Salvatore Bravo – Il nuovo regime scolastico. Il fine delle riforme è la standardizzazione dell’essere umano: la scuola deve formare “il tecnico” e non la persona.

Riforma della scuola

Salvatore Bravo

Il nuovo regime scolastico

Il fine delle riforme è la standardizzazione dell’essere umano:
la scuola deve formare “il tecnico” e non la persona

***

L’anno scolastico volge al termine, le circostanze pandemiche hanno favorito i processi che erano in atto da decenni, in primis la riduzione della scuola a semplice costola del mercato. Si è trattato di un anno di passaggio, già da più parti si proclama che la nuova normalità investirà la società tutta. Per la scuola si prevede un’accelerazione sulla digitalizzazione e la trasformazione dei docenti in quantificatori, in registratori delle competenze. Docenti anonimi per una scuola al servizio della crescita economica. La persona e la comunità scompaiono dietro la cortina di ferro dell’asservimento al mercato. È il mercato de facto a stabilire fini e contenuti dei programmi e l’azione didattica, ogni fine costituzionale è ridotto ad elemento di sottofondo secondario. L’articolo tre della Costituzione per il quale la Repubblica promuove il libero sviluppo delle personalità, ed a tal scopo rimuove le disuguaglianze iniziali, è superato dalle logiche acquisitive e competitive. La scuola (articolo 33 e 34) presidio e prassi della democrazia è sostituita dalla legge del mercato. Sempre meno scuola e sempre meno contenuti comportano la contrazione della democrazia, l’homo oeconomicus è il nuovo modello antropologico a cui ci si “deve adattare”. La svolta implica il definitivo abbandono della tradizione italiana per l’imitazione dei modelli anglosassoni. L’obiettivo è l’uniformità dei sistemi d’istruzione europei, ogni tradizione patria dev’essere trascesa in nome di un’unità europea che si svela essere strumento delle oligarchie. Il liceo dev’essere superato, al suo posto si impone “il regime degli istituti tecnici” per formare non più cittadini, ma ubbidienti lavoratori: si insegna la sussunzione e non la cittadinanza. Inquieta il silenzio dei docenti e della cittadinanza. La scuola pubblica è di tutti e per tutti, se ha la chiarezza del suo fondamento costituzionale e didattico. “Il falso progressismo” è entrato nella scuola e non solo, governa con i suoi automatismi e le parole ad effetto dietro cui si nasconde il nulla che avanza. Per comprendere la decadenza ammantata di progresso dei tempi attuali è sufficiente leggere qualche pagina della pedagogia di Giovanni Gentile che nel 1923 istituì il liceo:

“L’insegnante insegna, in quanto non misura, né ricorda neppure le ore che passa nella scuola; e chi guarda a ogni minuto l’orologio, non può riuscire a concentrare il proprio pensiero, a unire l’anima propria con quella dei suoi scolari nel lavoro fecondo che è proprio dell’insegnamento, in quella comunione degli animi in cui si adempie una delle forme più pure della vita religiosa dell’uomo […] Esso consiste, a dir vero, in un bene che, diviso, non diminuisce; comunicato non si perde da chi lo produce, anzi s’accresce con suo vantaggio sempre maggiore” [1].

Il docente non è un misuratore del tempo della lezione e delle prestazioni dell’alunno, oggi diremmo delle competenze, ma è “un maestro” che ha come scopo la formazione dell’alunno: docente ed alunno, pur nell’asimmetria dei ruoli si formano reciprocamente in una relazione che non può essere quantificata.

Incontro educativo
L‘incontro educativo è una relazione in cui i tempi della crescita conoscono regressioni, stasi ed improvvise svolte, se il docente assume il comportamento di uno scienziato che in laboratorio stimola “il fenomeno alunno”, lo descrive e lo quantifica, siamo di fronte ad un nuovo autoritarismo non riconosciuto. Lo studente che deve continuamente certificare le competenze non può che percepirsi come un produttore di competenze, “è chiamato” a mostrare il suo valore con la sola documentazione. La scuola selettiva di Giovanni Gentile era meno competitiva e classista della scuola che si profila, in quanto le certificazioni sono ad uso delle classi più abbienti. Sarà il denaro a fare le competenze, e specialmente la relazione docente-alunno sarà inquinata dal più bieco positivismo che si coniuga con l’economicismo.

La pedagogia di Giovanni Gentile ha la chiarezza che la didattica è relazione umana. L’essere umano è dinamico, la coscienza ed il vissuto impongono continuamente la capacità di ascoltare “l’invisibile”, se il docente si limita a raccogliere la documentazione, la relazione sarà sostituita dalla “transazione burocratica”. L’attività scolastica è vita che si rinnova nel quotidiano e nello scorrere dei giorni e non può essere irrigidita in prestazioni da quantificare in certificazioni, crediti, debiti, attività culturali a cui l’alunno ha partecipato. La valutazione diviene di censo, i contenuti senza i quali nessuna attività critica e creativa è possibile sono sostituiti da attestati che si comprano sul mercato della formazione:

“Non c’è un sapere che insegni l’arte di fare scuola: se per fare scuola s’intende farla davvero, a certi giorni, a certe ore, via via, a certi alunni, sempre nuovi, con animo sempre nuovo, in circostanze sempre diverse, su problemi che mai non si ripetono. […] E guai al maestro che non sappia procedere se non sulle dande dei precetti! La vita è creazione eterna[2]”.


Scuola della prassi o antipositivistica
L’antipositivismo di Giovanni Gentile è oggi più attuale che mai. Se il positivismo è il principio di ogni processo di sussunzione, in quanto l’essere umano deve fatalmente piegarsi al giogo fatale dell’empirico, l’Idealismo è prassi e Spirito, ovvero l’essere umano è la fonte della storia e del suo destino. La prassi gentiliana ha fecondato anche Antonio Gramsci, perché mette in atto processi di consapevolezza che dimostrano che l’umanità è “la radice” della storia. Se il fascismo non è riuscito ad omologare totalmente la nazione italiana, forse, lo si deve anche alla Riforma Gentile, al suo antipositivismo che non ha consentito la completa omologazione fascista, ma ha contribuito a consolidare in molti soggetti il pensiero divergente e riflessivo, malgrado le finalità totalitarie del regime:

“Noi siamo la radice da cui tutto germoglia, e da noi, come appunto da propria radice, tutto torna ad attingere il succo vitale che lo mantiene in essere. Noi, dunque, siamo il principio del mondo che è il nostro mondo, noi, non già in quanto siamo o ci facciamo uno tra gli oggetti della nostra coscienza, bensì proprio in quanto siamo il soggetto attivo del conoscere[3]”.

Il neopositivismo di cui è affetta la scuola italiana ed europea è l’espressione compiuta del nuovo autoritarismo in atto. La quantificazione degli esseri umani è il nuovo razzismo da smascherare che si cela tra le parole della propaganda: inclusione, debiti, crediti, eccellenze, competizione e competenze. Il fine delle nuove riforme è la standardizzazione dell’essere umano, la scuola deve formare “il tecnico” e non la persona. Il presente con il suo linguaggio ci descrive il futuro, spetterà a noi confermarlo o trasformarlo con la nostra indifferenza o con la nostra sana partecipazione capace di filtrare il meglio della tradizione e dell’esperienza storica non per trasmetterla pedissequamente, ma per ripensarla nelle mutate condizioni storiche. Si profila una società senza significato, in cui il logos sarà sostituito dalla propaganda, siamo tutti corresponsabili del presente e del nuovo che avanza nella forma della desertificazione dell’umano.

 

[1] G. Gentile, Lavoro e cultura. Discorso prefascista ai lavoratori di Roma. In G. Gentile, Opere, XLV, Politica e cultura, Le Lettere, 1990, pag. 247.

[2] G. Gentile, Sommario di pedagogia, cit., vol. I, pp. 123 124.

[3] Ibidem, pag. 15.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Liberarsi del dominio e non delle identità di genere. La libertà non è la pratica del nulla, ma la tensione tra le identità, il cui fine è conoscersi per donarsi.

gender ideologia

Salvatore Bravo

Liberarsi del dominio e non delle identità di genere.
La libertà non è la pratica del nulla, ma la tensione tra le identità,
il cui fine è conoscersi per donarsi

L’indifferenziato
L’indifferenziato è la nuova frontiera del capitalismo assoluto, normare ed omogeneizzare sono strumenti con cui l’economicismo trasforma il diritto al riconoscimento delle differenze in “indifferenza programmata”. Il capitalismo assoluto deve governare le differenze, le deve evirare dei loro contenuti per strumentalizzarle. Dietro la cortina di ferro dell’esaltazione delle differenze difese da una pluralità di statuti giuridici si cela la paura del diverso. Ogni diversità autentica è una prospettiva sul mondo, reca in potenza la possibilità di favorire il materializzarsi pubblico delle contraddizioni del sistema. Esse indicano un altro modo di vivere, denunciano con la loro esistenza che il presente non è tutto, ma è il configurarsi di un periodo storico nel quale la vita è offesa dalla crematistica, dalla disintegrazione di ogni identità comune. Il capitalismo assoluto ha ribaltato l’essere in nulla per eternizzarsi, per neutralizzare ogni prassi. Il capitalismo assoluto ha organizzato un nuovo totalitarismo, si usano le parole dell’emancipazione e il piacere congiunto al desiderio di onnipotenza per ipostatizzare il presente. Si utilizzano le indubitabili sofferenze e contraddizioni del passato per impossessarsene e consolidare il sistema capitale. Vi è uno spostamento del dispositivo repressivo, le differenze sono acclamate, sono obbligate a dichiararsi per essere strumentalizzate all’interno della logica dei consumi. Solo la visione d’insieme restituisce l’immagine ed il fondamento che guida le differenze: devono emergere per omologarsi nell’infinito piacere, nel consumo tracotante che consente al capitale di espandersi. La questione gender è interna a tale logica, svuotare ogni differenza per legittimarle tutte consente di spazzare via con la famiglia, i legami stabili per favorire forme di individualismo liquido: esseri umani senza identità, senza ruoli, negati nella loro differenza fisica sono liberati da ogni responsabilità-progettualità per entrare nella precarietà lavorativa organica alle identità liquide. La precarietà di genere e lavorativa diviene un corpo unico, in tal modo “i precari” del nuovo mondo possono muoversi all’interno del dispositivo della precarietà con assoluta normalità ed indifferenza. Nella condizione attuale le persone omosessuali sono discriminate diversamente dal passato, poiché le si usa come modello per legittimare la precarietà affettiva che introduce al consumo senza limiti. Non sono trattate da “persone”, ma come atomi che si aggregano e disgregano, in modo da diventare “archetipo dell’emancipazione” ed “educare” al nuovo modello sociale ed economico. La nuova emancipazione neoliberista non parte dalle condizioni materiali del soggetto, in cui vi è la condizione sociale, il gruppo di appartenenza e il genere, ma dal concetto di individuo: definizione generica che vorrebbe eliminare ogni identità, in nome di una libertà nullificante e nullificatrice. Coloro che identificano l’omosessualità come la causa di ogni male, non hanno la chiarezza del problema, spostano la loro attenzione sull’effetto, rimuovendo la causa, ed in questo gioco di rimandi volutamente o in modo ideologico conservano il sistema attuale. Si soffermano sui sintomi per evitare di affrontare la causa profonda del problema. La teoria gender la si può comprendere solo all’interno della cultura scettica e storicista, secondo la quale non vi è che il tempo della storia ad annichilire forme e culture, pertanto nega l’esistenza della natura umana e con essa ogni fondamento veritativo. Lo scetticismo filosofico è promosso in ogni istituzione educativa, che diviene il centro di trasmissione e giustificazione del capitalismo assoluto. Uomini e donne hanno, sicuramente, gli stessi diritti, ma nel riconoscimento della differenza: il corpo non è un semplice accidente, ma condiziona senza determinare rigidamente ruoli e comportamenti. Una società plurale vive della dialettica tra diversi modi di ascoltare il mondo, la complementarietà è un valore che educa all’integrazione. Le differenze naturali non sono la fonte della discriminazione, ma l’uso ideologico delle differenze ha determinato rigidità dei ruoli e tragedie

 

Il male e l’onnipotenza
Eliminare la natura umana, in nome della libertà, è la piena realizzazione di un nuovo nichilismo, il quale ha dismesso i panni della critica sociale e della trasgressione concettuale per affermare una nuova forma di “conservazione”. Dominare con il mito del piacere e dell’eccesso è un nuovo tipo di autoritarismo mascherato ed occulto difficile da individuare e comprendere. La fuga dalla natura umana per il paradiso edenico dell’identità liquida comporta la fuga da ogni responsabilità sociale e comunitaria, per cui non resta che l’esperienza del piacere e dell’eccesso da cui il capitale trae plusvalore. L’illimitatezza è il mezzo con cui il modo di produzione attuale trae il profitto ed i capitali per attuale le logiche di sussunzione. Gli uomini non sono più utili, sono espressione dell’ apparato simbolico del limite, pertanto si associa il maschio al male. La figure maschile è sempre stata l’autorità etica, che a prescindere dalle sue forme storiche, ha dato forma ad ogni civiltà con la collaborazione simbolica dell’archetipo femminile. Eliminare uno dei due poli significa desimbolizzare per istituzionalizzare una società di atomi senza destino, storia e progetto. Esseri senza idee e senza valori sono facilmente dominabili e molto condizionabili. La libertà assoluta è il mezzo culturale utilizzato dal capitalismo assoluto per il consenso: si coltiva l’illusione dell’onnipotenza. Ogni figura simbolica che rappresenta il limite, la forma, la progettualità è abbattuta. La figura paterna è perennemente sotto attacco in nome della libertà senza freni. La figura maschile è rappresentata come mostruosa, è la presenza patologica che impedisce la piena e totale realizzazione della felicità in terra. La violenza è solo al maschile, si occulta la quotidiana violenza delle differenze di censo, della precarietà, dei diritti sociali negati e si incanala l’aggressività verso gli uomini, a cui si chiede di rinunciare di essere tali, per essere copia del femminile.

Desimbolizzare e pregiudizi
L’omosessualità è utilizzata per indicare la nuova via da seguire, il nuovo modello da cui gli uomini devono imparare “la convivenza civile”. Si tratta di un’omosessualità edulcorata, le persone omosessuali sono rappresentate secondo stereotipi utili a destabilizzare la comunità. La fuga da ogni ordine simbolico ha l’effetto di partorire una nuova visione antropologica: l’essere umano è causa sui, non ha legami con la comunità, né con il passato, non ha doveri. La nuova e unica legge a cui ci si deve attenere è il proprio immediato desiderio. Regressione generale ad uno stadio preedipico e dominio sono il fondamento del capitalismo assoluto. I padri di famiglia con annessi significati simbolici sono destituiti di ogni autorevolezza ed autorità. Non restano che le donne perennemente vittime, e nel contempo obbedienti all’inclusione. Il capitale le usa per “stabilizzare” la precarietà e ne sollecita la liberazione da ogni vincolo. La santificazione delle donne è menzognera, le donne sono persone e quindi possono essere violente come gli uomini e specialmente diversamente: l’aggressività delle donne è più spirituale per una naturale differenza fisica. La storia e l’attualità non dimostrano che le donne in posizioni di potere siano “eticamente” migliori degli uomini, anzi, paiono più determinate e meno propense all’ascolto ed al compromesso. L’illusione di onnipotenza diventa presto incubo, le nuove generazioni sono senza padri e senza madri, sono gli eredi di un mondo desimbolizzato. La tragedia etica è nel nostro quotidiano, giovani senza padri, madri e maestri difficilmente potranno generare famiglie o ideologie di resistenza sono consegnati ad una solitudine impari nella quale scorgono solo la presenza delle merci. Ogni essere umano si forma avendo come punto di riferimento dei modelli, con cui confliggere e confrontarsi, ma fondare una personalità sull’autogenerazione significa rinunciare alla “cura dell’altro” per consegnarlo al caos informe delle pulsioni. Una società senza generi non è l’equivalente di una società senza classi, ma è la compiuta peccaminosità in atto: il regno dell’eccesso e dell’informe non può che produrre una nuova inedita forma di barbarie. La libertà in questa cornice è la violenza deregolamentata, la legge del più forte utilizzata da “esseri camaleontici”. Uscire dal linguaggio del capitale per decodificarlo e riportarlo alla sua verità strutturale e materiale è il primo passo per uscire dall’inutile guerra dei generi. È necessario orientarsi verso il vero nemico che assimila e destruttura natura e personalità mostrandosi “diabolico”, nel significato etimologico della parola, ovvero, divisorio. Per riprendere il percorso di emancipazione è indispensabile dissipare le fumisterie con cui il capitale inganna i suoi sudditi solleticandone la fuga verso un Eden intessuto di autodistruzione. Bisogna liberarsi del dominio e non delle identità di genere. La libertà non è la pratica del nulla, ma la tensione tra le identità, il cui fine è conoscersi per donarsi.

Salvatore Bravo

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Diceva Danilo Dolci: «Chi si spaventa quando sente dire “Rivoluzione” forse non ha capito». Per i partigiani di oggi la Rivoluzione è cura e responsabilità verso il presente ed il futuro, è scoprire la verità senza la quale nessun movimento di profonda trasformazione è possibile.

Danilo Dolci 01

Una nuova stella gialla
Lunedì 8 marzo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) hanno reso pubblico la prima guida per le persone vaccinate. Si afferma che i vaccinati potranno togliere le mascherina e tornare alla normalità senza distanziamento. I non vaccinati dovranno conservare mascherina e rispettare il perenne distanziamento. La ragione scientifica non è chiara. Normalmente chi non è vaccinato non è un pericolo per i vaccinati. La documentazione scientifica insegna che i virus mutano a causa dei vaccini, pertanto le varianti saranno il prodotto della campagna vaccinale, a cui le multinazionali del farmaco risponderanno con vaccini da “inoculare” nel mercato. Il nuovo ciclo produttivo con il biopotere conseguente è, ormai, lapalissiano. Nel ciclo produttivo medicale vi è un’eccedenza rispetto al lucro che bisogna far emergere, vi è un disegno politico che ammicca al passato e vuole riprodurre nuove logiche di dominio con il consenso dei nuovi sudditi. Definire gli spazi ed i reticolati per la categoria dei non vaccinati ed aggiungere ad essi lo stigma del segno (mascherina) di riconoscimento con pubblico disprezzo è la riproduzione di una tragica verità storica che l’Europa ha già conosciuto: la stella gialla per gli ebrei. Il biopotere inventa nuove categorie su cui esercitare il potere e scaricare la pubblica aggressività. Si può immaginare che qualora ciò fosse attuato i non vaccinati potrebbero diventare la causa di ogni male da utilizzare in ogni frangente di crisi. Le contraddizioni sociali hanno trovato un colpevole su cui scaricare la causa di ogni male. Si ottiene, dunque, un doppio risultato: si costringe i resistenti ad entrare nel mercato del farmaco “liberamente”, e nel contempo gli ultimi resistenti sono oggetto di una marginalità socialmente codificata. Il potere diviene dominio e saggia la sua onnipotenza verificando la passività degli stessi. Questi ultimi dopo decenni di individualismo supportato da una formazione specialistica sono incapaci di decodificare le derive in atto, pertanto il potere ritiene di poter procedere dopo i pass ed i treni per i soli vaccinati per un ultimo salto verso una nuova forma di segregazione, la quale non necessita, al momento, di confini o reticolati geograficamente codificati e strutturati, ma il confino è più insidioso e violento, forse, in quanto è interno. La logica della gradualità nell’introdurre provvedimenti di esclusione è stata ampiamente utilizzata in tutti i regimi definiti “totalitari”. Si immagini una persona non vaccinata perennemente con la mascherina e distanziata oggetto degli sguardi di disapprovazione ed isolata. Si mette in atto un meccanismo di distruzione dell’altrui vita e personalità pur lasciandolo in vita. La sua parola è nulla, la sua identità sociale semicancellata, colpevolizzata con ragioni pseudoscientifica a cui religiosamente i nuovi sudditi credono. In un’epoca di precarietà ed emigrazione, chiunque non voglia vaccinarsi è costretto ad essere, inoltre, separato dai suoi affetti ed isolato nella nuova realtà, in cui è costretto a vivere. La violenza si moltiplica e la si coglie solo se si passa da ordini astratti ad un sapere concreto e materiale.

Partigiani della contemporaneità
La nuova inquisizione è tra di noi ed ha l’aspetto modernissimo della medicina non più al servizio della persona, ma del mercato. La colpa di coloro che potrebbero portare la nuova stella gialla, non sul petto, ma sul volto è aver messo in discussione le verità del mercato delle multinazionali del farmaco. La nuova colpa non è di tipo etico, ma inceppare il consumo, osare non essere massa, ma assumere una posizione personale senza nuocere a nessuno.
Si festeggia e si ricorda ogni anno la fine dei totalitarismi, ma è solo propaganda, perché si vuole orientare lo sguardo nel passato, in modo che non si colgano le derive totalitarie nel presente con le indebite pressioni per anestetizzare il senso critico. I nuovi partigiani, di cui abbiamo necessità, sono coloro che si battono per rendere evidenti le dinamiche in corso con le sue conseguenze. Si osannano i partigiani del passato per presentare il tempo odierno come “il migliore dei mondi possibili”, necessitiamo di partigiani che svelino la verità dell’esattezza dei mercati e delle scienze destrutturando criticamente i miti annessi. I nuovi partigiani hanno il dovere di informare e comunicare con ogni mezzo i pericoli in corso. Essere partigiani, oggi, è più difficile che in passato, poiché il partigiano, come suggerisce la parola, deve schierarsi, scegliere, separarsi dall’informe per dare il suo contributo civile per trasformare il dominio gerarchico in potere di tutti, ovvero in sana e comunitaria partecipazione. Il partigiano ha il compito di ricucire le divisioni e le fratture orizzontali che la verticalizzazione del dominio produce con i “nuovi saperi” finalizzati all’atomocrazia depressiva ed aggressiva.

La Rivoluzione di Danilo Dolci
Danilo Dolci ((28 giugno 1924 Sesana, Slovenia – 30 dicembre 1997)) dimenticato dalla cultura ufficiale, ci ha donato nei suoi innumerevoli scritti e poesie la necessaria differenza tra dominio e potere: il primo è gerarchizzato e si fonda sulla logica della trasmissione dei comandi e dei saperi senza mediazione razionale e comunitaria, mentre il secondo appartiene a tutti. Il potere è possibilità diffusa e comunitaria che ha come principio primo la comunicazione maieutica, ovvero il mettere in comune, in modo che ciascuno possa trasformare in atto le proprie potenzialità nella vita comunitaria, la quale è prassi politica, poiché in essa si decide della vita di ciascuno senza escludere nessuno. La vera Rivoluzione auspicata da Danilo dolci è la demassificazione mediante lo sviluppo delle personalità in un clima di positiva dialettica sociale che non esclude il conflitto, il quale è capace di segnare positivamente la vita interiore di ogni cittadino. Il conflitto dialettico è il fondamento della comunicazione maieutica, poiché il confronto implica una tensione che conduce verso l’universale concreto e partecipato. In un momento fosco e dubbio per la nostra democrazia ricordare un “partigiano” come Danilo Dolci può essere occasione per riflettere sul senso della politica sepolta da scandali e violenze:

Rivoluzione è cura del presente, responsabilità verso il presente ed il futuro, aprirsi a dimensioni che pongano in tensione realtà apparentemente separate. Rivoluzione è scoprire la verità senza la quale nessun movimento di profonda trasformazione può esserci. Ogni partigiano lavora per la Rivoluzione anche quando la storia sembra fare pericolosi giri di boa e tornare indietro. Siamo tutti implicati nella Storia, la quale è di tutti. L’esperienza partigiana ha visto la partecipazione di persone appartenenti a realtà ideologiche diverse, perché quando il pericolo è vicino, la salvezza necessita della partecipazione di tutti, ognuno ha il suo compito per impedire nuove regressioni sociali.

Salvatore Bravo

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Copertine e schede editoriali (371-380) – Aldo Lo Schiavo, Silvia Gastaldi, Fulvia de Luise, Mario Vegetti, Diego Lanza, Gherardo Ugolini, Giusto Picone, Livio Rossetti, Costanzo Preve, Mauro Serra, Claudio Lucchini, Salvatore A. Bravo, Margherita Guidacci, Ilaria Rabatti.

371-380

http://www.petiteplaisance.it/libri/371-380/378/int378.html371
Silvia Gastaldi, Fulvia de Luise w Mario Vegetti / Diego Lanza v Gherardo Ugolini, Giusto Picone, In ricordo di una amicizia filosofica. ISBN 978–88–7588-282-2, 2021, pp. 120, formato 140×210 mm, Euro 13 – Collana “Il giogo” [128]. In copertina: Raffaello Sanzio, Autoritratto con un amico, Parigi, Museo del Louvre, 1518-1520 circa.

372
Costanzo Preve, Hegel Marx Heidegger. Un percorso nella filosofia contemporanea. II Edizione.
ISBN 978-88-7588-284-6, 2021, pp. 96, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Divergenze” [72]. In copertina: Elaborazione creativa dell’opera di Eduardo Chillida, Elogio del Horizonte, Gijón (1990).

373
Aldo Lo Schiavo, Il contributo della tragedia attica al razionalismo antico.
ISBN 978–88–7588-286-0, 2021, pp. 96, formato 140×210 mm, Euro 10 – Collana “Il giogo” [129].
In copertina: Epigrafe scolpita sulla pietra, Teatro antico della Acropoli di Atene.

374
Livio Rossetti, Strategie macro-retoriche. Prefazione di Mauro Serra.
ISBN 978–88–7588-280-8, 2021, pp. 192, formato 130×200 mm, Euro 16 – Collana “Il giogo” [130].
In copertina: Joan Mirò, Il mio Alfabeto, 1972.

375
Costanzo Preve, Destra e Sinistra. La natura inservibile di due categorie tradizionali. Seconda Edizione.
ISBN 978-88-7588-288-4, 2021, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Divergenze” [73]. In copertina: Disegno di M. Vulcanescu.

376
Costanzo Preve, Marxismo Filosofia Verità. Seconda Edizione.
ISBN 978-88-7588-290-7, 2021, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Divergenze” [74]. In copertina: Gustav Klimt, Nuda Veritas, olio su tela, 1899, Österreichisches Theatermuseum, Vienna. In quarta: G. Klimt, Nuda Veritas, tavola pubblicata nel 1898 sulla rivista viennese “Ver Sacrum”.

377
Claudio Lucchini, La scuola della merce e le esigenze della libera individualità.
ISBN 978-88-7588-292-1, 2021, pp. 80, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [131]. In copertina: Andy Warhol, Campbell’s Soup Cans, 1962 e Henri Matisse, La Danse, 1910.

378
Salvatore A. Bravo, Pilocchio. Storia di un Pinocchio dei nostri giorni.
ISBN 978-88-7588-294-5, 2021, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Divergenze” [75]. In copertina: Antonio de Curtis, Totò nel quadro «Pinocchio e Lucignolo», Rivista teatrale Volumineide, 1942.

379
Aldo Lo Schiavo, Filosofia del mito greco. In Appendice: Themis, la dea del giusto consiglio.
ISBN 978–88–7588-296-9, 2021, pp. 80, formato 140×210 mm, Euro 10 – Collana “Il giogo” [132].
In copertina: Themis di Ramnunte, dal tempio di Nemesi (ca. 300 a.C.), Museo Archeologico Nazionale di Atene. In quarta: Charites (grazie), rilievo votivo, periodo arcaico. Glyptothek, Monaco di Baviera, Germania.

380
Margherita Guidacci, Lato di ponente. A cura di Ilaria Rabatti.
ISBN 978–88–7588-267-9, 2021, pp. 112, formato 140×210 mm, Euro 13 – Collana “Egeria” [20].
In copertina: Giorgione, La vecchia, 1506 circa, part. Gallerie dell’Accademia, Venezia.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – La «SuperLega» Calcio impone i «nuovi gladiatori» come modello mercantile del capitalismo assoluto. Liberare il gioco dalla competizione distruttiva è un imperativo etico e sociale.

Superlega - Gladiatori

Salvatore Bravo

La «SuperLega» Calcio impone i «nuovi gladiatori»
come modello mercantile del capitalismo assoluto.

Liberare il gioco dalla competizione distruttiva è un imperativo etico e sociale

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Nuovi gladiatori
Il capitalismo assoluto è in perenne azione distruttrice, divora ed assimila, non ammette perdite, deve riempire ogni spazio materiale ed immateriale con la forza del plusvalore. La logica che lo muove è intrinseca ad esso: il guadagno. Il capitalismo è ancipite: libero da ogni vincolo e nel contempo costretto la seguire la sua stessa legge, si muove per necessità, non conosce contraddizione, è forza assimilatrice che non ha altra prospettiva che la propria legge. La violenza del capitale cela la sua debolezza nella sua stessa libertà-necessità. L’assenza del senso del limite, il porsi secondo una modalità “a-dialettica”, lo conduce gradualmente a scollarsi dalla realtà, a vivere in una realtà astratta ed astorica. Il capitalismo assoluto vive in un tempo mitico, benché agisca nel solo orizzonte mondano, fino a diventarne il dio che, mentre si espande, regna nella malinconia delle passioni tristi.
Il costituirsi della Superlega sportiva con l’istituzione di un campionato europeo è un altro salto verso la competizione totale, verso il plusvalore senza limiti e confini. Lo sport diviene “realtà mitica” sganciata da ogni senso ultimo e verità per rafforzare ancor di più il proprio ruolo di oppio dei popoli con cui saccheggiare i magri guadagni dei sudditi da stordire con un nuovo torneo. La cui finalità è certo quella di compensare le perdite dovute al Covid 19. Il campionato europeo presuppone la “dequalificazione” dei campionati nazionali. Il cosmopolitismo sportivo diviene un altro tassello per “educare” all’estraneità al territorio, per formare a pensare in modo “europeo”, ovvero a competere, trasformando giocatori e squadre in gladiatori. Lo sport, il calcio i particolare – già fortemente inquinato dalle logiche crematistiche – scompare definitivamente nel suo valore ludico, sociale e comunicativo dietro i colpi dei nuovi gladiatori che – in nome della visibilità mondiale – saranno disponibili ad una lotta assai poco sportiva. Lo sport è il nuovo laboratorio dove si allenano i nuovi gladiatori: la violenza è resa istituzionale. Attraverso lo sport dei gladiatori si offre alle nuove generazioni un violento modello mercantile a cui dover far riferimento nel quotidiano, si diseduca all’agire comunitario mediante il gioco (che per sua natura è duale). Le nuove generazioni guarderanno ai nuovi gladiatori ammirandoli, e trasformando il regressivo desiderio di apparire nel narcisismo generalizzato della violenza. Ecco allora che lo sport capitalistico si concretizza nella pratica del nichilismo, in cui includere tutti. Si noti il grande successo del calcio femminile che ripete le medesime logiche dello sport azienda prodotto per il mercato, nel silenzio di ogni componente femminile.


Sport e comunità
Lo sport ha la sua verità, e solo comprendendone i fondamenti è possibile capirne la perversione cui addiviene. Lo sport non è solo tempo ludico, in cui si comunica con la corporeità vissuta, ma è anche educazione all’armonia del corpo e della mente. Nello sport vive in modo concreto la natura comunitaria umana che si forma, anche, mediante la pratica sportiva. Platone nelle Leggi ne descrive il valore educativo. Lo sport come la musica insegna a “sincronizzarsi” con l’altro, a liberarsi dall’individualismo per preparare alla condivisione ed alla collaborazione. Lo sport diviene propedeutico a vivere in comunità:

«Le lezioni possono essere divisi in due tipi: gli esercizi che riguardano il corpo, e la musica, che aggiorna l’anima. Ci sono due tipi di lezioni che riguardano il corpo: lotta e balli. Ci sono due tipi di danza: liberi e nobili, e ciò che si propone è la forma fisica, l’ agilità, e la bellezza esercitando le varie parti del corpo, quando è praticato con vigore e con una fermezza graziosa e quando la forza e la salute vengono meno, non deve essere omessa poiché questi insegnamenti sono utili per tutti gli scopi. Quando si raggiunge questo punto nella nostra legislazione dovremmo pagare sia gli alunni che i loro insegnanti perché questi ultimi dovrebbero impartire queste lezioni con delicatezza, e gli alunni riceverle con gratitudine».[1]

 

Lo sport del nostro tempo è invece divenuto esercizio all’atomocrazia. Non solo l’orizzonte dell’utile (guadagno) scaccia ogni socialità, ma specialmente rende il corpo un feticcio da esporre, e non più comunicazione vissuta. Lo sport è, così, tempo del corpo da esporre nello spettacolo dell’arena, e fonda la “società” dell’invidia e dell’ossessione per la bellezza vincente.

 

Logos motorio
Lo sport riesce ad essere di tutti e per tutti a condizione di rispettare la legge della medietà, comune alla medicina ed alla filosofia. Galeno descrive le qualità dei giochi con la palla. Il clima di gioia che sostanzia gli esercizi permettono non solo lo sviluppo armonico del corpo, ma anche rinforzano il senso critico. La tensione positiva porterà i contendenti a gioire del risultato finale, in quanto lo scontro fisico è stato un incontro che ha giovato a tutti. Lo sport diviene “logos motorio”, ovvero i partecipanti imparano con la dialettica del gioco a verificare e sviluppare la propria intelligenza e la propria socialità:

«In primo luogo è la sua convenienza. Se si pensa a quanto tempo è necessario per le attrezzature per la caccia, si sa che nessun politico o artigiano possa partecipare a tali sport, quindi c’è bisogno di un uomo ricco con un sacco di attrezzature e tempo libero. Ma anche l’uomo più povero può giocare a palla, perché non richiede reti, né armi, né cavalli, né cani da caccia, ma solo una palla. Non interferisce con altre attività di un uomo e non lo induce a trascurare nessuna di loro. E cosa c’è di più conveniente di un gioco in cui tutti, non importa la sua condizione o di carriera, può partecipare? Troverete anche che è il miglior esercizio completo. Per gli altri esercizi troverete che uno è violento, un altro dolce; uno che esercita la parte superiore del corpo, o una parte del corpo come i fianchi o la testa o le mani o petto, invece che tutto il corpo. Nessuno mantiene tutte le parti del corpo ugualmente in movimento; nessuno ha un ritmo che può essere accelerato rallentato di nuovo. Solo l’esercizio con la palla raggiunge tutto questo. Quando i giocatori si allineano su lati opposti e si esercitano per ottenere la palla, allora è un esercizio violento, infatti così la testa e il collo sono esercitati, ed i lati e il petto e lo stomaco sono esercitati dagli abbracci e spintoni rimorchiatori. In questo gioco i fianchi e le gambe sono allungate tese violentemente, poiché forniscono una base per tale sforzo. La combinazione di correre avanti, indietro, e saltando di lato non è un piccolo esercizio per le gambe; se a dire il vero, questo è l’unico esercizio che mette tutte le parti della gamba in movimento. C’è lo sforzo da un insieme di tendini e muscoli nella corsa in avanti, su un altro insieme corsa all’indietro, e su un altro nel salto. Così come il gioco con la palla è un buon esercizio per le gambe, è ancora meglio per le braccia, perché è consuetudine di prendere la palla in ogni sorta di posizione. La varietà di posizioni peserà su diversi muscoli in diversa misura, e diverso tempo. E’ importante anche l’occhio se si pensa a come il giocatore non può prendere la palla se non ha giudicato il suo volo con precisione. Il giocatore inoltre affina le sue capacità critiche attraverso la pianificazione come prendere la palla e come strappare la palla, se gli capita di essere nel mezzo. La rivalità terminerà nel piacere, promuoverà la salute del corpo e l’intelligenza nella mente. Questo è un vantaggio importante se un esercizio può aiutare il corpo e la mente verso lo spigolo che è insito in ciascuno. Si può facilmente capire che giocare a palla aiuti le due più importanti manovre che uno Stato affida ai suoi generali: attaccare al momento giusto è necessario per difendere il bottino già accumulato e la lungimiranza del piano del nemico. La maggior parte degli esercizi producono gli effetti opposti, rendendo la mente lenta, assonnata, e noioso. La vittoria in guerra non appartiene coloro che possono scappare il più veloce, ma chi è in grado di prevalere in incontri ravvicinati. Gli Spartani non erano diventati i più potenti perché potevano correre più veloce, ma perché hanno avuto il coraggio di resistere e combattere. Sono particolarmente favorevole all’esercizio fisico che promuove la salute sufficiente per il corpo, lo sviluppo armonico delle sue parti, è necessario per lo spirito. Tutti questo si ritrova nell’esercizio con la palla. Si può beneficiare la mente in ogni modo, ed esercitare tutte le parti del corpo allo stesso modo. Esso contribuisce alla salute e alla moderazione delle condizioni fisiche, perché non causa né una corpulenza eccessiva né una magrezza smodata. E ‘adatto per azioni che richiedono resistenza e anche per coloro che esigono la velocità. Così la forma più faticosa della sfera di gioco non è in alcun modo inferiore ad altri esercizi».[2]

 

La Superlega è la pratica del solipsismo, strumentalizza i nuovi gladiatori globali che offrono al mercato delle aziende sportive il loro corpo, i loro muscoli, la loro capacità di ammaliare il pubblico in nome del successo finanziario. Il pubblico è solo fonte di reddito, massa informe che passivamente assiste alla morte dello sport, mentre ne è invaso, poiché gli incontri sportivi ed i campionati si moltiplicano consentendo solo a coloro che accedono ai canali a pagamento di “partecipare” alla bulimia competitiva. Il sistema fiorisce sulla divisione, ed ogni separazione ha una irta barriera innalzata con la forza del denaro, come sempre fattosi privilegio. La verità del neoliberismo è tra di noi, non è un destino, ma una “decisione umana troppo umana” con cui ci dobbiamo confrontare per capire ed emanciparci.

 

Gioco e crescita umana
La generale regressione etica e creativa usa i suoi cingolati in ogni aspetto della vita. Un’umanità a cui si sottrae il tempo del gioco, è privata della sua capacità divergente e critica, in quanto il gioco è fonte di conoscenza ed è relazione libera da ogni finalità produttiva: in tal modo la persona si confronta con ogni aspetto della propria personalità. Il gioco contribuisce all’umanesimo integrale senza il quale si cade negli automatismi acritici:

«Punto di partenza deve essere il concetto di una quasi infantile disposizione al gioco che si esterna in tante forme ludiche; in azioni cioè legate a regole e sottratte alla vita ordinaria, azioni nelle quali si possono sviluppare bisogni innati di ritmo, di alternazione, di gradazione antitetica, e d’armonia. […] Ogni essenza mistica e magica, ogni ente eroico musico, logico e plastico cerca forma ed espressione in un nobile gioco. La cultura comincia non come gioco o da gioco ma in gioco».[3]

 

Liberare il gioco dalla competizione distruttiva è un imperativo etico, poiché il riduzionismo capitalistico – con la competizione – sottrae il gioco e lo sport al loro significato e valore educativo. I processi di distruzione fatalmente innescati travolgeranno anche i competitori, ma è necessario elaborare una nuova visione del mondo con la quale attraversare l’era dei gladiatori con le sue tragedie.

Salvatore Bravo

[1] Platone, Leggi, 794 d – 796 d ca.
[2] Galeno, On Exercise with the Small Ball, in S. G. Miller, Areté: Greek Sports from Ancient Sources, University of California Press, 2004, pp.121-124
[3] J. Huizinga, Homo Ludens, Einaudi, Torino 2002, p. 88.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Con questo libro sulla «Dolcezza» Luca Grecchi ci dona la possibilità di un riorientamento gestaltico con cui guardare ex novo il mondo nella sua verità. Non basta essere gentili. Senza gratuità e dolcezza non vi è comunità.

Luca Grecchi - Dolcezza - Salvatore Bravo

Salvatore Bravo

Globalizzazione della durezza e necessità della dolcezza

Con questo libro sulla «Dolcezza» Luca Grecchi ci dona la possibilità
di un riorientamento gestaltico con cui guardare ex novo il mondo nella sua verità.
Non basta essere gentili.
Senza gratuità e dolcezza non vi è comunità.

 

L’Occidente globalizzato nel suo tramonto nichilistico si caratterizza per un generale analfabetismo emotivo e sentimentale. L’analfabetismo dei sentimenti a cui si assiste, e di cui quotidianamente ci si scandalizza, può essere compreso solo all’interno della cornice crematistica che impera e regna. Il trionfo della razionalità calcolante e produttiva non ammette limiti al suo imperio. La natura morale universale è giudicata come elemento inibente nello sviluppo delle forze produttive, pertanto si scinde il legame tra teoria e prassi e tra razionalità e sentimento etico. La struttura economica necessita di un’umanità mutila della sua profondità etica nella quale razionalità oggettiva e vita emotiva trovano la loro massima configurazione.
L’antropologia capitalistica ha elaborato una visione dell’essere umano come di un essere devoto allo scambio e che realizza se stesso solo nell’attività mercantile. Il fine è creare un vuoto interiore in ogni essere umano da riempire con la logica dell’utile e dell’accumulo che devono sostituire ogni finalità etica. Il sistema non vuole solo atomizzare, ma deve anche recidere la totalità, fondamento della persona, e affinché questo possa essere deve isolare e spingere alla competizione, per mutilare l’umanità del senso etico.
Ogni mutilazione implica una ferita, la quale palesa l’irrazionalità dolorosa di tale pratica sociale, che vorrebbe fondare l’uomo nuovo, sogno di ogni totalitarismo, ma in realtà, ottiene solo un’umanità sofferente e senza speranza. Le passioni tristi di cui è intessuto il capitalismo nella sua fase neoliberista sono la verità di un sistema patologico ed irrazionale. Negare la natura morale significa consegnare l’umanità al caos della violenza, all’infelicità perenne tra le miserie dell’abbondanza per i privilegiati, ed alla miseria migrante per i nativi degli Stati neocolonizzati e sfruttati dalle logiche imperiali. In entrambi i casi regna l’anomia etica e l’incuria nelle relazioni umane ed ambientali:

Filosofia ed etica
In questo contesto connotato dall’anti-umanesimo la filosofia deve segnare la sua presenza critica e propositiva. Non si tratta della filosofia accademica: non è certo una filosofia all’ombra del potere che può riportare il problema morale alla sua comprensione storica. Solo la filosofia che non ha tradito la sua vocazione teorica e pratica ed ha come fine la buona vita degli esseri umani, può agire, affinché la “cura” della comunità sia il principio di un nuovo inizio a misura di essere umano e non di mercato:

Luca Grecchi procede per definizioni e distinzioni in modo da chiarire il problema, e far emergere dal caos delle parole – travolte dal flusso ininterrotto ed anonimo delle mercificazioni e dall’autopromozione – i significati con cui definire i problemi ed indicare l’alterativa all’anomia vigente. Definire e distinguere è già un atto che implica dolcezza e cura, in quanto riportare i significati alla loro verità è un atto etico con il quale si dona senso e si indica il percorso per ritornare a se stessi dopo la dispersione nichilistica:

Dolcezza e cura
L’economia privatistica ed acquisitiva non ha cura degli esseri umani, li omogeneizza alle merci, li riduce ad enti mossi dal valore di scambio.
La dolcezza è non solo cura, ma espressione del bene, ovvero della buona vita che necessita di relazioni fondate sulla razionalità etica.
La dolcezza è pratica della reciprocità nella cura liberata dal vincolo proprietario-acquisitivo. L’essere umano è, in tal modo, valorizzato per la sua umanità che necessita di essere guardata con lo sguardo della dolcezza, della reciproca e dialettica accoglienza con cui conoscersi nella propria totalità “irripetibile” e non “riproducibile”:

«Pensiamo agli uomini: se trattati con rispetto e cura, tendenzialmente, essi ricambiano con rispetto e cura, dato che le relazioni umane sono solitamente caratterizzate da reciprocità. Se le cose stanno così, rapportandosi agli altri enti con rispetto e cura sarà realizzato anche il nostro bene, poiché essi si rapporteranno a noi con rispetto e cura. La regola generale della reciprocità nelle relazioni etiche è ben esplicitata da quella che, verosimilmente, costituisce la regola etica più universale che sia mai stata formulata, ossia la cosiddetta “regola d’oro”, non a caso presente in molte civiltà antiche».[4]

Cos’è un mondo senza cura e senza dolcezza?
Lo viviamo ogni giorno: il quotidiano è nell’ottica dell’indifferenza. Ciascuno è solo un mezzo per l’altro. Tra l’essere umano e gli enti che normalmente si usano non vi è differenza, e ciò diviene abitudine alle cattive relazioni nelle quali ci si sente perennemente minacciati. La violenza non risparmia nessuno ed inquina, in primis, le parole: per trasmettere la violenza ad ogni elemento dinamico della vita. La normalità del male è codificato mediante le leggi del mercato che divengono leggi bronzee su cui curvare ogni atto e parola:

Definizione di dolcezza
La definizione di dolcezza consente di comprendere il presente mediante la sua assenza. Non si tratta solo di una fenomenologia della dolcezza, ma anche di ricostruire un quadro storico, in cui siamo implicati con le nostre personali responsabilità. La dolcezza definita mediante la medietà aristotelica non è mollezza, non è durezza, ma cura attiva dell’altro, consente un percorso di avvicinamento etico all’alterità nella consapevolezza che essa dev’essere declinata nel rispetto dei contesti e delle contingenze. La dolcezza non è antitetica alla razionalità, ma la presuppone, perché agire con dolcezza significa mediare la cura con le differenti situazioni, circostanze, personalità con cui si è in relazione. La dolcezza non è equivoca, né univoca, ma si declina in molti modi:

Dolcezza e gentilezza
La dolcezza non è gentilezza, perché quest’ultima non comporta la cura, ma si limita ad atti formali. La gentilezza può essere compatibile con il sistema capitalistico, poiché è forma che non esige cura e responsabilità verso l’altro, ma è solo una modalità d’approcciarsi gradevole che, in taluni casi, può essere strategia di mercato o un semplice surrogato di un vuoto emotivo ed esistenziale, pertanto può essere ingannevole, può indurre in un mondo di solitudine a false speranze. Solo se unita alla dolcezza ed alla cura la gentilezza è autentica:

Il male può assumere forme nell’aspetto esteriore gradevoli ma nella sostanza interiore ingannevoli. La gentilezza scissa dalla dolcezza in un sistema acquisitivo finalizzato al profitto è solo un mezzo, perché è il profitto che tutto guida, e pertanto la dolcezza è ripudiata e rimossa. Il sistema, nonostante le declamate affermazioni di facciata è intrinsecamente avverso alla cura comunitaria e pertanto censura la discussione sulle modalità relazionali che lo svelano nella sua essenza storica:

Gratuità e dolcezza
Senza gratuità e dolcezza non vi è comunità, ma solo una caotica giustapposizione di soggetti in lotta tra di loro. La lotta acquisitiva distrae ed allontana – pur senza neutralizzarla – dalla natura etica umana. L’effetto è la “cattiva vita” generalizzata, in cui la tonalità del grigio investe ogni componente della comunità conducendolo verso la depressione emotiva e razionale:



Senza dolcezza non vi è comunità, non vi è possibilità di ascoltare il proprio Daimon, il proprio io profondo nel quale l’universale si scopre nella sua particolarizzazione irripetibile. Luca Grecchi ci dona la possibilità di un riorientamento gestaltico con cui guardare ex novo il mondo nella sua verità. D’altra parte la filosofia è “meraviglia panica” che ci induce a vedere in profondità per capire, in modo da non restare anestetizzati dall’irrazionale con le sue violenze.

Salvatore Bravo

***

[1] Luca Grechi, Dolcezza, Mursia, Milano, 2021 pp. 27-28.
[2] Ibidem, pag. 80.
[3] Ibidem, pag. 33.
[4] Ibidem, pag. 36.
[5] Ibidem, pag. 39.
[6] Ibidem, pag. 46.
[7] Ibidem, pag. 70.
8] Ibidem, pag. 73.
[9] Ibidem, pp. 103-104.

Quarta di copertina

La dolcezza è una virtù fondamentale che rende migliori le relazioni umane, e mai come in questo periodo di grandi incertezze se ne sente il bisogno. Questo saggio di Luca Grecchi analizza dapprima, alla luce della filosofia greca classica, alcuni dei contenuti essenziali per la comprensione della dolcezza, come la verità, il bene, la virtù. In un secondo momento, descrive le principali strutture etiche affini alla dolcezza, ma che dalla stessa si differenziano, costituendone talvolta semplicemente delle componenti: la gentilezza, la tenerezza, l’umiltà, la misericordia, la gratuità, la forza, la semplicità e la finezza. Di queste qualità, che il nostro tempo spesso altera, la dolcezza costituisce il coronamento e la compiuta realizzazione.

Luca Grecchi (Codogno, 1972) insegna per le cattedre di Filosofia Morale e di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fra i suoi libri più recenti, Leggere i Presocratici (2020) e tre volumi della collana «Questioni di filosofia antica» delle Edizioni Unicopli, ossia Natura, Uomo e Ricchezza (rispettivamente 2018, 2019 e 2021). Ha scritto inoltre Conoscenza della felicità (Petite Plaisance, 2005).

Pagine 170 – Euro 17,00


Indice

Introduzione di Silvia Vegetti Finzi

PRIMO CAPITOLO:
Per introdurre il discorso

La dolcezza come virtù

L’uomo: un ente da definire

Il bene: un concetto da definire

Il rispetto e la cura come relazioni costitutive del bene

Per una definizione della dolcezza

La dolcezza come giusta misura

La dolcezza come virtù filosofica

 

SECONDO CAPITOLO:
Cosa non è e cosa è la dolcezza

La dolcezza non è gentilezza

La dolcezza non è tenerezza

La dolcezza non è umiltà

La dolcezza non è misericordia

La dolcezza è (anche) gratuità

La dolcezza è (anche) forza

La dolcezza è (anche) semplicità

La dolcezza è (anche) finezza

Bibliografia


Luca Grecchi – i suoi libri

Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.
Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare
Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD
Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo
Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia
Luca Grecchi – «L’umanesimo nella cultura medioevale» (IV-XIII secolo) e «L’umanesimo nella cultura rinascimentale» (XIV-XV secolo), Diogene Multimedia.
Luca Grecchi – Il mito del “fare esperienza”: sulla alternanza scuola-lavoro.
Luca Grecchi – In filosofia parlate o scrivete, purché tocchiate l’anima.
Luca Grecchi – L’assoluto di Platone? Sostituito dal mercato e dalle sue leggi.
Luca Grecchi – L’Italia che corre di Renzi, ed il «Motore immobile» di Aristotele
Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità
Luca Grecchi – Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno
Luca Grecchi – Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari.
Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.
Luca Grecchi – Aristotele: la rivoluzione è nel progetto. La «critica» rinvia alla «decisione» di delineare un progetto di modo di produzione alternativo. Se non conosciamo il fine da raggiungere, dove tiriamo la freccia, ossia dove orientiamo le nostre energie, come organizziamo i nostri strumenti?
Luca Grecchi – Sulla progettualità
Luca Grecchi – Perché la progettualità?
 
Luca Grecchi – «Commenti» [Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano]
Luca Grecchi – Aristotele, la democrazia e la riforma costituzionale.
Luca Grecchi – Platone, la democrazia e la riforma costituzionale.
Luca Grecchi – La metafisica umanistica non vuole limitarsi a descrivere come le cose sono e nemmeno a valutare negativamente l’attuale stato di cose. Deve dire come un modo di produzione sociale ha da strutturarsi per essere conforme al fondamento onto-assiologico.
Luca Grecchi – Scuola “elementare”? Dalla filosofia antica ai giorni nostri
Luca Grecchi – La metafisica umanistica è soprattutto importante nella nostra epoca, la più antiumanistica e filo-crematistica che sia mai esistita.
Luca Grecchi – Logos, pathos, ethos. La “Retorica” di Aristotele e la retorica… di oggi. È credibile solo quel filosofo che si comporta, nella vita, in maniera conforme a quello che argomenta essere il giusto modo di vivere.
Luca Grecchi – Educazione classica: educazione conservatrice? Il fine della formazione classica è dare ai giovani la “forma” della compiuta umanità, ossia aiutarli a realizzare, a porre in atto, le proprie migliori potenzialità, la loro natura di uomini
Luca Grecchi – Mario Vegetti: un ricordo personale e filosofico
Luca Grecchi – «Natura». Ogni mancanza di conoscenza, di rispetto e di cura verso la natura si traduce in una mancanza di rispetto e di cura verso la vita tutta. L’attuale modo di produzione sociale, avente come fine unico il profitto, tratta ogni ente naturale – compreso l’uomo – come mezzo, e dunque in maniera innaturale.
Luca Grecchi – Scritti brevi su politica, scuola e società
Luca Grecchi – i suoi libri (2002-2019)
Luca Grecchi – L’UMANESIMO GRECO CLASSICO DI SPINOZA. Lo scopo della filosofia non è altro che la verità.
Luca Grecchi – «Uomo» – L’uomo è il solo ente immanente in grado di attribuire senso e valore alla realtà e di porsi in rapporto ad essa con rispetto e cura.
Luca Grecchi – Insegnare Aristotele nell’Università
Luca Grecchi – L’etica di Aristotele e l’etica di Democrito: un confronto
Maurizio Migliori, Luca Grecchi – Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli
Luca Grecchi – Multifocal approach. Una contestualizzazione storico-sociale. Occorre porsi con critica consapevolezza progettuale all’interno della totalità sociale.
Luca Grecchi – «Leggere i Presocratici». La cultura presocratica rappresenta tuttora una miniera in buona parte inesplorata.
Luca Grecchi – Questo volume cerca di colmare un vuoto, almeno nella letteratura specialistica in lingua italiana. Mancava infatti, ad oggi, un volume complessivo sul tema della ricchezza nella filosofia antica.
Luca Grecchi – La dolcezza rappresenta una disposizione del carattere volta a configurare in maniera eccellente la propria umanità, nei rapporti con gli altri uomini e con la natura, per favorire la realizzazione di una vita felice.
Luca Grecchi – Intervista sulla «Ricchezza».
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – L’abbaglio con cui si cerca di ingannare noi tutti è un incanto illusorio. L’Occidente è senza Daimon e Genius loci e offre unicamente l’ametista ingannevole dei soli diritti individuali.

Christian Norberg-Schulz-Francesco Bevilacqua
Salvatore Bravo

L’abbaglio con cui si cerca di ingannarenoi tutti è un incanto illusorio.
L’Occidente è senza Daimon e Genius loci
e offre unicamente l’ametista ingannevole dei soli diritti individuali



Aspettando i barbari

Che cosa aspettiamo così riuniti sulla piazza?
Stanno per arrivare i Barbari oggi.
Perché un tale marasma al Senato?
Perché i Senatori restano senza legiferare?

È che i barbari arrivano oggi.
Che leggi voterebbero i Senatori?
Quando verranno, i Barbari faranno la legge.

Perché il nostro Imperatore,
levatosi sin dall’aurora, siede su un baldacchino
alle porte della città,
solenne e con la corona in testa?

È che i Barbari arrivano oggi.
L’Imperatore si appresta a ricevere il loro capo.
Egli ha perfino fatto preparare una pergamena
che gli concede appellazioni onorifiche e titoli.

Perché i nostri due consoli e i nostri
pretori sfoggiano la loro rossa toga ricamata?
Perché si adornano di braccialetti d’ametista
e di anelli scintillanti di brillanti?
Perché portano i loro bastoni preziosi
e finemente cesellati?

È che i Barbari arrivano oggi e questi oggetti
costosi abbagliano i Barbari.

Perché i nostri abili retori non perorano
con la loro consueta eloquenza?

È che i Barbari arrivano oggi.
Loro non apprezzano le belle frasi
né i lunghi discorsi.

E perché, all’improvviso,
questa inquietudine e questo sconvolgimento?
Come sono divenuti gravi i volti!
Perché le strade e le piazze si svuotano
così in fretta e perché rientrano tutti a casa
con un’aria così triste?

È che è scesa la notte e i Barbari non arrivano.
E della gente è venuta dalle frontiere dicendo
che non ci sono affatto Barbari…

E ora, che sarà di noi senza Barbari?
Loro erano comunque una soluzione.

K.P. Kavafis

La catastrofe globale a cui l’Occidente va incontro è spesso pensata nei soli termini di rovina ambientale irreversibile. Gli studiosi di filosofia al pari degli scienziati sciorinano dati sul clima, sullo scioglimento dei ghiacciai e sull’economicismo. L’esattezza di tali dati è indubitabile, ma dietro il declino, ormai prossimo alla catastrofe, vi è una verità che è necessario riportare alla luce. I dati scientifici con cui si profetizza la catastrofe sempre più vicina rischiano di occultare il senso di tali dati. Dietro la cortina di ferro della loro scientificità, vi è il declino vitale dell’Occidente incapace di progettare se stesso. L’Occidente – affetto da ipertrofia della razionalità strumentale – aspetta i nuovi barbari, affinché – come nella poesia di K. P. Kavafis – possano portare nuova linfa per evitare il suo tramonto. L’economicismo ha divorato il pensiero di ogni possibilità, per cui incapaci di promuovere vera politica e di praticare la ricerca della verità, li si attende cercando di affascinarli con i preziosi, ostentandoli, essi sono l’elemosina che l’Occidente usa per irretirli:

“Perché i nostri due consoli e i nostri
pretori sfoggiano la loro rossa toga ricamata?
Perché si adornano di braccialetti d’ametista
e di anelli scintillanti di brillanti?
Perché portano i loro bastoni preziosi
e finemente cesellati?

È che i Barbari arrivano oggi e questi oggetti
costosi abbagliano i Barbari”.

                      

Abbagli
L’abbaglio con cui si cerca di ingannare i barbari è l’incanto illusorio, in cui si è sempre vissuto e che ci rifiutiamo di riconoscere. L’immigrato è il barbaro che deve salvare dal declino demografico e culturale: lo si invoca, e lo si sfrutta. Si cade nel caos ideologico, sintomo della decadenza razionale. Si frodano i barbari con lo stesso registro valoriale che ha esaurito le forze vitali e creative: l’economicismo. Senza pensiero divergente che si arrischi nella ricerca autonoma della verità non vi è soluzione alla catastrofe. Si attende la soluzione dall’esterno, ma non verranno i barbari a liberarci. Non vi sono soluzioni che vengano dall’esterno:

“È che è scesa la notte e i Barbari non arrivano.
E della gente è venuta dalle frontiere dicendo
che non ci sono affatto Barbari…
E ora, che sarà di noi senza Barbari?
Loro erano comunque una soluzione.”

Si attendono i barbari, si abdica ad ogni responsabilità politica e sociale. Non si ha la forza per deviare il cammino dall’abbaglio collettivo della crematistica e del narcisismo disperato. Non si “osa” invocare l’impegno alla lotta alle ingiustizie e dichiarare la verità del modello di sviluppo dell’attuale sistema. L’Occidente si nasconde tra le pieghe dei “barbari” che divengono il mezzo per sfuggire alla sua verità autorappresentandosi come il migliore dei mondi possibili.

 

Occidente senza Daimon e Genius loci
La decadenza è iniziata con un processo di estraniazione dal proprio “demone”, ovvero con la messa a tacere di ogni vocazione individuale e collettiva. L’economicismo ha sepolto la capacità di ascoltare la propria vocazione profonda in nome del facile successo e della regressione ad un infantilismo di massa osannato con ogni mezzo. Il ciclo produttivo non saccheggia solo il pianeta, ma nella sua spirale svuota gli individui, che in nome del diritto a tutto hanno abdicato ai loro doveri, alla solidarietà umana, all’ascolto del Genius loci[1] che abita i paesaggi. Senza l’ascolto dell’invisibile racchiuso nella storia dei territori del pianeta ogni luogo è solo merce per un ultimo e letale scambio mercantile. L’architettura – costola dell’economia –insegue l’onnipotenza dell’economicismo, progetta il territorio secondo una pianificazione astratta che ne sfregia l’identità e la bellezza:

«Dunque, perfetta identità di vedute tra studiosi di così diversa estrazione culturale ed appartenenti a discipline così distanti: l’architettura moderna ha dimenticato o del tutto frainteso il concetto di Genius loci, scambiandolo, frequentemente, con la pura e semplice “genialità” del progressista o dell’artista che, di volta in volta, programma l’intervento trasformatore del territorio, o più prosaicamente, ignorandolo in supina adorazione dei più biechi interessi speculativi». [2]

 

Senza l’ascolto del Daimon personale e del Genius loci che costruiscono un’unità di senso sotterranea da tradurre in concetto, non resta che la pianificazione algoritmica della vita, la violenza che si estende sulla vita in un delirio attivistico che in realtà è solo onnipotenza nichilistica. Il risultato di tale prassi è l’essenza della vera vita, minacciata in ogni sua forma.

 

L’ametista dei soli diritti individuali
I sussulti del sistema sono dinanzi a noi: ci si appella all’uguaglianza di genere, al voto ai sedicenni, al fine di ottenere una manciata di voti per sopravvivere senza doversi dare una vera prospettiva. La parità di genere è divenuto un espediente per evitare la critica alle istituzioni ed alle pratiche economiche dell’illimitato. Il voto ai sedicenni è un modo per affascinare gli adolescenti e manipolarli abilmente, ben sapendo che età e cultura non consentono loro un voto consapevole. Si cerca – con tattiche elettorali – di consolidare le fondamenta di istituzioni senza fondamento ideale. Si erode il dissenso trasportando in esso donne e sedicenni, in modo da tacitare ogni valenza critica. Il progresso illuministico è divenuto “rivoluzione passiva”; si teme la critica, perché la vista della verità, in cui siamo implicati, potrebbe far implodere il sistema. E in assenza di prospettive consegnarci alla nostra verità senza filtri: la violenza sregolata. I barbari sono all’interno delle nazioni ed erodono – in nome dell’ultimo letale boccone a cui non vogliono rinunciare – quel che resta dello spirito critico e vitale di un popolo. L’ametista dei diritti individuali senza i diritti sociali e i doveri trasforma i diritti sociali nella barbarie del consumo senza prospettiva, dell’egoismo divenuto modello per le plebi. I processi di autodistruzione sono in atto e palesi, ma i barbari che abitano nel ventre delle nazioni sono sfiniti dalle loro pratiche ed attendono liberatori che non verranno, mentre la catastrofe è sempre più vicina. Dinanzi a tale verità solo l’ascolto del Daimon e del Genius loci può essere l’inizio di un riorientamento gestaltico. Per ritrovare la via è necessaria una cesura, uno strappo senza compromesso. È tale la nostra condizione che necessitiamo di giovani animati dalla «passione durevole» di cui parlava György Lukács, e che riportino l’Umanesimo al centro del cammino della storia.

Salvatore Bravo

[1] Genius loci è, nella definizione di Christian Norbert-Schultz, il significato profondo del luogo che è iscritto nella sua essenza. Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura, Electa, Milano 1979; «Il carattere è determinato da come le cose sono, ed offre alla nostra indagine una base per lo studio dei fenomeni concreti della nostra vita quotidiana. Solo in questo modo possiamo afferrare completamente il Genius Loci, lo “spirito del luogo” che gli antichi riconobbero come quell'”opposto” con cui l’uomo deve scendere a patti per acquisire la possibilità di abitare» (ibidem, p. 14).

[2] Francesco Bevilacqua, Genius Loci il dio dei luoghi perduti, Rubbettino, 2010 pag. 36

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Angelo Magliocco – il libro di Salvatore Bravo, «L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo».

Salvatore Bravo, L'animalizzazione dell'essere umano nel capiralismo recensione Angelo Magliocco

Angelo Magliocco

Recensione di “L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo” di S.A. Bravo

***

Agli albori del pensiero ritroviamo Aristotele e la sua qualificazione sostanziale dell’uomo come animale politico – ζῷον πολιτικόν (zòon politicòn) – inteso in senso lato come cura di sé e del rapporto con gli altri uomini della πόλις (pòlis). Se tale qualificazione non rispondesse realmente alla sua natura, soggiunge Aristotele, l’uomo decadrebbe a stato di belva solitaria, esclusa dal consorzio umano, o al contrario sarebbe de facto elevato a stato di divinità che, per la sua onnipotenza e autosufficienza, non abbisogna di un consesso comune.

Ebbene, la qualificazione di πολιτικόν è la mira, a giudizio di Salvatore A. Bravo (nel seguito S.B.), autore di questo ottimo saggio, di un attacco congiunto, surrettizio nelle modalità ma fin troppo palese negli effetti, della società della tecnica e del sistema economico capitalistico. La risultante è un imprimatur tecno-capitalistico apposto su un nuovo manuale d’uso dell’uomo contemporaneo. È il tentativo di avviare lo sviluppo della storia su una direzione si direbbe “antropofuga”, e anzi “zoopeta”, che allontani dalla sostanza di tutto ciò che significa “essere umani” e avvicini alla sostanza fisico-naturalistica dell’idea di “essere vivente” tout court, che residua appunto nella nuda caratterizzazione di ζῷον.

Curiosamente la tecnica e il capitale agiscono per additionem, l’una pervadendo la società di strumenti atti a moltiplicarne le capacità espressive, almeno in teoria, l’altro a moltiplicarne le effettive possibilità di porle in atto tramite la ricchezza, ma il risultato complessivo è un uomo diminuito, deumanizzato, un mero ζῷον, un uomo scalato per subtractionem del proprio vero potenziale. Ogni incremento tecnico e capitalistico, in un curioso vortice dialettico, va non ad aumentare ma a detrarre dall’uomo ciò che di più umano c’è nella sua espressione. In questo, S.B. cita giustamente Hegel:

Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni”.

Da questo punto di vista, il saggio di S.B. è una panoramica ad ampio raggio sulle svariate qualità tolte dall’espressione umana, ovvero di caratteri che hanno subito, e continuano a subire, una detrazione in termini di umanità vera.

Partiamo proprio dal vivere sociale, che ad es. la nostra stessa Costituzione (art. 3 comma 2) lega allo sviluppo della persona umana e all’effettiva partecipazione alla società, e quindi intende non già nel senso di un Ego solipsistico, bensì comunitario, ovvero come relazione di quell’Ego all’interno di un contesto relazionale. La matrice trasformativa in cui l’Ego è immerso, in un sistema tecno-capitalismo, è invece esiziale per quello stesso Ego, in quanto riducendolo a monade “senza finestre”, ne abbatte la stessa capacità espressiva in tutto ciò cui tale Ego tiene realmente:

L’essere umano è tale, se si riconosce nell’identità personale e comunitaria. L’identità si genera nelle relazioni comunitarie senza le quali “il riconoscimento di sé” e “dell’altro” è impossibile. In questo intreccio si struttura la personalità che, benché dinamica, ha la sua essenza, si modifica, ma all’interno di un percorso evolutivo tracciato. Gli accidenti del percorso possono essere estemporanei, ma l’identità con il suo nucleo vitale e dinamico non è contrattabile, non può essere sostituito. L’identità è resistenza al potere, è il limite che il soggetto disegna al potere. L’animalizzazione è, invece, l’organizzazione totalitaria del capitalismo assoluto, essa deve privare i soggetti dell’identità stabile inneggiando al mito della flessibilità, delle identità fluide, della sessualità polimorfa. L’identità non è più legata ad una storia, alla ricerca di sé, ma è figlia dell’attimo, della voglia del momento. Senza identità, l’io non è che il contenitore senza fondo degli stimoli del mercato.

E ancora, sull’empatia, non possiamo che concordare con S.B.:

Affinché il sistema possa proliferare e regnare è necessario diseducare all’empatia positiva, alla capacità empatica e duale per sostituirla con l’empatia negativa. Quest’ultima si caratterizza per il corazzamento emotivo, ci si ritira dal flusso empatico positivo per rendersi atomi individuali slegati da ogni vincolo di appartenenza. L’empatia positiva educa alla trascendenza, nel volto dell’altro si legge la traccia dell’infinito e del limite.

S.B. prosegue con un’analisi di stampo più teoretico di questi esiti, introducendo ad esempio la c.d. “perversione di Spinoza”, ovvero il pervertimento degli attributi, le qualità fondamentali della sostanza umana, che virano verso un’uniformità artificiale, atta a garantire unicamente uno scivolamento perpetuo di merci e capitali senza attrito alcuno, perdendo in ciò la loro stessa prerogativa primigenia.

Gli infiniti attributi spinoziani non sono che gli esseri umani, i quali divengono l’epifenomeno dell’unica sostanza spazio-materia. Solo corpi che consumano, sola estensione, solo enti liberi di veleggiare per il pianeta per godere la liturgia del nulla. Godere è rendere l’altro strumento, spazio che divora ed assimila altro spazio. Il turista che girovaga nel mondo, cosa fa se non consumare veloci visioni di paesaggi e monumenti per poi dilettarsi con i cibi del luogo. In media al ritorno è simile al momento del viaggio, poiché il fine era il divertimento, “il divertere-cambiare strada”. Strati su strati di divertissement non costruiscono solo l’economia della dispersione e della gettatezza, ma specialmente formano ed orientano alla fuga dall’impegno, dalla politica.

Invero, cosa c’è di più distruttivo dell’effetto di questo contesto sulle nuove generazioni, sulla loro formazione. Arduo obiettare che il mondo, così come filtrato da una Weltanschauung tecno-capitalista, non sia soggetto per loro a una continua riconfigurazione gestaltica verso il piatto e via dalla complessità, una Gestalt senza figure riconoscibili, dotata unicamente di linee rette infinite e parallele, che non si incontrano mai se non all’infinito (direbbe Euclide), ma in un infinito non in un senso metafisico, quanto piuttosto nel senso di una trabordante ed essudante quantità.

Con il pedagogismo gli esperti della tecnocrazia didattica riducono la formazione a costola del mercato, tra l’istituzione formativa ed il mercato non vi è differenza, non vi sono salti quantici a garantire la formazione dall’asservimento incorporante. Costanzo Preve connota questa fase del capitalismo come assoluto e ne evidenzia l’incorporamento, mediante il quale si costituisce il regno dell’irrilevanza, ovvero ogni valore, ogni differenza tra l’umano ed il non umano salta per portare il tutto sulla linea dell’irrilevanza. Non vi è alto, né basso, non vi sono gerarchizzazione assiologiche, ma solo l’irrilevanza del nichilismo. Capitalismo della sorveglianza è la definizione di Shoshana Zuboff, con cui si palesa il carattere dell’incorporamento della vita mediante le banche dati con le quali allevare un nuovo tipo di essere umano.

Il saggio di S.B. è estremamente interessante per la visione a volo d’angelo di un territorio antropico via via eroso e desertificato, decompresso della sua pienezza umana e fluido come olio motore, lubrificato come un ingranaggio ma sterilizzato e prono a guasti. È un territorio dell’uguale e del conforme, del normale statistico e non emotivo, della confluenza e non dell’unione, della giustapposizione e non dell’incontro.

Egli riesce a individuare e a descrivere con dovizia di particolari e abili agganci teoretici i gesti, le idolatrie e gli idealtipi della società contemporanea: vedansi, ad esempio, il preside manager, lo studente coder già alle elementari, il poliglotta sagace, il politico sinistrorso ma aperto al globale, il professore con picchi di performance, la scuola azienda, il pensiero dell’esatto e non del vero, il politicamente sottratto (o, come pretendono dire, corretto), la burocrazia automatica che si infiltra nei gangli delle relazioni umane. Questo testo costituisce pertanto una visione originale del rapporto tra capitalismo, tecnica e società, nelle sue ricadute culturali e sociali.

Salvatore Bravo
L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo

ISBN 978-88-7588-274-7, 2020, pp. 192, Euro 20

indicepresentazioneautoresintesi

«Ora, una volta liberato dalle sue catene, il gigante infuria, abbattendo tutto ciò che si oppone alla sua corsa. Cosa ci riserverà il futuro? Chi ritiene che il gigante chiamato “capitalismo” distrugga la natura e gli uomini, spera di poter un giorno incatenarlo e ricondurlo nuovamente là da dove esso è fuggito. Ma la sua furia durerà in eterno? Non si esaurirà nella sua corsa? Io credo di sì. Ritengo infatti che, nella stessa natura dello spirito capitalistico, risieda una tendenza che lo corrode dall’interno e lo ucciderà. […] Una volta divenuto cieco, forse il gigante sarà condannato a tirare il carro della civiltà democratica. Forse assisteremo al crepuscolo degli dei. E l’oro sarà restituito al Reno. Chi può saperlo?».

Werner Sombart, 1913

 

 

Disumanizzare è il nuovo imperativo categorico che imperversa nell’Occidente globale. I processi di disumanizzazione si concretizzano con la stabilizzazione del nichilismo economicistico. Il regno dell’ultimo uomo descritto da Nietzsche è ora la realtà vivente dell’Occidente. La disumanizzazione procede e si struttura secondo modalità assolutamente inedite nella storia dell’umanità: biopotere e tecnocrazia sono i mezzi con cui l’economicismo pone in atto la sua rivoluzione antropologica. La sovrastruttura culturale cela la verità del sistema: deve agire per disorientare, per rappresentare il nuovo regno edenico dell’abbondanza come l’unico possibile ed il più inclusivo. L’ideologia imperante dell’inclusione è lo spot orwelliano del neoliberismo. Essa catalizza il consenso, in quanto “sembra dire” che il sistema “non abbandona persona o gruppo alcuno”. L’inclusione è il mezzo con cui la necessità sostituisce i bisogni. La necessità è esterna e meccanica, e pone le condizioni per la dipendenza del soggetto e delle comunità. Il bisogno è sorgente e vita interiore, è il vivente nella pienezza della relazione duale. Il bisogno è autonomia, non crea dipendenze, ma libertà senza solitudine, perché i bisogni interiori sono luci che appaiono nella relazione e si trasformano in una inesauribile prassi. La differenza tra bisogno e necessità è stata già descritta da Aristotele.1 Una civiltà dimentica di tale differenza è preda del caos: organizza scientemente la disintegrazione umana. La necessità implica la dipendenza dall’esterno, il bisogno è spazio vitale interiore, che rompe le barriere della necessità per affermare l’autonomia del soggetto.
Umanizzare significa sostenere la crescita del bisogno primario dell’essere umano: pensare. Senza il logos si è consegnati alla necessità, al caos dell’efficienza che calcola senza porre domande. La religione dell’antico Egitto rappresentava il caos con Apopi,2 il serpente che tutto includeva nel caos. Non possiamo limitarci come gli Egizi a pregare per la sconfitta di Apopi, dobbiamo coniugare teoria e prassi. L’inclusione è la caverna ideologica del neoliberismo. Nel campo pedagogico-educativo, come nel campo del diritto si procede all’inclusione, per cui ogni frizione ed opposizione dialettica è “condannata” alla marginalità. L’inclusione ha l’ambizione di possedere il tempo, di distribuirlo negli spazi, di controllarne e curvarne le parole.
La chiacchiera (Gerede) mediatica ha il fine di tacitare, di silenziare il concetto: essa prolifera non solo in funzione mercantile, ma deve disumanizzare riducendo il tempo della coscienza a presenza confermativa. È l’ininterrotto “Yawl”3 che circola, assimila, omogeneizza nel regno animale dello Spirito (Gesellschaft). L’inclusione, dunque, è una forma di organizzazione assoluta, è la verità evi­dente ed edulcorata del capitalismo donante: includere perché viva il mercato, per animalizzare e derealizzare (Massimo Bontempelli) per lasciare spazio alla sola certezza sensibile (G.W.F. Hegel).
La nuova fase imperiale del capitalismo passa per la porta dei diritti individuali: ogni differenza a cui è concessa la visibilità e la garanzia dell’inclusione è espressione dell’avanzata dell’impero del capitale. Ad esse non si chiede di “render conto” mediante il concetto di se stesse; non si domanda l’emancipazione (autonomia di giudizio e scelta), ma semplicemente si prestabilisce che debbono essere accolte, purché consumino e divengano veicolo di affermazione e diffusione del capitale.

Ogni resistenza dev’essere abbattuta in nome dell’inclusione senza emancipazione. Il capitalismo donante e flessibile si autocelebra come liberatore dai vincoli etici per condurre gradualmente “i liberati” nella gabbia della certezza sensibile. Perché il plusvalore possa essere accolto religiosamente, quale dogma anonimo ed indiscutibile, è necessario derealizzare, per cui si deve rieducare il pensiero all’esodo dalla cultura classica, dalla concretezza filosofica verso la sudditanza al dato immediato.
Il capitale – araldo della liberazione – concede i diritti individuali, purché sottragga il pensiero (Denken), purché il Geist (lo Spirito del mondo-storia) si congeli nella derealizzazione massificante. La disumanizzazione ambisce a necrotizzare la prassi storica per sostituirla con la flessibilità e la dinamicità spaziale. La disumanizzazione si materializza nel nichilismo passivo, il quale è costituito da due movimenti: la superficie è increspata continuamente dal movimento, sotto la superficie non vi è profondità, ma solo irrigidimento anti creativo. Il nuovo nichilismo passivo disumanizza, poiché attrae, come il paese dei balocchi, incanta con i suoi miti, con le sue aspettative, ma non mantiene le promesse.
L’umanità esige profondità, pone gerarchie onto-assiologiche per significare il mondo (Welt), altrimenti l’essere umano diviene parte dell’ambiente (Umwelt). La disumanizzazione ha lo scopo di rendere l’essere umano interno all’ambiente-economia di cui è organico partecipante.
Il presente lavoro ha l’intento di operare un cambio di prospettive, in modo che si possa scorgere e pensare dietro la cortina dell’inclusione la disumanizzazione dei processi in corso. A tal fine bisogna trascendere il linguaggio orwelliano per seguirlo nelle sue tracce – nessun delitto è perfetto –, per far emergere la derealizzazione a cui è associata la disumanizzazione. Si proclama l’inclusione scolastica, ma in realtà si omologano intelligenza ed indole degli alunni; si afferma la liberazione della donna, ma si persegue la riduzione delle donne ad una tragica copia del maschio liberista; si inneggia alle identità per tradurle in prodotti per il libero mercato.
Rispetto all’ultimo uomo descritto da Nietzsche siamo in un orizzonte che il filosofo non aveva immaginato. L’ultimo uomo nietzscheano digrigna i denti, perché non vuole creare, ma solo conservare; l’ultimo uomo del neo-liberismo, non conserva, non ha memoria, è il ricettacolo di appetiti senza memoria. La liberazione dell’ultimo uomo liberista è nella pratica della dimenticanza di sé, della comunità, del mondo.
Alain Badiou ha definito la disumanizzazione «materialismo democratico»; ovvero, le differenze sono tollerate fin quando accettano l’uguaglianza giuridica: nessuna gerarchizzazione etica e nessuna nostalgia per l’universale. Se le differenze appaiono nel gioco dell’irrilevanza sono esaltate, quale successo della democrazia sui totalitarismi, ma se osano porre la ricerca della profondità e dell’eterno sono espulse dal gioco democratico:

«Esso è, inoltre, essenzialmente un materialismo democratico, dal momento che il consenso contemporaneo, riconoscendo la pluralità dei linguaggi, ne presuppone l’uguaglianza giuridica. Ragion per cui, alla riduzione dell’umanità all’animalità si aggiunge l’identificazione dell’animale umano con la diversità delle sue sottospecie e con i diritti democratici inerenti a questa diversità. Il suo rovescio progressista questa volta prende in prestito il suo nome da Deleuze: “minoritarismo”. Comunità e culture, colori e pigmenti, religioni e sacerdozi, usi e costumi, sessualità disparate, intimità pubbliche e pubblicità dell’intimo. Tutto, tutte, tutti meritano di essere riconosciuti protetti dalla legge. Tuttavia, il materialismo democratico ammette un punto di arresto globale alla sua multiforme tolleran­za. Un linguaggio che non riconosca l’universale uguaglianza giuridica e normativa dei linguaggi non merita di beneficiare di tale uguaglianza. Un linguaggio che pretenda di normare tutti gli altri e di governare tutti i corpi, lo si dirà dittatoriale e totalitario. Ciò che si riscontra non è, allora, la tolleranza, ma un “dovere d’ingerenza”, sul piano legale, internazionale, finanche militare, qualora si renda necessario: si faranno pagare ai corpi i loro eccessi di linguaggio».4

Il materialismo democratico è la pratica della disumanizzazione, la sua trasformazione in dispositivo permanente. La conservazione, con “annesso ritiro dell’essere umano” dalla storia, ha il volto del relativismo e della società liquida. La tolleranza è ammessa fin quando la religione dell’economia nella forma della glebalizzazione planetaria non è mediata da processi di emancipazione. L’effetto sdoppiamento, la deviazione dalla condizione attuale, dev’essere rimossa dall’immaginario teoretico del singolo e collettivo.

Il divertissement relativistico diviene la struttura e la verità della Weltanscauung capitale. Il materialismo democratico tollera le differenze solo se sono gra­dualità della res extensa: ogni differenza è eguagliata alle altre nella riduzione a pura estensione consumante. Le differenze devono essere solo di ordine quatitativo:

«Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni. Grandezza significa quantità limitata dal limite qualitativamente indifferente, ripetizione identica di una medesima identità astratta. La matematica è la conoscenza delle relazioni necessarie della grandezza, secondo una necessità puramente tautologica nei suoi gradi più elementari, e secondo la necessità della mediazione sintetica costruita tra diversi elementi di un oggetto quantitativo nei suoi gradi superiori. Essa ha dunque una base obiettiva universale nella logica della quantità, mediante la quale elabora le sue costruzioni. Le scoperte matematiche sono indipendenti dalle contingenze storiche semplicemente perché l’oggetto del lavoro matematico è dato da entità astratte da ogni qualità contingente. La matematica è dunque una scienza. Ma la quantità, nella cui logica essa ha la sua base ontologica, è soltanto una delle sfere logico-ontologiche che il pensiero possiede nella sua interna strutturazione. Essa non può quindi avere in se stessa la misura della propria verità, perché la verità della quantità si compie soltanto nella sua connessione dialettica con tutte le altre sfere della realtà. L’isolamento della sfera logico ontologica della quantità è la ragione per cui la matematica non può fondare se stessa. Negli spazi vuoti delle pure grandezze quantitative tace, scrive Hegel, ogni esigenza che possa ricollegarsi all’individualità vivente: qui sta la mancanza di verità della matematica».5

Il desiderio di segnare una traccia nella storia e nella memoria, al punto da mettere in pericolo la propria vita, è sostituito con l’immediatezza delle pul sioni libere di godere in modo polimorfo. L’animalizzazione è la trasformazione delle differenze a semplice pulsione senza progettualità ed autocoscienza. L’eliminazione dell’autocoscienza, della relazione comunitaria è l’ideale nichilistico del capitalismo assoluto.

Ogni comunità dev’essere sostituita dall’individualismo, dal calcolo soggettivo finalizzato al godimento immediato. Le differenze sono così normalizzate, disciplinate sotto il regno del capitale. Mancando l’autocoscienza e la trascendenza l’essere umano è privato del suo carattere dialettico senza il quale non resta che la sostanza-estensione consumante.

Il capitalismo assoluto ha svelato la verità che la ragione liberale portava in grembo, siamo al punto apicale del nichilismo, e non giunge a noi improvviso, perché è nel fondamento della ragione liberale. Bernard de Mandeville descrive la verità della ragione liberale, essa non ha etica e limite, vive e si espande sull’emulazione dei consumi, non conosce altra legge che il consumo:

«A questa emulazione e a questo continuo sforzo di superarsi a vicenda si deve se dopo tanti cambiamenti di moda, che ne hanno fatte affermare di nuove e riproposte di vecchie, vi è sempre un plus ultra per i più ingegnosi. È questo, o almeno la conseguenza di questo, a dare lavoro ai poveri, a spronare l’industria e a incoraggiare il bravo artigiano a cercare nuovi progressi».6

 

In Mandeville l’eccesso dei consumi aumenta il benessere generale. Il lusso come motore di benessere, oggi, non ha ragion d’essere. Le tecnologie producono e divorano lavoro, il consumo crolla su se stesso, è introvabile una giustificazione razionale del consumo illimitato come fonte di benessere generalizzato. Non si vuol prendere atto che la ragione liberale, per sopravvivere, ora, non può che essere difesa dai gendarmi mediatici e dal totalitarismo del consumo al punto da minacciare la vita nella sua totalità, pur di far sopravvivere il neo-liberismo.
La ragione liberale, con l’economia finanziaria, ha consumato le sue possibilità di espansione. Per sopravvivere deve trasformare la libertà in sregolatezza, deve annientare ogni vincolo etico. È l’anno zero della civiltà. Dopo ogni diluvio si deve rifondare la civiltà ed i suoi fondamenti ontologici senza i quali si vive come fiere nella giungla del mercato globale:

«Ma delle Nazioni di tutto il restante Mondo altrimente dovette andar la bisogna; perocché le razze di Cam, e Giafet dovettero disperdersi per la gran Selva di questa Terra con un’error ferino di dugento anni, e così raminghi e soli dovettero produrre i figliuoli con una ferina educazione nudi d’ogni umano costume, e privi d’ogni umana favella, e sì in uno stato di bruti animali: e tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la Terra disseccata dall’umidore dell’Universale diluvio potesse mandar in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli Uomini storditi, e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varrone giunse a noverarne quaranta, e gli Egizj dicevano il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti; e si diedero ad una spezie di Divinazione d’indovinar l’avvenire da’ tuoni, e da’ fulmini, e da’ voli dell’ aquile, che credevano essere uccelli di Giove».7

 

1 Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia, Utet, Torino 2008, p. 27.

2 Incarnazione della tenebra, del male e del Caos (Isfet, Asfet nella lingua egizia) e antitesi della dea Maat, che rappresentava l’ordine e la verità.

3 Acronimo di Yet Another Workflow Language: è un linguaggio per il workflow management.

4 A. Badiou, Logiche dei mondi. Vol. II, L’essere e l’evento, Mimesis, Milano 2019, p. 56.

5 M. Bontempelli, Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia 2006, pp. 5-6.

6 B. de Mandeville, La favola delle api, Laterza, Bari 1987, p. 84.

7 G. Vico, La scienza Nova, Edizione Centro di Umanistica Digitale dell’ISPF-CNR, progetto ISPF “Biblioteca vichiana”, 2007, p. 44.

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo.

Salvatore Bravo, L'animalizzazione dell'essere umano nel capiralismo
Salvatore Bravo
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indicepresentazioneautoresintesi

«Ora, una volta liberato dalle sue catene, il gigante infuria, abbattendo tutto ciò che si oppone alla sua corsa. Cosa ci riserverà il futuro? Chi ritiene che il gigante chiamato “capitalismo” distrugga la natura e gli uomini, spera di poter un giorno incatenarlo e ricondurlo nuovamente là da dove esso è fuggito. Ma la sua furia durerà in eterno? Non si esaurirà nella sua corsa? Io credo di sì. Ritengo infatti che, nella stessa natura dello spirito capitalistico, risieda una tendenza che lo corrode dall’interno e lo ucciderà. […] Una volta divenuto cieco, forse il gigante sarà condannato a tirare il carro della civiltà democratica. Forse assisteremo al crepuscolo degli dei. E l’oro sarà restituito al Reno. Chi può saperlo?».

Werner Sombart, 1913

 

 

Disumanizzare è il nuovo imperativo categorico che imperversa nell’Occidente globale. I processi di disumanizzazione si concretizzano con la stabilizzazione del nichilismo economicistico. Il regno dell’ultimo uomo descritto da Nietzsche è ora la realtà vivente dell’Occidente. La disumanizzazione procede e si struttura secondo modalità assolutamente inedite nella storia dell’umanità: biopotere e tecnocrazia sono i mezzi con cui l’economicismo pone in atto la sua rivoluzione antropologica. La sovrastruttura culturale cela la verità del sistema: deve agire per disorientare, per rappresentare il nuovo regno edenico dell’abbondanza come l’unico possibile ed il più inclusivo. L’ideologia imperante dell’inclusione è lo spot orwelliano del neoliberismo. Essa catalizza il consenso, in quanto “sembra dire” che il sistema “non abbandona persona o gruppo alcuno”. L’inclusione è il mezzo con cui la necessità sostituisce i bisogni. La necessità è esterna e meccanica, e pone le condizioni per la dipendenza del soggetto e delle comunità. Il bisogno è sorgente e vita interiore, è il vivente nella pienezza della relazione duale. Il bisogno è autonomia, non crea dipendenze, ma libertà senza solitudine, perché i bisogni interiori sono luci che appaiono nella relazione e si trasformano in una inesauribile prassi. La differenza tra bisogno e necessità è stata già descritta da Aristotele.1 Una civiltà dimentica di tale differenza è preda del caos: organizza scientemente la disintegrazione umana. La necessità implica la dipendenza dall’esterno, il bisogno è spazio vitale interiore, che rompe le barriere della necessità per affermare l’autonomia del soggetto.
Umanizzare significa sostenere la crescita del bisogno primario dell’essere umano: pensare. Senza il logos si è consegnati alla necessità, al caos dell’efficienza che calcola senza porre domande. La religione dell’antico Egitto rappresentava il caos con Apopi,2 il serpente che tutto includeva nel caos. Non possiamo limitarci come gli Egizi a pregare per la sconfitta di Apopi, dobbiamo coniugare teoria e prassi. L’inclusione è la caverna ideologica del neoliberismo. Nel campo pedagogico-educativo, come nel campo del diritto si procede all’inclusione, per cui ogni frizione ed opposizione dialettica è “condannata” alla marginalità. L’inclusione ha l’ambizione di possedere il tempo, di distribuirlo negli spazi, di controllarne e curvarne le parole.
La chiacchiera (Gerede) mediatica ha il fine di tacitare, di silenziare il concetto: essa prolifera non solo in funzione mercantile, ma deve disumanizzare riducendo il tempo della coscienza a presenza confermativa. È l’ininterrotto “Yawl”3 che circola, assimila, omogeneizza nel regno animale dello Spirito (Gesellschaft). L’inclusione, dunque, è una forma di organizzazione assoluta, è la verità evi­dente ed edulcorata del capitalismo donante: includere perché viva il mercato, per animalizzare e derealizzare (Massimo Bontempelli) per lasciare spazio alla sola certezza sensibile (G.W.F. Hegel).
La nuova fase imperiale del capitalismo passa per la porta dei diritti individuali: ogni differenza a cui è concessa la visibilità e la garanzia dell’inclusione è espressione dell’avanzata dell’impero del capitale. Ad esse non si chiede di “render conto” mediante il concetto di se stesse; non si domanda l’emancipazione (autonomia di giudizio e scelta), ma semplicemente si prestabilisce che debbono essere accolte, purché consumino e divengano veicolo di affermazione e diffusione del capitale.

Ogni resistenza dev’essere abbattuta in nome dell’inclusione senza emancipazione. Il capitalismo donante e flessibile si autocelebra come liberatore dai vincoli etici per condurre gradualmente “i liberati” nella gabbia della certezza sensibile. Perché il plusvalore possa essere accolto religiosamente, quale dogma anonimo ed indiscutibile, è necessario derealizzare, per cui si deve rieducare il pensiero all’esodo dalla cultura classica, dalla concretezza filosofica verso la sudditanza al dato immediato.
Il capitale – araldo della liberazione – concede i diritti individuali, purché sottragga il pensiero (Denken), purché il Geist (lo Spirito del mondo-storia) si congeli nella derealizzazione massificante. La disumanizzazione ambisce a necrotizzare la prassi storica per sostituirla con la flessibilità e la dinamicità spaziale. La disumanizzazione si materializza nel nichilismo passivo, il quale è costituito da due movimenti: la superficie è increspata continuamente dal movimento, sotto la superficie non vi è profondità, ma solo irrigidimento anti creativo. Il nuovo nichilismo passivo disumanizza, poiché attrae, come il paese dei balocchi, incanta con i suoi miti, con le sue aspettative, ma non mantiene le promesse.
L’umanità esige profondità, pone gerarchie onto-assiologiche per significare il mondo (Welt), altrimenti l’essere umano diviene parte dell’ambiente (Umwelt). La disumanizzazione ha lo scopo di rendere l’essere umano interno all’ambiente-economia di cui è organico partecipante.
Il presente lavoro ha l’intento di operare un cambio di prospettive, in modo che si possa scorgere e pensare dietro la cortina dell’inclusione la disumanizzazione dei processi in corso. A tal fine bisogna trascendere il linguaggio orwelliano per seguirlo nelle sue tracce – nessun delitto è perfetto –, per far emergere la derealizzazione a cui è associata la disumanizzazione. Si proclama l’inclusione scolastica, ma in realtà si omologano intelligenza ed indole degli alunni; si afferma la liberazione della donna, ma si persegue la riduzione delle donne ad una tragica copia del maschio liberista; si inneggia alle identità per tradurle in prodotti per il libero mercato.
Rispetto all’ultimo uomo descritto da Nietzsche siamo in un orizzonte che il filosofo non aveva immaginato. L’ultimo uomo nietzscheano digrigna i denti, perché non vuole creare, ma solo conservare; l’ultimo uomo del neo-liberismo, non conserva, non ha memoria, è il ricettacolo di appetiti senza memoria. La liberazione dell’ultimo uomo liberista è nella pratica della dimenticanza di sé, della comunità, del mondo.
Alain Badiou ha definito la disumanizzazione «materialismo democratico»; ovvero, le differenze sono tollerate fin quando accettano l’uguaglianza giuridica: nessuna gerarchizzazione etica e nessuna nostalgia per l’universale. Se le differenze appaiono nel gioco dell’irrilevanza sono esaltate, quale successo della democrazia sui totalitarismi, ma se osano porre la ricerca della profondità e dell’eterno sono espulse dal gioco democratico:

«Esso è, inoltre, essenzialmente un materialismo democratico, dal momento che il consenso contemporaneo, riconoscendo la pluralità dei linguaggi, ne presuppone l’uguaglianza giuridica. Ragion per cui, alla riduzione dell’umanità all’animalità si aggiunge l’identificazione dell’animale umano con la diversità delle sue sottospecie e con i diritti democratici inerenti a questa diversità. Il suo rovescio progressista questa volta prende in prestito il suo nome da Deleuze: “minoritarismo”. Comunità e culture, colori e pigmenti, religioni e sacerdozi, usi e costumi, sessualità disparate, intimità pubbliche e pubblicità dell’intimo. Tutto, tutte, tutti meritano di essere riconosciuti protetti dalla legge. Tuttavia, il materialismo democratico ammette un punto di arresto globale alla sua multiforme tolleran­za. Un linguaggio che non riconosca l’universale uguaglianza giuridica e normativa dei linguaggi non merita di beneficiare di tale uguaglianza. Un linguaggio che pretenda di normare tutti gli altri e di governare tutti i corpi, lo si dirà dittatoriale e totalitario. Ciò che si riscontra non è, allora, la tolleranza, ma un “dovere d’ingerenza”, sul piano legale, internazionale, finanche militare, qualora si renda necessario: si faranno pagare ai corpi i loro eccessi di linguaggio».4

Il materialismo democratico è la pratica della disumanizzazione, la sua trasformazione in dispositivo permanente. La conservazione, con “annesso ritiro dell’essere umano” dalla storia, ha il volto del relativismo e della società liquida. La tolleranza è ammessa fin quando la religione dell’economia nella forma della glebalizzazione planetaria non è mediata da processi di emancipazione. L’effetto sdoppiamento, la deviazione dalla condizione attuale, dev’essere rimossa dall’immaginario teoretico del singolo e collettivo.

Il divertissement relativistico diviene la struttura e la verità della Weltanscauung capitale. Il materialismo democratico tollera le differenze solo se sono gra­dualità della res extensa: ogni differenza è eguagliata alle altre nella riduzione a pura estensione consumante. Le differenze devono essere solo di ordine quatitativo:

«Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni. Grandezza significa quantità limitata dal limite qualitativamente indifferente, ripetizione identica di una medesima identità astratta. La matematica è la conoscenza delle relazioni necessarie della grandezza, secondo una necessità puramente tautologica nei suoi gradi più elementari, e secondo la necessità della mediazione sintetica costruita tra diversi elementi di un oggetto quantitativo nei suoi gradi superiori. Essa ha dunque una base obiettiva universale nella logica della quantità, mediante la quale elabora le sue costruzioni. Le scoperte matematiche sono indipendenti dalle contingenze storiche semplicemente perché l’oggetto del lavoro matematico è dato da entità astratte da ogni qualità contingente. La matematica è dunque una scienza. Ma la quantità, nella cui logica essa ha la sua base ontologica, è soltanto una delle sfere logico-ontologiche che il pensiero possiede nella sua interna strutturazione. Essa non può quindi avere in se stessa la misura della propria verità, perché la verità della quantità si compie soltanto nella sua connessione dialettica con tutte le altre sfere della realtà. L’isolamento della sfera logico ontologica della quantità è la ragione per cui la matematica non può fondare se stessa. Negli spazi vuoti delle pure grandezze quantitative tace, scrive Hegel, ogni esigenza che possa ricollegarsi all’individualità vivente: qui sta la mancanza di verità della matematica».5

Il desiderio di segnare una traccia nella storia e nella memoria, al punto da mettere in pericolo la propria vita, è sostituito con l’immediatezza delle pul sioni libere di godere in modo polimorfo. L’animalizzazione è la trasformazione delle differenze a semplice pulsione senza progettualità ed autocoscienza. L’eliminazione dell’autocoscienza, della relazione comunitaria è l’ideale nichilistico del capitalismo assoluto.

Ogni comunità dev’essere sostituita dall’individualismo, dal calcolo soggettivo finalizzato al godimento immediato. Le differenze sono così normalizzate, disciplinate sotto il regno del capitale. Mancando l’autocoscienza e la trascendenza l’essere umano è privato del suo carattere dialettico senza il quale non resta che la sostanza-estensione consumante.

Il capitalismo assoluto ha svelato la verità che la ragione liberale portava in grembo, siamo al punto apicale del nichilismo, e non giunge a noi improvviso, perché è nel fondamento della ragione liberale. Bernard de Mandeville descrive la verità della ragione liberale, essa non ha etica e limite, vive e si espande sull’emulazione dei consumi, non conosce altra legge che il consumo:

«A questa emulazione e a questo continuo sforzo di superarsi a vicenda si deve se dopo tanti cambiamenti di moda, che ne hanno fatte affermare di nuove e riproposte di vecchie, vi è sempre un plus ultra per i più ingegnosi. È questo, o almeno la conseguenza di questo, a dare lavoro ai poveri, a spronare l’industria e a incoraggiare il bravo artigiano a cercare nuovi progressi».6

 

In Mandeville l’eccesso dei consumi aumenta il benessere generale. Il lusso come motore di benessere, oggi, non ha ragion d’essere. Le tecnologie producono e divorano lavoro, il consumo crolla su se stesso, è introvabile una giustificazione razionale del consumo illimitato come fonte di benessere generalizzato. Non si vuol prendere atto che la ragione liberale, per sopravvivere, ora, non può che essere difesa dai gendarmi mediatici e dal totalitarismo del consumo al punto da minacciare la vita nella sua totalità, pur di far sopravvivere il neo-liberismo.
La ragione liberale, con l’economia finanziaria, ha consumato le sue possibilità di espansione. Per sopravvivere deve trasformare la libertà in sregolatezza, deve annientare ogni vincolo etico. È l’anno zero della civiltà. Dopo ogni diluvio si deve rifondare la civiltà ed i suoi fondamenti ontologici senza i quali si vive come fiere nella giungla del mercato globale:

«Ma delle Nazioni di tutto il restante Mondo altrimente dovette andar la bisogna; perocché le razze di Cam, e Giafet dovettero disperdersi per la gran Selva di questa Terra con un’error ferino di dugento anni, e così raminghi e soli dovettero produrre i figliuoli con una ferina educazione nudi d’ogni umano costume, e privi d’ogni umana favella, e sì in uno stato di bruti animali: e tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la Terra disseccata dall’umidore dell’Universale diluvio potesse mandar in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli Uomini storditi, e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varrone giunse a noverarne quaranta, e gli Egizj dicevano il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti; e si diedero ad una spezie di Divinazione d’indovinar l’avvenire da’ tuoni, e da’ fulmini, e da’ voli dell’ aquile, che credevano essere uccelli di Giove».7

 

1 Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia, Utet, Torino 2008, p. 27.

2 Incarnazione della tenebra, del male e del Caos (Isfet, Asfet nella lingua egizia) e antitesi della dea Maat, che rappresentava l’ordine e la verità.

3 Acronimo di Yet Another Workflow Language: è un linguaggio per il workflow management.

4 A. Badiou, Logiche dei mondi. Vol. II, L’essere e l’evento, Mimesis, Milano 2019, p. 56.

5 M. Bontempelli, Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia 2006, pp. 5-6.

6 B. de Mandeville, La favola delle api, Laterza, Bari 1987, p. 84.

7 G. Vico, La scienza Nova, Edizione Centro di Umanistica Digitale dell’ISPF-CNR, progetto ISPF “Biblioteca vichiana”, 2007, p. 44.

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Una lettura critica del libro di Antonio Damasio, «Alla ricerca di Spinoza, Emozioni sentimenti e cervello».

Antonio Damasio - Spinoza - Neuroscienze

Salvatore Bravo

Una lettura critica del libro di Antonio Damasio

Alla ricerca di Spinoza, Emozioni sentimenti e cervello

 

L’atomocrazia liberista
L’antiumanesimo è la cifra del tempo moderno. Ogni ideologia ha i suoi trombettieri dell’Apocalisse. Le neuroscienze dichiarano la morte dell’uomo, al suo posto vi sarebbe un automa, un immenso meccanismo che risponde alle leggi dello stimolo e della risposta: l’atomocrazia liberista ha trovato, così, una scienza a sua misura ed immagine.
Le scienze, rappresentate come oggettive, sono la nuova testa d’ariete dell’ideologia del capitale. Si autorappresentano come verità libere, perché oggettive, ma in realtà – come la statua di Glauco descritta da Platone nel X libro della Repubblica – sono incrostate di condizionamenti e sedimenti ideologici. Il monismo delle neuroscienze si limita a descrivere i circuiti neuronali, espelle con la dialettica l’esperienza storica e relazionale, dalla genesi del pensiero. Ed esclude l’atto creativo. Si descrive una nuova normalità prodotta in laboratorio, curvata sul fisiologico e quindi trasformabile in dispositivo medico con cui sussumere la popolazione.
L’essere umano – per queste scienze – è abitato soltanto da sostanze chimiche che con le loro leggi ne determinano sentimenti, prassi e motivazioni. L’essere umano è un ente tra gli enti governato da leggi di cui sono depositari scienziati e tecnocrati. Ancora una volta si vuole convincere l’umanità che il pensiero è un atto chimicamente spiegabile, e dunque le scelte politiche ed etiche sono private di ogni valore. La scienza dell’ultimo uomo (der Letzte Mensch) nietzscheano insegna che l’umanità è “natura naturata” senza speranza e libertà. Il pensiero cosciente non risponde agli stessi meccanismi. Pertanto l’essere umano è fatto oggetto – in “qualsiasi stato” si trovi – al fato della biochimica. Ogni mediazione tra lo stimolo e risposta è negata, in modo da ridurre la persona ad un flusso di ormoni e reazioni chimiche ingovernabili dal soggetto, ma molto “governabili” dagli agenti esterni che ne diventano i signori e i padroni. In tale contesto l’umanità perde ogni specificità, ogni grandezza e miseria per diventare ente da gestire sotto l’influsso semi-magico di esperti e professionisti che riducono la mente al solo cervello da manipolare:

«Anche quando la reazione emozionale ha luogo senza una conoscenza consapevole dello stimolo, ciò nondimeno l’emozione esprime il risultato della valutazione della situazione da parte dell’organismo. Non ha importanza che quella stima non sia chiaramente notificata al sé. In qualche modo, il concetto di stima è stato interpretato troppo letteralmente come valutazione cosciente, quasi che la straordinaria impresa di valutare una situazione e reagire a essa automaticamente fosse una conquista biologica di minor rilievo. Uno dei principali aspetti della storia dello sviluppo umano riguarda il modo in cui moltissimi oggetti che costituiscono l’ambiente del nostro cervello hanno acquisito la capacità di innescare, consapevolmente o meno, varie forme di emozione – debole o intensa, positiva o negativa. Alcuni di questi fattori scatenanti sono stabiliti dall’evoluzione, mentre altri hanno finito con l’essere associati dal cervello a stimoli emozionalmente adeguati grazie alle nostre esperienze individuali. Pensate a quella casa dove una volta, da bambini, viveste un’intensa esperienza di paura. Quando vi tornate, può darsi che vi sentiate a disagio; e quel disagio non ha altra causa se non il fatto che molto tempo fa, in quello stesso ambiente, provaste una potente emozione negativa. Potrebbe addirittura accadervi, in un’altra casa per certi versi simile a quella, di provare lo stesso disagio, sebbene stavolta senza ragione alcuna, se si esclude il fatto che in quel luogo rilevate la registrazione cerebrale di un oggetto e di una situazione paragonabili».[1]

 

L’essere umano è dunque – nella prospettiva delle neuroscienze – un animale semplice con reazioni ipoteticamente prevedibili. Il pensiero – con la sua capacità critica ed etica – è ridotto ad una interazione chimica. La storia, in tale ottica, è solo un percorso ormonale ed evolutivo di ordine biologico. Ogni resistenza ed avanzamento etico è solo attività elettrica determinata da specifici stimoli. La capacità di pensare le emozioni, di concettualizzare i sentimenti, di trarre dalla profondità interiore di ciascuno un nuovo mondo è rimossa in nome delle semplici reazioni meccaniche.

 

Cervello astratto
Il pensiero come i sentimenti sono spiegati attraverso le funzioni del cervello e la loro azione organica. Si tende ad eliminare la relazione, la mediazione dialettica che per attivarsi necessita del cervello, ma che non può essere ridotta a tali reazioni. Il cervello, per potersi attivare nelle sue reazioni, deve relazionarsi con il mondo esterno. Reca con sé una verità invisibile che si cela alle analisi di laboratorio, ovvero l’intera attività cerebrale non sarebbe possibile senza l’apertura al mondo. Tale attività relazionale sposta il cervello fuori della sua sede anatomica, o meglio il cervello è nella sua sede anatomica, ma la mente – in quanto cervello vivo – diventa altro dal cervello, è disposta all’esterno, all’incontro che retroagisce sul cervello mediante una lunga serie di passaggi dialettici, che finiscono per istituire una interazione tra mente e cervello. Si è dinanzi ad una realtà-verità plastica, in cui l’anatomia non spiega se stessa, ma ha bisogno di altre categorie e paradigmi per poter decodificare la complessità del rapporto mente cervello. Una forma di dualismo diventa, così, imprescindibile per poter riportare la complessità alla sua razionalità. Le sofferenze dell’individuo non sono semplici impressioni neuronali, ma hanno la loro dinamica nelle relazioni che sono non spiegabili totalmente col cervello. Benché la vitalità delle esperienze critiche segnino il cervello ed il corpo vissuto, le neuroscienze semplicizzano e rassicurano, per cui le idee come i sentimenti sono riportati all’’omeostasi:

«I sentimenti, nell’accezione adottata in questo libro, non insorgono solo dalle emozioni vere e proprie, ma da qualsiasi insieme di reazioni omeostatiche, e traducono nel linguaggio della mente lo stato vitale in cui versa l’organismo. Qui, io suggerisco che esistano «modalità corporee» distinte risultanti da diverse reazioni omeostatiche, dalle più semplici alle più complesse. Esistono anche oggetti induttori distinti, e altrettanto distinti pensieri conseguenti alla reazione, e modalità di pensiero corrispondenti. La tristezza, per esempio, si accompagna a una minor produzione di immagini alle quali viene tuttavia prestata maggiore attenzione: una situazione opposta al rapido susseguirsi di immagini – che peraltro ricevono un’attenzione brevissima – tipico della felicità. I sentimenti sono percezioni, e io propongo che la loro percezione trovi il necessario supporto nelle mappe cerebrali del corpo. Una certa variazione del piacere o del dolore è un contenuto costante di quella percezione che chiamiamo sentimento. Accanto alla percezione del corpo c’è sia quella di pensieri con temi consoni all’emozione, sia quella di una certa modalità di pensiero – uno stile di elaborazione mentale. Come avviene tale percezione? Essa deriva dalla costruzione di meta-rappresentazioni dei processi mentali, un’operazione di livello superiore in cui una parte della mente ne rappresenta un’altra. Questo ci permette di registrare un rallentamento o un’accelerazione dei nostri pensieri, a seconda che prestiamo loro maggiore o minore attenzione o che i pensieri raffigurino oggetti o eventi cogliendoli, a seconda dei casi, da vicino o da lontano. La mia ipotesi, allora, presentata sotto forma di definizione provvisoria, è che un sentimento sia la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti. I sentimenti emergono quando il semplice accumulo dei dettagli registrati nelle mappe raggiunge un certo stadio».[2]

Nuovo realismo
Le neuroscienze negano “la rivoluzione copernicana”: sono interne al realismo che esige un atteggiamento adattivo. Le immagini degli oggetti sono riprodotte sulla retina. Anche in questo caso è esclusa ogni attività intenzionale, creativa e libera del soggetto che riproduce l’oggetto nell’immagine. L’attività intenzionale non è registrabile, poiché è la disposizione del corpo vissuto ad orientarsi verso l’alterità significandola. Le neuroscienze non valutano la concretezza del sistema percettivo, esso avviene in un contesto di senso, il quale contribuisce alla formazione dell’immagine mediante l’attività del soggetto che nell’attribuire significati, nel cogliere aspetti di particolare rilievo per la cultura e la formazione del soggetto percipiente, contribuisce attivamente alla formazione dell’immagine e trascende la semplice risposta sensoriale. La soggettività è sostituita da procedure anatomiche eguali in ogni essere umano:

«Le immagini che abbiamo nella nostra mente, allora, sono il risultato di interazioni che hanno luogo fra ciascuno di noi e gli oggetti che impegnano il nostro organismo, interazioni che vengono riprodotte in configurazioni neurali costruite in base all’architettura dell’organismo. Va sottolineato che questo non nega la realtà dell’oggetto. Gli oggetti sono reali. Né si nega, qui, la realtà delle interazioni fra oggetto e organismo. Inoltre, com’ è ovvio, anche le immagini sono reali. Ciò nondimeno, le immagini che noi sperimentiamo sono costruzioni cerebrali indotte da un oggetto, e non riflessi speculari dell’oggetto stesso. Non c’è un’immagine dell’oggetto che venga trasferita otticamente dalla retina alla corteccia visiva. L’ottica si ferma a livello della retina. Al di là di essa troviamo trasformazioni di natura fisica che hanno luogo in continuità, dalla retina alla corteccia cerebrale. Allo stesso modo, i suoni che sentiamo non sono strombazzati con una sorta di megafono dalla coclea fino alla corteccia uditiva, sebbene, in senso metaforico, fra le due strutture anatomiche abbia effettivamente luogo un passaggio di trasformazioni fisiche. Esiste una serie di corrispondenze, affermatasi nella lunga storia dell’evoluzione, fra le caratteristiche fisiche di oggetti indipendenti da noi, e il menu delle possibili risposte dell’organismo. (La relazione fra le caratteristiche fisiche dell’oggetto esterno e le componenti preesistenti selezionate dal cervello per costruire una rappresentazione è un tema importante, che andrà esplorato in futuro). La configurazione neurale attribuita a un determinato oggetto viene costruita in base al menu di corrispondenze, scegliendo e combinando i simboli appropriati. D’altra parte, noi esseri umani siamo talmente simili dal punto di vista biologico che, riferendoci allo stesso oggetto, finiamo per costruire configurazioni neurali simili. Non dovrebbe sorprendere, se da quelle configurazioni neurali simili emergono poi immagini anch’esse simili. E per questo che possiamo accettare, senza proteste, l’idea convenzionale secondo la quale ciascuno di noi formerebbe nella propria mente l’immagine riflessa di un particolare oggetto».[3]

 

Relazioni tra ordini diversi
In tale riduzionismo, si evita volutamente di porre il problema del “perché” i soggetti provino particolari sentimenti di avversione verso ingiustizie sociali o atti cruenti. Dalla profondità dell’anatomia appare la ragione etica che, sicuramente, necessita delle funzioni del cervello, ma il motivo che spinge taluni ad impegnarsi per la comunità o a disimpegnarsi resta tra i segreti non svelati delle neuroscienze. La mente sfugge all’indagine sul cervello, poiché è di altra natura, o di un altro piano:

«La nostra ipotesi è che qualsiasi cosa noi sentiamo debba basarsi sulla forma dell’attività delle regioni cerebrali somato-sensitive. Se esse non fossero disponibili, noi non sentiremmo nulla, proprio come non vedremmo nulla se fossimo privati delle fondamentali aree visive del nostro cervello. Noi sperimentiamo dunque i sentimenti per gentile concessione delle regioni somato-sensitive. Può darsi che questo suoni un po’ ovvio, ma devo ricordare che, fino a pochissimo tempo fa, la scienza evitava accuratamente di assegnare i sentimenti a qualsiasi sistema cerebrale; si limitava a collocarli in qualche luogo evanescente nel cervello – o attorno a esso. Ed ecco una possibile obiezione, che è ragionevole e pertanto meritevole di attenzione, ma che in realtà è infondata. In generale, le regioni somato-sensitive producono una mappa precisa di quanto ha luogo nel corpo in quel momento; in alcuni casi, tuttavia, non è così, per la semplice ragione che l’attività delle regioni impegnate nella produzione della mappa, o i segnali afferenti a esse, possono essere stati in qualche maniera modificati».[4]

Le neuroscienze devono essere comprese all’interno della storia dell’attuale fase del capitalismo. Esse sono l’espressione più avanzata della rappresentazione dell’essere umano come mappa neuronale su cui si può agire per determinare scelte e sentimenti, e nel contempo hanno l’ambizioso progetto di eliminare la variabile coscienza, e l’annessa libertà. Divengono lo strumento ideologico per educare l’umanità ad un modello pedagogico fortemente “adattivo”. La filosofia ha il compito di smascherare tali derive riportando la concretezza critica dove regna l’incanto distopico del semplicismo ideologico.

 

Segnali emozionali
Le scienze – al pari di ogni altra attività umana – “avvengono” nella storia e senza una riflessione sulla propria “azione storica” tendono a trasformarsi nell’onnipotenza astratta del nuovo capitalismo che le finanzia al fine di governare sui popoli da trasformare in greggi di automi che sperano nella magia delle sostanze chimiche per risolvere i loro problemi. Esse sono parte del dispositivo di passività generale. Il logos ed il linguaggio diventano secondari rispetto ai segnali emozionali che stabiliscono finalità da raggiungere:

«Il segnale emozionale non è un sostituto del ragionamento vero e proprio, ma ha semplicemente un ruolo ausiliario, giacché ne aumenta l’efficienza e lo velocizza. In qualche caso, può renderlo quasi superfluo, come accade, per esempio, quando respingiamo immediatamente un’opzione che condurrebbe a un disastro sicuro o, viceversa, cogliamo al volo una buona opportunità in base alla sua elevata probabilità di successo. In alcuni casi il segnale emozionale può essere molto forte, e condurre alla parziale riattivazione di emozioni come la paura o la felicità, seguite dal sentimento cosciente appropriato di quella particolare emozione. E questo il presunto meccanismo della percezione viscerale, che utilizza quello che ho definito circuito corporeo. D’altra parte, i segnali emozionali possono funzionare anche in modo più sottile, e presumibilmente, nella maggior parte dei casi, è così che svolgono la loro funzione. In primo luogo è possibile produrre percezioni viscerali senza usare davvero il corpo, ma attingendo dal circuito «come se» discusso nel capitolo precedente. In secondo luogo, poi, c’è un fatto più importante, e cioè che il segnale emozionale può operare interamente al riparo dal radar della coscienza».[5]

 

Spinoza, immunologo delle passioni
Per salvare il logos e la progettualità politica bisogna mettere al riparo l’umanità da derive irrazionaliste che la schiacciano sulle sole azioni-reazioni neuronali senza linguaggio e capacità di meta-riflessione. Nella lettura di Antonio Damasio (Lisbona, 25 febbraio 1944) Spinoza è «un immunologo delle cattive passioni»:

«La soluzione di Spinoza richiede anche che l’individuo tenti di interrompere il processo che porta dagli stimoli emozionalmente adeguati potenziali induttori di emozioni negative – passioni come la paura, la rabbia, la gelosia, la tristezza – ai meccanismi che le eseguono. L’individuo dovrebbe invece sostituirli con altri stimoli, in grado di indurre emozioni positive, dalle quali trarre forza e nutrimento. Per facilitare questo obiettivo Spinoza raccomanda di tornare più volte a contemplare mentalmente gli stimoli negativi così da sviluppare una qualche tolleranza nei confronti delle emozioni negative e da acquisire gradualmente una certa dimestichezza nel generare quelle positive. Questo Spinoza è, a tutti gli effetti, un immunologo della mente che sta sviluppando un vaccino per creare anticorpi contro le passioni».[6]

 

Spinoza è un pensatore che difende “le buone pratiche comunitarie” e che persegue l’universale concreto in una società democratica rispettosa delle individualità con l’obiettivo politico di favorire la letizia comunitaria contro la tristezza del potere e della marginalità sociale. Spinoza non è un individualista, ma il suo senso sociale lo porta a progettare una comunità di individui che coltivano le passioni positive per poter ben vivere nella comunità che come «la visione intellettuale di dio» è un’unità in cui le parti si integrano, creando pratiche politiche rispettose della dignità umana. Il conatus sese conservandi non ha come fine la conservazione individuale, ma la liberazione dalle tristezze che condizionano le vite dei singoli, le quali sono in perenne tensione dialettica e politica.

Salvatore Bravo

***

[1] Antonio Damasio, Alla ricerca di Spinoza, Emozioni sentimenti e cervello, Adelphi, Milano 2007, pag. 58.

[2] Ibidem, pag. 85.

[3] Ibidem, pp. 175 176.

[4] Ibidem, pag. 106.

[5] Ibidem, pag. 134.

[6] Ibidem, pag. 235.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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