Anne Michaels – Non c’è vera assenza se resta almeno il ricordo dell’assenza. Una voce ci riscuote. Andiamo più vicini, tentiamo di distinguere bene le parole. È questo che fa cominciare o finire l’amore: cominciamo a capire le parole.

Anne Michaels 01

«Non c’è vera assenza se resta almeno il ricordo dell’assenza. […]

Se uno nin ha più la terra ma ha il ricordo della terra
allora uno può sempre disegnare una mappa».

Anne Michaels, In fuga, Giunti, 1998


Una voce ci riscuote
che non riconosciamo.
Andiamo più vicini, tentiamo
di distinguere bene le parole.
È questo che fa cominciare
o finire l’amore: cominciamo
a capire le parole.
Per salvarci doniamo e perdoniamo.

Anne Michaels, Anna, da The Weight of Oranges (1986)


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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György Lukács (1885-1971) – Il metodo e il contenuto della filosofia di Heidegger esprimono il sentimento della vita proprio dell’intellettuale filisteo in un’epoca di grave crisi: stornare il pericolo che minaccia la propria ‘esistenza’ in maniera che non ne risulti alcun obbligo di modificare le proprie condizioni esteriori di vita o anche solo di collaborare al cambiamento dell’obiettiva realtà sociale.

György Lukács - La distruzione della ragione

«Ciò che Heidegger chiama fenomenologia e ontologia non è in realtà che un’astratta e mistica descrizione antropologica dell’esistenza umana, descrizione che nel suo concreto attuarsi fenomenologico insensibilmente si converte in una disamina – spesso interessantissima –dell’esistenza del filisteismo intellettuale durante la crisi del periodo imperialistico » (p. 506).

«Il metodo e il contenuto della filosofia di Heidegger esprimono qui, in una terminologia estremamente complicata (ma soprattutto affettata), il sentimento della vita proprio dell’intellettuale filisteo in un’epoca di grave crisi: stornare il pericolo che minaccia la propria ‘esistenza’ in maniera che non ne risulti alcun obbligo di modificare le proprie condizioni esteriori di vita o anche solo di collaborare al cambiamento dell’obiettiva realtà sociale. Per quanto Heidegger sia difficile da capire, queste conseguenze sono state tratte giustamente dalla sua filosofia» (pp. 515-516).

«Il fascismo deve non poco alla filosofia di Heidegger e di Jaspers se poté educare gran parte dell’intellettualità tedesca a una neutralità più che benevola. A questo riguardo rimane cosa piuttosto indifferente la posizione personale che essi hanno assunto nei confronti dell’hitlerismo, poiché nessuno dei due ha mancato fede ai presupposti e alle conseguenze della propria filosofia fino al punto da schierarsi realmente contro Hitler. Il fatto poi che Heidegger abbia aderito apertamente al fascismo, mentre Jaspers, per ragioni di carattere privato, non sia potuto giungere a tanto, e dopo la caduta di Hitler, quando il vento sembrava soffiare da sinistra, abbia utilizzato l’otium cum dignitate mantenuto sotto il nazismo per atteggiarsi ad antifascista, non cambia nulla a questo fondamentale stato di cose. Resta il fatto che con il contenuto obiettivo della loro filosofia hanno entrambi spianato la via all’irrazionalismo fascista» (531-532).

György Lukács, Die Zerstõrung der Vernunft (1954); trad. it. La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959.


György Lukács (1885-1971)  –  «Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna». Il momento puramente soggettivo, l’estraniarsi da ogni collettività, il disprezzare ogni comunità annulla ogni vincolo con la società e nell’opera stessa: autodissoluzione dell’arte in seguito a quella lontananza dalla vita ch’essa si pone per principio.
György Lukács (1885 – 1971) – Il fuoco che arde nell’anima partecipa all’essenza delle stelle. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco.
György Lukács (1885-1971) – Questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce.
György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.
György Lukács (1885-1971) – Uno dei tratti più fecondi e caratteristici di Lenin è che egli non cessò mai di imparare teoricamente dalla realtà e che in pari tempo era sempre pronto ad agire.
György Lukács (1885-1971) – Il rapporto con Marx è la vera pietra di paragone per ogni intellettuale che prenda sul serio il chiarimento della propria concezione del mondo, lo sviluppo sociale, in particolare la situazione presente, la propria posizione stessa ed il proprio atteggiamento rispetto ad essa.
György Lukács (1885-1971) – Nei giovani la dedizione entusiastica ad una causa può terminare al medesimo modo o nella fedeltà (lucida o ottusa) ad essa, o nel passaggio ad un diverso campo, oppure ancora nella perdita di capacità di dedizione in genere. Occorre esaminare se e fino a quale punto una dedizione è in grado di indurre l’individuo ad innalzarsi sopra la propria particolarità, oltre che a dar luogo ad una passione durevole.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Livio Rossetti – Anche i bambini pensano: tre modalità primarie di favorire lo sviluppo della filosofia germinale. Il libro di Dorella Cianci e Massimo Iiritano, «Pensare da bambini».

Livio Rossetti, Iiritano Massimo, Cianci Dorella

«[…] Ci sono tre modalità primarie di favorire lo sviluppo della filosofia germinale: la conversazione frequente e prolungata tra due o più persone, le esperienze prolungate che ti portano letteralmente in un altro mondo (il racconto impegnativo, la recitazione, la musica, le arti figurative, l’immersione in altro contesto linguistico, il gruppo alternativo …), e infine le sessioni di filosofia con i bambini o i ragazzi. La prima risorsa – la conversazione frequente e prolungata – dipende essenzialmente dai genitori e dai nonni, dalla loro maggiore o minore propensione a ricercare un rapporto dialogico con noi fin da quando siamo piccini. […] La seconda risorsa – il teatro, la musica e ogni altro genere di esperienza che produce una discontinuità dal vissuto quotidiano — ha l’impagabile pregio di portarci letteralmente in un altro mondo e di trattenerci a lungo in quel mondo, dandoci l’agio, specialmente se siamo bambini o ragazzi, di sviluppare abilità e sensibilità impensate. Al nostro ritorno, il mondo ordinario (la famiglia, la classe…) puntualmente ci apparirà sotto una nuova luce, e il confronto non mancherà di suscitare riflessioni […]. La terza risorsa è la filosofia con i bambini e i ragazzi. L’intento fondamentale non è certo di iniziarli alla filosofia, né di disseminare un po’ di cultura filosofica, né di cominciare a far conoscere loro almeno il nome di qualche personalità del passato, da Socrate in su e in giù. Parlare di Socrate o di chiunque altro non ci aiuterebbe a valorizzare il potenziale filosofico di chi lo sente nominare per la prima volta. Le parole “filosofia”, “Socrate” e qualunque altra possono aspettare il loro turno. Prioritario non è certo impartire nozioni di alcun tipo, bensì dare spazio alla filosofia germinale […].
Ho provato così a suggerire qualche idea sull’arte di creare occasioni in cui dare voce a idee, convinzioni, pregiudizi, modi diversi di vedere le cose, opportunità di “guardarsi allo specchio” e di parlarne. Questa è filosofia, anche se si evita di tenere una lezione da esperti sulla psicologia dei teenager e se si fa a meno della parola “filosofia”; e di questa filosofia i ragazzi non sono spettatori, ma protagonisti. In linea di massima, una, due, tre immagini che diano da pensare possono essere sufficienti per consentire al docente di invitare i ragazzi a trovare a loro volta un input significativo su cui si possa poi ragionare in gruppo, sempre che a suggerire spunti di riflessione meritevoli di avere qualche sviluppo non siano le circostanze o il fatto del giorno.
Se poi parliamo di ragazzi più grandi, della scuola secondaria superiore, sarà il caso di delineare strategie differenziate per quelle scuole nelle quali “si fa filosofia” e quelle nelle quali non si fa. Nel primo caso, poiché la (storia della) filosofia è oggetto di studio, con prestazioni valutate, è assai opportuno individuare occasioni di fare filosofia che non siano legate all’insegnamento, anche se l’insegnamento non manca di offrire temi e spunti anche fecondi.
Non dovremmo mai dimenticare che il filosofare è un’attività di tutti e che solo a certe condizioni diventa un sapere: prima c’è il pensare, il provare a ragionare con la propria testa, mentre il sapere di ciò che è stato pensato da altri può venire solo in un secondo momento.
Negli istituti tecnici e professionali, invece, la domanda di filosofia nel senso che sono andato specificando si fa addirittura drammatica, perché il prevalere di un apprendimento orientato allo svolgimento di un mestiere o di una professione rischia di generare in questi contesti più che altrove atrofia della mente, quasi che fuori dalla scuola i maschi non sapessero far altro che parlare di sport e le femmine di bellezza, eleganza, moda. Ovviamente non è così che stanno le cose, ma il semplice fatto di poter concepire questo stereotipo è sintomo acuto di inaridimento, dunque di atrofia, di impoverimento della gamma delle risorse mentali. E qui la responsabilità è del dirigente di istituto e degli insegnanti, che talvolta nemmeno si accorgono degli acuti bisogni formativi “di contorno” dei propri studenti.
Occorrerà perciò a maggior ragione partire da forme “morbide” dell’invito a costruire qualche riflessione: le forme appunto illustrate finora — più un’altra. In queste scuole più che in altre (ma, in linea di principio, ovunque) è facile che il docente avverta l’esigenza di “nutrire” la classe con qualche idea in più, in modo da introdurre nel mondo mentale degli studenti un certo numero di idee che, in molti casi, rischierebbero di rimanerne fuori per sempre.
Proverò a fare qualche esempio, pur sapendo che ognuno ha la sua casistica personale. Menzionerei in primo luogo la figura di Tersite. Mi riferisco al secondo canto dell’Iliade (vv. 155-277), che il docente può agevolmente riassumere, per poi magari leggerlo in traduzione alla fine, dopo averne discusso. In questi versi Odisseo esorta la “truppa” a credere nei capi e nella spedizione e non esita a percuotere i più riottosi, ma un soldato qualunque, Tersite, prende la parola e si permette non solo di criticare il capo della spedizione, ma addirittura di incitare i commilitoni: “Torniamocene a casa, così vedremo se il capo si rende conto, finalmente, dell’importanza di ciò che facciamo noi semplici soldati”. Odisseo lo rimbrotta severamente e si preoccupa dell’effetto che le sue parole potrebbero sortire, perché si rende conto che Tersite è agoretés, “uomo capace di parlare in pubblico e di risultare coinvolgente”, caratteristica rara tra i soldati semplici. Non è forse questo un embrione di coscienza di classe e di lotta di classe? Ci colpisce che già in Omero ci sia una netta, inequivocabile identificazione degli interessi di classe, ma quando si è cominciato a parlare di lotta di classe? Per iniziativa di chi? Qualcuno lo sa? Collegare questo spunto a Marx significa fare un salto interessante e impensato, che lascia il segno.

Un altro testo topico, che si presta molto bene a diventare oggetto di attenzione nei contesti indicati, è la storia di Nessuno, il falso nome che si è attribuito Odisseo quando ha dovuto confrontarsi con il ciclope Polifemo. Si tratta di una storia arcinota, che occupa gran parte del libro IX dell’Odissea. Gli elementi da segnalare sono il ricorso al nome Nessuno (v. 366) e le parole che Polifemo ad accecamento avvenuto scambia con gli altri ciclopi, chiedendo il loro aiuto. «Che ti è successo?», gli chiedono. «Nessuno mi ha accecato», risponde Polifemo. «Ma se nessuno ti fa violenza e sei solo, allora sei tu ad aver perso la ragione!» (vv. 408-412). L’equivoco causato dall’ambivalenza del nome produce subito un effetto che in quei tempi lontani era raro o addirittura ignoto: la contraddizione. Polifemo dà l’impressione di contraddirsi, e la contraddizione è insostenibile, perché scredita impietosamente colui che si contraddice. Da qui l’importanza dei tentativi di dimostrare che l’altro si contraddice o, al contrario, di dimostrare che una certa contraddizione è solo apparente. Perché è facile che in questi casi si presenti un’alternativa secca: o si vince o si perde. I ragazzi potrebbero essere invitati, quantomeno, a portare esempi […]».

 

Livio Rossetti, Anche i bambini pensano, Introduzione a: Dorella Cianci e Massimo Iiritano, Pensare da bambini. La sfida di Amica Sofia, Erickson editore, Trento 2020, pp. 20-22.


Dorella Cianci

 
Grecista e filologa di formazione, ha un dottorato in Storia dell’Educazione. Attualmente è assegnista di ricerca in Storia della Filosofia Medievale presso l’Università LUMSA di Roma, dove insegna anche al laboratorio di Filosofia dell’Educazione. È direttrice della rivista scientifica «Amica Sofia», edita da Rubbettino.  Collabora con alcuni quotidiani, fra cui L’Unità, La Repubblica, «la Lettura» de Il Corriere della Sera, Il Mattino, in particolare come traduttrice. Scrive per le pagine culturali del Il Sole 24 Ore. Tra le sue pubblicazioni, Corpi di parole (2014) e Il teatro di Dioniso (2018).

Massimo Iiritano
 
Dottore di ricerca in Filosofia della religione all’Università di Siena-Arezzo, ha svolto attività didattica e di ricerca presso diverse università, italiane e straniere. Attualmente è docente di ruolo nella scuola pubblica, è membro del comitato scientifico dell’Osservatorio per la Comunicazione dell’Università Federico II di Napoli, presidente dell’associazione nazionale «Amica Sofia»  (Università di Perugia) e collabora alla cattedra di Filosofia politica dell’Unical. È stato allievo e collaboratore, tra gli altri, di Sergio Quinzio, Bruno Forte, Sergio Givone e Massimo Cacciari.


Livio Rossetti (1938) è stato professore di filosofia greca all’Università di Perugia per decenni. Nel 1989 ha fondato la Intern. Plato Society a Perugia, nel 2006 ha dato il via agli incontri di Eleatica che si tengono tuttora a un passo dagli scavi di Elea (in pieno Cilento) e nel 2018 ha fondato la Intern. Society for Socratic Studies a Buenos Aires.
Tra i suoi studi su Parmenide e Zenone ricordiamo: Un altro Parmenide (2 voll., Bologna 2017) e Una tartaruga irraggiungibile (fumetto, Bologna 2013): nel 2019 questo volumetto è stato pubblicato in spagnolo, a Buenos Aires. Nel 2020 è in pubblicazione La filosofia virtuale di Parmenide Zenone e Melisso.


 

Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Livio Rossetti …


Livio Rossetti – Parmenide e Zenone “sophoi” a Elea
Livio Rossetti – Rodolfo Mondolfo storico della filosofia antica
Livio Rossetti – Due falsI originali d autori di «qualità»: Enrico Berti (Arisotele) e Mario Vegetti (Platone).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Disprezzo la ricchezza non perché è superflua, ma perché è cosa di poco conto.

Lucio Anneo Seneca 011
«Contempsi divitias, non quia supervacuae sed quia pusillae sunt».
«Disprezzo la ricchezza non perché è superflua, ma perché è cosa di poco conto».

Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, 110, 15, in Id., a cura di C. Barone, con un saggio di L. Canfora, Garzanti, Milano 1989, pp. 852-853.


Seneca – De brevitate vitae. Non è breve la vita, ma tale la rendiamo
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) – Da quando il denaro ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito. Gli uomini consacrano il denaro come espressione massima delle cose umane.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Quale è la natura specifica dell’uomo? La ragione, che quando è retta e perfetta dà all’uomo la pienezza della felicità. Una tale ragione perfetta prende il nome di virtù, e altro non è che la coerenza morale.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – La filosofia non è un’arte di cui si possa fare ostentazione: essa non consiste nelle parole, ma nelle azioni. La filosofia forma e foggia l’animo, regola la vita, governa le azioni, insegna ciò che si deve fare e ciò che si deve evitare, sta al timone e dirige il corso delle navi.
A. Seneca (4 a.C. – 65) – La filosofia si divide in sapere e disposizione d’animo. chi ha imparato e compreso che cosa si deve fare e che cosa si deve evitare non è ancora saggio, se il suo animo non si è trasformato in base a quanto ha appreso
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Insistere su certi scrittori e nutrirsi di loro, per ricavarne un profitto spirituale duraturo. Chi è dappertutto, non è da nessuna parte. Quando uno passa la vita a vagabondare, avrà molte relazioni ospitali, ma nessun amico.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) – Le letture sono necessarie anzitutto perché io non sia pago di me stesso. Poi perché, quando avrò conosciuto ciò che altri hanno trovato, allora possa riflettere su ciò che essi hanno scoperto e rifletta su ciò che ancora devo imparare.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Il medico si è preoccupato non per la sua reputazione di medico ma per me, è accorso nei momenti critici, nessun servizio gli è stato di peso o lo ha infastidito
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – La vita non sarà incompiuta, se è virtuosa: dovunque tu la concluda, se la conduci bene, è completa.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Negli scontenti di sé si insinua l’agitazione sterile di un animo che non trova sbocco insieme all’esitazione di una vita che non riesce a svilupparsi e alla frustrazione di un animo intorpidito tra le delusioni. Le passioni, chiuse in un angusto spazio senza uscita, si strangolano da sé. Bisogna perseverare e rinvigorire il nostro spirito con una assidua applicazione, finchè la tendenza al bene diventi saggezza.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Walter Benjamin (1892-1940) – Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans rêve et sans merci, senza tregua e senza pietà.

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«Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans rêve et sans merci [“senza tregua e senza pietà”]. Non esistono “giorni feriali”, non c’è alcun giorno che non sia festivo, nel senso terribile del dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estrema tensione che abita l’adoratore».

Walter Benjamin, Il capitalismo come religione, Il melangolo, Genova 1985, p. 43.


Walter Benjamin (1892-1940) – Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera
Walter Benjamin (1892-1940) – La malinconia tradisce il mondo per amore di sapere. Ma la sua permanente meditazione abbraccia le cose morte nella propria contemplazione, per salvarle.
Walter Benjamin (1892-1940) – Che cos’erano per me i miei primi libri? Io non leggevo un libro, vi entravo, vivevo tra le sue righe; e quando lo riaprivo dopo un’interruzione, ritrovavo me stesso nel punto in cui ero rimasto.
Walter Benjamin (1892-1940) – L’esperienza è in ribasso. Un’indigenza di nuova specie si è abbattuta sugli uomini, la nostra povertà di esperienza. È povertà non solo di esperienze private, ma di esperienze umane in genere, è una nuova barbarie.
Walter Benjamin (1892-1940) – Il capitalismo è pura religione cultuale, senza tregua e senza pietà, che non purifica ma colpevolizza, non è riforma dell’essere, ma la sua riduzione in frantumi. Il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma.
Walter Benjamin (1892-1940) – I bambini si ritrovano nel mondo esterno in modo del tutto graduale, e solo nella misura in cui esso diventa loro familiare come un’interiorità a loro adeguata. L’interiorità di questa visione risiede nel colore.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Henri Lefebvre (1901-1991) – Passeggiamo per la campagna senza saper decifrare il paesaggio umano che contempliamo, confondiamo fatti della natura e fatti umani, non vediamo i prodotti dell’azione umana – quel volto che cento secoli di lavoro hanno dato alla nostra terra

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«Quante volte ciascuno di noi ha “passeggiato” per la campagna senza saper decifrare il paesaggio umano che contemplava! Guardavamo e il nostro occhio era quello di un esteta goffo che confonde i fatti della natura e i fatti umani, che osserva i prodotti dell’azione umana – quel volto che cento secoli di lavoro hanno dato alla nostra terra – come si osserva il mare o il cielo, nei quali ogni traccia umana scompare».

Henri Lefebvre, “Introduzione”, in Id., Critica della vita quotidiana [1947], trad . il. di Vincenzo Bonazza, Dedalo Libri, Bari 1977, voI. l, p. 151.

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Fëdor Dostoevskij (1821-1881) – La vita è vita ovunque, la vita è dentro di noi, non al di fuori. Voglio essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, qualunque disgrazia capiti, senza lamentarsi, non perdersi d’animo – ecco in che cosa consiste la vita, qual è il suo scopo.

Fëdor Dostoevskij 001

«Fratello! Non mi sono scoraggiato né perso d’animo.

La vita è vita ovunque, la vita è dentro di noi, non al di fuori. Intorno a me ci saranno altri uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, qualunque disgrazia capiti, senza lamentarsi, non perdersi d’animo – ecco in che cosa consiste la vita, qual è il suo scopo. Me ne sono reso conto. Quest’idea si è fatta di carne e sangue. È la verità! Quella testa che creava, si nutriva della vita superiore dell’arte, che ha compreso e si è abituata alle nobili esigenze dello spirito, quella testa ormai si è staccata dalle mie spalle. Ne è rimasto il ricordo e le immagini create, ma rimaste ancora senza forma. Lasceranno cicatrici, è vero! Però in me è rimasto il cuore, e quella carne e quel sangue che ancora possono amare, soffrire, desiderare e ricordare, e in fondo anche questa è vita! On voi! le soleil!».

Lettera di Fëdor Dostoevskij  al fratello M.M. Dostoevskij, 22 dicembre 1849, San Pietroburgo, fortezza di Pietro e Paolo, in  Fëdor Dostoevskij, Lettere, a cura di Alice Farina, traduzione di Giulia De Florio, Alice Farina e Elena Freda Piredda, il Saggiatore, Roma 2020.


Quarta di copertina

Fëdor Dostoevskij è uno dei più grandi scrittori di ogni tempo. Le sue opere sono annoverate tra i capolavori della letteratura di ogni epoca e luogo e, ancora oggi, nutrono lettori di tutto il mondo. Sono romanzi totali, monumenti letterari che contengono un sapere universale e manifestano la complessità della nostra esistenza travalicando confini e generazioni. Così le Lettere che Dostoevskij ha affidato alle mani dei suoi familiari, dei suoi amori, dei suoi sodali costituiscono, come scrive Alice Farina nell’introduzione, «il romanzo di una vita», «un’opera letteraria parallela all’opera, ma anche sorgente viva per l’opera stessa». E difatti sembrano traboccare di materiale romanzesco: l’arresto per aver frequentato un circolo di socialisti utopici, la condanna a morte, la grazia ottenuta pochi minuti prima di salire al patibolo; il confino in Siberia e la persecuzione della malattia; la continua e strenua battaglia per migliorare la propria condizione economica senza sacrificare nulla della propria arte. Ma questo materiale è qui innestato all’interno di una vita, la quale non può che diventare a sua volta sorgente creativa, in un continuo gioco di vasi comunicanti.Per buona parte inedite in Italia, queste pagine testimoniano poi gli scatti e le evoluzioni del pensiero di Dostoevskij, permettendoci di osservarne da vicino i movimenti interiori, come quando nel 1839, a soli diciotto anni, dichiara con orgoglio al fratello di voler dedicare la propria vita a svelare il mistero dell’essere umano. Le Lettere qui raccolte – ora interamente ritradotte, a comporre l’epistolario di Dostoevskij più completo mai pubblicato in Italia – raccontano questa missione; tracciano le linee di un’autobiografia intima e coinvolgente e rivelano una personalità infuocata, dedita alla letteratura fino allo stremo delle forze; offrono un nuovo sguardo sul suo percorso intellettuale e sulla genesi di opere che hanno cambiato per sempre la letteratura, sollevando interrogativi che ancora reclamano risposte. Sono la lente d’ingrandimento sulla vita di uno scrittore che ha esplorato gli abissi della condizione umana e ne è uscito più vivo che mai.


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Carmine Fiorillo – Virgilio negli Stati Uniti. L’antica “vocazione imperiale” degli USA! E Joseph Biden a cosa si sente “vocato”? Muterà forse il fine del dollaro “umanizzando” il suo corso e rendendolo meno “imperiale”?

Virgilio in America - Dollaro imperiale

Da quando il denaro […] ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito, e noi [siamo] diventati ora mercanti ora merce in vendita.

Seneca


 

«Fare soldi è un arte, lavorare è un arte.

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

                                                                      Andy Warhol

Great Seal of the United States, Diritto dello stemma

Great Seal of the United States, Diritto dello stemma.

 

Great Seal of the United States, rovescio dello stemma

Great Seal of the United States, Rovescio dello stemma.

 

Sul Great Seal (Grande Sigillo) degli Stati Uniti e sul dollaro furono scritte dai “Padri Fondatori” degli Stati Uniti tre frasi in Latino invece che in Inglese. Due di esse furono tratte liberamente da Virgilio. Si sentivano gli eredi di Augusto, e comunque si autocebravano con questa ascendenza che li legittimava alla loro “missione storica”.

Annuit coepitis è la versione affermativa (“Dio è favorevole all’impresa”) della preghiera troiana a Giove “Audacibus annue coepitis” (Eneide, IX, 625); e “Novus ordo s[a]ec[u]lorum” viene dalla Egloga IV di Virgilio, significativamente quella in cui si troverebbe una anticipazione del cristianesimo. E guarda un po’: l’Eneide esprime un programma  ideologico che corrisponde al programma politico di Ottaviano detto Augusto, l’iniziatore dell’Impero romano.

Quando si parla della “vocazione imperiale” degli USA!

E Joseph Robinette Biden Jr., al di là delle evidenti macroscopiche difformità con lo «stupido e infantile Trump» (come lo definisce Michael Wolff), a cosa si sente “vocato”?
Muterà forse il fine del dollaro “umanizzando” il suo corso e rendendolo meno “imperiale”?

Carmine Fiorillo

 

 

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Dipinto di Andy Warhol.
«Fare soldi è un’arte, lavorare è un’arte.
Un buon affare è il massimo di tutte le arti».
Andy Warhol
La firma di Andy Warhol sul dollaro USA.

«Da quando il denaro, che tanti magistrati e tanti giudici tiene avvinti, che addirittura crea magistrati e giudici, ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito, e noi, diventati ora mercanti ora merce in vendita, non esaminiamo più la qualità, ma il prezzo.
Per interesse siamo onesti, per interesse siamo disonesti, e inseguiamo la virtù fin tanto che c’è la speranza di guadagnarci, pronti a cambiare rotta se il vizio promette di più.
I nostri genitori ci hanno inculcato l’ammirazione per l’oro e l’argento, e la cupidigia, instillata in noi fin da piccoli, ha messo radici profonde ed è cresciuta con noi. Cosi il popolo intero, in tutte le altre cose discorde, su questo soltanto conviene: questo ammirano, questo si augurano per i loro cari, questo consacrano agli dèi, come espressione massima delle cose umane […]. I costumi si sono ridotti a un livello tale che la povertà è considerata maledetta e infamante, disprezzata dai ricchi, invisa ai poveri».

Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, 115, 10-11; trad. di C. Nonni.


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Pavel A. Florenskij (1882-1937) – Dobbiamo percepire l’effettiva esistenza di ciò con cui veniamo a contatto, di modo che inizi un’attività culturale. L’illusionismo per sua natura rinnega la dignità umana. Chiudersi nel soggettivo significa tagliare il legame con l’umanità, e disgregare l’unità della coscienza universale e, di conseguenza, anche l’unità della personalità cosciente di sé.

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«Fin dalla remota antichità due capacità conoscitive sono state considerate come le più nobili: l’ascoltare e il vedere. I diversi popoli talvolta hanno messo l’accento sull’una, talvolta sull’altra; l’antica Grecia esaltava la superiorità del vedere, l’Oriente attribuiva maggior valore all’udire. Ma, comunque si rispondesse alla domanda su quali delle due fosse superiore, mai si è dubitato del ruolo centrale di queste due capacità negli atti conoscitivi e, di conseguenza, mai si è dubitato del valore straordinario dell’arte figurativa e dell’arte della parola: esse sono attività che si radicano nei più preziosi sforzi della conoscenza.

L’osservazione fin qui condotta sulle due massime attività ci consente di trarre un bilancio quanto all’attività conoscitiva in generale. Essa costruisce simboli: simboli del nostro rapporto con la realtà. Il presupposto della nostra attività, sia per l’arte pittorica che per l’arte della parola, è la realtà. Dobbiamo percepire l’effettiva esistenza di ciò con cui veniamo a contatto, di modo che inizi un’attività culturale, riconoscibile nella sua globalità come necessaria e preziosa. Senza il presupposto di questo realismo la nostra attività si rivela o esteriormente utile, al servizio del raggiungimento di qualche profitto molto prossimo, ovvero esteriormente dispersiva, un’occupazione artificiale del tempo. Se non comprendiamo che ogni atto di cultura è verità, non saremo in grado di riconoscergli dignità interiore e vera umanità. L’illusionismo, in quanto attività che non conta sulla realtà, rinnega per sua natura la dignità umana. Il singolo uomo si chiude nel soggettivo e taglia in questo modo il legame con l’umanità, e di conseguenza verso la comprensione umana. Se non si percepisce la realtà del mondo, allora si disgrega l’unità della coscienza universale e, di conseguenza, anche l’unità della personalità cosciente di sé».

Pavel A. Florenskij, Il valore magico della parola, Medusa, Milano 2003, p. 93.


Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937) – Verità, bene e bellezza: questa triade metafisica è un unico principio. Nella vita ci sono molte cose mostruose, malvage, tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla.
Pavel A. Florenskij (1882-1937) – Cultura è lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte. Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano.
Pavel A. Florenskij (1882-1937) – La parola è un condensatore della volontà, un condensatore dell’attenzione, un condensatore dell’intera vita dell’anima.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Petite Plaisance – La «buona utopia» oggi è necessaria per l’indispensabile pianificazione comunitaria e per realizzare una umanità felice. Finché la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale continuerà ad avere un ruolo centrale, la parte migliore della umanità rimarrà schiacciata. La «buona utopia» si oppone e guarda «oltre» il sistema privatistico e la sua ideologia, e pertanto agisce come forza dialettica all’interno del processo storico.

Petite Plaisance -Utopia buona copia

La modernità (da intendersi qui come contemporaneità) è l’epoca della scienza e della tecnica, non della filosofia, che pure, occupandosi dell’intero, ne costituisce la base. La scienza e la tecnica, le quali si occupano delle parti, senza una consapevolezza filosofica sono però cieche rispetto al fine di cui sono strumenti. Tale fine, da almeno un paio di secoli, è purtroppo dettato dal modo di produzione capitalistico, e consiste dunque nella massima valorizzazione del capitale, il quale non ha nessuna cura per l’uomo e nessun rispetto per la natura.
In merito alla effettuale priorità moderna della scienza e della tecnica sulla filosofia, concordano sia la maggioritaria componente liberale della modernità, sia la minoritaria componente marxista. Per ambedue queste componenti, il pensiero filosofico-politico classico è infatti secondario in quanto “non scientifico”. Ciò, per il pensiero liberale, lo rende “pericoloso”, in quanto esso – non richiesto – effettua analisi ed emette giudizi sulla totalità sociale; ciò, per il pensiero marxista, lo rende invece “inefficace”, in quanto il pensiero filosofico-politico classico si illude soltanto di effettuare analisi ed emettere giudizi sulla totalità sociale. In sostanza, ciò che il pensiero moderno critica più duramente del pensiero filosofico-politico classico è la sua pretesa di fondazione onto-assiologica, ritenuta arbitraria, e la sua conseguente – e pertanto ancor più arbitraria – “utopia progettuale”.
Del concetto di “utopia” si sono date almeno due interpretazioni. La prima, liberale, sostiene che ogni “utopia” è espressione di un pensiero totalitario e violento (un sostenitore di questa tesi fu ad esempio Karl Popper). La seconda, marxista, sostiene che ogni “utopia” è espressione di un pensiero astratto ed illusorio (sostenitori di questa tesi furono anche, almeno in parte, Karl Marx e Friedrich Engels).
L’etimologia greca del termine «utopia», coniato da Tommaso Moro, in qualunque modo venga ricavata, se in alcun caso può autorizzare la interpretazione liberale, può invece autorizzare la interpretazione marxista, che considera in sostanza l’utopia come la descrizione non di un «cattivo luogo», bensì come la descrizione di un «non luogo», ovvero di qualcosa di irrealizzabile nella storia. Tuttavia, come lo stesso Moro fa ben comprendere nel suo celebre testo, l’etimologia greca più verosimile del termine, ma soprattutto la più auspicabile, è quella per cui l’utopia descrive un «buon luogo» ideale in cui vivere, un modo di produzione sociale ideale conforme alla natura umana. È questa del resto la migliore definizione possibile di “comunismo”: quella di un modo di produzione sociale in cui gli uomini possano vivere in modo armonico realizzando la propria natura razionale e morale, dunque realizzando se stessi in modo compiuto.
Contro ogni interpretazione “utopica” del comunismo (ossia contro ogni “progettazione di un buon luogo ideale in cui vivere”) si è, come accennato, schierato pressoché tutto il pensiero marxista, a cominciare da quello originario di Marx ed Engels. Questo erroneo e fuorviante approccio – la cui genesi è da ricavare nel clima scientistico-positivistico in cui si formò il pensiero marxiano e marxista – deve essere radicalmente rivisto, in quanto costituisce un regresso anche rispetto alla antica tradizione platonica. Soffermermandosi, sebbene sinteticamente, sul pensiero utopico di poco antecedente la nascita della modernità, strettamente derivato dal pensiero antico, si può dire quanto segue.
I nomi dei due principali utopisti premoderni di epoca rinascimentale sono noti a tutti: Tommaso Moro e Tommaso Campanella. Il primo si ispirò fortemente a Platone, il secondo si ispirò fortemente al primo (oltre che al pensiero cristiano), a riprova di come il pensiero filosofico-politico classico sia stato il principale ispiratore del comunismo premoderno, ossia premarxiano. Nonostante tale rapporto diretto – o forse anche a causa dello stesso – Marx ed il marxismo ritennero in linea generale il tentativo utopico-progettuale del pensiero filosofico classico, così come quelli di Moro, Campanella e degli altri socialisti di epoche successive, “utopici” nel senso di “astratti, illusori, irrealizzabili”. Marx ed il marxismo ritennero tali questi tentativi in quanto non basati, a loro avviso, sulla analisi delle condizioni storico-sociali presenti, ma solo sul concetto classico – per loro assai discutibile – di “natura umana”.
L’utopia progettuale pre-moderna fu insomma, per Marx ed il marxismo, nonostante alcuni meriti della medesima, quasi inservibile sia sul piano pratico (in quanto si basava sulla politica anziché sulla storia), sia sul piano teorico (in quanto si basava sulla filosofia anziché sulla scienza).
Questa tesi è da ritenere errata. Pur nella consapevolezzza – basti consultare le molteplici pubblicazioni edite in proposito da Petite Plaisance negli ultimi 25 anni – del valore filosofico e scientifico del materialismo storico, e dunque della importanza della analisi storico-sociale, si sottolinea però che, senza mai giungere ad una consapevole comprensione filosofica, l’analisi storico-sociale, per quanto “scientifica”, non conduca a nulla. Molte premesse marx-engelsiane che si volevano “scientifiche” si sono peraltro rivelate errate in quanto, verosimilmente, inserite all’interno di un quadro di riferimento di tipo “scientistico-fideistico” – che ne richiedeva la “certezza” ma che come tale non era in grado di garantirla –, e non all’interno di un quadro filosofico classico, in cui invece avrebbero potuto essere valutate entro un più corretto orizzonte di “potenzialità” onto-assiologica.

Tornnando in ogni caso, per un momento, a Platone, occorre rilevare che, ispirandosi al suo pensiero, anche Moro e buona parte degli utopisti partirono dalla analisi critica e dalla valutazione negativa del proprio contesto storico-sociale, per delineare un modo di produzione sociale ideale storicamente realizzabile. Può essere interessante, per comprendere – in continuità col precedente pensiero greco e cristiano, ed in anticipazione del successivo pensiero moderno di Spinoza, Fichte, Hegel e Marx – il contenuto umanistico ed anticrematistico del pensiero utopico rinascimentale, riportare alcuni brani tratti proprio dall’Utopia di Moro che, se si escludono alcuni pensatori stoici, fu colui che per primo recuperò la grande progettualità ideale platonica.
Moro, che scrisse Utopia nel 1516, analizzò in maniera lucida la realtà del proprio tempo, ed individuò sin da allora nella proprietà privata dei mezzi della produzione sociale, e nella conseguente centralità della merce e del denaro, la radice principale dei maggiori mali sociali. Contrariamente, infatti, a tutti coloro che considerano Moro e gli utopisti come pensatori astratti e fantasiosi, la lettura di qualche brano dell’Utopia potrà confermare che Moro aveva idee molto concrete e chiare. A suo avviso, in effetti, è letteralmente impossibile ben governare e far fiorire una buona comunità laddove tutto si misuri sulla ricchezza privata.
Moro fu d’accordo con Platone su questo punto, e dunque ritenne che il solo modo per perseguire il benessere della comunità consiste nell’applicare in ogni campo il principio di uguaglianza; ma tale principio, sia per Platone che per Moro, non può essere rispettato nel momento in cui si tollera la proprietà privata. Secondo Moro, finché la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale continuerà ad avere un ruolo centrale, la parte migliore della umanità rimarrà schiacciata dall’inevitabile fardello della povertà e della miseria.
Egli peraltro non si limitò alla ricerca delle cause della disarmonia sociale ma, coerentemente, propose anche delle soluzioni che, a suo avviso, avrebbero dovuto essere accettate dai governanti per ricostituire un minimo di giustizia e di armonia sociale. In maniera analoga a Marx ed Engels – ma anche, ancora una volta, a Solone e Platone – Moro propose infatti di porre un limite ai terreni che ognuno può possedere, e al denaro che ciascuno può accumulare. Egli fu però consapevole che, senza la realizzazione di un modo di produzione compiutamente comunitario, con simili riforme potevano solo essere mitigati i mali cui accennava, un po’ come assidue e continue cure possono solo lenire le sofferenze di un corpo prossimo alla morte. Di curarlo a fondo non se ne parla nemmeno, finché esiste la proprietà privata.
Non fosse che per queste parole, Moro risulta essere assai più radicale di molti “intellettuali di sinistra” che pure oggi vanno per la maggiore, i quali o si rifiutano di fare proposte, o fanno proposte “riformistiche” spacciandole per rivoluzionarie, o ipotizzano inverosimili “salti in avanti”. Moro invece, consapevole che «dove tutto si misura col denaro, si devono necessariamente esercitar molte arti del tutto senza senso, a servizio soltanto del lusso e del capriccio», riteneva che fossero completamente da rivoluzionare le finalità e le modalità della produzione, ma che ciò non potesse essere fatto senza un preliminare rivoluzionamento delle forme della proprietà. Se infatti la proprietà dei mezzi della produzione fosse comune, anche il lavoro potrebbe essere comune e pertanto l’attività da svolgere potrebbe essere distribuita nelle occupazioni necessarie al soddisfacimento dei bisogni primari, occupando un tempo assai minore, ma sufficiente per produrre tutto ciò che serve per vivere felici. In effetti, per Moro, tutto il tempo che non è strettamente necessario per i bisogni primari dovrebbe essere meglio impiegato dai cittadini, dedicandosi alle attività dello spirito e della cultura. In rapporto alle scarne affermazioni di Marx su come dovrebbe essere il comunismo, Moro – che pure non utilizza mai questo termine – sembra avere le idee molto più chiare, sottolineando innanzitutto la necessità di una pianificazione della produzione e della distribuzione: i prodotti del lavoro devono essere portati in determinati edifici, per essere divisi a seconda del genere; da questi magazzini si deve prendere solo ciò di cui si  ha bisogno, senza dare in cambio denaro né prestazioni particolari. E, d’altronde, perché si dovrebbe prendere più di quanto risulti bastante, sapendo che non verrà mai a mancare nulla? In questo modo, scrive Moro, l’intero paese sarà come un’unica famiglia, in cui i comportamenti non comunitari saranno socialmente condannati.
Per Moro, gli abitanti dell’isola di Utopia, ossia i futuri uomini di una società comunista, saranno felici in quanto non subiranno più il dominio della economia, ma lasceranno primeggiare la politica o, meglio ancora, la filosofia. «La questione fondamentale che costoro si pongono è in che cosa consiste la felicità dell’uomo», ed essa consiste nel «vivere secondo natura». La natura, a sua volta, «invita a vivere gioiosamente sostenendosi a vicenda». Privarsi di qualcosa per darla ad un altro è segno di umanità e gentilezza, ed è soprattutto motivo di arricchimento spirituale. Questa la struttura comunitaria che fu propria, in seguito, di varie utopie. Tutte o quasi queste utopie, da Moro in avanti (almeno fino al XIX secolo), hanno in effetti non solo stigmatizzato la proprietà privata ed il mercato, ma anche lo sfruttamento, la alienazione ed i lunghi orari di lavoro.
Chiunque ritenga ogni fondato modello di totalità sociale come un qualcosa che si connoterebbe soltanto come statico ed astratto, non comprende il carattere insieme dinamico e concreto delle utopie. Tale carattere è stato in effetti messo in evidenza da pochi studiosi, fra cui sicuramente Luigi Firpo, secondo cui l’utopia si oppone sempre ad un determinato sistema ed alla sua ideologia, e pertanto agisce appunto come forza dialettica all’interno del processo storico. Un altro autore che si è espresso in tal senso – esperto, non a caso, di utopie antiche – è stato Lucio Bertelli, per il quale «il rapporto fra utopia e realtà è dialettico, nel senso che lo stesso insegnamento delle condizioni date e rifiutate si presenta come un’operazione di rettifica globale, che affonda le sue radici in una analisi radicale della realtà stessa».
Da un lato il liberalismo, e dall’altro il marxismo, hanno attaccato il concetto di utopia (pur diversamente inteso). Tuttavia, l’utopia intesa come «buon luogo» ideale, come «paradigma in cielo» (lo scriveva Platone nella Repubblica, 592 B), rimane un elemento insostituibile per il pensiero umano, poiché per favorire la realizzazione di una totalità sociale migliore non vi è modo più appropriato che pensarla prima nelle sue strutture essenziali, valutando teoreticamente appunto prima se essa possa reggere alla prova dei fatti ed essere desiderabile, così da porsi poi come modello realizzabile. Nonostante, infatti, le due discutibili concezioni dell’utopia prodotte dal liberalismo e dal marxismo, essa rimane sostanzialmente un progetto al contempo di critica radicale del proprio contesto storico-sociale, e di costruzione teorica di un modo di produzione sociale alternativo.
In un contesto come l’attuale, in cui regnano ingiustizia, sofferenza, povertà, alienazione, sfruttamento, l’unico motivo che spinge le persone a non voler abbandonare il capitalismo è l’incertezza nei confronti del mondo che potrà esserci, una volta che quello presente sia stato sostituito. Ebbene: nei limiti del possibile, ossia nei limiti della contingenza storica che necessariamente accompagnerà l’eventuale realizzazione di questo progetto, la «buona utopia» vuole proprio ridurre questa incertezza, ritenendo di poterlo fare non descrivendo le presunte leggi scientifiche della storia che dovrebbero portare al superamento del capitalismo, bensì delineando i princípi filosofici tramite cui questo progetto di superamento può e deve essere realizzato. La filosofia infatti, assai più della storia, costituisce la principale modalità culturale che può produrre una risposta politica di ampio respiro, la quale abbia come Soggetto l’intero genere umano trascendentalmente inteso (e non una singola classe). L’armonia, la comunità, la felicità o sono di tutti o di nessuno, poiché non si può essere realmente felici (ossia vivere in modo armonico e comunitario) quando una così gran parte dell’umanità soffre per cause evitabili. Poiché le cause di sofferenza umana (su vari piani) determinate dalle modalità sociali capitalistiche sono evitabili, è necessario pensare ad una nuova progettualità comunista, semplicemente per coerenza verso ciò che l’umanità richiede per realizzare compiutamente se stessa. Facciamo però un passo alla volta.
Circa la tesi della possibilità di delineare in anticipo i tratti generali di un modo di produzione sociale alternativo, va detto che anche i critici del capitalismo più vicini alla filosofia tendono a diffidarne. Costoro ritengono in effetti che, così come si possono conoscere – data la limitatezza della condizione umana – solo poche facce di quel prisma poliedrico che è la storia dell’uomo, allo stesso modo si possono conoscere solo poche facce di quel prisma poliedrico che è l’uomo. L’uomo insomma, essendo – come molti filosofi nel corso del tempo hanno scritto – un ente troppo complesso per poter essere definito, sarebbe a loro avviso un ente che non possiede una natura stabile, bensì una natura mutevole nei diversi contesti storico-sociali. Per questo motivo non sarebbe pensabile alcuno stabile progetto di modo di produzione sociale ideale alternativo.
Non dobbiamo stupirci della forza di questa tesi, che anche Marx, come ricordato, ha sostenuto in ampi passaggi della sua opera. Non dobbiamo stupircene poiché sostenere che una natura umana esiste, che può essere definita e che la sua struttura è razionale e morale (ossia che essa, per realizzarsi e rendere l’umanità felice, deve operare per la verità e per il bene), vincola, impegna, impone di realizzare nella vita, in ogni momento, i comportamenti migliori, quelli umanamente più rispettosi e fraterni, che certamente sono inizialmente i più difficili da porre in essere nell’attuale contesto storico-sociale. Non si tratta, sostenendo la tesi della esistenza e della definibilità della natura umana, di essere vittime del mito della “trasparenza totale” dell’uomo, che ci farebbe ritenere capaci di conoscere ogni lato di quel famoso prisma cui si accennava in precedenza. Si tratta solo di comprendere che l’uomo, come ogni ente facente parte dell’essere, possiede necessariamente una essenza, una sostanza, un contenuto stabile al di là delle sue empiriche molteplici determinazioni (anche il prisma, del resto, pur avendo molteplici facce, rimane pur sempre sostanzialmente un prisma), e che tale contenuto può dall’Uomo essere compreso.
La «buona utopia» oggi è necessaria poiché, nella attuale devastazione materiale e spirituale della vita posta in essere dal modo di produzione capitalistico, per rapportarsi al futuro ci si deve affidare alla dimensione del “progetto”, ossia ad una visione d’insieme di ciò che gli uomini sono e di ciò che devono essere per realizzare una umanità felice.



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