo” [90]. In copertina: Particolare di un manoscritto del X Secolo; pagina dell’opera di Aristarco di Samo Sulle dimensioni e distanze del Sole e della Luna.

303
Jean Bricmont, Contro la filosofia della meccanica quantistica. Traduzione dal francese di Fabio Acerbi. ISBN 978-88-7588-217-4, 2018, pp. 51, formato 140×210 mm. [liberamente scaricabile in PDF] – Collana “Il giogo” [91]. In copertina: Campo relazionale.

304
Massimo Bontempelli, Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea. ISBN 978-88-7588-212-9, 2018, pp. 58, formato 140×210 mm. [liberamente scaricabile in PDF] – Collana “Il giogo” [92]. In copertina: Pregiudizio.

305
Marcello Cini, C’è ancora bisogno della filosofia per capire il mondo? ISBN 978-88-7588-210-5, 2018, pp. 50, formato 140×210 mm. [liberamente scaricabile in PDF] – Collana “Il giogo” [93]. In copertina: Marcello Cini.

306
Marcella Continanza, La rosa di Goethe. Poesie. ISBN 978-88-7588-219-8, 2018, pp. 80, formato 130×200 mm., Euro 10. In copertina: Salvador Dalí, Rosa Meditativa, 1958.

307
Arianna Fermani, L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla paideia in Aristotele. ISBN 978-88-7588-206-8, 2018, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 7 – Collana “Il giogo” [94]. In copertina: La coppa (kúlix) del ceramografo Duride (inizi del V a.C.).

308
Marino Gentile, Umanesimo e tecnica. Tutto ritorna all’uomo. Introduzione di Mario Quaranta. ISBN 978-88-7588-208-2, 2018, pp. 208, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [85]. In copertina: Auguste Rodin, La Mano di Dio, 1896. Musée Rodin, Parigi.

309
Giancarlo Paciello, Elogio sì, ma di quale democrazia? La rivolta o forse la rivincita del demos. ISBN 978-88-7588-178-8, 2018, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Divergenze” [61]. In copertina: Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon Governo nella città (1338-1339), “La gioia nella danza”, particolare. Palazzo Pubblico di Siena.

310
Salvatore A. Bravo, Le metafore nella filosofia. ISBN 978-88-7588-174-0, 2018, pp. 288, formato 140×210 mm., Euro 25 – Collana “Il giogo” [97]. In copertina: René Magritte, La firma in bianco, 1965.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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