«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Per studiare il processo della generazione, cioè della nascita, in tutte le sue fasi, nulla di meglio che rileggere il De generatione animalium, dove tale processo è oggetto di una descrizione famosa».
«E perfino circa quegli esseri che non presentano attrattive sensibili, tuttavia, al livello dell’osservazione scientifica la natura che li ha foggiati offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo […]. Non si deve dunque nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v’è qualcosa di meraviglioso».
Aristotele, De partibus animalium ,I, 5, 645 a 7-17 (traduzione di Enrico Berti).
Ristampa dell’edizione del 1524. Contiene i tre principali trattati di biologia di Aristotele (De historia animalium, De partibus animalium e il De generatione animalium) conosciuti a partire dal Cinquecento con il titolo di De Animalibus, nella traduzione di Teodoro Gaza e in quella parziale di Pietro Alcionio. Cfr. Schreiber, Colines 96.
Da un lato Aristotele mantiene il concetto di dio che gli proviene dalla religione greca, cioè quello di vivente eterno e ottimo, ma dall'altro si serve di questo concetto per definire la natura del motore immobile, cioè del principio da cui dipende il movimento, e col movimento la vita e l'esistenza, di tutto ciò che è compreso nell'universo, vale a dire del principio supremo, trascendente e onnipotente, anche se non creatore. Pertanto può essere legittimo anche parlare di un Dio di Aristotele con l'iniziale maiuscola, purché si faccia riferimento alla nozione greca di dio e si tenga presente l'intera filosofia di Aristotele, la quale dimostra la necessità di un principio supremo e trascendente, dotato di caratteri personali, cioè di intelligenza e volontà, e dunque suscettibile di essere classificato nella specie degli dèi, ma al tempo stesso degno di meritare l'iniziale maiuscola, per il fatto di essere il principio supremo, il bene e il bello per eccellenza.
Il titolo di questo contributo mi è stato proposto da Maurizio Migliori e la mia prima reazione è stata di respingerlo, perché per Aristotele «dio» (theos) è un nome comune, cioè è il nome di una specie di esseri viventi, come «uomo» o «cavallo», perciò nella traduzione si dovrebbe scrivere con l’iniziale minuscola. Inoltre in Aristotele non c’è una nozione di Dio paragonabile a quella che sta alla base delle grandi religioni monoteistiche, e delle filosofie che da esse sono state ispirate, cioè quella nozione per cui c’è un solo Dio, creatore e signore del cielo e della terra. In questa concezione il nome «Dio» diventa quasi un nome proprio e, come tale, va scritto con l’iniziale maiuscola, indipendentemente dal fatto che colui che scrive sia o non sia credente. Alla fine però, dopo avere pensato a tutto quello che avrei potuto scrivere, ho deciso di conservare il titolo propostomi da Migliori, perché c’è un senso, come vedremo, in cui esso può risultare appropriato anche ad Aristotele. Prima di tutto desidero sgomberare il terreno da un’altra improprietà di linguaggio, che in parte dipende da un’interpretazione a mio avviso inaccettabile, cioè quella per cui si parla di una «teologia» di Aristotele, espressione che io stesso ho usato in varie circostanze e di cui ora, in un certo senso, mi pento. L’idea che ci sia una teologia di Aristotele è antica e deriva probabilmente dai commentatori antichi, probabilmente da Alessandro di Afrodisia, se non addirittura da Teofrasto. Essa ha dominato tutta l’antichità, il medioevo (sia arabo, sia bizantino, sia latino) e gran parte dell’esegesi moderna.
[…] Sostenendo che il motore immobile è causa efficiente naturalmente non intendo escludere che esso, e quindi «il dio», possa essere anche causa finale, ma ritengo che esso lo sia per l’uomo, non per il cielo. Ciò mi sembra risultare da un altro passo della stessa Etica Eudemea, dove Aristotele afferma, a proposito della parte cognitiva dell’anima, che
«il dio non la governa dando degli ordini, ma come ciò in vista di cui la saggezza (phronesis) ordina […], poiché quegli non ha bisogno di nulla. Perciò quella scelta e quell’acquisto dei beni naturali che produrrà più di tutto la conoscenza del divino (ten tou theou theorian), […] questa è la migliore e questo criterio è il più bello, mentre quella che per difetto o per eccesso impedisce di servire e di conoscere il dio (fon theon therapeuein kai theorein), questa è cattiva» (Ethica Eudemia, VIII, 3, 1249 b 13-21).
Il fine in vista del quale la saggezza ordina, in questo passo, è chiaramente indicato nella conoscenza del dio, e probabilmente anche nel culto pubblico di esso (therapeuein), come suggerisce Bodétis (R. Bodéus, Aristote et la théologie des vivants immortels, cit., pp. 269-270). Dunque in questo senso il dio è per l’uomo un fine. Ma ciò non conferisce all’etica di Aristotele un carattere teologico, come pretendeva Jaeger, perché il vero fine dell’uomo, in cui consiste la felicità, è in generale la conoscenza delle cause prime, tra le quali è compreso anche il motore immobile, e quindi il dio. Ciò è confermato dal passo dell’Etica Nicomachea parallelo a quello dell’Etica Eudemea appena citato:
«Ma neppure della sapienza (sophia) la saggezza è signora né della parte migliore dell’anima, come neppure della salute è signora la medicina, poiché questa non si serve di quella, ma guarda a come procurarla. La saggezza dunque ordina in vista di quella, ma non a quella. Inoltre sarebbe la stessa cosa se uno dicesse che la saggezza politica comanda sugli dèi, per il fatto che ordina intorno a tutte le cose che sono nella città» (Aristotele, Ethica Nicomachea, VI, 13, 1145 a 6-11).
La saggezza, dunque, ordina in vista della sapienza, la quale è il vero fine dell’uomo. Ma la sapienza è la conoscenza dei princìpi, cioè delle cause prime, fra le quali vi è anche il dio. Di conseguenza la saggezza dirige tutte le azioni dell’anima verso la conoscenza del dio, così come nella città la saggezza politica organizza tutte le cose, compreso il culto pubblico degli dèi. In questa concezione non vi è nulla di teologico: il vero fine dell’uomo, per Aristotele, resta la conoscenza in tutta la sua portata. Anche quando lo Stagirita afferma che l’uomo deve imitare gli dèi, la ragione di questa imitazione è soltanto il valore della conoscenza. Egli dice infatti:
«tutti suppongono che gli dèi vivano e siano in attività, poiché non possiamo supporre che essi dormano come Endimione. Ora, al vivente privo dell’azione morale e ancor più della produzione, che rimane se non la conoscenza (theoria)? Pertanto l’attività del dio, che si distingue per beatitudine, sarà di tipo conoscitivo (theoretike). E di conseguenza fra tutte le attività umane la più simile a questa sarà la più felice […]. Infatti per gli dèi la vita intera è beata, mentre per gli uomini lo è nella misura in cui sussiste una somiglianza con siffatta attività» (Ethica Nicomachea, X, 8, 1178 b 18-27).
Qui abbiamo ancora a che fare con la nozione di divinità accettata da tutti, ma essa è collocata nel quadro di un’etica tipicamente aristotelica, cioè finalizzata alla conoscenza dei princìpi e delle cause prime.
In conclusione, da un lato Aristotele mantiene il concetto di dio che gli proviene dalla religione greca, cioè quello di vivente eterno e ottimo, ma dall’altro si serve di questo concetto per definire la natura del motore immobile, cioè del principio da cui dipende il movimento, e col movimento la vita e l’esistenza, di tutto ciò che è compreso nell’universo,[1] vale a dire del principio supremo, trascendente e onnipotente, anche se non creatore. Pertanto può essere legittimo anche parlare di un Dio di Aristotele con l’iniziale maiuscola, purché si faccia riferimento alla nozione greca di dio e si tenga presente l’intera filosofia di Aristotele, la quale dimostra la necessità di un principio supremo e trascendente, dotato di caratteri personali, cioè di intelligenza e volontà, e dunque suscettibile di essere classificato nella specie degli dèi, ma al tempo stesso degno di meritare l’iniziale maiuscola, per il fatto di essere il principio supremo, il bene e il bello per eccellenza.
Enrico Berti, Il dio di Aristotele, in: Id., Nuovi studi aristotelici. V. Dialettica, fisica, antropologia, metafisica, Morcelliana, Brescia, 2020, pp. 250, 266-267.
***
[1] Cfr. De caelo, I, 9, 279 a 28-30: «di là dipendono anche per le altre cose, per alcune in modo più preciso e per altre in modo più indiretto, l’essere e il vivere».
Enrico Berti, Professore emerito dell’Università di Padova, dove ha insegnato Storia della filosofia. È socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, membro della Pontificia Accademia delle scienze, presidente onorario dell’Institut International de Philosophie. Tra le sue numerose pubblicazioni: Introduzione alla metafisica (2017), la traduzione italiana della Metafisica di Aristotele (2017), Aristotelismo. Tradizioni di pensiero (2017), Tradurre la «Metafisica» di Aristotele (2017), Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni (2016), La ricerca della verità in filosofia (2014), In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica (20018), A partire dai filosofi antichi (con Luca Grecchi, 2009), Aristotele nel Novecento (2008), Incontri con la filosofia contemporanea (2006).
Ripubblico nel presente volume i miei articoli su Dialettica, Fisica, Antropologia e Metafisica di Aristotele, usciti dopo i primi due volumi dei miei Nuovi studi Aristotelici, che trattavano degli stessi temi, ma risalgono ormai a quasi vent’anni fa. A questo volume, che viene cosÌ a essere il V dell’intera serie, ne seguirà un VI, contenente gli articoli su Etica e politica, Poetica, Fortuna di Aristotele, Attualità di Aristotele, usciti anch’essi nell’ultimo ventennio.
Che dire di fronte a una simile quantità da carta, anche senza considerare i volumi monografici e le traduzioni? Il primo a esserne sbigottito sono io stesso. L’unica spiegazione che riesco a danni è la lunghezza ormai ragguardevole della mia vita. Sono 65 anni che scrivo! Alla lunghezza della vita si accompagnano però anche una grande passione per la filosofia e varie sollecitazioni da parte di colleghi, organizzatori di convegni, e case editrici, che continuano a chiedenni di scrivere e di pubblicare.
È utile tutto questo lavoro? Secondo alcuni, sÌ, perché pennette di ritrovare scritti altrimenti introvabili, sparsi nelle più svariate parti del mondo. Ovviamente questo interessa soltanto gli studiosi. È per loro, infatti, che ho scritto, come risulta dalle innumerevoli note in cui vengono citati, a testimonianza di un dibattito interno a una comunità scientifica, che continua a svilupparsi. Sembra tuttavia che anche altri si interessino al contenuto di questi volumi, come risulta dal fatto che l’intera serie è in corso di traduzione in lingua portoghese nel lontano Brasile (sono già usciti i primi tre volumi).
Ma in tutto questo ci sono anche degli inconvenienti, di cui mi rammarico e mi scuso con i lettori. Il primo sono alcune ripetizioni, che però considero inevitabili in scritti destinati alle occasioni più diverse. Il secondo inconveniente sono alcuni cambiamenti di opinione, da parte mia, sugli stessi argomenti trattati in precedenza, cambiamenti che pertanto rendono obsoleti alcuni miei scritti (non però quelli usciti nella serie dei Nuovi studi aristotelici). Quest’ultimo inconveniente è dovuto alla superficialità che avevo specialmente da giovane, la quale spesso mi ha indotto a seguire le interpretazioni tradizionali, senza accertarmi a sufficienza della loro tenuta.
Esso però è anche rivelatore di una profonda verità. I testi di Aristotele, anche riletti e rimeditati per anni e anni, anzi per decenni e decenni, in un certo senso risultano sempre nuovi, nel senso che svelano sempre nuove possibilità di interpretazione. Ebbene, questo è ciò che fa di Aristotele un “classico”, un grande classico, ricco di risorse inesauribili, che ciascuno può attingere in parte. Forse è per questo che le sue opere continuano a essere lette e discusse onllai da 2400 anni, e non abbiamo ancora finito di farlo.
Non ho parole per ringraziare la casa editrice Morcelliana, che si è sobbarcata il lavoro che il volume comporta, senza preoccupazioni di mercato o di altro genere. Se qualche ricordo dei miei studi resterà, sarà soprattutto merito suo.
Enrico Berti
Padova, febbraio 2020
Sommario
Prefazione
***
PARTE PRIMA Dialettica
CAPITOLO PRIMO Socrate e la scienza dei contrari secondo Aristotele.
CAPITOLO SECONDO Phainomena ed endoxa in Aristotele.
***
PARTE SECONDA Fisica
CAPITOLO PRIMO Primato della fisica?
CAPITOLO SECONDO La materia come soggetto in Aristotele e nei suoi epigoni moderni 1. Premessa, 49 – 2. Aristotele, 51 – 2.1. Il soggetto nelle Categorie, 51 – 2.2. Il soggetto e la materia nella Fisica e nella Metafisica, 54 – 3. I moderni critici di Hegel, 60 – 3.1. Feuerbach, 60 -3 .2. Marx, 66 – 3.3. Kierkegaard, 71
CAPITOLO TERZO Ýλη nei testi aristotelici 1Premessa, 79 – 2. Il quadro delineato da Bonilz, 80 – 3. Lo studio di Happ e la letteratura degli ultimi quarant’anni. 86 – 4. Conclusione, 90
CAPITOLO QUARTO Il luogo dei corpi secondo Aristotele. 1. Premessa, 93 – 2. 2. !I luogo nelle Categorie, 95 – 3. Esiste il luogo e che cos’è? (Phys. IV 1),97 – 4. Il luogo non è materia: la critica a Platone (PJrys. IV 2), 100 – 5. I diversi significati dell’«essere in» e l’aporia di Zenone (Phys. IV 3), \02 – 6. 1\ luogo è il primo limite immobile del contenente (Phys. IV 4), \03 – 7. L’universo e i luoghi propri degli elementi (Phys. IV 5), 106 – 8. I movimenti degli elementi e la «potenza» dei luoghi (De caelo), 107 – 9. Osservazioni conclusive. III
CAPITOLO QUINTO La cause du mouvemenl dans les etres vivants .
***
PARTE TERZA Antropologia
CAPITOLO PRIMO L‘origine dell ‘anima intellettiva secondo Aristotele 1. L’interpretazione tradizionale del De generatione animalium, 133 – 2. Difficoltà suscitate dalla lettura del De anima e della Metafisica, 149- 3. Tentativo di rilettura del De genera/ione animalium, 155
CAPITOLO SECONDO Un problema di Aristotele. La donna 1. Uguaglianza e differenza tra uomo e donna. 167 – 2. Il ruolo diverso svolto nella generazione, 170 – 3. Il problema delle somiglianze, 173
CAPITOLO TERZO Mente e anima. Due entità?
CAPITOLO QUARTO L’intelletto attivo. Una modesta proposta.
***
PARTE QUARTA Metafisica
CAPITOLO PRlMO Differenza tra la concezione platonica e la concezione aristotelica dell ‘essere 1. La concezione platonica dell’essere e la sua fortuna, 207 – 2. La critica di Aristotele alla concezione platonica dell’essere, 211 – 3. La concezione aristotelica dell’essere e le sue interpretazioni, 216
CAPITOLO SECONDO Il verbo “essere” in Aristotele. 1. De interpretatione 3, 16b 19-25,221 – 2. Metaph. – 7, 227
CAPITOLO TERZO Aristotele, Metaph. lota 1-2. Univocità o multivocità dell’uno? 1. Il problema, 235 – 2. L’uno come unità di misura, 237 – 3. L’uno come predicato trascendentale, 241 – 4. Conclusione, 244
CAPITOLO QUARTO Il dio di Aristotele. 1. C’è una «teologia» in Aristotele?, 249 – 2. Il libro Lambda della Metafisica non contiene una teologia, ma una teoria dei princìpi, 255 – 3. Il primo motore immobile è veramente un dio e di conseguenza è personale, 259
CAPITOLO QUINTO La métaphysique d’Aristote. 1. L’image actuelle de la métaphysique d’Aristote, 269 – 2. La métaphysique d’Aristote n’est pas une ontologie, 271 – 3. La métaphysique d’ Aristote n’est pas une théologie, 275
CAPITOLO SESTO Y a-t-il une théologie d’Aristote? 1. «Théologie» ou «science théologique»?, 281 – 2. Le Iivre Lambda de la Métaphysique n’est pas une théologie, mais une théorie des principes, 286 – 3. Le premier moteur immobile est vraiment un dieu et par conséquent il est personnel, 290
CAPITOLO SETTIMO Ontologia in Aristotele?
CAPITOLO OTTAVO Ancora sulla causalità del motore immobile 1. Introduzione, 309 – 2. Il dibattito negli anni 1997-2007, 310 – 3. Una nuova interpretazione di Metaph. XII 7, 1072a26-b4, 320 – 4. Il motore immobile è causa finale dell’uomo? 326 – 5. Conclusione, 331
CAPITOLO NONO Les passages dits “théologiques” du livre Gamma de la Métaphysique d’Aristote 1. Premier passage: réponse à Anaxagoras et à Démocrite, 337 – 2. Deuxième passage: réponse à Héraclite et à Cratyle, 341 – 3. Troisième passage: réponse aux affirmations unilatérales, 344 – 4. Conclusion, 348
CAPITOLO DECIMO La dunamis chez le jeune Aristote . 1. Introduction, 351 – 2. Les premiers rragments du Protreptique, 353 – 3. Les fragments des autres ceuvres perdues, 355 – 4. Le fragment 14 Ross du Prolreplique, 357 – 5. Les parti es les plus anciennes des traités conservés, 361
CAPITOLO UNDICESIMO Aristotle, Metaph. B 3: aporiai VI and VII. Is it the genera that should be taken as elements and principles? Introduction, 369 -I. Aporia VI, 370 – 1. The formulation ofthe aporia, 370- 2. The “thesis”: the principles-elements are not the genera, but the constituent parts of bodies, 372 – 3. The antithesis: the principles-elements are the “genera”, 377 – 4. Conclusion, 382 – Il. Aporia VII, 385 – I. The formulation of the aporia, 385 – 2. The “thesis”: the principles-elements are the supreme “genera”, 386 – 3. Arislolle’s argument against the thesis: Being and One are not “genera”, 386 – 4. Xenocrates’ arguments against the thesis: the principles are the lowest species, 393 – 5. The “antithesis”: the principles-elements are the lowest species, 398 – 6. Conclusion, 399
CAPITOLO DODICESIMO La critica di Aristotele alla scienza universale in Metaph. A 9
1. Il problema, 40 I – 2. Qual è la scienza universale oggetto della critica?, 403 – 3.1. Prima obiezione: non è possibile trovare gli elementi degli enti senza distinguere i molti sensi in cui questi si dicono, 404 – 3.2. Seconda obiezione: non è possibile apprendere una scienza di tutte le cose, che non presupponga nessuna conoscenza precedente, 407 – 3.3. Terza obiezione: non è possibile che la scienza più importante sia innata, 409 – 3.4. Quarta obiezione: come potremmo riconoscere gli elementi di tutte le cose?, 411 – 3.5. Quinta obiezione: non è possibile conoscere le cose sensibili se non per mezzo dei sensi, 412 – 4. Conclusione: la scienza universale ammessa da Aristotele, 413
CAPITOLO TREDICESIMO
Il rapporto tra causa motrice e causa finale nella Metafisica di Aristotele 1. Il problema, 419 – 2. La distinzione tra causa motrice e causa finale nei libri introduttivi (A-E), 419 – 3. La coincidenza tra causa motrice, formale e finale nei libri centrali (Z-0), 427 – 4. Il rapporto tra causa motrice e causa finale nei libri conclusivi (A-N), 432
CAPITOLO QUATTORDICESIMO La finalità del motore immobile di Aristotele tra Metafisica Λ 7 e Λ 1O 1. Lambda 7, 445 – 2. Lambda 10,449 – 3. Appendice, 454
CAPITOLO QUINDICESIMO La genesi della dottrina aristotelica dei princìpi 1. Premessa, 459 – 2. La critica alla dottrina dei due principi-elementi, 461 – 3. La dottrina dei tre princìpi-elementi, 465 – 4. La dottrina delle quattro cause, 469 – 5. Molteplicità dei princìpi e unità dell’essere, 472
CAPITOLO SEDICESIMO Continua il dibattito sulla causalità del motore immobile
CAPITOLO DICIASSETTESIMO The Program of the Metaphysics Lambda (chapter 1)
CAPITOLO DICIOTTESIMO Il duplice bene supremo di Aristotele
1. Il bene come fine ne li’ Etica Nicomachea, 509 – 2. Il bene come principio in Metaph. N, 512 – 3. Il bene come “il dio” in Metaph. A, 517 – 4. La distinzione tra i due beni neII’ Etica Eudemea e in altri scritti, 523 – 5. Un problema epistemologico, 528 – 6. Il rapporto tra i due beni supremi. 532
CAPITOLO DICIANNOVESIMO Socrate, Platon et l ‘Académie 1. Socrate, 537 – 2. Platon: la méthode et les Idées, 538 – 3. Platon: les Idées-nombres et leurs principes, 540 – 4. Platon: l‘ame, le bien, la cité, 542 – 5. L’Académie: Speusippe et Xénocrate, 545
CAPITOLO VENTESIMO Argomenti aristotelici contro l’esistenza di un Essere per essenza 1.L’argomento degli Analitici posteriori, 549 – 2. L’argomento del trattato sulle aporie (Metaph. 1Il), 551 – 3. L’argomento del libro Alpha elal/on, 556 – 4. Conclusione, 561
***
INDlCI
Indice dei nomi antichi e medievali.
Indice dei nomi moderni
Nota ai testi
Altri libri di Enrico Berti nel catalogo Morcelliana:
Nuovi studi aristotelici l – Epistemologia, logica e dialettica
Nuovi studi aristotelici” – Fisica, antropologia e metafisica
Nuovi studi aristotelici !II – Filosofia pratica
Nuovi studi aristotelici /V!I – L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo
e Rinascimento
Nuovi studi aristotelici IV!2 – L ‘influenza di Aristotele. Età moderna e contemporanea
Tradurre la Metafisica di Aristotele
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni
Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e ampliata
nel catalogo Scholé:
Aristotele
Invito alla filosofia
Anche chi non è platonico, come chi scrive qui, deve tuttavia riconoscere che il platonismo, pur interpretato nella maniera più cruda, meno accomodante, meno simpatica, cioè come affermazione che il vero mondo è un «altro mondo», ha il grande merito di mostrare, appunto, che ci può essere dell’altro, che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile. Questo è un messaggio che, forse, lascia indifferente chi in qualche modo se la spassa, ma non può lasciare indifferente chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.
***
È possibile riconoscere l’attualità di Platone anche senza essere platonici? La domanda ha un senso, perché il mondo è ancora pieno di platonici, anzi lo è sempre stato, non solo tra i filosofi spiritualisti di ispirazione cristiana – meno tra gli ebrei e musulmani –, ma anche tra i “laici” (basti pensare ai neoplatonici). Questo è un fatto innegabile, sebbene alcuni aspetti del pensiero platonico sembrino francamente inaccettabili: la convinzione che il vero mondo non è quello in cui viviamo, ma un altro; l’assoluta indipendenza dell’anima dal corpo; la necessità che il governo politico sia in mano ai filosofi; l’abolizione della famiglia e della proprietà. Malgrado tutto ciò, anche chi non è platonico deve riconoscere che Platone è ancora attuale, non solo perché ha influenzato l’intera storia della filosofia, al punto che questa è stata considerata una serie di note al suo pensiero, e pare che ancora oggi sia il filosofo più citato di tutti, come sostiene chi si diverte con questo genere di calcoli, ma soprattutto perché ha determinato alcune svolte, dalle quali non si è più tornati indietro.
Indicare in che consiste l’attualità di Platone, però, non è facile, soprattutto perché non è facile stabilire esattamente qual è stato il suo pensiero. Non mi riferisco alla vexata quaestio – ormai, mi sembra, un po’ passata di moda – se il vero Platone sia quello dei dialoghi o quello delle «dottrine non scritte». Mi riferisco a un problema che nasce proprio dalla lettura dei dialoghi e del quale gli studiosi stanno prendendo coscienza in maniera sempre più acuta: dove sta il pensiero di Platone? In ciò che dice il Socrate della maggior parte dei dialoghi, o in ciò che dice, ad esempio, Parmenide nel dialogo omonimo, lo Straniero di Elea nel SoflSta, Timeo nel Timeo, insomma gli altri personaggi dei dialoghi? Questa relativa indeterminatezza sembra conferire al pensiero di Platone un fascino anche maggiore, perché non lo si può mai inchiodare su una posizione determinata, come ha tentato di fare per primo Aristotele, per poterlo meglio criticare.
Una prima svolta prodotta da Platone nella storia della filosofia è quella che Socrate chiama, nel Fedone, la «seconda navigazione». Il personaggio di Socrate, che qui è considerato portavoce di Platone, dopo avere raccontato che da giovane cercava di conoscere le cose con i sensi seguendo in ciò l’esempio di filosofi a lui precedenti come Anassagora – chiamati poi per questo «presocratici» –, afferma che a un certo punto gli parve necessario «rifugiarsi nei logoi e cercare in essi la verità degli enti». Che cosa sono questi logoi? Discorsi? Concetti? Idee? Ogni interpretazione è possibile. Ma certamente essi non sono più la realtà sensibile. Lo sono tra quelli che credono nella separatezza delle Idee platoniche – come Aristotele, ma anche come il «platonico» Cherniss –, tuttavia mi rendo conto che senza passare per le Idee, sia pure separate, non si sarebbe mai giunti al concetto astratto, e quindi alla dialettica, alla scienza, alla filosofia. Da allora, infatti, non si è più tornati indietro, fuorché in qualche filosofia rozza e primitiva che non merita nemmeno questo nome.
Un’altra svolta è stata la concezione del principio supremo non come Dio, o l’Essere, o l’Uno, ma anzitutto come il Bene. Ciò ha comportato tutta una serie di conseguenze a cascata. La filosofia non è più stata vista come pura conoscenza, metafisica astratta, ma come nuovo modo di vivere, come vera e propria conversione alla ricerca della giustizia, della virtù, del bene appunto, per se stessi e per gli altri: filosofia teoretica e insieme pratica, metafisica e insieme etica, ma anche politica, anzi soprattutto politica. È nata così la domanda «che cos’è la giustizia», per rispondere alla quale Platone nel suo capolavoro, la Repubblica, spiega addirittura come è fatta l’anima umana, mostrando quanto essa sia complessa, conflittuale, e come deve essere fatta la città, cioè la società politica, per essere “giusta”. Al di là degli aspetti paradossali di questa dottrina, di cui Platone stesso era perfettamente consapevole e che tuttavia hanno rivelato quale può essere l’efficacia anche storica dell’utopia, tutta la faccenda del governo dei filosofi e dell’abolizione della proprietà ha un significato profondo, imperituro. Essa significa che i governanti non devono avere interessi privati, per potersi dedicare interamente alla ricerca del bene comune. E che non devono essere solo onesti, ma anche intelligenti, cioè devono sapere qual è il vero bene e come lo si realizza. Anche gli aspetti secondari, se vogliamo chiamarli così, della Repubblica, hanno una loro grandezza, che permane immutata. Pensiamo alla grandiosa descrizione dei pericoli che corre la democrazia, quando nessuno obbedisce più ad alcuna legge, nessuno riconosce più alcuna autorità, e chi ne approfitta è solo il tiranno, che sta sempre in agguato e sa più di tutti persuadere, adulare, eccitare, sobillare, ingannare il demos. Ma pensiamo anche alla scandalosa condanna che Platone pronuncia dell’arte, della poesia in particolare, di Omero soprattutto, da lui considerato il più grande di tutti i poeti. Questa condanna dimostra che nessuno, meglio di Platone, ha capito la potenza straordinaria dell’arte e della poesia, la sua irresistibile capacità di incantare, la sua origine quasi divina, e per questo egli l’ha tanto temuta.
Allo stesso modo nessuno meglio di Platone, malgrado il suo rifugiarsi nei logoi, ha capito la potenza immane dell’eros che – come si legge nel Simposio – prima di sublimarsi nell’amore per la bellezza in sé e la bontà in sé, è amore per i bei corpi, desiderio di generare, e può diventare anche follia, tragica – ma in qualche misura anche demoniaca, che bisognerebbe tradurre con “soprannaturale”. Platone ha scandagliato per primo le profondità dell’anima umana, descrivendone i lati più oscuri, le voglie più ancestrali, ma al tempo stesso ha sentenziato che l’uomo è essenzialmente la sua anima e che questa deve cercare di liberarsi il più presto possibile del corpo, per essere felice tutta raccolta in sé stessa e assorta nella contemplazione delle Idee. Per Platone il bene, il vero Bene, non è «fragile», come ha sostenuto a proposito di Aristotele Martha Nussbaum, perché la filosofia è autosufficiente.
Nietzsche, seguito da Heidegger, ha visto nel platonismo l’emblema della metafisica intesa come nichilismo passivo, negazione della vita, evasione dalla realtà, e ha coinvolto nella sua condanna di questo platonismo anche il cristianesimo, da lui considerato una sorta di «platonismo per il popolo». Ma Nietzsche ha sempre ha avuto una grande ammirazione per Platone (come del resto per Gèsù Cristo), da lui intensamente studiato sin dalla giovinezza, mentre ha scritto invece parole crudeli all’indirizzo del povero Socrate. Anche chi non è platonico, come chi scrive qui, deve tuttavia riconoscere che il platonismo, pur interpretato nella maniera più cruda, meno accomodante, meno simpatica, cioè come affermazione che il vero mondo è un «altro mondo», ha il grande merito di mostrare, appunto, che ci può essere dell’altro, che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile. Questo è un messaggio che, forse, lascia indifferente chi in qualche modo se la spassa, ma non può lasciare indifferente chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.
Enrico Berti,Platone l’antiplatonico, articolo pubblicato in: “Il Sole-24 ore”, Domenicale del 30 dicembre 2006, p. 31.
Enrico Berti
Pensare con la propria testa?
Lezione tenuta nel Corso di Metodologia dell’insegnamento filosofico dell’Università di Padova il 31 maggio 2004. Il testo è stato pubblicato nel 2006 in: Enrico Berti, Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, pp. 281-294, cui si rimanda.
La filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.
Il titolo di questa conversazione riprende quello di un articolo di Franca D’Agostini, pubblicato nella rivista “Intersezioni” dell’agosto 2003,[1] aggiungendovi soltanto il punto interrogativo (di cui vedremo la ragione). Franca D’Agostini è la nota e intelligente autrice del fortunato libro Analitici e continentali (Milano 1997), che ha divulgato anche in Italia una contrapposizione del tutto impropria, perché costruita con due categorie tra loro eterogenee, una di tipo metodologico e l’altra di tipo geografico, ma tuttavia utile per classificare la maggior parte dei filosofi contemporanei. Tale contrapposizione è stata infatti coniata, non a caso, da un filosofo analitico, Kevin Mulligan, che l’ha lanciata, se non erro, nel Time’s Literary Supplement, contrapponendo per mezzo di essa i filosofi analitici a tutto il testo del mondo, e ha dato luogo a vari dibattiti, di cui in Italia è rimasto famoso quello sviluppato nel supplemento domenicale del “Sole-24 ore” del 1998. In quest’ultimo è intervenuto anche un altro filosofo analitico, Michael Dummett, con una perfetta illustrazione delle caratteristiche dei due tipi di filosofi, ovvero dei due stili, o modi, di fare filosofia.
Lo stesso Mulligan, in un recente saggio su John Searle, rivendica alla filosofia analitica il rifiuto del principio di autorità e il diritto a “pensare con la propria testa”, accusando i “continentali” di pensare con la testa dei filosofi del passato.[2] Egli così riprende la nota tesi di Kant, il quale nella Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, non solo indicò “il motto dell’illuminismo” nella nota esortazione “abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto!”, ma usò come equivalente a questa proprio l’espressione “pensare con la propria testa”. Dopo avere infatti osservato che pensare può essere faticoso, perché “io ho un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che per me decide quale debba essere la mia dieta, ecc., e quindi non ho bisogno di badare a me stesso. Purché solo possa pagare, non è necessario ch’io pensi; altri si assumeranno per me questa noiosa incombenza”, Kant aggiunge che tuttavia “si troveranno sempre […] delle persone che pensano con la propria testa, e che, scrollatesi di dosso il giogo della minorità, diffonderanno il sentimento d’un apprezzamento razionale del valore di ogni uomo e della sua vocazione a pensare da sé”.[3]
Kant, come è noto, faceva di questo concetto il nucleo della sua dottrina sul metodo dell’insegnamento della filosofia, secondo la quale non si deve insegnare la filosofia, ma si deve insegnare a filosofare. Già nello scritto “precritico” Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766 egli sostiene infatti che in generale “uno studente non deve imparare pensieri (Gedanken), ma deve imparare a pensare (denken)”. E, per quanto riguarda in particolare la filosofia, egli precisa: “il giovane licenziato crede che imparerà filosofia, ma questo è impossibile, perché ora deve imparare a filosofare (philosophiren)”.[4] Mentre, infatti, altre scienze, quali ad esempio la geometria, esistono già in una forma sistematica, sulla quale tutti convengono, per esempio gli Elementi di Euclide, ciò non accade assolutamente per la filosofia. “Per imparare la filosofia – scrive Kant – bisognerebbe, anzitutto, che ce ne fosse realmente una. Bisognerebbe poter mostrare un libro e dire: vedete, qui è la sapienza e la conoscenza sicura; imparate ad intenderlo e a capirlo, poi costruiteci su, e sarete filosofi. Finché non mi si mostrerà un tal libro di filosofia […], mi si permetta di dire che si abusa della capacità delle persone”. Per questo, conclude Kant, “il metodo peculiare dell’insegnamento della filosofia è zetetico, come lo chiamavano alcuni antichi (da zetein), cioè indagativo, e diventa in vari punti dommatico, cioè determinato, solo per la ragione alquanto esercitata”.[5]
La stessa posizione Kant mantiene nella Critica della ragion pura, dove scrive: “Tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia (salvo storicamente); ma, per ciò che concerne la ragione, tutt’al più si può imparare a filosofare”. E più avanti: “Non si può imparare alcuna filosofia; perché dove è essa, chi l’ha in possesso, e dove essa può conoscersi? Si può imparare soltanto a filosofare, cioè ad esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi principi generali a certi tentativi che ci sono, ma sempre con la riserva del diritto della ragione di cercare questi principi stessi alle loro sorgenti e di confermarli o rifiutarli”.[6] Qui sono interessanti la riserva circa la storia e l’accenno alle sorgenti, su cui ritorneremo, ma non c’è dubbio che viene ribadita la tesi già espressa nella Notizia, la quale rimarrà una tesi classica nel dibattito sull’insegnamento della filosofia.
Alla tesi di Kant si ispira esplicitamente l’insegnamento della filosofia nelle scuole francesi, cioè nelle scuole del Paese che, insieme con l’Italia, è certamente quello in cui la filosofia occupa lo spazio maggiore nella formazione dei giovani, collocandosi all’interno del liceo. È noto, infatti, che in Francia si insegna filosofia al liceo, anche se, a differenza che in Italia, solo nell’ultimo anno; ma in quest’anno la filosofia è sicuramente l’insegnamento più importante, che in certi indirizzi raggiunge anche le nove ore alla settimana, per cui l’ultimo anno del liceo è chiamato anche classe de philosophie. Ebbene, nei documenti ufficiali diffusi dal Ministère de l’Education nationale, si è sempre dichiarato che lo scopo dell’insegnamento della filosofia è di insegnare ai giovani à faire de la philosophie (in francese non esiste il verbo “filosofare”). A questo proposito un recente Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia parla della “dottrina ufficiosa” che ispira l’insegnamento della filosofia in Francia da più di un secolo e che si compendia nelle seguenti affermazioni: “L’insegnamento della filosofia è un insegnamento filosofico. La sua prima finalità non è che l’allievo sappia che cosa dice Platone o Cartesio, ma che apprenda a fare una riflessione filosofica con i propri mezzi e sviluppi così il suo spirito critico e la sua autonomia di giudizio”.[7] Anzi per molti anni negli ambienti scolastici francesi si è criticato il metodo italiano dell’insegnamento della filosofia, perché esso si limita esclusivamente alla storia della filosofia e non insegna minimamente a “fare della filosofia”.
Ma torniamo all’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa”. Su di essa non si può non essere d’accordo: non solo l’insegnamento della filosofia, ma l’intera educazione deve formare a pensare con la propria testa, se con questa espressione si intende l’esercizio del senso critico, lo spirito di osservazione personale, il rifiuto dei pregiudizi, la disponibilità al confronto con gli altri, e tutte le capacità di questo genere. Ma siamo sicuri che questo sia l’unico significato della suddetta espressione? A proposito di essa fa alcune interessanti considerazioni Franca D’Agostini nell’articolo sopra citato. Anzitutto ella precisa che, con tale esortazione, Kant non intendeva affermare il primato delle proprie idee e il disprezzo delle idee altrui, poiché in una lettera a Herder del maggio 1768 egli scrisse: “quanto a me, non mi afferro saldamente ad alcunché e con profonda imparzialità combatto tanto le mie opinioni quanto quelle altrui”.[8] Ma poi la stessa D’Agostini osserva molto acutamente: “il problema di fondo, nel tema del ‘pensare con la propria testa’, è che se c’è una testa, per così dire, essa difficilmente è propria o interamente propria”.[9]
Qui emerge tutta la consapevolezza critica, propria dei filosofi “continentali”, degli innumerevoli condizionamenti a cui ciascuno di noi è sottoposto: l’ambiente sociale in cui si è nati, l’educazione che si è ricevuta, la propria storia, la propria cultura, le tendenze, le aspettative, le speranze, ma anche i pregiudizi, le idiosincrasie e, soprattutto oggi, l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, della pubblicità, della moda. Una volta, al tempo di Kant, bisognava guardarsi dal principio di autorità, perché qualche autorità c’era. Oggi non si sono più autorità, quindi non c’è più alcun pericolo di essere vittime di tale principio, ma quanto più lo si rifiuta, tanto più si è vittima di altri condizionamenti. Anche i filosofi, che dovrebbero essere gli spiriti più critici, sono terribilmente vittime delle mode. Non parlo solo di abbigliamento, è evidente, anche se l’accettazione immediata e passiva della moda nell’abbigliamento è già un segno che dovrebbe suscitare qualche sospetto. Parlo delle mode culturali, intellettuali, filosofiche, quelle per cui “dopo il tale (che può essere Kant, o Marx, o Nietzsche, o Freud, o Heidegger, o Quine) non è più possibile dire che”, oppure “oggi è ormai assodato che”, o “la tal epoca è ormai finita”, per cui bisogna necessariamente essere “post” qualche cosa, “post-metafisici”, “post-cristiani”, “post-moderni”, ecc.
Ciò fu visto con grande chiarezza, come ricorda D’Agostini, da Hegel, al quale si deve un’altra tesi, non meno classica di quella di Kant, anche se non più illuministica, da far valere nel dibattito sull’insegnamento della filosofia. Hegel, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, dichiara: “La smania di pensare con la propria testa sta in ciò, che ognuno metta fuori una sciocchezza più grossa di un’altra”[10]. L’uso dell’espressione “pensare con la propria testa” può dare l’impressione che Hegel intenda polemizzare proprio con Kant, ma ciò non è vero, perché, come giustamente nota D’Agostini, la polemica è rivolta invece contro i filosofi romantici, cioè Eschenmayer e Jacobi. “Quest’oratoria profetica e scevra di concetto – scrive a proposito di essi Hegel – proclama dal tripode questo e quello circa l’essenza assoluta, ed esige che ognuno debba trovare immediatamente tutto questo nel proprio cuore. Il conoscer l’essenza assoluta diventa affare di cuore; è una folla d’inspirati a parlare, e ciascuno di essi dice un monologo, e capisce veramente l’altro solo nella stretta di mani e nel silenzio del sentimento. Quel che essi dicono, sono per lo più cose banali, se si prendon così come sono dette; il sentimento, l’atteggiamento, la pienezza del cuore son essi che debbono dare forza al discorso, – per sé non dicono nulla. Essi cercano di superarsi l’un l’altro con le trovate della fantasia, con la poesia nostalgica”. Certo, si tratta di un modo molto particolare di intendere il “pensare con la propria testa”, ma esso non è raro nemmeno tra i filosofi di oggi – non tra gli analitici, va detto, bensì proprio tra i continentali – che spesso hanno l’aria di ispirati, o di iniziati, che hanno scoperto da soli la verità e si decidono a rivelarla al volgo, evitando qualsiasi argomentazione e lasciandosi andare, nel migliore dei casi, a una serie di asserzioni del tutto ingiustificate, quando non oscure o addirittura incomprensibili.
“Per il filosofare – continua Hegel – non c’è speranza, l’onore è perduto; infatti esso presuppone un fondo comune di pensieri e di principi, esige che si proceda scientificamente o per lo meno esige opinioni. Ma ora tutto è stato riposto nella particolare soggettività; ognuno è diventato altezzoso e sprezzante verso gli altri. A questo si ricongiunge la rappresentazione del pensare con la propria testa, come se ci potesse esser pensiero che non sia tale”.[11] Evidentemente l’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa” aveva avuto successo, anche troppo, ed era stata distorta in un diritto ad esaltare la propria soggettività, la propria creatività, infischiandosi del “fondo comune di pensieri e di principi”. Le opinioni, che secondo Hegel il filosofare esige, sono quelle che devono essere messe in discussione, quelle che Kant voleva combattere, sia le proprie che le altrui, ma in un dibattito comune, in una dialogo con gli altri, il quale non sia il monologo di un ispirato, bensì la discussione di chi argomenta, di chi confuta o anche di chi dimostra.
È interessante, a questo proposito, richiamare anche le idee di Hegel sull’insegnamento della filosofia. Egli fu, come è noto, per alcuni anni rettore, cioè preside, del ginnasio di Norimberga (1808-1816), e questi furono gli anni in cui scrisse la Scienza della logica (1812-1816), cioè quelli in cui giunse ad elaborare in forma compiuta il suo sistema. Nel 1812 fu richiesto dal Regio consigliere scolastico superiore per la Baviera (una specie di ministro dell’istruzione), Immanuel Niethammer, di un parere riservato sull’insegnamento della filosofia del ginnasio. In questo parere Hegel scrisse, tra l’altro: “In generale, si distingue il sistema filosofico, con le sue scienze particolari, dal filosofare vero e proprio. Secondo la moda moderna, specialmente della pedagogia, non si deve tanto venire istruiti nel contenuto della filosofia quanto imparare a filosofare senza contenuto; ciò vuol dire, pressappoco: si deve viaggiare, viaggiare sempre, senza conoscere le città, i fiumi, i paesi, gli uomini, ecc.”.[12] Evidentemente la tesi di Kant aveva avuto successo anche in Baviera, specialmente tra i pedagogisti, anche allora nemici dei contenuti ed amici soprattutto dei metodi (nihil sub sole novum).
A questa tesi (dei pedagogisti bavaresi, più che di Kant) Hegel risponde con tre argomenti. “In primo luogo, nel conoscere una città, nel giungere poi ad un fiume, ad un’altra città, e così via, si impara senz’altro, in tal modo, a viaggiare, e non s’impara soltanto, ma si viaggia effettivamente. Così quando si viene a conoscenza del contenuto della filosofia, non si impara soltanto il filosofare, ma si filosofa anche già effettivamente”.[13] Evidentemente per Hegel, a differenza che per Kant, la filosofia da qualche parte esiste già ed è costituita, come vedremo tra poco, da un lato dal sistema delle scienze filosofiche, quello che lo stesso Hegel si accingeva ad esporre nella sua Enciclopedia, e dall’altro dalla storia della filosofia, la cui conoscenza, secondo Hegel, è già un modo per filosofare.
“In secondo luogo – continua Hegel – la filosofia comprende i più alti pensieri razionali intorno agli oggetti essenziali, comprende l’universale e il vero dei medesimi: è di grande importanza acquisire familiarità con questo contenuto, e accogliere nella propria testa questi pensieri. Il procedimento triste, meramente formale, il perenne cercare e vagare, senza contenuto, l’asistematico sofisticare e speculare, hanno come conseguenza la vacuità e la mancanza di pensieri in testa, il fatto che non si sappia nulla. La dottrina del diritto, la morale, la religione costituiscono un campo dotato di un importante contenuto; anche la logica è una scienza ricca di contenuto: quella oggettiva (Kant: trascendentale) comprende i pensieri fondamentali di essere, essenza, forza, sostanza, causa, ecc.; l’altra i concetti, i giudizi, i sillogismi, ecc., determinazioni fondamentali altrettanto importanti; la psicologia comprende il sentimento, l’intuizione, ecc.; l’enciclopedia filosofica, infine, in generale questo campo nella sua interezza”. Il riferimento al “pensare con la propria testa” continua ad essere presente, ma viene inteso come un “accogliere nella propria testa questi pensieri”, e non in polemica con Kant, il quale anzi viene citato come autore della logica oggettiva. Si noti inoltre come Hegel non proponga quale contenuto della filosofia soltanto il proprio sistema, ma anche le discipline filosofiche tradizionali, di origine addirittura aristotelica.
Una riflessione merita anche, a mio avviso, la polemica contro “il perenne cercare e vagare”, oggi tanto di moda in nome della problematicità, della criticità, dell’apertura. La filosofia deve certamente cercare, lo dice il suo stesso nome, e il suo metodo non può essere che quello “zetetico”, come diceva Kant. Questi lo chiamava anche “metodo scettico”, ma aggiungeva subito: “Esso è da distinguere del tutto dallo scetticismo, principio di una inscienza secondo arte e scienza, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza”.[14] Un cercare fine a se stesso è solo ipocrisia, perché chi cerca sinceramente, cerca per trovare, non per cercare. Chi cerca solo per cercare, non cerca, ma finge di cercare, perché non gli importa assolutamente nulla di ciò che cerca. Anche il mio maestro, Marino Gentile, diceva che la filosofia è “un domandare tutto che è tutto domandare”, ma con ciò intendeva dire che essa non contiene alcuna risposta già data, cioè presupposta, non che essa non aspira ad alcuna risposta. Anzi, a questo proposito paragonava il domandare alla potenza, ed affermava con Aristotele che più della potenza conta l’atto, e che una potenza incapace di passare all’atto non vale nulla.
Infine, ecco il terzo argomento di Hegel: “In terzo luogo, il procedere nella conoscenza di una filosofia ricca di contenuto non è altro che l’apprendere. La filosofia deve essere insegnata e appresa, al pari di ogni altra scienza. L’infelice prurito di insegnare a pensare da sé (Selbstdenken) ed a produrre autonomamente ha messo in ombra questa verità; come se, quando io imparo che cosa sia la sostanza, la causa o qualsiasi altra cosa, non pensassi io stesso, non producessi io stesso nel mio pensiero queste determinazioni, ma queste venissero invece gettate in esso come pietre”. In queste parole, forse discutibili nell’equiparazione della filosofia a tutte le altre scienze, io leggo la preoccupazione di salvaguardare il carattere professionale della filosofia, e quindi anche del suo insegnamento. Non ci si improvvisa filosofi, la filosofia non è un’attività spontanea, immediata, dilettantesca, ma è anche una professione, un sapere, che richiede una competenza, professionalità. E non è detto che questa competenza serva solo per fare filosofia: nella Facoltà di Medicina dell’Università di Padova, ad esempio, si ritiene utile da qualche anno impartire agli studenti di medicina, che non faranno mai i filosofi, alcune lezioni di filosofia: non di “filosofia della medicina”, ma di filosofia pura e semplice, in cui si spieghino, nella fattispecie, le nozioni di causa, effetto, fine, ecc.
Hegel continua la sua perorazione con un esempio che farà discutere: “Come se, quando ho imparato bene il teorema di Pitagora e le sue dimostrazioni, non fossi io stesso a conoscere questo teorema e a dimostrarne la verità; nella misura in cui lo studio filosofico è in sé e per sé un’attività autonoma (Selbsttun, un fare da sé), esso è un apprendere; l’apprendere una scienza già esistente, formata”. Questa sembra essere proprio una risposta a Kant, il quale osservava che la filosofia non esiste come una scienza già bell’e fatta, che si possa apprendere da un libro, e vedeva in questo la sua differenza dalla matematica, in cui rientra appunto il teorema di Pitagora. E non si può dargli torto, se per scienza si s’intende una scienza come la matematica. Ma non è alla matematica che pensa Hegel, malgrado il suo esempio. Egli infatti aggiunge: “Questa è un patrimonio costituito da un contenuto acquisito, elaborato, formato: questo bene ereditario disponibile dev’essere acquistato dall’individuo, ossia, venire appreso. L’insegnante lo possiede: egli lo pensa dapprincipio, e dopo di lui lo ripensano gli allievi. Le scienze filosofiche contengono dei propri oggetti, pensieri universali, veri; esse sono il prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi; questi pensieri veri superano ciò che un giovane non istruito produce col proprio pensiero di quanto quella massa di lavoro geniale supera la fatica di questo giovane”. Dunque è nel “prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi”, cioè nella storia della filosofia, che va ricercata la filosofia: in questo, come abbiamo visto, anche Kant era d’accordo, quando, dopo avere affermato che “tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia”, precisava “salvo storicamente”.
Certo, la storia della filosofia che contiene in sé la filosofia non è quella che lo stesso Hegel ha definito “la filastrocca di opinioni”, da Talete a giorni nostri, che ci raccontano i (cattivi) manuali o le storie della filosofia di impostazione dossografica. Queste non possono che produrre, nei giovani, il più completo disorientamento, e quindi lo scetticismo. La storia della filosofia che contiene in sé la filosofia è costituita dalle opere dei grandi filosofi, dalle quali anche i giovani che frequentano il liceo possono attingere qualche briciola di filosofia, leggendone qualche pagina, come leggono qualche pagina della grande poesia o della grande letteratura. In tal modo essi possono, almeno una volta nella vita, fare esperienza di che cosa significa affrontare un problema di senso, o di verità, in modo razionale, cioè senza fare ricorso ad una tradizione familiare, o ad una fede religiosa, o ad un’ideologia politica, ma con argomentazioni, con discussioni a favore e contro, con domande, risposte e confutazioni.
Ma vediamo anche che cosa pensava Hegel a proposito dell’insegnamento della filosofia nell’università. Sempre da Norimberga, nell’agosto del 1816, quando ormai stava per essere chiamato alla cattedra di filosofia dell’università di Heidelberg (ma già aveva insegnato, come Privat-dozent, all’università di Jena), Hegel scrisse al Regio consigliere, questa volta del governo di Prussia, Friedrich von Raumer, una lettera sull’insegnamento della filosofia nell’università, nella quale esordisce così: “Comincio subito come in generale si potrebbe cominciare questo discorso, poiché può apparire una cosa molto semplice, con l’osservazione che per l’insegnamento della filosofia dovrebbe valere soltanto quello che vale per l’insegnamento delle altre scienze”.[15] Per capire il senso di queste parole bisogna aver vissuto la situazione del professore di filosofia nell’università, continuamente tenuto a dover giustificare, presso i suoi colleghi delle facoltà scientifiche, la sua presenza, il suo diritto al riconoscimento di una dignità scientifica, e quindi a spazi adeguati, finanziamenti adeguati, posti di collaboratore adeguati. Se tutto ciò è invece incerto, o in discussione, è per colpa di quanti presentano la filosofia non come un sapere, ma come un “pensare con la propria testa”. Per fare questo, infatti, che bisogno c’è di spazi, di fondi, di posti? Basta avere una testa.
Forse anche al tempo di Hegel c’erano filosofi che giustificavano i sospetti dei propri colleghi scienziati, poiché nella citata lettera egli scrive: “Abbiamo visto dare una maggiore ampiezza alle idee generali con l’aiuto della fantasia, che mescolava alto e basso, vicino e lontano in un modo brillante ed oscuro (sottolineatura mia), spesso con profondità ed altrettanto spesso con superficialità assoluta, ed inoltre utilizzava quelle regioni della natura e dello spirito che sono per se stesse oscure ed arbitrarie. Un cammino opposto, diretto anch’esso ad una maggiore estensione, è quello critico e scettico, che ha nel materiale esistente una materia nella quale esso procede ma che d’altronde vanifica, traendone dispiacere e risultati negativi, fonti di noia. Se questo cammino serve pure in qualche modo ad esercitare l’acume, mentre il mezzo della fantasia vorrebbe invece sortire l’effetto di svegliare un effimero fermento dello spirito – ciò che si chiama anche edificazione – e di accendere di per sé nei pochi l’idea universale, nessuna di queste maniere fa tuttavia ciò che va fatto, e che è lo studio della scienza ”.[16]
L’insegnamento della filosofia nell’università (non stiamo più parlando del ginnasio o del liceo) dunque non deve né edificare, né semplicemente esercitare l’acume: altre discipline possono svolgere questo compito, forse meglio della stessa filosofia. Quanto al “modo brillante ed oscuro” con cui alcuni insegnano filosofia nell’università, Hegel coglie perfettamente la disonestà di questo atteggiamento, che per fare effetto si sottrae ad ogni possibilità di controllo, ed approfitta dell’inferiorità culturale degli studenti per épater. Piero Martinetti diceva, come è noto, che la chiarezza è l’onestà del filosofo, perché permette a tutti di valutare “con la propria testa” se ciò che il filosofo dice risponde a verità, o è minimamente convincente. Quando invece un filosofo è oscuro, chi può valutare ciò che egli afferma? La chiarezza è l’analogo, per il filosofo, di ciò che è il teatro anatomico per l’anatomista: in esso tutti possono constatare con i propri occhi, a distanza ravvicinata, se ciò che il docente afferma corrisponde a ciò che si vede.
Ma nell’università c’è un altro rischio che Hegel chiaramente denuncia, quello per cui ciascun professore vuole avere e insegnare il suo proprio sistema. “È diventato un pregiudizio – scrive Hegel sempre nella lettera a von Raumer – , e non solo nello studio filosofico, ma anche nella pedagogia – e in questa ancor più grave – che il pensare indipendente (Selbstdenken) debba essere esercitato e sviluppato, in primo luogo, nel senso che esso non dipenda dall’elemento materiale e, in secondo luogo, come se l’imparare fosse opposto al pensare indipendente […]. Secondo un errore comune, sembra che su un pensiero il sigillo dell’indipendentemente pensato (des Selbstgedachten) sia impresso solo quando esso si scosti dai pensieri degli altri uomini […]. In altre parole, è nata da qui la smania per cui ciascuno vuole avere un suo proprio sistema, e per cui un’idea è considerata tanto più originale ed eccellente quanto più è insulsa e folle, poiché essendo tale essa mostra al massimo la propria originalità e diversità dai pensieri degli altri”.[17]
L’errore a cui Hegel allude è quello di credere che “pensare con la propria testa” voglia dire avere un proprio sistema filosofico, necessariamente diverso da quelli già pensati da altri, e che il valore principale in filosofia non sia la verità, ma l’originalità. Naturalmente l’ammonizione a non cadere in questo errore vale sia per i docenti che per gli studenti. Ai docenti bisognerebbe inoltre ricordare quanto ebbe a scrivere Max Weber nella sua famosa conferenza su La scienza come professione, cioè che “la cattedra non è per i profeti e i demagoghi. Al profeta e al demagogo è stato detto: ‘Esci per le strade e parla pubblicamente’. Parla, cioè, dov’è possibile la critica. Nell’aula, ove si sta seduti di faccia a i propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza del senso di responsabilità approfittare di questa circostanza – per cui gli studenti sono obbligati dal programma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire a controbatterlo – per inculcare negli ascoltatori le proprie opinioni, invece di recar loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche”. E più oltre: “L’insegnante universitario deve desiderare e proporsi di giovare con le sue conoscenze e i suoi metodi”.[18]
Contro l’originalità a tutti i costi, che spesso si trasforma in oscurità e incapacità di comunicare, Hegel osserva: “La filosofia ottiene la possibilità di essere appresa, per mezzo della sua determinatezza, con tanto maggiore precisione quanto più essa diventa, in tal modo soltanto, comunicabile e capace di divenire un bene comune. Come essa, da una parte, vuole essere oggetto di uno studio particolare, e non è già per natura un bene comune per il solo fatto che ogni uomo in generale è dotato di ragione, così la sua universale comunicabilità le toglie anche l’apparenza – che, tra le altre, essa ha avuto negli ultimi tempi – di essere un’idiosincrasia di alcune menti trascendentali”.[19] Da un lato, insomma, non si deve credere che ogni uomo sia filosofo per il solo fatto di possedere la ragione, perché la filosofia, come abbiamo visto, è un sapere ed esige una precisa competenza, una professionalità; dall’altro lato, essa è un sapere comunicabile, non riservato soltanto a pochi iniziati, o a menti dotate di un quoziente intellettuale eccezionale, ma deve essere resa accessibile a tutti, tramite – ovviamente – un adeguato lavoro di studio e di apprendimento.
Infine contro la concezione della filosofia come edificazione Hegel scrive: “Come scienza propedeutica la filosofia ha in particolare da provvedere all’educazione (Bildung) e all’esercizio formale del pensiero; essa può far ciò solo per mezzo di un completo allontanamento dal fantastico, per mezzo della determinatezza dei concetti e di un procedimento conseguente e metodico; essa deve poter procurare quell’esercizio in una misura superiore alla matematica poiché non ha, come questa, un contenuto sensibile. Ho menzionato prima l’edificazione che spesso ci si attende dalla filosofia; a mio parere, anche quando viene presentata alla gioventù essa non deve mai essere edificante. Ma deve soddisfare ad un bisogno affine […]; compito della filosofia dev’essere giustificare ciò che ha valore per la conoscenza, coglierlo e comprenderlo in pensieri determinati e quindi proteggerlo da oscure deviazioni”[20].
Ebbene, l’unica conoscenza filosofica su cui esista l’accordo universale tra i filosofi è la conoscenza della storia della filosofia. Perciò anche in Francia, recentemente, si è messa in discussione la “dottrina ufficiosa”, cioè tradizionale, secondo la quale bisogna insegnare a fare della filosofia, come risulta dal già citato Manifesto. Tale discussione ha portato a proporre tutta una serie di nuovi “cantieri”, ovvero criteri, per l’insegnamento della filosofia. Tra i primi ce n’è subito uno che recita: “Riconoscere che l’imparare a filosofare implica un apprendimento e che insegnare la filosofia è un mestiere”[21]. Rimane dunque lo scopo della “dottrina ufficiosa”, ma si riconosce che, per attingerlo, è necessario apprendere prima qualche cosa, cioè un insieme di conoscenze. Di conseguenza l’insegnante di filosofia – si sta parlando del liceo – prima di essere un filosofo, deve essere un professionista che sa trasmettere tale insieme di conoscenze. Infatti il “cantiere” continua dicendo: “Non è privo di controindicazioni identificare puramente e semplicemente il professore di filosofia con un filosofo. Chi fa il filosofo davanti ai suoi allievi non dà loro una formazione, perché li tratta come i discepoli che non saranno mai”.
Un altro “cantiere” del nuovo manifesto recita: “Riconoscere che la filosofia non serve soltanto a filosofare”, e spiega: “ L’insegnamento della filosofia non potrebbe giustificare la posizione che occupa oggi – e ancor meno la sua presenza nei corsi scolastici e universitari – se non potesse mostrare la sua utilità nella formazione intellettuale e culturale di tutti gli allievi”.[22] E un altro ancora recita: “Formarsi alla filosofia significa apprendere a pensare attraverso l’appropriazione di conoscenze filosofiche e non-filosofiche. Si è usato ed abusato della formula kantiana secondo cui non si può apprendere la filosofia ma solo a filosofare”, e spiega: “Per esempio, se il corso di filosofia è organizzato per problemi, questi non possono in modo serio essere affrontati dagli allievi se non attraverso la conoscenza delle principali opzioni filosofiche da cui derivano e attraverso la padronanza progressiva delle distinzioni concettuali che consentono di dar loro un senso. Queste opzioni e queste distinzioni non hanno niente di naturale o di spontaneo. È nella storia della filosofia che esse sono state prodotte ed è solamente lì che possono essere ritrovate. Non si può sfuggire alla domanda: che cosa gli allievi che si accostano al filosofare devono conoscere della storia della filosofia?”.[23]
Nel leggere queste parole si ha l’impressione di trovarsi davanti ad una vera e propria ritrattazione di tutte le critiche che da parte francese sono state rivolte alla scuola italiana ed alla preminenza in essa data all’insegnamento della storia della filosofia. Certo, il metodo “italiano” di insegnare filosofia nei licei non è esente da critiche, specialmente a causa delle deformazioni che i programmi originari della riforma Gentile hanno subito ad opera dei decreti De Vecchi, della conseguente introduzione dei manuali di storia della filosofia e della progressiva sostituzione della lettura dei classici con la “filastrocca di opinioni” menzionata sopra. Contro queste deformazioni ha inteso andare la relazione della Commissione Brocca, quando ha indicato nella lettura dei testi il momento fondamentale e caratterizzante dell’insegnamento della filosofia, dove per “testi” ovviamente si intendono – purtroppo c’è bisogno di precisarlo – le opere dei filosofi, possibilmente dei “grandi” filosofi.
Qualcuno obietterà che non sta scritto da nessuna parte quali sono i “grandi” filosofi e che la loro identificazione dipende dal tipo di filosofia che si professa. Ciò non è vero: come in letteratura esistono i “grandi” poeti, e a scuola si fanno leggere questi, così in filosofia esistono i “grandi” filosofi, cioè i classici, quelli che ritornano continuamente, quelli di cui non si può fare a meno. La loro esistenza si tocca con mano proprio quando si insegna la filosofia contemporanea. Per esempio all’università la maggior parte degli studenti vogliono occuparsi di filosofi contemporanei. Heidegger, naturalmente, è uno di quelli che vanno per la maggiore. Ma quando gli studenti ne prendono in mano le opere, si accorgono che Heidegger non fa che parlare di Platone e di Aristotele, di Kant e di Hegel (per non dire dei presocratici e di Nietzsche), e che non si capisce nulla di Heidegger se non si conoscono questi altri filosofi. Per questo la Commissione Brocca aveva indicato come autori obbligatori Platone, Aristotele, Kant e Hegel, scatenando una ridda di proteste, specialmente da parte dei filosofi analitici, i quali rivendicavano l’importanza degli inglesi (Locke, Hume, Mill). Ebbene, aggiungiamo pure qualche inglese, per far contenti gli analitici, e qualche francese (Descartes, Pascal), per far contenti i francesi (ma allora anche Vico), e qualche santo (Agostino, Tommaso), per far contenti i cattolici. In ogni caso, restiamo ben lontani dalla “filastrocca di opinioni” del manuale.
Non mi addentro nel problema di come leggere i classici, su cui esiste tutta una letteratura. L’importante è anzitutto capirli, realizzando quella che Gadamer chiamava la “fusione di orizzonti”, e poi discuterli, cioè metterli in questione e, se necessario, criticarli. Mentre sulla prima operazione concordo con gli ermeneutici, che oggi sono la maggioranza dei “continentali”, sulla seconda concordo con gli “analitici”, che discutono con i classici come si fossero nostri contemporanei. Le due operazioni sono entrambe necessarie e si riassumono in quell’attività che Aristotele per primo, credo, definì con un verbo che è rarissimo incontrare nella letteratura greca, cioè sumphilosophein, “confilosofare”, fare filosofia insieme. Facendo rientrare anche l’amicizia (philia) tra gli ingredienti che costituiscono la felicità, Aristotele concluse infatti la sua grande trattazione di questa virtù (due interi libri dell’Etica Nicomachea) dichiarando che, per gli amici, cioè per le persone che si vogliono bene, la cosa più desiderabile è fare insieme le cose in cui ciascuno maggiormente identifica il proprio essere, ossia ciò per cui desidera vivere: per i bevitori bere insieme, per i giocatori giocare insieme, per i patiti di ginnastica o per i cacciatori fare ginnastica insieme o andare a caccia insieme, per i filosofi fare filosofia insieme[24]. E chi, per un filosofo, può essere più amico dei grandi filosofi? Quindi facciamo filosofia insieme a Platone o ad Aristotele, a Kant o a Hegel, a Hume, a Wittgentsein o a Heidegger, leggendo e discutendo insieme le loro opere.
Non si tratta, dunque, di apprendere la filosofia da un unico libro che la contenga tutta già bell’e fatta, come temeva Kant: la filosofia non è la geometria (per questo l’esempio del teorema di Pitagora, portato da Hegel, non è il più calzante), cioè non è un discorso dotato di propri principi, a partire dai quali si possano dimostrare dei teoremi. La filosofia, come diceva Hegel, non ha il vantaggio di poter presupporre il proprio oggetto e il proprio metodo, cioè non ha principi. Essa mette in questione tutto, è un “domandare tutto che è tutto domandare”, ma tuttavia non è stata inventata né oggi né ieri, né ciascuno può inventarla da sé. Essa esiste già da tempo e va quindi cercata. Ma bisogna cercarla là dove essa si può trovare, cioè nelle opere dei grandi filosofi, e bisogna imparare a filosofare insieme con loro, cioè partecipando alla loro ricerca. Anche questo è un metodo “zetetico”, come quello voluto da Kant.
Se posso tentare di riassumere l’intero discorso in poche parole, distinguerei ancora una volta l’insegnamento della filosofia nel liceo dall’insegnamento della filosofia nell’università. Nel liceo la filosofia viene insegnata a tutti, anzi molti di noi auspicano che venga insegnata anche negli ex istituti tecnici, in modo che tutti i ragazzi italiani possano fare esperienza, almeno una volta nella vita, di che cosa significa affrontare un problema di senso in modo razionale. Ma dove la filosofia viene insegnata a tutti, non si può pretendere che tutti diventino filosofi. Quindi la filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.
Enrico Berti
[1] F. D’Agostini, Pensare con la propria testa. Un problema metafilosofico e le sue implicazioni filosofiche, “Intersezioni”, 23, 2003, pp. 271-290.
[2] K. Mulligan, Searle, Derrida and the Ends of Phenomenology, in B. Smith (ed.), The Cambridge Companion to Searle, Cambridge 2003.
[3] I. Kant, Scritti sul criticismo, Roma-Bari 1991, pp. 5-6.
[4] E. Kant, Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766, in Vega Scalera, L’insegnamento della filosofia dall’unità alla riforma Gentile, Firenze 1990, doc. 9, sez. 52.
[6] E. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, riveduta da V. Mathieu, Bari 1959, pp. 649-650.
[7] Cf. ACIREPH (Association pour la création des Instituts de Recherche sur l’Enseignement de la Philosophie), Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia, per un possibile confronto con l’Italia, trad. di M. Trombino, in S. Martini (a cura), Per un laboratorio di didattica della filosofia, Roma 2004, pp. 89-114, spec. p. 101.
[8] I. Kant, Epistolario kantiano,Genova 1990, p. 54.
[12] G. W. F. Hegel, La scuola e l’educazione. Discorsi e relazioni (Norimberga 1808-1816), a cura di L. Sichirollo e A. Burgio, Milano 1985, p. 105 (corsivi nel testo).
Sembrava che la scienza moderna avesse confutato Aristotele per sempre. In realtà, oggi le sue idee sono tornate in auge in tanti modi: come l’irreversibilità del tempo di I. Prigogine, l’unità mente-corpo o il continuo matematico in R. Thom. Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni.
La fortuna di Aristotele nella storia della cultura si è sviluppata a periodi alterni rispetto alla fortuna di Platone. Mentre Platone fu amato soprattutto nella tarda antichità, dai filosofi cristiani e dai neoplatonici, e poi dagli umanisti del Rinascimento, Aristotele fu riscoperto dai musulmani nel Medioevo e, per influenza di questi, dai filosofi cristiani della Scolastica, che lo chiamarono «il Filosofo» per antonomasia o, con Dante, «il maestro di color che sanno». Il califfo al-Mamun, regnante a Baghdad nel IX secolo, dichiarò addirittura di aver visto Aristotele in sogno e di averlo sentito proclamare la verità fondamentale dell’Islam, cioè che c’è un solo Dio. I più grandi filosofi musulmani, come l’arabo al-Kindi, il turco al-Farabi, il persiano Ibn Sina (Avicenna) e l’andaluso Ibn Rushd (Averroè), furono tutti aristotelici. Altrettanto si può dire di filosofi cristiani come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, ma anche di Giovanni Duns Scoto e di Guglielmo di Occam. Indubbiamente musulmani e cristiani – ma anche ebrei come Mosè Maimonide – videro nel pensiero di Aristotele, interpretato attraverso il neoplatonismo, il sostegno più solido, cioè più “scientifico”, alle rispettive teologie. Così Aristotele divenne, senza sua colpa, il filosofo dei teologi. Nel Rinascimento gli umanisti riscoprirono Platone, di cui rifondarono a Firenze l’Accademia, ma Aristotele rimase nelle università, in tutte le università europee, di cui costituì il fondamento filosofico. Se Lutero insultò Aristotele, da lui visto come il filosofo della Scolastica, il suo allievo e continuatore Melantone ne fece il maestro delle università protestanti dell’intera Germania. La nascita della scienza moderna, con Galilei e Descartes, determinò nel Seicento l’eclissi della fisica e della cosmologia aristoteliche, ma la logica aristotelica continuò a dominare l’insegnamento universitario almeno fino a Kant, il quale dichiarò – anche se a torto – che dopo Aristotele la logica generale, cioè formale, non aveva fatto alcun progresso. Anche la metafisica di Aristotele riscosse nell’Ottocento l’ammirazione di Hegel, che vide in essa la vera logica della filosofia aristotelica, ma fu sfruttata anche dai critici di Hegel, cioè Feuerbach, Marx e Kierkegaard, che trovarono in essa gli argomenti con cui criticare Hegel. Non parliamo poi di Brentano, che insegnò Aristotele a Husserl, a Meinong, a Twardowski, a Freud e, da postumo, a Heidegger. Nell’Ottocento ebbe una breve eclissi l’etica di Aristotele, temporaneamente soppiantata dall’etica di Kant e poi dall’utilitarismo e dalle scienze umane (antropologia, psicologia, sociologia). Ma quando, a metà del Novecento, ci si rese conto dell’incapacità delle scienze umane di dare giudizi di valore e quindi di orientare la prassi, venne riscoperta l’etica aristotelica, anzi la «filosofia pratica» di Aristotele, intesa come forma di razionalità non scientifica e tuttavia autentica, capace di orientare la prassi. Di qui la valorizzazione della “saggezza” a opera di Gadamer e della sua scuola, delle virtù in generale da parte di McIntyre e dei comunitaristi, della nozione di eudaimonia come piena realizzazione delle capacità umane da parte di Martha Nussbaum e persino di un economista come Amartya Sen. Ma con la filosofia pratica di Aristotele è stata riscoperta anche la sua filosofia politica, che indica nella naturalità della polis la possibilità di un superamento dello Stato moderno ormai manifestamente in declino per la perdita dell’autosufficienza. Un’utilizzazione della politica aristotelica nella direzione di una società politica multinazionale si trova nel cosiddetto «gruppo di Chicago», formato dal cattolico J. Maritain, dal protestante R.M. Hutchins, dall’ebreo M.J. Adler e da altri, autori nel 1951 di un progetto di costituzione mondiale. La metafisica di Aristotele; oltre a rimanere alla base del tomismo, sia pure addomesticata secondo le esigenze della fede cattolica, continua a ispirare, con la sua dottrina delle categorie, della polisemia dell’essere, del cosiddetto focal meaning, gran parte della filosofia analitica anglo-americana, a cominciare dalla Scuola di Oxford. Ma ciò che è più sorprendente è la ripresa di alcuni aspetti della fisica aristotelica, quali la teoria del continuo a opera del matematico R. Thom e la teoria della irreversibilità del tempo a opera di Ilya Prigogine. Sempre in tema di scienza, la biologia di Aristotele non ha mai conosciuto alcuna eclissi, suscitando l’ammirazione di C. Darwin nell’Ottocento e di Max Delbrück, di Ernest Mayr, di François Jacob nel Novecento. E, sempre in tema di scienza, la psicologia di Aristotele, cioè la sua concezione dell’anima non come realtà a sé, ma come capacità del corpo di vivere e di funzionare a diversi livelli, è stata vista da molti come la soluzione più convincente del cosiddetto Mind-BodyProblem, per esempio da Hilary Putnam, che ha intitolato la prima parte del suo Words and Life (1994) «Aristotele dopo Wittgenstein».
Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni Di fronte a questa massiccia presenza nella filosofia contemporanea fanno sorridere le accuse, rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni, di avere concepito la metafisica come «onto-teologia», di avere dimenticato l’Essere e simili amenità. Del resto, uno dei più intelligenti filosofi post-moderni, Gianni Vattimo, malgrado le sue origini heideggeriane, nella sua autobiografia (Non Essere Dio, 2006) dichiara: «L’Essere non è altro che questo: il senso della parola “essere” nella storia della nostra lingua e nell’uso che ne facciamo» (pag. 133). Esattamente come sosteneva Aristotele.
Enrico Berti, La rinascita di Aristotele, pubblicato in «Il Sole-24 Ore», 10 dicembre 2006, p. 41.
Aristotele non era un teologo
Aristotele è senza dubbio il filosofo antico più utilizzato dai teologi cristiani e musulmani come base filosofica per la loro visione monoteistica della realtà. I cristiani dapprima privilegiarono Platone e il neoplatonismo – si veda il caso notissimo di Agostino –, ma poi, al seguito dei musulmani, che avevano fatto di Aristotele una specie di secondo Maometto, ne fecero anch’essi “il Filosofo” per eccellenza (per esempio Tommaso d’Aquino) e «il maestro di color che sanno» (Dante). È noto che, secondo una tradizione araba, Aristotele sarebbe apparso in sogno al califfo al-Mamun e gli avrebbe detto: «Il tuo dovere è dichiarare l’unicità di Dio», cioè precisamente la verità fondamentale dell’Islam. I musulmani videro infatti nel primo motore immobile, di cui Aristotele dimostra la necessità nel libro XII della Metafisica, l’unico Dio, creatore e signore del cielo e della terra, e quindi interpretarono questo libro come una specie di teologia, seguendo del resto in questo i commentatori greci tardo-antichi. A dire il vero essi dovettero trovare un po’ scarse le indicazioni teologiche fornite da Aristotele nel libro in questione, perché pensarono di confezionare un’opera intitolata Teologia di Aristotele, desumendone il contenuto dalle opere ben più ricche, in questo senso, di Plotino. E i cristiani furono tratti in inganno da questo falso, confermandosi nell’idea che Aristotele fosse il creatore della teologia naturale, o razionale. Dante, da sommo poeta qual era, riuscì a presentare il Motore immobile, che «muove in quanto amato», come «l’Amor che move il sole e l’altre stelle». Naturalmente le differenze tra il primo motore immobile di Aristotele e il Dio della Bibbia, concordemente adorato da cristiani e musulmani, erano sotto gli occhi di tutti: ma esse divennero un pretesto per attaccare Aristotele, accusato di avere professato un concetto di Dio troppo astratto, meccanico, impersonale, egoista (il mio professore di filosofia antica, Carlo Diano, parlava con scherno del Dio di Aristotele «che si guarda la pancia»). In tale opera di denigrazione si scatenò una nobile gara fra cristiani e musulmani, che toccò i suoi vertici in campo musulmano col teologo al-Gazali, nemico dei filosofi aristotelizzanti, e in campo cristiano con Lutero, noto per avere ricoperto il povero Aristotele degli insulti più feroci (ma già Petrarca si era lasciato un po’ andare). Ancora oggi i musulmani e i cristiani integralisti non possono soffrire il “Motore immoto” di Aristotele, dichiarando che tale espressione fa pensare a un autocarro in panne e opponendogli, con Pascal, «il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo». Solo da pochi anni studiosi benemeriti hanno ristabilito la verità storica, mostrando che Aristotele non voleva affatto essere un teologo, che per lui la “teologia” non era una disciplina filosofica, ma l’insieme dei miti sugli dèi narrati dai poeti, e che gli dèi per lui erano semplicemente dei «viventi immortali e felici», i quali si distinguono dagli uomini perché questi sono, al contrario, mortali e infelici. Esemplare è stato in questo senso il libro di Richard Bodéüs, Aristote et la théologie des vivants immortels (Montréal 1992). A risultati analoghi sono giunti i contributi pubblicati nel volume della rivista «Humanitas» (4/2005) sotto il titolo Dio e il divino nella filosofia greca, a cura di Maurizio Migliori e Arianna Fermani, ma soprattutto il bel libro di Barbara Botter, Dio e Divino in Aristotele, uscito nella collana “Intemalional Aristotle Studies”, diretta da Carlo Natali (Academia Verlag 2005). Quest’ultimo dimostra infatti con argomenti convincenti che in Aristotele e nei filosofi “pagani” in generale il termine “dio” è usato non come nome proprio, e nemmeno prevalentemente come sostantivo, bensì come attributo, o predicato, avente la funzione di indicare un grado di eccellenza in una scala ordinata di enti. Esso pertanto può essere attribuito agli dèi della religione tradizionale, ma anche agli astri, al mondo stesso nel suo insieme, all’intelletto umano, e anche al primo motore immobile. Ma in nessun caso dovrebbe essere scritto con l’iniziale maiuscola e senza articolo, come se fosse un nome proprio, bensì sempre con la minuscola e l’articolo, cioè “il dio”, come diciamo “l’uomo” o “il cavallo”. Ovviamente in un contesto monoteistico si scriverà “Dio” senza articolo. Se questa regola venisse seguita più in generale, si eviterebbe l’uso fastidioso di scrivere la parola con la maiuscola o la minuscola per mostrare che si crede o non si crede in Dio. Una conferma a queste ricerche viene anche dalla pubblicazione, per la prima volta in traduzione italiana, di un’opera nota solo agli specialisti, le Divisioni, tramandate come opera di Aristotele da alcuni manoscritti e, in versione un po’ diversa, da Diogene Laerzio, a cura di Cristina Rossitto, che ne ha fornito anche un’ampia introduzione e un accurato commento (Bompiani 2005). Quest’opera è emblematica dell’uso che la tarda antichità fece di Aristotele. È molto probabile, infatti, che essa risalga, nel suo nucleo fondamentale, proprio ad Aristotele, come hanno sostenuto anche W.D. Ross e O. Gigon, anzi all’Aristotele giovane, ancora membro dell’Accademia platonica, come ipotizza Rossitto. Ma non c’è dubbio che vi hanno messo le mani anche altri autori, cristiani o comunque teisti, come risulta inequivocabilmente da alcuni passi. In essa si parla infatti degli dèi come di viventi immortali, a cui sono dovuti onori e pratiche di culto e ai quali appartengono beni specifici, quali l’eternità, e beni comuni anche agli uomini, quali l’eccellenza e la bellezza, ma non altri beni puramente umani quali la temperanza, il coraggio e la giustizia. In un passo di essa, tuttavia, come esempio di viventi immortali vengono citati non gli dèi, bensì gli angeli, specie in tale veste del tutto sconosciuta ad Aristotele, ma ben nota ai seguaci della Bibbia, che non potevano ammettere l’esistenza di una molteplicità di dèi.
Enrico Berti, Nuovi studi dimostrano che Aristotele non era un teologo, pubblicato in: Domenicale de Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2006, p. 16.
Migliori e A. Fermani (a cura di), «Dio e il divino nella filosofla greca», “Humanitas”, LX (2005), n. 4. pp. 658-920.
B. Botter, «Dio e Divino in Aristotele», Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, pp. 306.
Aristotele ed altri autori, «Divisioni», a cura di C. Rossitto, Bompiani, Milano 2005, pp. 526.
«Platone – […] la ricchezza non ha nulla a che fare col bene della città. Mi sembra di avere portato argomenti abbastanza chiari a questo proposito nella Repubblica» (p. 20).
«Aristotele – Le elargizioni di denaro fatte per sedurre la moltitudine sono l’uso peggiore che si può fare della ricchezza. Esse producono infatti nei cittadini un piacere di breve durata e non portano alcun contributo permanente al bene comune […]» (p. 25).
«Aristotele – […] la sazietà, come dice il proverbio, genera prepotenza, mentre la mancanza di cultura, accompagnata da molti mezzi, genera stoltezza. In effetti, per coloro che sono di poco valore nelle cose che riguardano l’anima, né la ricchezza, né la forza, né la bellezza sono dei beni […]» (p. 55).
«Aristotele – Bisogna poi precisare che l’avarizia non consiste solo nello spendere troppo poco, ma anche nel desiderare troppo il denaro, nell’anteporre la ricchezza a qualunque altra cosa, nell’impegnare tutta la propria vita nell’unica attività del far soldi. Intesa in questo senso, l’avarizia, o meglio l’avidità di denaro, è oggi il vizio forse più diffuso» (p. 61).
«Aristotele – […] I bisogni umani, per natura, sono limitati, come risulta dal fatto che uno non può mangiare più di tanto, […] eccetera. Ora, l’arte di procurarsi i beni necessari a soddisfare questi bisogni è un’arte secondo natura, cioè giusta, buona, morale. Se invece uno vuole procurarsi una quantità di beni illimitata, va contro la stessa natura dell’uomo, e la sua arte sarà un’arte contro natura, cioè ingiusta, immorale. Teofrasto – Ma come è nata, Aristotele, quest’arte contro natura e immorale che chiamiamo crematistica? Aristotele – Essa è nata da un fatto del tutto naturale, cioè lo scambio dei beni. Poiché non tutti sono in grado di fare tutto, come spiega bene Platone nella Repubblica, gli uomini che abitano la città si distribuiscono i compiti, e l’uno fa il contadino, l’altro fa il calzolaio, il terzo fa il sarto, e così via. Ciascuno di questi produce un bene, o un servizio, in misura superiore a quella di cui ha bisogno per la sua famiglia, mentre non produce altri beni di cui pure ha bisogno. Nasce così la necessità di scambiarsi le merci: chi produce un certo bene in eccesso, ne dà una parte a chi non lo produce ma ne ha bisogno, per avere in cambio da lui ciò di cui ha bisogno lui e che l’altro produce in eccesso. Questo fa sì che ogni bene prodotto abbia, per così dire, due valori, un valore d’uso, che è quello per cui viene usato, e un valore di scambio, che è quello per cui viene scambiato. Un tale scambio è del tutto naturale, quindi è giusto e morale. Teofrasto – E come accade che da questo scambio naturale e giusto nasca la crematistica contro natura e immorale? Aristotele – Per comprenderlo, bisogna fare attenzione al mezzo di cui gli uomini si servono per facilitare lo scambio, cioè il denaro, la moneta. Questa infatti è un oggetto equivalente a qualunque possibile merce, perciò può essere usata al posto di qualsiasi merce, quando la merce non sia disponibile. Supponiamo che io abbia bisogno di un paio di scarpe, il cui valore è pari a quello di un sacco di grano, mentre il fabbricante di scarpe ha bisogno del grano. In luogo di questo io darò al fabbricante di scarpe una quantità di denaro pari al valore delle scarpe, e anche del sacco di grano, col quale egli potrà procurarsi il grano da chi lo produce. Questo è l’uso naturale, e quindi giusto, del denaro. Se io, invece, non ho bisogno di scarpe, ma le acquisto ugualmente pagando una certa quantità di denaro, allo scopo di rivenderle in cambio di una quantità di denaro maggiore, allora il fine dello scambio non sarà più quello di soddisfare un mio bisogno, ma sarà semplicemente quello di procurarmi una quantità maggiore di denaro. In questo caso lo scambio non sarà più naturale, ma sarà contro natura. La crematistica nasce quando, in luogo di scambiare merce con denaro, per ottenere altra merce, si scambia denaro con merce per ottenere altro denaro. Io mi sono spiegato con un esempio molto banale. Ma se tu moltiplichi questo tipo di scambi in quantità smisurata, vedi che nasce un’attività ugualmente smisurata, consistente nel cercare di procurarsi denaro all’infinito. In questo modo la ricchezza, costituita dal denaro, non è più il mezzo necessario a soddisfare i bisogni propri o della propria famiglia, ma diventa essa il fine, e questo è innaturale, quindi ingiusto e immorale. La cosa è ancora più evidente nella pratica dell’usura, dove non si scambia denaro con merce, ma denaro con denaro, cioè si presta denaro in una certa quantità per ottenerne, dopo qualche tempo, altro denaro in quantità maggiore. In tal caso il denaro serve a produrre altro denaro e quindi l’usura diventa l’emblema della crematistica smisurata» (pp. 64-67).
«Aristotele – […] Vorrei una città che conservi al suo interno […] l’uguaglianza tra i suoi cittadini, la libertà di discutere e decidere tutti insieme sulle cose da farsi, la divisione dei poteri, la giustizia, l’aspirazione alla pace. Una città […] in cui la preoccupazione più importante dei cittadini non sia quella di procurarsi le ricchezze, ma quella di vivere bene, cioè di essere felici, realizzando tutte le proprie capacità, non solo fisiche, ma anche spirituali, per mezzo dell’educazione, dell’arte, della scienza, della filosofia». Platone – È proprio bello questo che tu dici, Aristotele! Speriamo che un giorno si avveri. Vedo però che anche tu ti abbandoni alle utopie, come hai rimproverato me di fare. In realtà un po’ di utopismo è sempre necessario, altrimenti ci si rassegna alla realtà esistente e non si cerca più di migliorarla» (pp. 89-89).
***
Enrico Berti, Aristotele. Ebulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Falsi Originali [Collana diretta di Giovanni Casertano], Guida Editori, Napoli 20129.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [109]. In copertina: Statua in bronzo di Aristotele, ingresso della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, Germania. In quarta di copertina: Paul Klee, Die Zeit, 1933.
Questo volume raccoglie alcuni fra i principali studi di Enrico Berti su Martin Heidegger. Il filosofo tedesco è stato infatti una presenza costante negli studi composti in questi decenni dallo studioso padovano, sovente in rapporto al pensiero di Aristotele. Con il suo consueto approccio “classico”, in questi saggi Berti non si limita a descrivere, ma valuta, ossia prende posizione, anche critica, nei confronti di colui che pure definisce come il maggiore pensatore del XX secolo.
Indice
Introduzione
Il nichilismo dell’Occidente secondo Nietzsche, Heidegger e Severino
L’influenza di Heidegger sulla «riabilitazione della filosofia pratica» Gadamer, o della «phronesis» Ritter, ovvero dell’«ethos» Hannah Arendt, o della «praxis»
Heideggers Auseinandersetzung mit dem
Platonisch-Aristotelischen Wahrheitsverständnis Aristoteles Platon Abschluß
Heidegger and the Platonic Concept of Truth
Le passioni tra Heidegger e Aristotele Appendice
Heidegger e il libro Epsilon della Metafisica di Aristotele Prologo Prime citazioni di Aristotele (Friburgo, 1921-1923) Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): l’essere come verità Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): essere ed ente Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo (1929): di nuovo l’essere come vero Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo: la metafisica come «ontologia» Conclusione
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Qui di seguito sono riportati i riferimenti bibliografici relativi ai saggi raccolti nel presente volume.
I In tema di dialettica
Come argomentano gli ermeneutici? “Filosofia ‘91”, a cura di G. Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 13-32. La complessità della ragione “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 154, gennaio-aprile 1995, pp. 27-40. Logo e dialogo “Studia Patavina”, 42, 1995, pp. 31-42. La dialettica antica come modello di ragionevolezza “Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica”, 7, 2002, pp. 17-28. Il principio di non contraddizione: storia e significato P. Bria e F. Oneroso (a cura), Bilogica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 22-32.
II In tema di metafisica
Per una metafisica problematica e dialettica “Acta philosophica”, 1, 1992, pp. 176-190 (anche in “Per la filosofia”, 9, 1992, pp. 3-15). La via “dinamico-noologica” alla trascendenza divina in S. Biolo (a cura), Trascendenza divina. Itinerari filosofici, Contributi al XLVIII Convegno del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, aprile 1993, Torino, Rosenberg & Sellier, 1995, pp. 57-71. La prospettiva metafisica tra analitici ed ermeneutici “Seconda navigazione – Annuario di filosofia 2000”, Milano, Mondadori, 2000, pp. 45-62. Quale metafisica per il terzo millennio? in Proceedings of the Metaphysics for the Third Millennium Conference (Rome, September 5-8, 2000), Editorial de la Universidad Tecnica Particular de Loja (Equador), 2001, vol. I, pp. 29-44. Una metafisica (espistemologicamente) “debole” “Annuario Filosofico”, 16, 2000, Milano, Mursia, 2001, pp. 27-41. Metafisica debole? in Quale metafisica?, “Hermeneutica”, n. s., 2005, pp. 39-52. Dialogo su Aristotele in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi (a cura), Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 75-90.
III In tema di filosofia pratica Sostanza e individuazione in AA. VV., La tecnica, la vita, i dilemmi dell’azione (“Seconda navigazione – Annuario di filosofia 1998”), Milano, Mondadori, 1998, pp. 143-160. Dal personalismo all’identità personale in A. Bottani e N. Vassallo (a cura), Identità personale. Un dibattito aperto, Napoli, Loffredo, 2001, pp. 65-78). Persona, scienza e tecnica in G. Galeazzi e B. M. Ventura (a cura), Filosofia e scienza nella società tecnologica, Milano, F. Angeli , 2004, pp. 171-183. L’idea di bene comune tra “destra” e “sinistra” in E. Berti e S. Veca, La politica e l’amicizia, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, pp 35-62. Prudenza in “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. 159, settembre-dicembre 1966, pp. 15-24. Attualità dei diritti umani “Ars Interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 6, 2001, pp. 79-91. Pratiche filosofiche e filosofia pratica “Ars interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 10, 2005, pp. 313-328.
IV Appendice Autoritratto “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 176, maggio-agosto 2002, pp. 9-12. Pensare con la propria testa? “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 192, maggio agosto 2004, pp. 76-88. Aristotele nel Novecento “Scuola e Cultura”, 3, 2005, pp. 22-27
Luca Grecchi
Il pensiero filosofico di Enrico Berti
Petite Plaisance, 2013
ISBN 978-88-7588-110-8, 2013, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [51].
In questo libro è sintetizzata l’opera filosofica di uno dei maggiori pensatori italiani contemporanei, Enrico Berti. Teorizzatore della metafisica classica, studioso di Aristotele, storico della filosofia, Berti ha proposto, in oltre 50 anni di attività culturale ed accademica, soluzioni di grande originalità e valore non solo su temi filosofici, ma anche su temi etici, politici, educativi. La monografia, impreziosita da un saggio finale dello stesso Berti, si pone come una prima introduzione complessiva al suo pensiero.
Indice
Presentazione di Carmelo Vigna
Introduzione
I. Biografia II. L’interpretazione degli antichi e di Aristotele III. La storia della filosofia IV. L’etica e la filosofia pratica V. La politica VI. L’approccio classico alla educazione VII. Religione VIII. La metafisica IX. La critica
Postfazione Enrico Berti A proposito della critica
Principali pubblicazioni di Enrico Berti Volumi Curatele Principali articoli
La filosofia del primo Aristotele (Univ. di Padova. Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. XXXVIII), 1962.
La filosofia del primo Aristotele, Cedam, 1962.
Il “De re publica” di Cicerone e il pensiero politico classico, Padova, Cedam, 1963.
L’unità del sapere in Aristotele, Cedam, 1965.
Studi aristotelici, Japadre, 1975.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, 1977
Profilo di Aristotele, Studium, 1979.
I percorsi della filosofia, vol. I. Il pensiero antico e medioevale (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
I percorsi della filosofia. Il pensiero moderno e contemporaneo (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
Profilo di Aristotele, Nuova Universale Studium, 1985.
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, 1987.
Il pensiero d’Occidente. Pagine e testimonianze (con Sergio Moravi), Le Monnier, 1987.
Le vie della ragione, il Mulino, 1987.
Le ragioni di Aristotele, Laterza, 1989.
Storia della filosofia. Antichità e medioevo, Laterza, 1991.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 1992.
Persona e personalismo (con Georges Cottier e Giannino Piana), Gregoriana Editrice, 1992.
Etica, cultura e partecipazione politica (con Alberto Monticone), AVE, 1993
Il volume riflette l’esigenza di un approfondimento dei rapporti che intercorrono tra etica, cultura e partecipazione politica. Nel volume si delineano alcuni caratteri fondamentali della nostra vita civile: il sistema democratico, la concezione personalista e solidaristica quale fondamento della convivenza civile e dell’organizzazione sociale e politica del nostro Paese, la possibilità per le culture di ispirazione cristiana e per il movimento cattolico di dare un proprio contributo all’evoluzione della vita sociale e politica. L’impegno dell’Azione Cattolica resta quello per la formazione di un laicato adulto nella fede, capace di servizio e testimonianza in ogni ambito della propria vita ma anche quello di promuovere quotidianamente una cultura radicata nei valori del Regno e nei principi della centralità della persona umana e del bene comune.
Introduzione alla metafisica, Utet-Libreria, 1993.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Edizioni Diabasis, 1993.
Aristotele, Il libro primo della «Metafisica» (a cura di E. Berti e C. Rossiitto), Laterza, 1995.
Aristotele, Laterza, 1997.
Rifacendosi in particolare ad un’analisi diretta della Politica e dell’Etica Nicomachea, i cui testi sono ampiamente antologizzati, e confrontandosi con il dibattito critico più recente, Berti illustra tutti i temi fondamentali del pensiero politico aristotelico, come ad es. il concetto di polis, o la vagheggiata «città felice». Né manca un’analisi in parallelo con le teorie di Platone. A differenza di altri studi pubblicati in Italia sul pensiero politico di Aristotele, che hanno un carattere parziale o un’impronta ideologica, il saggio introduttivo di Berti si distingue anche per la capacità di stabilire un dialogo continuo tra esso e il pensiero politico moderno e soprattutto contemporaneo.
Aristóteles no século XX, trad. D. Davi Macedo, São Paulo, Brasil, Edi. Loyola, 1997.
La filosofia del “primo” Aristotele, Vita e Pensiero, 1997.
As razões de Aristóteles, Ed. Loyola, 1998.
Esta obra configura uma intervenção autorizada no atual debate sobre o pensamento débil e a crise da razão, por sua capacidade de relacionar aos temas da filosofia contemporânea a aguda análise de um momento culminante na história da filosofia: o pensamento de Aristóteles.
La politica e l’amicizia (con Salvatore Veca), Edizioni Lavoro, 1998.
La politica e l’amicizia sembrano essere distanti l’una dall’altra: mentre la politica si orienta verso una condivisione più ampia possibile, l’amicizia evoca prospettive più intime, private, e dunque escludenti. Enrico Berti e Salvatore Veca intendono guidare, da angolature differenti, una riflessione sulla possibilità di un incontro fra politica e amicizia.
Novos estudos aristotélicosI – Epistemologia, lógica e dialética, 1999.
Nesta obra, encontram-se ensaios sobre a contradição, a dialética e a argumentação na obra do Estagirita, além de estudos sobre a dialética em Zenão, em Górgias e em Platão, com o objetivo de evidenciar a contribuição que deram à formação do pensamento de Aristóteles.
La navicella della metafisica. Dibattito sul nichilismo e la “Terza navigazione” (con altri), Armando editore, 2000.
Marino Gentile nella filosofia del Novecento, EDS, 2003.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi, Bompiani, 2004.
Quest’opera, pubblicata originariamente nel 1977, è uno dei più importanti lavori di Berti. Essa si può considerare sia uno studio introduttivo ad Aristotele, di cui si passano in rassegna la vita, le opere, l’ambiente accademico e l’insegnamento, ma anche e soprattutto un saggio teoretico sulle costanti del pensiero metafisico: le idee, le categorie, i princìpi primi, le quattro cause, l’essere e il divenire. Il volume è arricchito da una serie di saggi dell’autore che completano il quadro della “filosofia prima” di Aristotele.
Aristotele. Eubulo o della richezza. Dialogo perduto contro i governanti ricchi, Guida, 2004.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Filosofia pratica, Guida, 2004.
L’espressione “filosofia pratica” compare per la prima volta in Aristotele e in contrapposizione a quella teoretica: mentre quest’ultima ha per fine la verità ossia la conoscenza di come e di perché le cose stanno in un certo modo, la filosofia pratica ha per fine l’opera, cioè mira a conoscere e a rendere possibile un certo tipo di azione, in particolare l’azione buona e quindi tende a rendere migliore colui che agisce. Quindi il fine, lo scopo della filosofia pratica è il tentativo di raggiungere la perfezione dell’uomo stesso.
Nuovi studi aristotelici, vol. 1: Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, 2004.
Il volume è il primo di un’opera che raccoglierà in quattro volumi l’insieme degli scritti di uno fra i maggiori specialisti della logica e della dialettica di Aristotele.
Aristotele. Il primo libro della «Metafisica» (con C. Rossitto), Laterza, 2005.
Nuovi studi aristotelici. 2 – Fisica, antropologia e metafisica, Morcelliana, 2005.
Il secondo volume degli studi aristotelici, dedicato a metafisica, fisica e antropologia, scritto dal maggior specialista italiano di Aristotele. Un libro che è una vera e propria introduzione alla “Metafisica” di Aristotele. L’Autore insegna storia della filosofia all’Università di Padova.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Diabasis, 2005.
Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, 2006.
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2006.
Aristotele e l’ontologia(con Bruno centrone e Paolo Fait), Alboversorio, 2007.
Le tesi di Aristotele rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di ontologia. Da lui, infatti, derivano gran parte dei termini ancora oggi utilizzati e dei problemi su cui non si è mai smesso di discutere. Questo libro permette, al lettore interessato, di avvicinarsi ad alcune prospettive contemporanee sull’argomento espresse da alcuni dei maggiori studiosi italiani.
Introduzione alla metafisica, Utet università, 2007.
Storia della filosofia. Dalla’antichità ad oggi. Con materiali per il docente. Ediz. compatta. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Franco Volpi), Laterza, 2007.
Antologia di filosofia. Dall’antichità ad oggi. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Cristina Rossitto e Franco Volpi), Laterza, 2008.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 2008.
La filosofia di Aristotele è un caso forse unico, nella storia, di “sistema aperto”, cioè di filosofia che è un vero sistema, dotato di una grande differenziazione interna, ma anche di una certa unità; ed è anche un sistema aperto, suscettibile di continue integrazioni, anzi di molteplici usi, data la sua grande versatilità, attestata da una fortuna tra le più longeve che mai si siano date e da una presenza massiccia nella stessa filosofia del Novecento. A essa si possono attingere concetti, categorie, distinzioni, dottrine, adoperabili per gli usi più svariati, nelle più diverse direzioni, sia filosofiche che scientifiche, sia teoretiche, cioè logico-metafisiche, che pratiche, cioè etico-politiche, per non parlare degli usi a fini poetici e retorici. Ma questi concetti, distinzioni, dottrine funzionano, cioè rispondono allo scopo per cui vengono impiegati, solo se sono utilizzati nel rispetto del loro significato originario. Si tratta di una coerenza non rigida, ma elastica, di una logica non monolitica, ma articolata e duttile, Dall’esistenzialismo di Heidegger alla filosofia pratica di Gadamer, dalla “nuova retorica” di Perelman e Toulmin alla nuova scienza di Prigogine e Jacob, alla nuova epistemologia di Kuhn e Feyerabend, Enrico Berti ritrova le tracce dell’inesauribile forza del pensiero aristotelico.
Dialectique, physique et métaphysique. Études sur Aristote, Éditions Peeters, 2008.
This volume contains around twenty articles, many of them already published elsewhere, but translated into French for the first time. They all deal with the dialectics, the physics and the metaphysics of Aristotle.
Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia (a cura di), Utet, 2008.
In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, 2008.
La meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza e desiderio di sottrarvisi, cioè di apprendere, di conoscere, dI sapere. Ecco perché proprio la meraviglia, secondo Aristotele, è l’origine della filosofia, ovvero della ricerca disinteressata di sapere. Stato d’animo raro e prezioso, la meraviglia è la sola espressione della vera libertà. Enrico Berti rilegge il pensiero dei grandi filosofi della classicità e costruisce un percorso attraverso le domande senza tempo che la filosofia occidentale ha continuato a porsi, formulate per la prima volta dai Greci.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 3 Filosofia pratica, Morcelliana, 2008.
Il presente volume, terzo della serie dei Nuovi studi aristotelici, raccoglie gli scritti concernenti la “filosofia pratica” di Aristotele, contenuta nelle due Etiche autentiche (Nicomachea e Eudemea), e la filosofia politica, contenuta nella Politica. Come è noto, per Aristotele queste ultime due discipline sono parti di un’unica scienza, da lui chiamata più volte “scienza politica” e, almeno una volta, “filosofia pratica”. Perciò non ho diviso il volume in sezioni, come invece ho fatto nei volumi precedenti. Ho scelto, come sottotitolo dell’intera raccolta, “filosofia pratica”, perché questa espressione è diventata attuale dopo la cosiddetta “riabilitazione (o rinascita) della filosofia pratica”, movimento sviluppatosi nel corso degli anni Settanta del Novecento e ancora non del tutto esaurito.(dalla Prefazione)
Ser y tiempo en Aristótele, Editorial Biblios, 2008.
Enrico Berti, uno de los más reconocidos especialistas de Aristóteles, introduce este libro con una reseña de la presencia de Aristóteles en la Contemporánea. Luego desarrolla una exposición clara y profunda de la postura aristotélica, que va desde el tiempo cósmico de la Física hasta el tiempo humano de la Poética y la Ética. En el recorrido que realiza también visita la Metafísica, pero también obras menos transitadas, como De la memoria y la reminiscencia. Además, confronta la postura de Aristóteles con uno de los trabajos más determinantes de la Contemporánea: Ser y tiempo de Martin Heidegger.
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2008.
La Metafisica è l’opera più famosa di Aristotele. Si tratta degli appunti che Aristotele preparava per le sue lezioni all’interno del Peripato. Lo Stagirita pone qui i problemi fondamentali sull’essere e sul perché del divenire ricercandone le cause e i principi primi.
En el principio era la maravilla. Las grandes preguntas de la filosofía antigua, traducción de Helena Aguilà, Madrid, Editorial Gredos, 2009.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4\1. L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento, Morcelliana, 2009.
Il libro vuole essere un contributo allo studio della cosiddetta tradizione aristotelica, dell’influenza esercitata da Aristotele sull’intera storia della cultura “occidentale” (termine nel quale va compresa anche la cultura islamica). Tale influenza è stata sia di tipo positivo, nel senso che le dottrine di Aristotele sono state accolte, interpretate e trasformate dai filosofi posteriori, sia di tipo negativo, nel senso che esse sono state oggetto di critiche e spesso di dure polemiche, ma anche in questo caso hanno condizionato le filosofie posteriori. Del primo tipo è l’influenza esercitata da Aristotele sugli aristotelici: su Teofrasto, Aspasio, Alessandro di Afrodisia, Porfirio, i filosofi arabi ed ebrei, Tommaso d’Aquino, Marsilio da Padova, Giacomo Zabarella, William Harvey. Del secondo tipo è invece l’influenza esercitata da Aristotele sui suoi “avversari”: l’epicureo Filodemo di Gadara, Plotino, Bonaventura da Bagnoregio, Niccolò Cusano, Galileo Galilei. Un caso particolare è costituito dal rapporto tra la filosofia di Aristotele e il primo cristianesimo, emblematicamente rappresentato dal discorso di san Paolo agli Ateniesi, dove l’influenza di Aristotele è ravvisabile nel contributo da lui dato alla formazione di quel concetto di “Dio dei filosofi” che Paolo ripropone consapevolmente agli Ateniesi, ma al fine di integrarlo e superarlo nella rivelazione cristiana.
A partire dai filosofi antichi(con Luca Grecchi), Il Prato, 2010.
I problemi filosofici esaminati vengono presentati nella forma di una discussione avvincente che rievoca l’andamento dei dialoghi platonici, in cui la verità emerge dal movimento del discorso che, nel suo correre incessantemente da un interlocutore all’altro, si fa «dia-logo» nel senso più alto. Del resto, i temi trattati dai due autori sono tra i più importanti tra quelli su cui si è andata formando la civiltà occidentale: il valore veritativo della filosofia, il rapporto tra fede e sapere, la morale, l’educazione, il ruolo dell’uomo, la libertà, la politica, la morte, l’ontologia, la metafisica, la critica, e moltissimi altri ancora. Ad accomunare, nel libro, questi temi così vasti ed eterogenei è il punto di partenza da cui ciascuno di essi viene sviluppato: il mondo dell’antica filosofia greca, concepita sia da Berti sia da Grecchi come fonte originaria delle «domande fondamentali» dell’uomo occidentale e come tentativo di elaborazione di alcune grandiose soluzioni che continuano a esercitare un fascino intramontabile. La filosofia greca fa da sfondo anche alle considerazioni svolte da Berti e da Grecchi intorno al pensiero di Kant, di Hegel e di Marx. A partire, appunto, dai «filosofi antichi», i due studiosi ripercorrono in maniera dialogica, anche attraverso la cinquantennale esperienza accademica di Enrico Berti, i nodi maggiori della tradizione filosofica e le problematiche fondamentali del nostro presente.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4/2. L’influenza di Aristotele. L’età moderna e contemporanea, Morcelliana, 2010.
l secondo tomo del volume dedicato all’influenza di Aristotele comprende saggi relativi all’età moderna e all’età contemporanea. Per l’età moderna è evidente la persistenza della filosofia pratica di Aristotele, la quale, dopo essersi eclissata nell’antichità ellenistica e nella tarda antichità, ed essere stata riscoperta nel medioevo, sia musulmano che ebraico e cristiano, sopravvive nel Seicento e nel Settecento, soprattutto in Germania.Per quanto riguarda l’Ottocento i saggi riguardano la critica di Hegel al principio di non contraddizione, e l’influenza di Aristotele sui critici di Hegel: Feuerbach, Trendelenburg, Marx e Kierkegaard. Per la Germania è anche massiccia l’influenza di Aristotele su Brentano e, attraverso di lui, su tutti i suoi discepoli, da Husserl a Meinong, a Twardowski, a Freud. Interessante è anche il rapporto intrattenuto con Aristotele da Paul Natorp, che ebbe ad influenzare, insieme con la dissertazione di Brentano, Martin Heidegger.I capitoli dedicati all’età contemporanea illustrano la presenza di Aristotele in Heidegger e nella filosofia analitica inglese, ovvero nell’analisi del linguaggio ordinario condotta da J. Austin, G. Ryle, P. Strawson, D. Wiggins e altri. Indi illustrano la cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, prima in Germania, ad opera di filosofi come H.-G. Gadamer e J. Ritter, e poi negli USA, ad opera di A. MacIntyre, H. Jonas, Martha C. Nussbaum.
Profilo di Aristotele, Studium, 2010.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2010.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Invito alla filosofia, La Scuola, 2011.
Un libro per chiunque voglia accostarsi ad un sapere che parte dal sentimento della meraviglia per arrivare ad esercitare un uso consapevole della ragione. Un invito per chiunque sia alla ricerca di motivazioni (esistenziali, religiose, etiche, scientifiche, politiche) e voglia porre domande per scoprire la verità partendo da opinioni consolidate. Perché la filosofia, nel suo stesso modo di procedere dialettico-confutatorio, esalta l’essenza umana che si fonda sul ragionamento.
Preguntas de la filosofía antigüa, Tapa blanda, 2001.
Muchas de las grandes preguntas que la filosofía occidental ha seguido planteándose las formularon por primera vez los griegos. No todas, claro está. Por ejemplo, los griegos no se preguntaron cuáles eran, a priori, las condiciones del conocimiento, o qué leyes rigen la historia, o cómo indagar en el subconsciente del hombre y otras cosas por el estilo. Pero las preguntas que plantearon, a excepción de unas pocas (por ejemplo: ¿quiénes son los dioses?), son las mismas con las que se ha seguido enfrentando la filosofía occidental a lo largo de los siglos. Enrico Berti recorre el pensamiento de los grandes filósofos clásicos y traza un sorprendente itinerario a través de las preguntas sin tiempo que la filosofía occidental ha seguido planteándose y que los griegos formularon por primera vez: ¿Qué es el hombre? ¿Qué es la felicidad? ¿Quiénes son los dioses? ¿Cuál es nuestro destino?
Profilo di Aristotele, Studium, 2012.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e corretta, Morcelliana, 2012.
Il dovere di introdurre, e con ciò di giustificare nella sua unità, la presente raccolta mi fornisce l’occasione più opportuna per riflettere sulle ricerche da me compiute in questi anni e anche per risalire alle origini del mio interesse per Aristotele, allo scopo di determinarne il più esattamente possibile il senso e l’orientamento generale. Uno dei fili conduttori dei miei lavori è la persuasione del valore classico, cioè perenne, e quindi anche attuale di certe istanze del pensiero aristotelico. Si tratta di una valutazione di ordine teoretico, o filosofico, che oggi, a causa dell’imperante storicismo e del conseguente relativismo, può sembrare, nel migliore dei casi, ingenua. Tuttavia è una persuasione a cui tengo particolarmente; non ho difficoltà infatti a confessare che, se non la possedessi, non riuscirei a dare alcun senso al lavoro fatto. Le ragioni del valore classico della metafisica antica si trovano nel rilevamento, da parte di Aristotele, di un’inadeguatezza tra il sistema platonico e il problema da cui ogni filosofo deve prendere le mosse, cioè la problematicità integrale e assoluta. Questa problematicità si esprime in un “domandare tutto”, che è insieme un “tutto domandare”, in una domanda che investe la totalità del reale e, per il fatto di escludere ogni precedente certezza, è integralmente domanda; e si identifica con la stessa esperienza intesa come conoscenza di tutto e insieme domanda della ragione di tutto.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2012.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Aristotele e la democrazia, in C. Rossitto, A. Coppola, F. Biasutti (a cura), Aristotele e la storia, Padova, CLEUP, 2013.
Aristotele, La Scuola, 2013.
«Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità e, più di tutte, amano la sensazione della vista. In effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose». Metafisica, libro I.
The Classical Notion of Person and Its Criticism by Modern Philosophy, in B. Babich and D. Ginev (eds.), The Multidimensionality of Hermeneutic Phenomenology, Heidelberg-New York-Dordrecht-London, Springer, 2013.
La phronêsis nella filosofia antica, in A. Fidora, A. Niederberger, M. Scattola (eds.), Phronêsis – prudentia – Klugheit. Das Wissen der Kluge in Mittelalter, Renaissance und Neuzeit, Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales, Porto, 2013.
Mente e anima: due entità?, in G. Erle (a cura), Il limite e l’infinito. Studi in onore di Antonio Moretto, Bologna, Archetipolibri, 2013.
La ricerca filosofica di Antonio Moretto segna una tappa fondamentale e innovativa all’interno della letteratura scientifica a proposito del rapporto tra filosofia e matematica. Questo vale in primo luogo, ma non solo, per una rinnovata comprensione della filosofia classica tedesca che rendeva necessario mostrare la rilevanza della conoscenza congiunta della storia e della teoria della matematica in autori come Kant e Hegel. Questi studi, assieme a quelli che egli ha dedicato a Descartes, Leibniz, Wolff, mostrano come i concetti matematici di finito e infinito racchiudano, nelle loro esigenze tecniche, un’urgenza profondamente umana, quella di dare senso, “mensurare” nell’accezione più ampia del termine. Sotto questo profilo, il passaggio per le scienze esatte nelle ricerche di Moretto non è affatto astratto, ma costituisce il necessario cammino verso quella che Kant avrebbe chiamato “la porta stretta”, varcata la quale meglio si comprendono anche le altre parti del sistema della filosofia, così come proprio Moretto ha dimostrato dedicandosi a discutere altresì questioni di etica, di filosofia della medicina, psicologia della percezione e, perché no?, della poesia di Albrecht von Haller. Coerentemente con questo percorso di ricerca, gli autori degli scritti che costituiscono questo volume si sono impegnati a mostrare la ricchezza di significati e valenze che i concetti di limite e di infinito possono assumere all’interno delle scienze filosofiche.
Una metafisica (epistemologicamente) «debole», n G. Riconda e C. Ciancio (a cura), Filosofi italiani contemporanei, Mursia, 2013.
Il volume presenta i risultati di un ciclo di seminari tenuti all’Università di Padova nel 2011 e 2012, all’interno del Progetto di Ateneo Filosofia e storia nel pensiero politico di Aristotele. Il tema generale è il ruolo della storia nel pensiero aristotelico, secondo le più ampie accezioni del termine. Innanzitutto che uso fa Aristotele dei dati storici, come e a qual fine li utilizza e qual è per lui il valore epistemologico della storia? Storia significa anche storiografia, cioè resoconto scritto dei fatti: possiamo capire il rapporto fra il filosofo e gli storici e tra la storiografia e la politica? I contributi qui raccolti aggiungono materia a queste riflessioni raccogliendo e confrontando punti di vista di storici dell’antichità e di storici della filosofia.
Aristotele, in U. Eco (a cura), L’Antichità, 5. Grecia, Filosofia, EM Publishers srl., 2014.
Neste volume, o leitor terá a oportunidade de conhecer o pensamento de Aristóteles, um dos maiores nomes da Filosofia na Antiguidade. A visão aristotélica é apresentada de modo sintetizado, por meio da análise das obras de Aristóteles, dos conceitos-chave de sua filosofia e seus desdobramentos na sociedade atual.
Il bene di chi? Bene pubblico e bene privato nella storia, Marietti, 2014.
Un affresco dell’intrecciarsi di bene pubblico e bene privato nella storia della civiltà occidentale. Enrico Berti fa comprendere le complesse radici culturali della situazione attuale e apre domande cruciali, da un lato sul destino e la sopravvivenza dello Stato e dall’altro sul fine dell’uomo e sulle condizioni di possibilità della vita sociale. Il libro è arricchito da un dialogo sul tema tra l’autore e i partecipanti alla “Lectio Magistralis” tenuta nel corso di una delle sessioni del 2013 della Winter School, centro di studi sociali, culturali e politici. Prefazione di Giovanni Maddalena.
Il luogo dei corpi secondo Aristotele, in Lessico Intellettuale Europeo, Locus-spatium. XIV Colloquio Internazionale, a cura di D. Giovannozzi e M. Veneziani, Olschki, 2014
La ricerca della verità in filosofia, Studium, 2014.
La verità è oggi temuta come una forma di violenza, specialmente da parte dei filosofi post-moderni. Questo timore spesso è dovuto a una concezione ideologica della verità come valore assoluto da imporre a tutti, mentre esso è del tutto ingiustificato rispetto alla concezione classica della verità, non riducibile alla teoria della verità come corrispondenza. In base alla teoria classica si danno diversi tipi di verità, verità di fatto e verità di ragione, verità storiche e verità scientifiche, verità di fede e verità poetiche: alcune facili da scoprire, altre implicanti complesse e faticose ricerche. In filosofia la ricerca della verità avviene in modi diversi, secondo il tipo di filosofia che si pratica, che può essere trascendentale, dialettico, fenomenologico, analitico-linguistico, ermeneutico, dialogico-confutativo. Un caso di ricerca della verità in filosofia è costituito dalla metafisica, intesa non nel senso tradizionale di ontologia o teologia razionale, bensì come metafisica problematica e dialettica, epistemologicamente debole ma logicamente forte. Esiste anche una verità pratica, che riguarda non la legge morale, ma il desiderio della felicità intesa come pieno sviluppo della persona umana, nel singolo individuo e nella polis.
Prologo a L. E. Varela, Filosofía práctica y prudencia. Lo universal y lo particular en la ética de Aristóteles, Editorial Biblos, 2014.
El trabajo se sostiene en un conocimiento completo y perfecto de toda la obra de Aristóteles concerniente a la ética, no sólo a la Ética nicomaquea y a la Ética eudemia, sino también a la Gran Ética y al Protréptico. Los textos de estas obras son analizadas de manera precisa y rigurosa, y el análisis de ellos es siempre acompañado por una discusión de las interpretaciones suministradas por la literatura crítica, con la cual Varela está constantemente en diálogo. De ello resulta una contribución de gran claridad, equilibrio, riqueza de información y de profundización, que lo hace extremadamente útil para una relectura y una valoración nueva, plenamente satisfactoria, de la ética aristotélica.
Luis Enrique Varela. Doctor en Filosofía (Universidad del Salvador). Es actualmente profesor de Ética y de Metafísica en la Universidad Nacional de Mar del Plata. Asimismo, dicta Historia de la Filosofía Antigua en la carrera del Doctorado en Filosofía, y Ética dentro de la enseñanza de grado en la Universidad Nacional de Lanús. Dirige proyectos de investigación en temas de filosofía práctica y de metafísica tanto en la UNMDP como en la UNLA. También se desempeña como profesor de Historia de la Filosofía Antigua y del Seminario de Filosofía Práctica I en la carrera de filosofía de la Universidad de Ciencias Empresariales y Sociales (UCES). Además dicta materias de filosofía en la carrera de Filosofía del Instituto Superior del Profesorado “Joaquín V. González”.Como director del Círculo de Actualización en Filosofía de la Fundación Descartes, organizó junto con Germán García el “Encuentro Internacional Descartes 400” (1996) y “Lacan y la cultura filosófica” (2001).Es autor de numerosos
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today?, in C. Baracchi (ed.), The Bloomsbury Companion to Aristotle, Bloomsbury, 2014.
Aristotle is one of the most crucial figures in the history of Western thought, and his name and ideas continue to be invoked in a wide range of contemporary philosophical discussions. The Bloomsbury Companion to Aristotle brings together leading scholars from across the world and from a variety of philosophical traditions to survey the recent research on Aristotle’s thought and its contributions to the full spectrum of philosophical enquiry, from logic to the natural sciences and psychology, from metaphysics to ethics, politics, and aesthetics. Further essays address aspects of the transmission, preservation, and elaboration of Aristotle’s thought in subsequent phases of the history of philosophy (from the Judeo-Arabic reception to debates in Europe and North America), and look forward to potential future directions for the study of his thought. In addition, The Bloomsbury Companion to Aristotle includes an extensive range of essential reference tools offering assistance to researchers working in the field, including a chronology of recent research, a glossary of key Aristotelian terms with Latin concordances and textual references, and a guide to further reading.
List of Contributors \ Acknowledgments \ Corpus Aristotelicum \ “Introduction: Paths of Inquiry” Claudia Baracchi \ Part I: Questions \ 1. Logos \ Saying What One Sees, Letting See What One Says: Aristotle’s Rhetoric and the Rhetoric of the Sophists Barbara Cassin \ Aristotelian Definition: On the Discovery of Archai Russell Winslow \ 2. Phusis \ Aristotle on Sensible Objects: Natural Things and Body Helen Lang \ On Aristotle’s Formula: Physics IV. 11, 14 Rémi Brague \ 3. Psuchê \ Phantasia in De Anima Eric Sanday \ Mind in Body in Aristotle Erick Raphael Jiménez \ The Hermeneutic Slumber: Aristotle’s Reflections on Sleep Marcia Sá Cavalcante Schuback \ 4. Philosophia Prôtê \ First Philosophy Alejandro Vigo \ First Philosophy and the History of Being in Aristotle’s Metaphysics Spyridon Rangos \ 5. Êthos \ Aristotle on Human Nature and the Foundations of Ethics, with an “Addendum” Martha C. Nussbaum \ The Visibility of Goodness Pavlos Kontos \ To Kakon Pollachôs Legetai: The Poly-vocity of the Notion of Evil in Aristotelian Ethics Arianna Fermani \ 6. Polis \ Education: The Ethico-Political Energeia Michael Weinman \ 7. Poiêsis \ Toward the Sublime Calculus of Aristotle’s Poetics Kalliopi Nikolopoulou \ Part II: Disseminations \ Aristotle on the Natural Dwelling of Intellect Idit Dobbs-Weinstein \ The Peripatetic Method: Walking with Woodbridge, Thinking with Aristotle Christopher Long \ What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today? Enrico Berti \ Would Aristotle Be a Communitarian? Pierre Aubenque \ Glossary (Erick Raphael Jiménez) \ Chronology of Recent Research (Benjamin J. Grazzini) \ Bibliography (Erick Raphael Jiménez) \ Resources (Benjamin J. Grazzini and Erick Raphael Jiménez) \ Sources of Translated/Reprinted Essays \ General Index
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Morcelliana, 2015.
“Contraddizione” e “dialettica” sono due delle categorie costitutive della filosofia, fin dalla sua nascita nella Grecia del V secolo. Nei capitoli che sono idealmente una storia del pensiero occidentale – il lettore trova la chiara e puntuale ricostruzione dei tanti significati assunti da “contraddizione”, “non contraddizione”, “dialettica” tra Parmenide, Eraclito, Socrate, Platone e Aristotele, tra Kant e Hegel, tra Marx, Popper e la logica contemporanea. Sono categorie in cui è in gioco non solo il rigore della ragione: nella possibilità o no di superare il principio di non contraddizione è in questione la cosa stessa del pensiero. Considerando che lo stesso principio di non contraddizione si dice in più modi. Temi cui Enrico Berti ha dedicato più di cinquant’anni di studi, e che trovano qui un compendio.
È bene definire il bene?, Orthotes, 2015.
Il punto di partenza assunto nel saggio è la definibilità del bene, una volta che ci si occupi di esso non in quanto assoluto e irraggiungibile, ma piuttosto vedendolo come bene umano, praticabile e realizzabile. Come tale, esso è l’oggetto delle aspirazioni umane e concretamente indicato nei diritti fondamentali, nelle varie libertà e nei diritti politici, che documenti ufficiali hanno ormai sancito. Da Aristotele fino alla sua ripresa da parte di Martha Nussbaum, la felicità, per quanto fragile, si sostanzia proprio di questi beni, che possono essere presentati come vere e proprie “capacità”. Completa il testo un intervento di Berti sull’Etica nicomachea di Aristotele, da cui emerge il carattere pratico di una filosofia che punti a definire che cos’è il bene, ossia aristotelicamente la felicità, per l’uomo.
Aristotelismo, il Mulino, 2017.
A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati.
Un manuale in cui i maggiori studiosi di Aristotele analizzano e descrivono in modo sistematico e completo il pensiero del filosofo, attraverso le singole opere, seguendo un metodo rigorosamente storico, senza interpretazioni ideologiche o di parte.
Introduzione alla metafisica, seconda edizione, UTET, 2017.
La nuova edizione dell’Introduzione alla metafisica di Enrico Berti ripropone la concezione originale della metafisica che l’Autore va presentando da anni, la quale ha suscitato l’interesse degli studiosi di filosofia, come dimostrano le traduzioni dell’opera in altre lingue. Essa contiene alcune correzioni rispetto all’edizione precedente, dovute a ulteriori studi, e soprattutto è corredata da cinque appendici, costituite da altrettanti articoli sul tema, pubblicati dall’Autore negli anni più recenti. L’opera comprende una parte storica, che illustra le diverse forme di metafisica elaborate nella filosofia occidentale, e una parte teoretica, che difende le ragioni di un certo tipo di metafisica, caratterizzata come «metafisica dell’esperienza», sviluppando gli spunti forniti in questa direzione dalla «scuola padovana» facente capo a Marino Gentile. Nel complesso si tratta di una delle rare proposte italiane di una filosofia autenticamente metafisica, in linea con la grande tradizione della «metafisica classica» di ispirazione aristotelica, ma al tempo stesso essenzializzata e aggiornata in modo da tenere conto delle critiche e delle esigenze del pensiero contemporaneo. Il rifiorire di interesse per la metafisica, manifestatosi soprattutto nell’ambito della filosofia analitica, conferma l’attualità dell’opera.
Tradurre la “Metafisica” di Aristotele, Morcelliana, 2017.
«Essendomi recentemente cimentato con l’arduo compito di tradurre la Metafisica di Aristotele, il libro forse più difficile dell’intera storia della filosofia, mi sono imbattuto in una serie di problemi, alcuni dei quali previsti e altri invece imprevisti, che hanno reso l’impresa, oltre che ardua, anche affascinante». Affrontando problemi inerenti alla trasmissione del testo, alla traduzione e alla interpretazione, Berti mostra – contro una lettura teologizzante, di origine neoplatonica – il tratto problematico della filosofia aristotelica: la metafisica non è né teologia, né ontologia, ma scienza delle cause prime.
Aristotele Eubulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Guida, 2019.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Storia della Metafisica (a cura di), Morcelliana, 2019.
Sulla base del presupposto unanimemente riconosciuto che la metafisica, quale che sia il suo valore, ha avuto una storia, il volume individua i momenti salienti di quest’ultima in alcuni grandi filosofie correnti di pensiero: Platone, Aristotele, il platonismo antico, la metafisica arabo-islamica, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Suárez, Cartesio, Kant, Hegel, Rosmini, Heidegger, il neotomismo, la filosofia analitica. Ne risulta una storia equilibrata, ricca e coinvolgente, forse unica nel suo genere, di indubbio interesse per chiunque si occupi di filosofia.
Anche chi non è platonico, come chi scrive qui, deve tuttavia riconoscere che il platonismo, pur interpretato nella maniera più cruda, meno accomodante, meno simpatica, cioè come affermazione che il vero mondo è un «altro mondo», ha il grande merito di mostrare, appunto, che ci può essere dell’altro, che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile. Questo è un messaggio che, forse, lascia indifferente chi in qualche modo se la spassa, ma non può lasciare indifferente chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.
***
È possibile riconoscere l’attualità di Platone anche senza essere platonici? La domanda ha un senso, perché il mondo è ancora pieno di platonici, anzi lo è sempre stato, non solo tra i filosofi spiritualisti di ispirazione cristiana – meno tra gli ebrei e musulmani –, ma anche tra i “laici” (basti pensare ai neoplatonici). Questo è un fatto innegabile, sebbene alcuni aspetti del pensiero platonico sembrino francamente inaccettabili: la convinzione che il vero mondo non è quello in cui viviamo, ma un altro; l’assoluta indipendenza dell’anima dal corpo; la necessità che il governo politico sia in mano ai filosofi; l’abolizione della famiglia e della proprietà. Malgrado tutto ciò, anche chi non è platonico deve riconoscere che Platone è ancora attuale, non solo perché ha influenzato l’intera storia della filosofia, al punto che questa è stata considerata una serie di note al suo pensiero, e pare che ancora oggi sia il filosofo più citato di tutti, come sostiene chi si diverte con questo genere di calcoli, ma soprattutto perché ha determinato alcune svolte, dalle quali non si è più tornati indietro.
Indicare in che consiste l’attualità di Platone, però, non è facile, soprattutto perché non è facile stabilire esattamente qual è stato il suo pensiero. Non mi riferisco alla vexata quaestio – ormai, mi sembra, un po’ passata di moda – se il vero Platone sia quello dei dialoghi o quello delle «dottrine non scritte». Mi riferisco a un problema che nasce proprio dalla lettura dei dialoghi e del quale gli studiosi stanno prendendo coscienza in maniera sempre più acuta: dove sta il pensiero di Platone? In ciò che dice il Socrate della maggior parte dei dialoghi, o in ciò che dice, ad esempio, Parmenide nel dialogo omonimo, lo Straniero di Elea nel SoflSta, Timeo nel Timeo, insomma gli altri personaggi dei dialoghi? Questa relativa indeterminatezza sembra conferire al pensiero di Platone un fascino anche maggiore, perché non lo si può mai inchiodare su una posizione determinata, come ha tentato di fare per primo Aristotele, per poterlo meglio criticare.
Una prima svolta prodotta da Platone nella storia della filosofia è quella che Socrate chiama, nel Fedone, la «seconda navigazione». Il personaggio di Socrate, che qui è considerato portavoce di Platone, dopo avere raccontato che da giovane cercava di conoscere le cose con i sensi seguendo in ciò l’esempio di filosofi a lui precedenti come Anassagora – chiamati poi per questo «presocratici» –, afferma che a un certo punto gli parve necessario «rifugiarsi nei logoi e cercare in essi la verità degli enti». Che cosa sono questi logoi? Discorsi? Concetti? Idee? Ogni interpretazione è possibile. Ma certamente essi non sono più la realtà sensibile. Lo sono tra quelli che credono nella separatezza delle Idee platoniche – come Aristotele, ma anche come il «platonico» Cherniss –, tuttavia mi rendo conto che senza passare per le Idee, sia pure separate, non si sarebbe mai giunti al concetto astratto, e quindi alla dialettica, alla scienza, alla filosofia. Da allora, infatti, non si è più tornati indietro, fuorché in qualche filosofia rozza e primitiva che non merita nemmeno questo nome.
Un’altra svolta è stata la concezione del principio supremo non come Dio, o l’Essere, o l’Uno, ma anzitutto come il Bene. Ciò ha comportato tutta una serie di conseguenze a cascata. La filosofia non è più stata vista come pura conoscenza, metafisica astratta, ma come nuovo modo di vivere, come vera e propria conversione alla ricerca della giustizia, della virtù, del bene appunto, per se stessi e per gli altri: filosofia teoretica e insieme pratica, metafisica e insieme etica, ma anche politica, anzi soprattutto politica. È nata così la domanda «che cos’è la giustizia», per rispondere alla quale Platone nel suo capolavoro, la Repubblica, spiega addirittura come è fatta l’anima umana, mostrando quanto essa sia complessa, conflittuale, e come deve essere fatta la città, cioè la società politica, per essere “giusta”. Al di là degli aspetti paradossali di questa dottrina, di cui Platone stesso era perfettamente consapevole e che tuttavia hanno rivelato quale può essere l’efficacia anche storica dell’utopia, tutta la faccenda del governo dei filosofi e dell’abolizione della proprietà ha un significato profondo, imperituro. Essa significa che i governanti non devono avere interessi privati, per potersi dedicare interamente alla ricerca del bene comune. E che non devono essere solo onesti, ma anche intelligenti, cioè devono sapere qual è il vero bene e come lo si realizza. Anche gli aspetti secondari, se vogliamo chiamarli così, della Repubblica, hanno una loro grandezza, che permane immutata. Pensiamo alla grandiosa descrizione dei pericoli che corre la democrazia, quando nessuno obbedisce più ad alcuna legge, nessuno riconosce più alcuna autorità, e chi ne approfitta è solo il tiranno, che sta sempre in agguato e sa più di tutti persuadere, adulare, eccitare, sobillare, ingannare il demos. Ma pensiamo anche alla scandalosa condanna che Platone pronuncia dell’arte, della poesia in particolare, di Omero soprattutto, da lui considerato il più grande di tutti i poeti. Questa condanna dimostra che nessuno, meglio di Platone, ha capito la potenza straordinaria dell’arte e della poesia, la sua irresistibile capacità di incantare, la sua origine quasi divina, e per questo egli l’ha tanto temuta.
Allo stesso modo nessuno meglio di Platone, malgrado il suo rifugiarsi nei logoi, ha capito la potenza immane dell’eros che – come si legge nel Simposio – prima di sublimarsi nell’amore per la bellezza in sé e la bontà in sé, è amore per i bei corpi, desiderio di generare, e può diventare anche follia, tragica – ma in qualche misura anche demoniaca, che bisognerebbe tradurre con “soprannaturale”. Platone ha scandagliato per primo le profondità dell’anima umana, descrivendone i lati più oscuri, le voglie più ancestrali, ma al tempo stesso ha sentenziato che l’uomo è essenzialmente la sua anima e che questa deve cercare di liberarsi il più presto possibile del corpo, per essere felice tutta raccolta in sé stessa e assorta nella contemplazione delle Idee. Per Platone il bene, il vero Bene, non è «fragile», come ha sostenuto a proposito di Aristotele Martha Nussbaum, perché la filosofia è autosufficiente.
Nietzsche, seguito da Heidegger, ha visto nel platonismo l’emblema della metafisica intesa come nichilismo passivo, negazione della vita, evasione dalla realtà, e ha coinvolto nella sua condanna di questo platonismo anche il cristianesimo, da lui considerato una sorta di «platonismo per il popolo». Ma Nietzsche ha sempre ha avuto una grande ammirazione per Platone (come del resto per Gèsù Cristo), da lui intensamente studiato sin dalla giovinezza, mentre ha scritto invece parole crudeli all’indirizzo del povero Socrate. Anche chi non è platonico, come chi scrive qui, deve tuttavia riconoscere che il platonismo, pur interpretato nella maniera più cruda, meno accomodante, meno simpatica, cioè come affermazione che il vero mondo è un «altro mondo», ha il grande merito di mostrare, appunto, che ci può essere dell’altro, che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile. Questo è un messaggio che, forse, lascia indifferente chi in qualche modo se la spassa, ma non può lasciare indifferente chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.
Enrico Berti,Platone l’antiplatonico, articolo pubblicato in: “Il Sole-24 ore”, Domenicale del 30 dicembre 2006, p. 31.
Enrico Berti
Pensare con la propria testa?
Lezione tenuta nel Corso di Metodologia dell’insegnamento filosofico dell’Università di Padova il 31 maggio 2004. Il testo è stato pubblicato nel 2006 in: Enrico Berti, Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, pp. 281-294, cui si rimanda.
La filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.
Il titolo di questa conversazione riprende quello di un articolo di Franca D’Agostini, pubblicato nella rivista “Intersezioni” dell’agosto 2003,[1] aggiungendovi soltanto il punto interrogativo (di cui vedremo la ragione). Franca D’Agostini è la nota e intelligente autrice del fortunato libro Analitici e continentali (Milano 1997), che ha divulgato anche in Italia una contrapposizione del tutto impropria, perché costruita con due categorie tra loro eterogenee, una di tipo metodologico e l’altra di tipo geografico, ma tuttavia utile per classificare la maggior parte dei filosofi contemporanei. Tale contrapposizione è stata infatti coniata, non a caso, da un filosofo analitico, Kevin Mulligan, che l’ha lanciata, se non erro, nel Time’s Literary Supplement, contrapponendo per mezzo di essa i filosofi analitici a tutto il testo del mondo, e ha dato luogo a vari dibattiti, di cui in Italia è rimasto famoso quello sviluppato nel supplemento domenicale del “Sole-24 ore” del 1998. In quest’ultimo è intervenuto anche un altro filosofo analitico, Michael Dummett, con una perfetta illustrazione delle caratteristiche dei due tipi di filosofi, ovvero dei due stili, o modi, di fare filosofia.
Lo stesso Mulligan, in un recente saggio su John Searle, rivendica alla filosofia analitica il rifiuto del principio di autorità e il diritto a “pensare con la propria testa”, accusando i “continentali” di pensare con la testa dei filosofi del passato.[2] Egli così riprende la nota tesi di Kant, il quale nella Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, non solo indicò “il motto dell’illuminismo” nella nota esortazione “abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto!”, ma usò come equivalente a questa proprio l’espressione “pensare con la propria testa”. Dopo avere infatti osservato che pensare può essere faticoso, perché “io ho un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che per me decide quale debba essere la mia dieta, ecc., e quindi non ho bisogno di badare a me stesso. Purché solo possa pagare, non è necessario ch’io pensi; altri si assumeranno per me questa noiosa incombenza”, Kant aggiunge che tuttavia “si troveranno sempre […] delle persone che pensano con la propria testa, e che, scrollatesi di dosso il giogo della minorità, diffonderanno il sentimento d’un apprezzamento razionale del valore di ogni uomo e della sua vocazione a pensare da sé”.[3]
Kant, come è noto, faceva di questo concetto il nucleo della sua dottrina sul metodo dell’insegnamento della filosofia, secondo la quale non si deve insegnare la filosofia, ma si deve insegnare a filosofare. Già nello scritto “precritico” Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766 egli sostiene infatti che in generale “uno studente non deve imparare pensieri (Gedanken), ma deve imparare a pensare (denken)”. E, per quanto riguarda in particolare la filosofia, egli precisa: “il giovane licenziato crede che imparerà filosofia, ma questo è impossibile, perché ora deve imparare a filosofare (philosophiren)”.[4] Mentre, infatti, altre scienze, quali ad esempio la geometria, esistono già in una forma sistematica, sulla quale tutti convengono, per esempio gli Elementi di Euclide, ciò non accade assolutamente per la filosofia. “Per imparare la filosofia – scrive Kant – bisognerebbe, anzitutto, che ce ne fosse realmente una. Bisognerebbe poter mostrare un libro e dire: vedete, qui è la sapienza e la conoscenza sicura; imparate ad intenderlo e a capirlo, poi costruiteci su, e sarete filosofi. Finché non mi si mostrerà un tal libro di filosofia […], mi si permetta di dire che si abusa della capacità delle persone”. Per questo, conclude Kant, “il metodo peculiare dell’insegnamento della filosofia è zetetico, come lo chiamavano alcuni antichi (da zetein), cioè indagativo, e diventa in vari punti dommatico, cioè determinato, solo per la ragione alquanto esercitata”.[5]
La stessa posizione Kant mantiene nella Critica della ragion pura, dove scrive: “Tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia (salvo storicamente); ma, per ciò che concerne la ragione, tutt’al più si può imparare a filosofare”. E più avanti: “Non si può imparare alcuna filosofia; perché dove è essa, chi l’ha in possesso, e dove essa può conoscersi? Si può imparare soltanto a filosofare, cioè ad esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi principi generali a certi tentativi che ci sono, ma sempre con la riserva del diritto della ragione di cercare questi principi stessi alle loro sorgenti e di confermarli o rifiutarli”.[6] Qui sono interessanti la riserva circa la storia e l’accenno alle sorgenti, su cui ritorneremo, ma non c’è dubbio che viene ribadita la tesi già espressa nella Notizia, la quale rimarrà una tesi classica nel dibattito sull’insegnamento della filosofia.
Alla tesi di Kant si ispira esplicitamente l’insegnamento della filosofia nelle scuole francesi, cioè nelle scuole del Paese che, insieme con l’Italia, è certamente quello in cui la filosofia occupa lo spazio maggiore nella formazione dei giovani, collocandosi all’interno del liceo. È noto, infatti, che in Francia si insegna filosofia al liceo, anche se, a differenza che in Italia, solo nell’ultimo anno; ma in quest’anno la filosofia è sicuramente l’insegnamento più importante, che in certi indirizzi raggiunge anche le nove ore alla settimana, per cui l’ultimo anno del liceo è chiamato anche classe de philosophie. Ebbene, nei documenti ufficiali diffusi dal Ministère de l’Education nationale, si è sempre dichiarato che lo scopo dell’insegnamento della filosofia è di insegnare ai giovani à faire de la philosophie (in francese non esiste il verbo “filosofare”). A questo proposito un recente Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia parla della “dottrina ufficiosa” che ispira l’insegnamento della filosofia in Francia da più di un secolo e che si compendia nelle seguenti affermazioni: “L’insegnamento della filosofia è un insegnamento filosofico. La sua prima finalità non è che l’allievo sappia che cosa dice Platone o Cartesio, ma che apprenda a fare una riflessione filosofica con i propri mezzi e sviluppi così il suo spirito critico e la sua autonomia di giudizio”.[7] Anzi per molti anni negli ambienti scolastici francesi si è criticato il metodo italiano dell’insegnamento della filosofia, perché esso si limita esclusivamente alla storia della filosofia e non insegna minimamente a “fare della filosofia”.
Ma torniamo all’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa”. Su di essa non si può non essere d’accordo: non solo l’insegnamento della filosofia, ma l’intera educazione deve formare a pensare con la propria testa, se con questa espressione si intende l’esercizio del senso critico, lo spirito di osservazione personale, il rifiuto dei pregiudizi, la disponibilità al confronto con gli altri, e tutte le capacità di questo genere. Ma siamo sicuri che questo sia l’unico significato della suddetta espressione? A proposito di essa fa alcune interessanti considerazioni Franca D’Agostini nell’articolo sopra citato. Anzitutto ella precisa che, con tale esortazione, Kant non intendeva affermare il primato delle proprie idee e il disprezzo delle idee altrui, poiché in una lettera a Herder del maggio 1768 egli scrisse: “quanto a me, non mi afferro saldamente ad alcunché e con profonda imparzialità combatto tanto le mie opinioni quanto quelle altrui”.[8] Ma poi la stessa D’Agostini osserva molto acutamente: “il problema di fondo, nel tema del ‘pensare con la propria testa’, è che se c’è una testa, per così dire, essa difficilmente è propria o interamente propria”.[9]
Qui emerge tutta la consapevolezza critica, propria dei filosofi “continentali”, degli innumerevoli condizionamenti a cui ciascuno di noi è sottoposto: l’ambiente sociale in cui si è nati, l’educazione che si è ricevuta, la propria storia, la propria cultura, le tendenze, le aspettative, le speranze, ma anche i pregiudizi, le idiosincrasie e, soprattutto oggi, l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, della pubblicità, della moda. Una volta, al tempo di Kant, bisognava guardarsi dal principio di autorità, perché qualche autorità c’era. Oggi non si sono più autorità, quindi non c’è più alcun pericolo di essere vittime di tale principio, ma quanto più lo si rifiuta, tanto più si è vittima di altri condizionamenti. Anche i filosofi, che dovrebbero essere gli spiriti più critici, sono terribilmente vittime delle mode. Non parlo solo di abbigliamento, è evidente, anche se l’accettazione immediata e passiva della moda nell’abbigliamento è già un segno che dovrebbe suscitare qualche sospetto. Parlo delle mode culturali, intellettuali, filosofiche, quelle per cui “dopo il tale (che può essere Kant, o Marx, o Nietzsche, o Freud, o Heidegger, o Quine) non è più possibile dire che”, oppure “oggi è ormai assodato che”, o “la tal epoca è ormai finita”, per cui bisogna necessariamente essere “post” qualche cosa, “post-metafisici”, “post-cristiani”, “post-moderni”, ecc.
Ciò fu visto con grande chiarezza, come ricorda D’Agostini, da Hegel, al quale si deve un’altra tesi, non meno classica di quella di Kant, anche se non più illuministica, da far valere nel dibattito sull’insegnamento della filosofia. Hegel, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, dichiara: “La smania di pensare con la propria testa sta in ciò, che ognuno metta fuori una sciocchezza più grossa di un’altra”[10]. L’uso dell’espressione “pensare con la propria testa” può dare l’impressione che Hegel intenda polemizzare proprio con Kant, ma ciò non è vero, perché, come giustamente nota D’Agostini, la polemica è rivolta invece contro i filosofi romantici, cioè Eschenmayer e Jacobi. “Quest’oratoria profetica e scevra di concetto – scrive a proposito di essi Hegel – proclama dal tripode questo e quello circa l’essenza assoluta, ed esige che ognuno debba trovare immediatamente tutto questo nel proprio cuore. Il conoscer l’essenza assoluta diventa affare di cuore; è una folla d’inspirati a parlare, e ciascuno di essi dice un monologo, e capisce veramente l’altro solo nella stretta di mani e nel silenzio del sentimento. Quel che essi dicono, sono per lo più cose banali, se si prendon così come sono dette; il sentimento, l’atteggiamento, la pienezza del cuore son essi che debbono dare forza al discorso, – per sé non dicono nulla. Essi cercano di superarsi l’un l’altro con le trovate della fantasia, con la poesia nostalgica”. Certo, si tratta di un modo molto particolare di intendere il “pensare con la propria testa”, ma esso non è raro nemmeno tra i filosofi di oggi – non tra gli analitici, va detto, bensì proprio tra i continentali – che spesso hanno l’aria di ispirati, o di iniziati, che hanno scoperto da soli la verità e si decidono a rivelarla al volgo, evitando qualsiasi argomentazione e lasciandosi andare, nel migliore dei casi, a una serie di asserzioni del tutto ingiustificate, quando non oscure o addirittura incomprensibili.
“Per il filosofare – continua Hegel – non c’è speranza, l’onore è perduto; infatti esso presuppone un fondo comune di pensieri e di principi, esige che si proceda scientificamente o per lo meno esige opinioni. Ma ora tutto è stato riposto nella particolare soggettività; ognuno è diventato altezzoso e sprezzante verso gli altri. A questo si ricongiunge la rappresentazione del pensare con la propria testa, come se ci potesse esser pensiero che non sia tale”.[11] Evidentemente l’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa” aveva avuto successo, anche troppo, ed era stata distorta in un diritto ad esaltare la propria soggettività, la propria creatività, infischiandosi del “fondo comune di pensieri e di principi”. Le opinioni, che secondo Hegel il filosofare esige, sono quelle che devono essere messe in discussione, quelle che Kant voleva combattere, sia le proprie che le altrui, ma in un dibattito comune, in una dialogo con gli altri, il quale non sia il monologo di un ispirato, bensì la discussione di chi argomenta, di chi confuta o anche di chi dimostra.
È interessante, a questo proposito, richiamare anche le idee di Hegel sull’insegnamento della filosofia. Egli fu, come è noto, per alcuni anni rettore, cioè preside, del ginnasio di Norimberga (1808-1816), e questi furono gli anni in cui scrisse la Scienza della logica (1812-1816), cioè quelli in cui giunse ad elaborare in forma compiuta il suo sistema. Nel 1812 fu richiesto dal Regio consigliere scolastico superiore per la Baviera (una specie di ministro dell’istruzione), Immanuel Niethammer, di un parere riservato sull’insegnamento della filosofia del ginnasio. In questo parere Hegel scrisse, tra l’altro: “In generale, si distingue il sistema filosofico, con le sue scienze particolari, dal filosofare vero e proprio. Secondo la moda moderna, specialmente della pedagogia, non si deve tanto venire istruiti nel contenuto della filosofia quanto imparare a filosofare senza contenuto; ciò vuol dire, pressappoco: si deve viaggiare, viaggiare sempre, senza conoscere le città, i fiumi, i paesi, gli uomini, ecc.”.[12] Evidentemente la tesi di Kant aveva avuto successo anche in Baviera, specialmente tra i pedagogisti, anche allora nemici dei contenuti ed amici soprattutto dei metodi (nihil sub sole novum).
A questa tesi (dei pedagogisti bavaresi, più che di Kant) Hegel risponde con tre argomenti. “In primo luogo, nel conoscere una città, nel giungere poi ad un fiume, ad un’altra città, e così via, si impara senz’altro, in tal modo, a viaggiare, e non s’impara soltanto, ma si viaggia effettivamente. Così quando si viene a conoscenza del contenuto della filosofia, non si impara soltanto il filosofare, ma si filosofa anche già effettivamente”.[13] Evidentemente per Hegel, a differenza che per Kant, la filosofia da qualche parte esiste già ed è costituita, come vedremo tra poco, da un lato dal sistema delle scienze filosofiche, quello che lo stesso Hegel si accingeva ad esporre nella sua Enciclopedia, e dall’altro dalla storia della filosofia, la cui conoscenza, secondo Hegel, è già un modo per filosofare.
“In secondo luogo – continua Hegel – la filosofia comprende i più alti pensieri razionali intorno agli oggetti essenziali, comprende l’universale e il vero dei medesimi: è di grande importanza acquisire familiarità con questo contenuto, e accogliere nella propria testa questi pensieri. Il procedimento triste, meramente formale, il perenne cercare e vagare, senza contenuto, l’asistematico sofisticare e speculare, hanno come conseguenza la vacuità e la mancanza di pensieri in testa, il fatto che non si sappia nulla. La dottrina del diritto, la morale, la religione costituiscono un campo dotato di un importante contenuto; anche la logica è una scienza ricca di contenuto: quella oggettiva (Kant: trascendentale) comprende i pensieri fondamentali di essere, essenza, forza, sostanza, causa, ecc.; l’altra i concetti, i giudizi, i sillogismi, ecc., determinazioni fondamentali altrettanto importanti; la psicologia comprende il sentimento, l’intuizione, ecc.; l’enciclopedia filosofica, infine, in generale questo campo nella sua interezza”. Il riferimento al “pensare con la propria testa” continua ad essere presente, ma viene inteso come un “accogliere nella propria testa questi pensieri”, e non in polemica con Kant, il quale anzi viene citato come autore della logica oggettiva. Si noti inoltre come Hegel non proponga quale contenuto della filosofia soltanto il proprio sistema, ma anche le discipline filosofiche tradizionali, di origine addirittura aristotelica.
Una riflessione merita anche, a mio avviso, la polemica contro “il perenne cercare e vagare”, oggi tanto di moda in nome della problematicità, della criticità, dell’apertura. La filosofia deve certamente cercare, lo dice il suo stesso nome, e il suo metodo non può essere che quello “zetetico”, come diceva Kant. Questi lo chiamava anche “metodo scettico”, ma aggiungeva subito: “Esso è da distinguere del tutto dallo scetticismo, principio di una inscienza secondo arte e scienza, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza”.[14] Un cercare fine a se stesso è solo ipocrisia, perché chi cerca sinceramente, cerca per trovare, non per cercare. Chi cerca solo per cercare, non cerca, ma finge di cercare, perché non gli importa assolutamente nulla di ciò che cerca. Anche il mio maestro, Marino Gentile, diceva che la filosofia è “un domandare tutto che è tutto domandare”, ma con ciò intendeva dire che essa non contiene alcuna risposta già data, cioè presupposta, non che essa non aspira ad alcuna risposta. Anzi, a questo proposito paragonava il domandare alla potenza, ed affermava con Aristotele che più della potenza conta l’atto, e che una potenza incapace di passare all’atto non vale nulla.
Infine, ecco il terzo argomento di Hegel: “In terzo luogo, il procedere nella conoscenza di una filosofia ricca di contenuto non è altro che l’apprendere. La filosofia deve essere insegnata e appresa, al pari di ogni altra scienza. L’infelice prurito di insegnare a pensare da sé (Selbstdenken) ed a produrre autonomamente ha messo in ombra questa verità; come se, quando io imparo che cosa sia la sostanza, la causa o qualsiasi altra cosa, non pensassi io stesso, non producessi io stesso nel mio pensiero queste determinazioni, ma queste venissero invece gettate in esso come pietre”. In queste parole, forse discutibili nell’equiparazione della filosofia a tutte le altre scienze, io leggo la preoccupazione di salvaguardare il carattere professionale della filosofia, e quindi anche del suo insegnamento. Non ci si improvvisa filosofi, la filosofia non è un’attività spontanea, immediata, dilettantesca, ma è anche una professione, un sapere, che richiede una competenza, professionalità. E non è detto che questa competenza serva solo per fare filosofia: nella Facoltà di Medicina dell’Università di Padova, ad esempio, si ritiene utile da qualche anno impartire agli studenti di medicina, che non faranno mai i filosofi, alcune lezioni di filosofia: non di “filosofia della medicina”, ma di filosofia pura e semplice, in cui si spieghino, nella fattispecie, le nozioni di causa, effetto, fine, ecc.
Hegel continua la sua perorazione con un esempio che farà discutere: “Come se, quando ho imparato bene il teorema di Pitagora e le sue dimostrazioni, non fossi io stesso a conoscere questo teorema e a dimostrarne la verità; nella misura in cui lo studio filosofico è in sé e per sé un’attività autonoma (Selbsttun, un fare da sé), esso è un apprendere; l’apprendere una scienza già esistente, formata”. Questa sembra essere proprio una risposta a Kant, il quale osservava che la filosofia non esiste come una scienza già bell’e fatta, che si possa apprendere da un libro, e vedeva in questo la sua differenza dalla matematica, in cui rientra appunto il teorema di Pitagora. E non si può dargli torto, se per scienza si s’intende una scienza come la matematica. Ma non è alla matematica che pensa Hegel, malgrado il suo esempio. Egli infatti aggiunge: “Questa è un patrimonio costituito da un contenuto acquisito, elaborato, formato: questo bene ereditario disponibile dev’essere acquistato dall’individuo, ossia, venire appreso. L’insegnante lo possiede: egli lo pensa dapprincipio, e dopo di lui lo ripensano gli allievi. Le scienze filosofiche contengono dei propri oggetti, pensieri universali, veri; esse sono il prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi; questi pensieri veri superano ciò che un giovane non istruito produce col proprio pensiero di quanto quella massa di lavoro geniale supera la fatica di questo giovane”. Dunque è nel “prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi”, cioè nella storia della filosofia, che va ricercata la filosofia: in questo, come abbiamo visto, anche Kant era d’accordo, quando, dopo avere affermato che “tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia”, precisava “salvo storicamente”.
Certo, la storia della filosofia che contiene in sé la filosofia non è quella che lo stesso Hegel ha definito “la filastrocca di opinioni”, da Talete a giorni nostri, che ci raccontano i (cattivi) manuali o le storie della filosofia di impostazione dossografica. Queste non possono che produrre, nei giovani, il più completo disorientamento, e quindi lo scetticismo. La storia della filosofia che contiene in sé la filosofia è costituita dalle opere dei grandi filosofi, dalle quali anche i giovani che frequentano il liceo possono attingere qualche briciola di filosofia, leggendone qualche pagina, come leggono qualche pagina della grande poesia o della grande letteratura. In tal modo essi possono, almeno una volta nella vita, fare esperienza di che cosa significa affrontare un problema di senso, o di verità, in modo razionale, cioè senza fare ricorso ad una tradizione familiare, o ad una fede religiosa, o ad un’ideologia politica, ma con argomentazioni, con discussioni a favore e contro, con domande, risposte e confutazioni.
Ma vediamo anche che cosa pensava Hegel a proposito dell’insegnamento della filosofia nell’università. Sempre da Norimberga, nell’agosto del 1816, quando ormai stava per essere chiamato alla cattedra di filosofia dell’università di Heidelberg (ma già aveva insegnato, come Privat-dozent, all’università di Jena), Hegel scrisse al Regio consigliere, questa volta del governo di Prussia, Friedrich von Raumer, una lettera sull’insegnamento della filosofia nell’università, nella quale esordisce così: “Comincio subito come in generale si potrebbe cominciare questo discorso, poiché può apparire una cosa molto semplice, con l’osservazione che per l’insegnamento della filosofia dovrebbe valere soltanto quello che vale per l’insegnamento delle altre scienze”.[15] Per capire il senso di queste parole bisogna aver vissuto la situazione del professore di filosofia nell’università, continuamente tenuto a dover giustificare, presso i suoi colleghi delle facoltà scientifiche, la sua presenza, il suo diritto al riconoscimento di una dignità scientifica, e quindi a spazi adeguati, finanziamenti adeguati, posti di collaboratore adeguati. Se tutto ciò è invece incerto, o in discussione, è per colpa di quanti presentano la filosofia non come un sapere, ma come un “pensare con la propria testa”. Per fare questo, infatti, che bisogno c’è di spazi, di fondi, di posti? Basta avere una testa.
Forse anche al tempo di Hegel c’erano filosofi che giustificavano i sospetti dei propri colleghi scienziati, poiché nella citata lettera egli scrive: “Abbiamo visto dare una maggiore ampiezza alle idee generali con l’aiuto della fantasia, che mescolava alto e basso, vicino e lontano in un modo brillante ed oscuro (sottolineatura mia), spesso con profondità ed altrettanto spesso con superficialità assoluta, ed inoltre utilizzava quelle regioni della natura e dello spirito che sono per se stesse oscure ed arbitrarie. Un cammino opposto, diretto anch’esso ad una maggiore estensione, è quello critico e scettico, che ha nel materiale esistente una materia nella quale esso procede ma che d’altronde vanifica, traendone dispiacere e risultati negativi, fonti di noia. Se questo cammino serve pure in qualche modo ad esercitare l’acume, mentre il mezzo della fantasia vorrebbe invece sortire l’effetto di svegliare un effimero fermento dello spirito – ciò che si chiama anche edificazione – e di accendere di per sé nei pochi l’idea universale, nessuna di queste maniere fa tuttavia ciò che va fatto, e che è lo studio della scienza ”.[16]
L’insegnamento della filosofia nell’università (non stiamo più parlando del ginnasio o del liceo) dunque non deve né edificare, né semplicemente esercitare l’acume: altre discipline possono svolgere questo compito, forse meglio della stessa filosofia. Quanto al “modo brillante ed oscuro” con cui alcuni insegnano filosofia nell’università, Hegel coglie perfettamente la disonestà di questo atteggiamento, che per fare effetto si sottrae ad ogni possibilità di controllo, ed approfitta dell’inferiorità culturale degli studenti per épater. Piero Martinetti diceva, come è noto, che la chiarezza è l’onestà del filosofo, perché permette a tutti di valutare “con la propria testa” se ciò che il filosofo dice risponde a verità, o è minimamente convincente. Quando invece un filosofo è oscuro, chi può valutare ciò che egli afferma? La chiarezza è l’analogo, per il filosofo, di ciò che è il teatro anatomico per l’anatomista: in esso tutti possono constatare con i propri occhi, a distanza ravvicinata, se ciò che il docente afferma corrisponde a ciò che si vede.
Ma nell’università c’è un altro rischio che Hegel chiaramente denuncia, quello per cui ciascun professore vuole avere e insegnare il suo proprio sistema. “È diventato un pregiudizio – scrive Hegel sempre nella lettera a von Raumer – , e non solo nello studio filosofico, ma anche nella pedagogia – e in questa ancor più grave – che il pensare indipendente (Selbstdenken) debba essere esercitato e sviluppato, in primo luogo, nel senso che esso non dipenda dall’elemento materiale e, in secondo luogo, come se l’imparare fosse opposto al pensare indipendente […]. Secondo un errore comune, sembra che su un pensiero il sigillo dell’indipendentemente pensato (des Selbstgedachten) sia impresso solo quando esso si scosti dai pensieri degli altri uomini […]. In altre parole, è nata da qui la smania per cui ciascuno vuole avere un suo proprio sistema, e per cui un’idea è considerata tanto più originale ed eccellente quanto più è insulsa e folle, poiché essendo tale essa mostra al massimo la propria originalità e diversità dai pensieri degli altri”.[17]
L’errore a cui Hegel allude è quello di credere che “pensare con la propria testa” voglia dire avere un proprio sistema filosofico, necessariamente diverso da quelli già pensati da altri, e che il valore principale in filosofia non sia la verità, ma l’originalità. Naturalmente l’ammonizione a non cadere in questo errore vale sia per i docenti che per gli studenti. Ai docenti bisognerebbe inoltre ricordare quanto ebbe a scrivere Max Weber nella sua famosa conferenza su La scienza come professione, cioè che “la cattedra non è per i profeti e i demagoghi. Al profeta e al demagogo è stato detto: ‘Esci per le strade e parla pubblicamente’. Parla, cioè, dov’è possibile la critica. Nell’aula, ove si sta seduti di faccia a i propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza del senso di responsabilità approfittare di questa circostanza – per cui gli studenti sono obbligati dal programma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire a controbatterlo – per inculcare negli ascoltatori le proprie opinioni, invece di recar loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche”. E più oltre: “L’insegnante universitario deve desiderare e proporsi di giovare con le sue conoscenze e i suoi metodi”.[18]
Contro l’originalità a tutti i costi, che spesso si trasforma in oscurità e incapacità di comunicare, Hegel osserva: “La filosofia ottiene la possibilità di essere appresa, per mezzo della sua determinatezza, con tanto maggiore precisione quanto più essa diventa, in tal modo soltanto, comunicabile e capace di divenire un bene comune. Come essa, da una parte, vuole essere oggetto di uno studio particolare, e non è già per natura un bene comune per il solo fatto che ogni uomo in generale è dotato di ragione, così la sua universale comunicabilità le toglie anche l’apparenza – che, tra le altre, essa ha avuto negli ultimi tempi – di essere un’idiosincrasia di alcune menti trascendentali”.[19] Da un lato, insomma, non si deve credere che ogni uomo sia filosofo per il solo fatto di possedere la ragione, perché la filosofia, come abbiamo visto, è un sapere ed esige una precisa competenza, una professionalità; dall’altro lato, essa è un sapere comunicabile, non riservato soltanto a pochi iniziati, o a menti dotate di un quoziente intellettuale eccezionale, ma deve essere resa accessibile a tutti, tramite – ovviamente – un adeguato lavoro di studio e di apprendimento.
Infine contro la concezione della filosofia come edificazione Hegel scrive: “Come scienza propedeutica la filosofia ha in particolare da provvedere all’educazione (Bildung) e all’esercizio formale del pensiero; essa può far ciò solo per mezzo di un completo allontanamento dal fantastico, per mezzo della determinatezza dei concetti e di un procedimento conseguente e metodico; essa deve poter procurare quell’esercizio in una misura superiore alla matematica poiché non ha, come questa, un contenuto sensibile. Ho menzionato prima l’edificazione che spesso ci si attende dalla filosofia; a mio parere, anche quando viene presentata alla gioventù essa non deve mai essere edificante. Ma deve soddisfare ad un bisogno affine […]; compito della filosofia dev’essere giustificare ciò che ha valore per la conoscenza, coglierlo e comprenderlo in pensieri determinati e quindi proteggerlo da oscure deviazioni”[20].
Ebbene, l’unica conoscenza filosofica su cui esista l’accordo universale tra i filosofi è la conoscenza della storia della filosofia. Perciò anche in Francia, recentemente, si è messa in discussione la “dottrina ufficiosa”, cioè tradizionale, secondo la quale bisogna insegnare a fare della filosofia, come risulta dal già citato Manifesto. Tale discussione ha portato a proporre tutta una serie di nuovi “cantieri”, ovvero criteri, per l’insegnamento della filosofia. Tra i primi ce n’è subito uno che recita: “Riconoscere che l’imparare a filosofare implica un apprendimento e che insegnare la filosofia è un mestiere”[21]. Rimane dunque lo scopo della “dottrina ufficiosa”, ma si riconosce che, per attingerlo, è necessario apprendere prima qualche cosa, cioè un insieme di conoscenze. Di conseguenza l’insegnante di filosofia – si sta parlando del liceo – prima di essere un filosofo, deve essere un professionista che sa trasmettere tale insieme di conoscenze. Infatti il “cantiere” continua dicendo: “Non è privo di controindicazioni identificare puramente e semplicemente il professore di filosofia con un filosofo. Chi fa il filosofo davanti ai suoi allievi non dà loro una formazione, perché li tratta come i discepoli che non saranno mai”.
Un altro “cantiere” del nuovo manifesto recita: “Riconoscere che la filosofia non serve soltanto a filosofare”, e spiega: “ L’insegnamento della filosofia non potrebbe giustificare la posizione che occupa oggi – e ancor meno la sua presenza nei corsi scolastici e universitari – se non potesse mostrare la sua utilità nella formazione intellettuale e culturale di tutti gli allievi”.[22] E un altro ancora recita: “Formarsi alla filosofia significa apprendere a pensare attraverso l’appropriazione di conoscenze filosofiche e non-filosofiche. Si è usato ed abusato della formula kantiana secondo cui non si può apprendere la filosofia ma solo a filosofare”, e spiega: “Per esempio, se il corso di filosofia è organizzato per problemi, questi non possono in modo serio essere affrontati dagli allievi se non attraverso la conoscenza delle principali opzioni filosofiche da cui derivano e attraverso la padronanza progressiva delle distinzioni concettuali che consentono di dar loro un senso. Queste opzioni e queste distinzioni non hanno niente di naturale o di spontaneo. È nella storia della filosofia che esse sono state prodotte ed è solamente lì che possono essere ritrovate. Non si può sfuggire alla domanda: che cosa gli allievi che si accostano al filosofare devono conoscere della storia della filosofia?”.[23]
Nel leggere queste parole si ha l’impressione di trovarsi davanti ad una vera e propria ritrattazione di tutte le critiche che da parte francese sono state rivolte alla scuola italiana ed alla preminenza in essa data all’insegnamento della storia della filosofia. Certo, il metodo “italiano” di insegnare filosofia nei licei non è esente da critiche, specialmente a causa delle deformazioni che i programmi originari della riforma Gentile hanno subito ad opera dei decreti De Vecchi, della conseguente introduzione dei manuali di storia della filosofia e della progressiva sostituzione della lettura dei classici con la “filastrocca di opinioni” menzionata sopra. Contro queste deformazioni ha inteso andare la relazione della Commissione Brocca, quando ha indicato nella lettura dei testi il momento fondamentale e caratterizzante dell’insegnamento della filosofia, dove per “testi” ovviamente si intendono – purtroppo c’è bisogno di precisarlo – le opere dei filosofi, possibilmente dei “grandi” filosofi.
Qualcuno obietterà che non sta scritto da nessuna parte quali sono i “grandi” filosofi e che la loro identificazione dipende dal tipo di filosofia che si professa. Ciò non è vero: come in letteratura esistono i “grandi” poeti, e a scuola si fanno leggere questi, così in filosofia esistono i “grandi” filosofi, cioè i classici, quelli che ritornano continuamente, quelli di cui non si può fare a meno. La loro esistenza si tocca con mano proprio quando si insegna la filosofia contemporanea. Per esempio all’università la maggior parte degli studenti vogliono occuparsi di filosofi contemporanei. Heidegger, naturalmente, è uno di quelli che vanno per la maggiore. Ma quando gli studenti ne prendono in mano le opere, si accorgono che Heidegger non fa che parlare di Platone e di Aristotele, di Kant e di Hegel (per non dire dei presocratici e di Nietzsche), e che non si capisce nulla di Heidegger se non si conoscono questi altri filosofi. Per questo la Commissione Brocca aveva indicato come autori obbligatori Platone, Aristotele, Kant e Hegel, scatenando una ridda di proteste, specialmente da parte dei filosofi analitici, i quali rivendicavano l’importanza degli inglesi (Locke, Hume, Mill). Ebbene, aggiungiamo pure qualche inglese, per far contenti gli analitici, e qualche francese (Descartes, Pascal), per far contenti i francesi (ma allora anche Vico), e qualche santo (Agostino, Tommaso), per far contenti i cattolici. In ogni caso, restiamo ben lontani dalla “filastrocca di opinioni” del manuale.
Non mi addentro nel problema di come leggere i classici, su cui esiste tutta una letteratura. L’importante è anzitutto capirli, realizzando quella che Gadamer chiamava la “fusione di orizzonti”, e poi discuterli, cioè metterli in questione e, se necessario, criticarli. Mentre sulla prima operazione concordo con gli ermeneutici, che oggi sono la maggioranza dei “continentali”, sulla seconda concordo con gli “analitici”, che discutono con i classici come si fossero nostri contemporanei. Le due operazioni sono entrambe necessarie e si riassumono in quell’attività che Aristotele per primo, credo, definì con un verbo che è rarissimo incontrare nella letteratura greca, cioè sumphilosophein, “confilosofare”, fare filosofia insieme. Facendo rientrare anche l’amicizia (philia) tra gli ingredienti che costituiscono la felicità, Aristotele concluse infatti la sua grande trattazione di questa virtù (due interi libri dell’Etica Nicomachea) dichiarando che, per gli amici, cioè per le persone che si vogliono bene, la cosa più desiderabile è fare insieme le cose in cui ciascuno maggiormente identifica il proprio essere, ossia ciò per cui desidera vivere: per i bevitori bere insieme, per i giocatori giocare insieme, per i patiti di ginnastica o per i cacciatori fare ginnastica insieme o andare a caccia insieme, per i filosofi fare filosofia insieme[24]. E chi, per un filosofo, può essere più amico dei grandi filosofi? Quindi facciamo filosofia insieme a Platone o ad Aristotele, a Kant o a Hegel, a Hume, a Wittgentsein o a Heidegger, leggendo e discutendo insieme le loro opere.
Non si tratta, dunque, di apprendere la filosofia da un unico libro che la contenga tutta già bell’e fatta, come temeva Kant: la filosofia non è la geometria (per questo l’esempio del teorema di Pitagora, portato da Hegel, non è il più calzante), cioè non è un discorso dotato di propri principi, a partire dai quali si possano dimostrare dei teoremi. La filosofia, come diceva Hegel, non ha il vantaggio di poter presupporre il proprio oggetto e il proprio metodo, cioè non ha principi. Essa mette in questione tutto, è un “domandare tutto che è tutto domandare”, ma tuttavia non è stata inventata né oggi né ieri, né ciascuno può inventarla da sé. Essa esiste già da tempo e va quindi cercata. Ma bisogna cercarla là dove essa si può trovare, cioè nelle opere dei grandi filosofi, e bisogna imparare a filosofare insieme con loro, cioè partecipando alla loro ricerca. Anche questo è un metodo “zetetico”, come quello voluto da Kant.
Se posso tentare di riassumere l’intero discorso in poche parole, distinguerei ancora una volta l’insegnamento della filosofia nel liceo dall’insegnamento della filosofia nell’università. Nel liceo la filosofia viene insegnata a tutti, anzi molti di noi auspicano che venga insegnata anche negli ex istituti tecnici, in modo che tutti i ragazzi italiani possano fare esperienza, almeno una volta nella vita, di che cosa significa affrontare un problema di senso in modo razionale. Ma dove la filosofia viene insegnata a tutti, non si può pretendere che tutti diventino filosofi. Quindi la filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.
Enrico Berti
[1] F. D’Agostini, Pensare con la propria testa. Un problema metafilosofico e le sue implicazioni filosofiche, “Intersezioni”, 23, 2003, pp. 271-290.
[2] K. Mulligan, Searle, Derrida and the Ends of Phenomenology, in B. Smith (ed.), The Cambridge Companion to Searle, Cambridge 2003.
[3] I. Kant, Scritti sul criticismo, Roma-Bari 1991, pp. 5-6.
[4] E. Kant, Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766, in Vega Scalera, L’insegnamento della filosofia dall’unità alla riforma Gentile, Firenze 1990, doc. 9, sez. 52.
[6] E. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, riveduta da V. Mathieu, Bari 1959, pp. 649-650.
[7] Cf. ACIREPH (Association pour la création des Instituts de Recherche sur l’Enseignement de la Philosophie), Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia, per un possibile confronto con l’Italia, trad. di M. Trombino, in S. Martini (a cura), Per un laboratorio di didattica della filosofia, Roma 2004, pp. 89-114, spec. p. 101.
[8] I. Kant, Epistolario kantiano,Genova 1990, p. 54.
[12] G. W. F. Hegel, La scuola e l’educazione. Discorsi e relazioni (Norimberga 1808-1816), a cura di L. Sichirollo e A. Burgio, Milano 1985, p. 105 (corsivi nel testo).
Sembrava che la scienza moderna avesse confutato Aristotele per sempre. In realtà, oggi le sue idee sono tornate in auge in tanti modi: come l’irreversibilità del tempo di I. Prigogine, l’unità mente-corpo o il continuo matematico in R. Thom. Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni.
La fortuna di Aristotele nella storia della cultura si è sviluppata a periodi alterni rispetto alla fortuna di Platone. Mentre Platone fu amato soprattutto nella tarda antichità, dai filosofi cristiani e dai neoplatonici, e poi dagli umanisti del Rinascimento, Aristotele fu riscoperto dai musulmani nel Medioevo e, per influenza di questi, dai filosofi cristiani della Scolastica, che lo chiamarono «il Filosofo» per antonomasia o, con Dante, «il maestro di color che sanno». Il califfo al-Mamun, regnante a Baghdad nel IX secolo, dichiarò addirittura di aver visto Aristotele in sogno e di averlo sentito proclamare la verità fondamentale dell’Islam, cioè che c’è un solo Dio. I più grandi filosofi musulmani, come l’arabo al-Kindi, il turco al-Farabi, il persiano Ibn Sina (Avicenna) e l’andaluso Ibn Rushd (Averroè), furono tutti aristotelici. Altrettanto si può dire di filosofi cristiani come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, ma anche di Giovanni Duns Scoto e di Guglielmo di Occam. Indubbiamente musulmani e cristiani – ma anche ebrei come Mosè Maimonide – videro nel pensiero di Aristotele, interpretato attraverso il neoplatonismo, il sostegno più solido, cioè più “scientifico”, alle rispettive teologie. Così Aristotele divenne, senza sua colpa, il filosofo dei teologi. Nel Rinascimento gli umanisti riscoprirono Platone, di cui rifondarono a Firenze l’Accademia, ma Aristotele rimase nelle università, in tutte le università europee, di cui costituì il fondamento filosofico. Se Lutero insultò Aristotele, da lui visto come il filosofo della Scolastica, il suo allievo e continuatore Melantone ne fece il maestro delle università protestanti dell’intera Germania. La nascita della scienza moderna, con Galilei e Descartes, determinò nel Seicento l’eclissi della fisica e della cosmologia aristoteliche, ma la logica aristotelica continuò a dominare l’insegnamento universitario almeno fino a Kant, il quale dichiarò – anche se a torto – che dopo Aristotele la logica generale, cioè formale, non aveva fatto alcun progresso. Anche la metafisica di Aristotele riscosse nell’Ottocento l’ammirazione di Hegel, che vide in essa la vera logica della filosofia aristotelica, ma fu sfruttata anche dai critici di Hegel, cioè Feuerbach, Marx e Kierkegaard, che trovarono in essa gli argomenti con cui criticare Hegel. Non parliamo poi di Brentano, che insegnò Aristotele a Husserl, a Meinong, a Twardowski, a Freud e, da postumo, a Heidegger. Nell’Ottocento ebbe una breve eclissi l’etica di Aristotele, temporaneamente soppiantata dall’etica di Kant e poi dall’utilitarismo e dalle scienze umane (antropologia, psicologia, sociologia). Ma quando, a metà del Novecento, ci si rese conto dell’incapacità delle scienze umane di dare giudizi di valore e quindi di orientare la prassi, venne riscoperta l’etica aristotelica, anzi la «filosofia pratica» di Aristotele, intesa come forma di razionalità non scientifica e tuttavia autentica, capace di orientare la prassi. Di qui la valorizzazione della “saggezza” a opera di Gadamer e della sua scuola, delle virtù in generale da parte di McIntyre e dei comunitaristi, della nozione di eudaimonia come piena realizzazione delle capacità umane da parte di Martha Nussbaum e persino di un economista come Amartya Sen. Ma con la filosofia pratica di Aristotele è stata riscoperta anche la sua filosofia politica, che indica nella naturalità della polis la possibilità di un superamento dello Stato moderno ormai manifestamente in declino per la perdita dell’autosufficienza. Un’utilizzazione della politica aristotelica nella direzione di una società politica multinazionale si trova nel cosiddetto «gruppo di Chicago», formato dal cattolico J. Maritain, dal protestante R.M. Hutchins, dall’ebreo M.J. Adler e da altri, autori nel 1951 di un progetto di costituzione mondiale. La metafisica di Aristotele; oltre a rimanere alla base del tomismo, sia pure addomesticata secondo le esigenze della fede cattolica, continua a ispirare, con la sua dottrina delle categorie, della polisemia dell’essere, del cosiddetto focal meaning, gran parte della filosofia analitica anglo-americana, a cominciare dalla Scuola di Oxford. Ma ciò che è più sorprendente è la ripresa di alcuni aspetti della fisica aristotelica, quali la teoria del continuo a opera del matematico R. Thom e la teoria della irreversibilità del tempo a opera di Ilya Prigogine. Sempre in tema di scienza, la biologia di Aristotele non ha mai conosciuto alcuna eclissi, suscitando l’ammirazione di C. Darwin nell’Ottocento e di Max Delbrück, di Ernest Mayr, di François Jacob nel Novecento. E, sempre in tema di scienza, la psicologia di Aristotele, cioè la sua concezione dell’anima non come realtà a sé, ma come capacità del corpo di vivere e di funzionare a diversi livelli, è stata vista da molti come la soluzione più convincente del cosiddetto Mind-BodyProblem, per esempio da Hilary Putnam, che ha intitolato la prima parte del suo Words and Life (1994) «Aristotele dopo Wittgenstein».
Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni Di fronte a questa massiccia presenza nella filosofia contemporanea fanno sorridere le accuse, rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni, di avere concepito la metafisica come «onto-teologia», di avere dimenticato l’Essere e simili amenità. Del resto, uno dei più intelligenti filosofi post-moderni, Gianni Vattimo, malgrado le sue origini heideggeriane, nella sua autobiografia (Non Essere Dio, 2006) dichiara: «L’Essere non è altro che questo: il senso della parola “essere” nella storia della nostra lingua e nell’uso che ne facciamo» (pag. 133). Esattamente come sosteneva Aristotele.
Enrico Berti, La rinascita di Aristotele, pubblicato in «Il Sole-24 Ore», 10 dicembre 2006, p. 41.
Aristotele non era un teologo
Aristotele è senza dubbio il filosofo antico più utilizzato dai teologi cristiani e musulmani come base filosofica per la loro visione monoteistica della realtà. I cristiani dapprima privilegiarono Platone e il neoplatonismo – si veda il caso notissimo di Agostino –, ma poi, al seguito dei musulmani, che avevano fatto di Aristotele una specie di secondo Maometto, ne fecero anch’essi “il Filosofo” per eccellenza (per esempio Tommaso d’Aquino) e «il maestro di color che sanno» (Dante). È noto che, secondo una tradizione araba, Aristotele sarebbe apparso in sogno al califfo al-Mamun e gli avrebbe detto: «Il tuo dovere è dichiarare l’unicità di Dio», cioè precisamente la verità fondamentale dell’Islam. I musulmani videro infatti nel primo motore immobile, di cui Aristotele dimostra la necessità nel libro XII della Metafisica, l’unico Dio, creatore e signore del cielo e della terra, e quindi interpretarono questo libro come una specie di teologia, seguendo del resto in questo i commentatori greci tardo-antichi. A dire il vero essi dovettero trovare un po’ scarse le indicazioni teologiche fornite da Aristotele nel libro in questione, perché pensarono di confezionare un’opera intitolata Teologia di Aristotele, desumendone il contenuto dalle opere ben più ricche, in questo senso, di Plotino. E i cristiani furono tratti in inganno da questo falso, confermandosi nell’idea che Aristotele fosse il creatore della teologia naturale, o razionale. Dante, da sommo poeta qual era, riuscì a presentare il Motore immobile, che «muove in quanto amato», come «l’Amor che move il sole e l’altre stelle». Naturalmente le differenze tra il primo motore immobile di Aristotele e il Dio della Bibbia, concordemente adorato da cristiani e musulmani, erano sotto gli occhi di tutti: ma esse divennero un pretesto per attaccare Aristotele, accusato di avere professato un concetto di Dio troppo astratto, meccanico, impersonale, egoista (il mio professore di filosofia antica, Carlo Diano, parlava con scherno del Dio di Aristotele «che si guarda la pancia»). In tale opera di denigrazione si scatenò una nobile gara fra cristiani e musulmani, che toccò i suoi vertici in campo musulmano col teologo al-Gazali, nemico dei filosofi aristotelizzanti, e in campo cristiano con Lutero, noto per avere ricoperto il povero Aristotele degli insulti più feroci (ma già Petrarca si era lasciato un po’ andare). Ancora oggi i musulmani e i cristiani integralisti non possono soffrire il “Motore immoto” di Aristotele, dichiarando che tale espressione fa pensare a un autocarro in panne e opponendogli, con Pascal, «il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo». Solo da pochi anni studiosi benemeriti hanno ristabilito la verità storica, mostrando che Aristotele non voleva affatto essere un teologo, che per lui la “teologia” non era una disciplina filosofica, ma l’insieme dei miti sugli dèi narrati dai poeti, e che gli dèi per lui erano semplicemente dei «viventi immortali e felici», i quali si distinguono dagli uomini perché questi sono, al contrario, mortali e infelici. Esemplare è stato in questo senso il libro di Richard Bodéüs, Aristote et la théologie des vivants immortels (Montréal 1992). A risultati analoghi sono giunti i contributi pubblicati nel volume della rivista «Humanitas» (4/2005) sotto il titolo Dio e il divino nella filosofia greca, a cura di Maurizio Migliori e Arianna Fermani, ma soprattutto il bel libro di Barbara Botter, Dio e Divino in Aristotele, uscito nella collana “Intemalional Aristotle Studies”, diretta da Carlo Natali (Academia Verlag 2005). Quest’ultimo dimostra infatti con argomenti convincenti che in Aristotele e nei filosofi “pagani” in generale il termine “dio” è usato non come nome proprio, e nemmeno prevalentemente come sostantivo, bensì come attributo, o predicato, avente la funzione di indicare un grado di eccellenza in una scala ordinata di enti. Esso pertanto può essere attribuito agli dèi della religione tradizionale, ma anche agli astri, al mondo stesso nel suo insieme, all’intelletto umano, e anche al primo motore immobile. Ma in nessun caso dovrebbe essere scritto con l’iniziale maiuscola e senza articolo, come se fosse un nome proprio, bensì sempre con la minuscola e l’articolo, cioè “il dio”, come diciamo “l’uomo” o “il cavallo”. Ovviamente in un contesto monoteistico si scriverà “Dio” senza articolo. Se questa regola venisse seguita più in generale, si eviterebbe l’uso fastidioso di scrivere la parola con la maiuscola o la minuscola per mostrare che si crede o non si crede in Dio. Una conferma a queste ricerche viene anche dalla pubblicazione, per la prima volta in traduzione italiana, di un’opera nota solo agli specialisti, le Divisioni, tramandate come opera di Aristotele da alcuni manoscritti e, in versione un po’ diversa, da Diogene Laerzio, a cura di Cristina Rossitto, che ne ha fornito anche un’ampia introduzione e un accurato commento (Bompiani 2005). Quest’opera è emblematica dell’uso che la tarda antichità fece di Aristotele. È molto probabile, infatti, che essa risalga, nel suo nucleo fondamentale, proprio ad Aristotele, come hanno sostenuto anche W.D. Ross e O. Gigon, anzi all’Aristotele giovane, ancora membro dell’Accademia platonica, come ipotizza Rossitto. Ma non c’è dubbio che vi hanno messo le mani anche altri autori, cristiani o comunque teisti, come risulta inequivocabilmente da alcuni passi. In essa si parla infatti degli dèi come di viventi immortali, a cui sono dovuti onori e pratiche di culto e ai quali appartengono beni specifici, quali l’eternità, e beni comuni anche agli uomini, quali l’eccellenza e la bellezza, ma non altri beni puramente umani quali la temperanza, il coraggio e la giustizia. In un passo di essa, tuttavia, come esempio di viventi immortali vengono citati non gli dèi, bensì gli angeli, specie in tale veste del tutto sconosciuta ad Aristotele, ma ben nota ai seguaci della Bibbia, che non potevano ammettere l’esistenza di una molteplicità di dèi.
Enrico Berti, Nuovi studi dimostrano che Aristotele non era un teologo, pubblicato in: Domenicale de Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2006, p. 16.
Migliori e A. Fermani (a cura di), «Dio e il divino nella filosofla greca», “Humanitas”, LX (2005), n. 4. pp. 658-920.
B. Botter, «Dio e Divino in Aristotele», Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, pp. 306.
Aristotele ed altri autori, «Divisioni», a cura di C. Rossitto, Bompiani, Milano 2005, pp. 526.
«Platone – […] la ricchezza non ha nulla a che fare col bene della città. Mi sembra di avere portato argomenti abbastanza chiari a questo proposito nella Repubblica» (p. 20).
«Aristotele – Le elargizioni di denaro fatte per sedurre la moltitudine sono l’uso peggiore che si può fare della ricchezza. Esse producono infatti nei cittadini un piacere di breve durata e non portano alcun contributo permanente al bene comune […]» (p. 25).
«Aristotele – […] la sazietà, come dice il proverbio, genera prepotenza, mentre la mancanza di cultura, accompagnata da molti mezzi, genera stoltezza. In effetti, per coloro che sono di poco valore nelle cose che riguardano l’anima, né la ricchezza, né la forza, né la bellezza sono dei beni […]» (p. 55).
«Aristotele – Bisogna poi precisare che l’avarizia non consiste solo nello spendere troppo poco, ma anche nel desiderare troppo il denaro, nell’anteporre la ricchezza a qualunque altra cosa, nell’impegnare tutta la propria vita nell’unica attività del far soldi. Intesa in questo senso, l’avarizia, o meglio l’avidità di denaro, è oggi il vizio forse più diffuso» (p. 61).
«Aristotele – […] I bisogni umani, per natura, sono limitati, come risulta dal fatto che uno non può mangiare più di tanto, […] eccetera. Ora, l’arte di procurarsi i beni necessari a soddisfare questi bisogni è un’arte secondo natura, cioè giusta, buona, morale. Se invece uno vuole procurarsi una quantità di beni illimitata, va contro la stessa natura dell’uomo, e la sua arte sarà un’arte contro natura, cioè ingiusta, immorale. Teofrasto – Ma come è nata, Aristotele, quest’arte contro natura e immorale che chiamiamo crematistica? Aristotele – Essa è nata da un fatto del tutto naturale, cioè lo scambio dei beni. Poiché non tutti sono in grado di fare tutto, come spiega bene Platone nella Repubblica, gli uomini che abitano la città si distribuiscono i compiti, e l’uno fa il contadino, l’altro fa il calzolaio, il terzo fa il sarto, e così via. Ciascuno di questi produce un bene, o un servizio, in misura superiore a quella di cui ha bisogno per la sua famiglia, mentre non produce altri beni di cui pure ha bisogno. Nasce così la necessità di scambiarsi le merci: chi produce un certo bene in eccesso, ne dà una parte a chi non lo produce ma ne ha bisogno, per avere in cambio da lui ciò di cui ha bisogno lui e che l’altro produce in eccesso. Questo fa sì che ogni bene prodotto abbia, per così dire, due valori, un valore d’uso, che è quello per cui viene usato, e un valore di scambio, che è quello per cui viene scambiato. Un tale scambio è del tutto naturale, quindi è giusto e morale. Teofrasto – E come accade che da questo scambio naturale e giusto nasca la crematistica contro natura e immorale? Aristotele – Per comprenderlo, bisogna fare attenzione al mezzo di cui gli uomini si servono per facilitare lo scambio, cioè il denaro, la moneta. Questa infatti è un oggetto equivalente a qualunque possibile merce, perciò può essere usata al posto di qualsiasi merce, quando la merce non sia disponibile. Supponiamo che io abbia bisogno di un paio di scarpe, il cui valore è pari a quello di un sacco di grano, mentre il fabbricante di scarpe ha bisogno del grano. In luogo di questo io darò al fabbricante di scarpe una quantità di denaro pari al valore delle scarpe, e anche del sacco di grano, col quale egli potrà procurarsi il grano da chi lo produce. Questo è l’uso naturale, e quindi giusto, del denaro. Se io, invece, non ho bisogno di scarpe, ma le acquisto ugualmente pagando una certa quantità di denaro, allo scopo di rivenderle in cambio di una quantità di denaro maggiore, allora il fine dello scambio non sarà più quello di soddisfare un mio bisogno, ma sarà semplicemente quello di procurarmi una quantità maggiore di denaro. In questo caso lo scambio non sarà più naturale, ma sarà contro natura. La crematistica nasce quando, in luogo di scambiare merce con denaro, per ottenere altra merce, si scambia denaro con merce per ottenere altro denaro. Io mi sono spiegato con un esempio molto banale. Ma se tu moltiplichi questo tipo di scambi in quantità smisurata, vedi che nasce un’attività ugualmente smisurata, consistente nel cercare di procurarsi denaro all’infinito. In questo modo la ricchezza, costituita dal denaro, non è più il mezzo necessario a soddisfare i bisogni propri o della propria famiglia, ma diventa essa il fine, e questo è innaturale, quindi ingiusto e immorale. La cosa è ancora più evidente nella pratica dell’usura, dove non si scambia denaro con merce, ma denaro con denaro, cioè si presta denaro in una certa quantità per ottenerne, dopo qualche tempo, altro denaro in quantità maggiore. In tal caso il denaro serve a produrre altro denaro e quindi l’usura diventa l’emblema della crematistica smisurata» (pp. 64-67).
«Aristotele – […] Vorrei una città che conservi al suo interno […] l’uguaglianza tra i suoi cittadini, la libertà di discutere e decidere tutti insieme sulle cose da farsi, la divisione dei poteri, la giustizia, l’aspirazione alla pace. Una città […] in cui la preoccupazione più importante dei cittadini non sia quella di procurarsi le ricchezze, ma quella di vivere bene, cioè di essere felici, realizzando tutte le proprie capacità, non solo fisiche, ma anche spirituali, per mezzo dell’educazione, dell’arte, della scienza, della filosofia». Platone – È proprio bello questo che tu dici, Aristotele! Speriamo che un giorno si avveri. Vedo però che anche tu ti abbandoni alle utopie, come hai rimproverato me di fare. In realtà un po’ di utopismo è sempre necessario, altrimenti ci si rassegna alla realtà esistente e non si cerca più di migliorarla» (pp. 89-89).
***
Enrico Berti, Aristotele. Ebulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Falsi Originali [Collana diretta di Giovanni Casertano], Guida Editori, Napoli 20129.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [109]. In copertina: Statua in bronzo di Aristotele, ingresso della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, Germania. In quarta di copertina: Paul Klee, Die Zeit, 1933.
Questo volume raccoglie alcuni fra i principali studi di Enrico Berti su Martin Heidegger. Il filosofo tedesco è stato infatti una presenza costante negli studi composti in questi decenni dallo studioso padovano, sovente in rapporto al pensiero di Aristotele. Con il suo consueto approccio “classico”, in questi saggi Berti non si limita a descrivere, ma valuta, ossia prende posizione, anche critica, nei confronti di colui che pure definisce come il maggiore pensatore del XX secolo.
Indice
Introduzione
Il nichilismo dell’Occidente secondo Nietzsche, Heidegger e Severino
L’influenza di Heidegger sulla «riabilitazione della filosofia pratica» Gadamer, o della «phronesis» Ritter, ovvero dell’«ethos» Hannah Arendt, o della «praxis»
Heideggers Auseinandersetzung mit dem
Platonisch-Aristotelischen Wahrheitsverständnis Aristoteles Platon Abschluß
Heidegger and the Platonic Concept of Truth
Le passioni tra Heidegger e Aristotele Appendice
Heidegger e il libro Epsilon della Metafisica di Aristotele Prologo Prime citazioni di Aristotele (Friburgo, 1921-1923) Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): l’essere come verità Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): essere ed ente Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo (1929): di nuovo l’essere come vero Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo: la metafisica come «ontologia» Conclusione
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Qui di seguito sono riportati i riferimenti bibliografici relativi ai saggi raccolti nel presente volume.
I In tema di dialettica
Come argomentano gli ermeneutici? “Filosofia ‘91”, a cura di G. Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 13-32. La complessità della ragione “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 154, gennaio-aprile 1995, pp. 27-40. Logo e dialogo “Studia Patavina”, 42, 1995, pp. 31-42. La dialettica antica come modello di ragionevolezza “Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica”, 7, 2002, pp. 17-28. Il principio di non contraddizione: storia e significato P. Bria e F. Oneroso (a cura), Bilogica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 22-32.
II In tema di metafisica
Per una metafisica problematica e dialettica “Acta philosophica”, 1, 1992, pp. 176-190 (anche in “Per la filosofia”, 9, 1992, pp. 3-15). La via “dinamico-noologica” alla trascendenza divina in S. Biolo (a cura), Trascendenza divina. Itinerari filosofici, Contributi al XLVIII Convegno del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, aprile 1993, Torino, Rosenberg & Sellier, 1995, pp. 57-71. La prospettiva metafisica tra analitici ed ermeneutici “Seconda navigazione – Annuario di filosofia 2000”, Milano, Mondadori, 2000, pp. 45-62. Quale metafisica per il terzo millennio? in Proceedings of the Metaphysics for the Third Millennium Conference (Rome, September 5-8, 2000), Editorial de la Universidad Tecnica Particular de Loja (Equador), 2001, vol. I, pp. 29-44. Una metafisica (espistemologicamente) “debole” “Annuario Filosofico”, 16, 2000, Milano, Mursia, 2001, pp. 27-41. Metafisica debole? in Quale metafisica?, “Hermeneutica”, n. s., 2005, pp. 39-52. Dialogo su Aristotele in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi (a cura), Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 75-90.
III In tema di filosofia pratica Sostanza e individuazione in AA. VV., La tecnica, la vita, i dilemmi dell’azione (“Seconda navigazione – Annuario di filosofia 1998”), Milano, Mondadori, 1998, pp. 143-160. Dal personalismo all’identità personale in A. Bottani e N. Vassallo (a cura), Identità personale. Un dibattito aperto, Napoli, Loffredo, 2001, pp. 65-78). Persona, scienza e tecnica in G. Galeazzi e B. M. Ventura (a cura), Filosofia e scienza nella società tecnologica, Milano, F. Angeli , 2004, pp. 171-183. L’idea di bene comune tra “destra” e “sinistra” in E. Berti e S. Veca, La politica e l’amicizia, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, pp 35-62. Prudenza in “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. 159, settembre-dicembre 1966, pp. 15-24. Attualità dei diritti umani “Ars Interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 6, 2001, pp. 79-91. Pratiche filosofiche e filosofia pratica “Ars interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 10, 2005, pp. 313-328.
IV Appendice Autoritratto “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 176, maggio-agosto 2002, pp. 9-12. Pensare con la propria testa? “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 192, maggio agosto 2004, pp. 76-88. Aristotele nel Novecento “Scuola e Cultura”, 3, 2005, pp. 22-27
Luca Grecchi
Il pensiero filosofico di Enrico Berti
Petite Plaisance, 2013
ISBN 978-88-7588-110-8, 2013, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [51].
In questo libro è sintetizzata l’opera filosofica di uno dei maggiori pensatori italiani contemporanei, Enrico Berti. Teorizzatore della metafisica classica, studioso di Aristotele, storico della filosofia, Berti ha proposto, in oltre 50 anni di attività culturale ed accademica, soluzioni di grande originalità e valore non solo su temi filosofici, ma anche su temi etici, politici, educativi. La monografia, impreziosita da un saggio finale dello stesso Berti, si pone come una prima introduzione complessiva al suo pensiero.
Indice
Presentazione di Carmelo Vigna
Introduzione
I. Biografia II. L’interpretazione degli antichi e di Aristotele III. La storia della filosofia IV. L’etica e la filosofia pratica V. La politica VI. L’approccio classico alla educazione VII. Religione VIII. La metafisica IX. La critica
Postfazione Enrico Berti A proposito della critica
Principali pubblicazioni di Enrico Berti Volumi Curatele Principali articoli
La filosofia del primo Aristotele (Univ. di Padova. Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. XXXVIII), 1962.
La filosofia del primo Aristotele, Cedam, 1962.
Il “De re publica” di Cicerone e il pensiero politico classico, Padova, Cedam, 1963.
L’unità del sapere in Aristotele, Cedam, 1965.
Studi aristotelici, Japadre, 1975.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, 1977
Profilo di Aristotele, Studium, 1979.
I percorsi della filosofia, vol. I. Il pensiero antico e medioevale (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
I percorsi della filosofia. Il pensiero moderno e contemporaneo (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
Profilo di Aristotele, Nuova Universale Studium, 1985.
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, 1987.
Il pensiero d’Occidente. Pagine e testimonianze (con Sergio Moravi), Le Monnier, 1987.
Le vie della ragione, il Mulino, 1987.
Le ragioni di Aristotele, Laterza, 1989.
Storia della filosofia. Antichità e medioevo, Laterza, 1991.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 1992.
Persona e personalismo (con Georges Cottier e Giannino Piana), Gregoriana Editrice, 1992.
Etica, cultura e partecipazione politica (con Alberto Monticone), AVE, 1993
Il volume riflette l’esigenza di un approfondimento dei rapporti che intercorrono tra etica, cultura e partecipazione politica. Nel volume si delineano alcuni caratteri fondamentali della nostra vita civile: il sistema democratico, la concezione personalista e solidaristica quale fondamento della convivenza civile e dell’organizzazione sociale e politica del nostro Paese, la possibilità per le culture di ispirazione cristiana e per il movimento cattolico di dare un proprio contributo all’evoluzione della vita sociale e politica. L’impegno dell’Azione Cattolica resta quello per la formazione di un laicato adulto nella fede, capace di servizio e testimonianza in ogni ambito della propria vita ma anche quello di promuovere quotidianamente una cultura radicata nei valori del Regno e nei principi della centralità della persona umana e del bene comune.
Introduzione alla metafisica, Utet-Libreria, 1993.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Edizioni Diabasis, 1993.
Aristotele, Il libro primo della «Metafisica» (a cura di E. Berti e C. Rossiitto), Laterza, 1995.
Aristotele, Laterza, 1997.
Rifacendosi in particolare ad un’analisi diretta della Politica e dell’Etica Nicomachea, i cui testi sono ampiamente antologizzati, e confrontandosi con il dibattito critico più recente, Berti illustra tutti i temi fondamentali del pensiero politico aristotelico, come ad es. il concetto di polis, o la vagheggiata «città felice». Né manca un’analisi in parallelo con le teorie di Platone. A differenza di altri studi pubblicati in Italia sul pensiero politico di Aristotele, che hanno un carattere parziale o un’impronta ideologica, il saggio introduttivo di Berti si distingue anche per la capacità di stabilire un dialogo continuo tra esso e il pensiero politico moderno e soprattutto contemporaneo.
Aristóteles no século XX, trad. D. Davi Macedo, São Paulo, Brasil, Edi. Loyola, 1997.
La filosofia del “primo” Aristotele, Vita e Pensiero, 1997.
As razões de Aristóteles, Ed. Loyola, 1998.
Esta obra configura uma intervenção autorizada no atual debate sobre o pensamento débil e a crise da razão, por sua capacidade de relacionar aos temas da filosofia contemporânea a aguda análise de um momento culminante na história da filosofia: o pensamento de Aristóteles.
La politica e l’amicizia (con Salvatore Veca), Edizioni Lavoro, 1998.
La politica e l’amicizia sembrano essere distanti l’una dall’altra: mentre la politica si orienta verso una condivisione più ampia possibile, l’amicizia evoca prospettive più intime, private, e dunque escludenti. Enrico Berti e Salvatore Veca intendono guidare, da angolature differenti, una riflessione sulla possibilità di un incontro fra politica e amicizia.
Novos estudos aristotélicosI – Epistemologia, lógica e dialética, 1999.
Nesta obra, encontram-se ensaios sobre a contradição, a dialética e a argumentação na obra do Estagirita, além de estudos sobre a dialética em Zenão, em Górgias e em Platão, com o objetivo de evidenciar a contribuição que deram à formação do pensamento de Aristóteles.
La navicella della metafisica. Dibattito sul nichilismo e la “Terza navigazione” (con altri), Armando editore, 2000.
Marino Gentile nella filosofia del Novecento, EDS, 2003.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi, Bompiani, 2004.
Quest’opera, pubblicata originariamente nel 1977, è uno dei più importanti lavori di Berti. Essa si può considerare sia uno studio introduttivo ad Aristotele, di cui si passano in rassegna la vita, le opere, l’ambiente accademico e l’insegnamento, ma anche e soprattutto un saggio teoretico sulle costanti del pensiero metafisico: le idee, le categorie, i princìpi primi, le quattro cause, l’essere e il divenire. Il volume è arricchito da una serie di saggi dell’autore che completano il quadro della “filosofia prima” di Aristotele.
Aristotele. Eubulo o della richezza. Dialogo perduto contro i governanti ricchi, Guida, 2004.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Filosofia pratica, Guida, 2004.
L’espressione “filosofia pratica” compare per la prima volta in Aristotele e in contrapposizione a quella teoretica: mentre quest’ultima ha per fine la verità ossia la conoscenza di come e di perché le cose stanno in un certo modo, la filosofia pratica ha per fine l’opera, cioè mira a conoscere e a rendere possibile un certo tipo di azione, in particolare l’azione buona e quindi tende a rendere migliore colui che agisce. Quindi il fine, lo scopo della filosofia pratica è il tentativo di raggiungere la perfezione dell’uomo stesso.
Nuovi studi aristotelici, vol. 1: Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, 2004.
Il volume è il primo di un’opera che raccoglierà in quattro volumi l’insieme degli scritti di uno fra i maggiori specialisti della logica e della dialettica di Aristotele.
Aristotele. Il primo libro della «Metafisica» (con C. Rossitto), Laterza, 2005.
Nuovi studi aristotelici. 2 – Fisica, antropologia e metafisica, Morcelliana, 2005.
Il secondo volume degli studi aristotelici, dedicato a metafisica, fisica e antropologia, scritto dal maggior specialista italiano di Aristotele. Un libro che è una vera e propria introduzione alla “Metafisica” di Aristotele. L’Autore insegna storia della filosofia all’Università di Padova.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Diabasis, 2005.
Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, 2006.
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2006.
Aristotele e l’ontologia(con Bruno centrone e Paolo Fait), Alboversorio, 2007.
Le tesi di Aristotele rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di ontologia. Da lui, infatti, derivano gran parte dei termini ancora oggi utilizzati e dei problemi su cui non si è mai smesso di discutere. Questo libro permette, al lettore interessato, di avvicinarsi ad alcune prospettive contemporanee sull’argomento espresse da alcuni dei maggiori studiosi italiani.
Introduzione alla metafisica, Utet università, 2007.
Storia della filosofia. Dalla’antichità ad oggi. Con materiali per il docente. Ediz. compatta. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Franco Volpi), Laterza, 2007.
Antologia di filosofia. Dall’antichità ad oggi. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Cristina Rossitto e Franco Volpi), Laterza, 2008.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 2008.
La filosofia di Aristotele è un caso forse unico, nella storia, di “sistema aperto”, cioè di filosofia che è un vero sistema, dotato di una grande differenziazione interna, ma anche di una certa unità; ed è anche un sistema aperto, suscettibile di continue integrazioni, anzi di molteplici usi, data la sua grande versatilità, attestata da una fortuna tra le più longeve che mai si siano date e da una presenza massiccia nella stessa filosofia del Novecento. A essa si possono attingere concetti, categorie, distinzioni, dottrine, adoperabili per gli usi più svariati, nelle più diverse direzioni, sia filosofiche che scientifiche, sia teoretiche, cioè logico-metafisiche, che pratiche, cioè etico-politiche, per non parlare degli usi a fini poetici e retorici. Ma questi concetti, distinzioni, dottrine funzionano, cioè rispondono allo scopo per cui vengono impiegati, solo se sono utilizzati nel rispetto del loro significato originario. Si tratta di una coerenza non rigida, ma elastica, di una logica non monolitica, ma articolata e duttile, Dall’esistenzialismo di Heidegger alla filosofia pratica di Gadamer, dalla “nuova retorica” di Perelman e Toulmin alla nuova scienza di Prigogine e Jacob, alla nuova epistemologia di Kuhn e Feyerabend, Enrico Berti ritrova le tracce dell’inesauribile forza del pensiero aristotelico.
Dialectique, physique et métaphysique. Études sur Aristote, Éditions Peeters, 2008.
This volume contains around twenty articles, many of them already published elsewhere, but translated into French for the first time. They all deal with the dialectics, the physics and the metaphysics of Aristotle.
Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia (a cura di), Utet, 2008.
In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, 2008.
La meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza e desiderio di sottrarvisi, cioè di apprendere, di conoscere, dI sapere. Ecco perché proprio la meraviglia, secondo Aristotele, è l’origine della filosofia, ovvero della ricerca disinteressata di sapere. Stato d’animo raro e prezioso, la meraviglia è la sola espressione della vera libertà. Enrico Berti rilegge il pensiero dei grandi filosofi della classicità e costruisce un percorso attraverso le domande senza tempo che la filosofia occidentale ha continuato a porsi, formulate per la prima volta dai Greci.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 3 Filosofia pratica, Morcelliana, 2008.
Il presente volume, terzo della serie dei Nuovi studi aristotelici, raccoglie gli scritti concernenti la “filosofia pratica” di Aristotele, contenuta nelle due Etiche autentiche (Nicomachea e Eudemea), e la filosofia politica, contenuta nella Politica. Come è noto, per Aristotele queste ultime due discipline sono parti di un’unica scienza, da lui chiamata più volte “scienza politica” e, almeno una volta, “filosofia pratica”. Perciò non ho diviso il volume in sezioni, come invece ho fatto nei volumi precedenti. Ho scelto, come sottotitolo dell’intera raccolta, “filosofia pratica”, perché questa espressione è diventata attuale dopo la cosiddetta “riabilitazione (o rinascita) della filosofia pratica”, movimento sviluppatosi nel corso degli anni Settanta del Novecento e ancora non del tutto esaurito.(dalla Prefazione)
Ser y tiempo en Aristótele, Editorial Biblios, 2008.
Enrico Berti, uno de los más reconocidos especialistas de Aristóteles, introduce este libro con una reseña de la presencia de Aristóteles en la Contemporánea. Luego desarrolla una exposición clara y profunda de la postura aristotélica, que va desde el tiempo cósmico de la Física hasta el tiempo humano de la Poética y la Ética. En el recorrido que realiza también visita la Metafísica, pero también obras menos transitadas, como De la memoria y la reminiscencia. Además, confronta la postura de Aristóteles con uno de los trabajos más determinantes de la Contemporánea: Ser y tiempo de Martin Heidegger.
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2008.
La Metafisica è l’opera più famosa di Aristotele. Si tratta degli appunti che Aristotele preparava per le sue lezioni all’interno del Peripato. Lo Stagirita pone qui i problemi fondamentali sull’essere e sul perché del divenire ricercandone le cause e i principi primi.
En el principio era la maravilla. Las grandes preguntas de la filosofía antigua, traducción de Helena Aguilà, Madrid, Editorial Gredos, 2009.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4\1. L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento, Morcelliana, 2009.
Il libro vuole essere un contributo allo studio della cosiddetta tradizione aristotelica, dell’influenza esercitata da Aristotele sull’intera storia della cultura “occidentale” (termine nel quale va compresa anche la cultura islamica). Tale influenza è stata sia di tipo positivo, nel senso che le dottrine di Aristotele sono state accolte, interpretate e trasformate dai filosofi posteriori, sia di tipo negativo, nel senso che esse sono state oggetto di critiche e spesso di dure polemiche, ma anche in questo caso hanno condizionato le filosofie posteriori. Del primo tipo è l’influenza esercitata da Aristotele sugli aristotelici: su Teofrasto, Aspasio, Alessandro di Afrodisia, Porfirio, i filosofi arabi ed ebrei, Tommaso d’Aquino, Marsilio da Padova, Giacomo Zabarella, William Harvey. Del secondo tipo è invece l’influenza esercitata da Aristotele sui suoi “avversari”: l’epicureo Filodemo di Gadara, Plotino, Bonaventura da Bagnoregio, Niccolò Cusano, Galileo Galilei. Un caso particolare è costituito dal rapporto tra la filosofia di Aristotele e il primo cristianesimo, emblematicamente rappresentato dal discorso di san Paolo agli Ateniesi, dove l’influenza di Aristotele è ravvisabile nel contributo da lui dato alla formazione di quel concetto di “Dio dei filosofi” che Paolo ripropone consapevolmente agli Ateniesi, ma al fine di integrarlo e superarlo nella rivelazione cristiana.
A partire dai filosofi antichi(con Luca Grecchi), Il Prato, 2010.
I problemi filosofici esaminati vengono presentati nella forma di una discussione avvincente che rievoca l’andamento dei dialoghi platonici, in cui la verità emerge dal movimento del discorso che, nel suo correre incessantemente da un interlocutore all’altro, si fa «dia-logo» nel senso più alto. Del resto, i temi trattati dai due autori sono tra i più importanti tra quelli su cui si è andata formando la civiltà occidentale: il valore veritativo della filosofia, il rapporto tra fede e sapere, la morale, l’educazione, il ruolo dell’uomo, la libertà, la politica, la morte, l’ontologia, la metafisica, la critica, e moltissimi altri ancora. Ad accomunare, nel libro, questi temi così vasti ed eterogenei è il punto di partenza da cui ciascuno di essi viene sviluppato: il mondo dell’antica filosofia greca, concepita sia da Berti sia da Grecchi come fonte originaria delle «domande fondamentali» dell’uomo occidentale e come tentativo di elaborazione di alcune grandiose soluzioni che continuano a esercitare un fascino intramontabile. La filosofia greca fa da sfondo anche alle considerazioni svolte da Berti e da Grecchi intorno al pensiero di Kant, di Hegel e di Marx. A partire, appunto, dai «filosofi antichi», i due studiosi ripercorrono in maniera dialogica, anche attraverso la cinquantennale esperienza accademica di Enrico Berti, i nodi maggiori della tradizione filosofica e le problematiche fondamentali del nostro presente.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4/2. L’influenza di Aristotele. L’età moderna e contemporanea, Morcelliana, 2010.
l secondo tomo del volume dedicato all’influenza di Aristotele comprende saggi relativi all’età moderna e all’età contemporanea. Per l’età moderna è evidente la persistenza della filosofia pratica di Aristotele, la quale, dopo essersi eclissata nell’antichità ellenistica e nella tarda antichità, ed essere stata riscoperta nel medioevo, sia musulmano che ebraico e cristiano, sopravvive nel Seicento e nel Settecento, soprattutto in Germania.Per quanto riguarda l’Ottocento i saggi riguardano la critica di Hegel al principio di non contraddizione, e l’influenza di Aristotele sui critici di Hegel: Feuerbach, Trendelenburg, Marx e Kierkegaard. Per la Germania è anche massiccia l’influenza di Aristotele su Brentano e, attraverso di lui, su tutti i suoi discepoli, da Husserl a Meinong, a Twardowski, a Freud. Interessante è anche il rapporto intrattenuto con Aristotele da Paul Natorp, che ebbe ad influenzare, insieme con la dissertazione di Brentano, Martin Heidegger.I capitoli dedicati all’età contemporanea illustrano la presenza di Aristotele in Heidegger e nella filosofia analitica inglese, ovvero nell’analisi del linguaggio ordinario condotta da J. Austin, G. Ryle, P. Strawson, D. Wiggins e altri. Indi illustrano la cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, prima in Germania, ad opera di filosofi come H.-G. Gadamer e J. Ritter, e poi negli USA, ad opera di A. MacIntyre, H. Jonas, Martha C. Nussbaum.
Profilo di Aristotele, Studium, 2010.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2010.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Invito alla filosofia, La Scuola, 2011.
Un libro per chiunque voglia accostarsi ad un sapere che parte dal sentimento della meraviglia per arrivare ad esercitare un uso consapevole della ragione. Un invito per chiunque sia alla ricerca di motivazioni (esistenziali, religiose, etiche, scientifiche, politiche) e voglia porre domande per scoprire la verità partendo da opinioni consolidate. Perché la filosofia, nel suo stesso modo di procedere dialettico-confutatorio, esalta l’essenza umana che si fonda sul ragionamento.
Preguntas de la filosofía antigüa, Tapa blanda, 2001.
Muchas de las grandes preguntas que la filosofía occidental ha seguido planteándose las formularon por primera vez los griegos. No todas, claro está. Por ejemplo, los griegos no se preguntaron cuáles eran, a priori, las condiciones del conocimiento, o qué leyes rigen la historia, o cómo indagar en el subconsciente del hombre y otras cosas por el estilo. Pero las preguntas que plantearon, a excepción de unas pocas (por ejemplo: ¿quiénes son los dioses?), son las mismas con las que se ha seguido enfrentando la filosofía occidental a lo largo de los siglos. Enrico Berti recorre el pensamiento de los grandes filósofos clásicos y traza un sorprendente itinerario a través de las preguntas sin tiempo que la filosofía occidental ha seguido planteándose y que los griegos formularon por primera vez: ¿Qué es el hombre? ¿Qué es la felicidad? ¿Quiénes son los dioses? ¿Cuál es nuestro destino?
Profilo di Aristotele, Studium, 2012.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e corretta, Morcelliana, 2012.
Il dovere di introdurre, e con ciò di giustificare nella sua unità, la presente raccolta mi fornisce l’occasione più opportuna per riflettere sulle ricerche da me compiute in questi anni e anche per risalire alle origini del mio interesse per Aristotele, allo scopo di determinarne il più esattamente possibile il senso e l’orientamento generale. Uno dei fili conduttori dei miei lavori è la persuasione del valore classico, cioè perenne, e quindi anche attuale di certe istanze del pensiero aristotelico. Si tratta di una valutazione di ordine teoretico, o filosofico, che oggi, a causa dell’imperante storicismo e del conseguente relativismo, può sembrare, nel migliore dei casi, ingenua. Tuttavia è una persuasione a cui tengo particolarmente; non ho difficoltà infatti a confessare che, se non la possedessi, non riuscirei a dare alcun senso al lavoro fatto. Le ragioni del valore classico della metafisica antica si trovano nel rilevamento, da parte di Aristotele, di un’inadeguatezza tra il sistema platonico e il problema da cui ogni filosofo deve prendere le mosse, cioè la problematicità integrale e assoluta. Questa problematicità si esprime in un “domandare tutto”, che è insieme un “tutto domandare”, in una domanda che investe la totalità del reale e, per il fatto di escludere ogni precedente certezza, è integralmente domanda; e si identifica con la stessa esperienza intesa come conoscenza di tutto e insieme domanda della ragione di tutto.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2012.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Aristotele e la democrazia, in C. Rossitto, A. Coppola, F. Biasutti (a cura), Aristotele e la storia, Padova, CLEUP, 2013.
Aristotele, La Scuola, 2013.
«Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità e, più di tutte, amano la sensazione della vista. In effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose». Metafisica, libro I.
The Classical Notion of Person and Its Criticism by Modern Philosophy, in B. Babich and D. Ginev (eds.), The Multidimensionality of Hermeneutic Phenomenology, Heidelberg-New York-Dordrecht-London, Springer, 2013.
La phronêsis nella filosofia antica, in A. Fidora, A. Niederberger, M. Scattola (eds.), Phronêsis – prudentia – Klugheit. Das Wissen der Kluge in Mittelalter, Renaissance und Neuzeit, Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales, Porto, 2013.
Mente e anima: due entità?, in G. Erle (a cura), Il limite e l’infinito. Studi in onore di Antonio Moretto, Bologna, Archetipolibri, 2013.
La ricerca filosofica di Antonio Moretto segna una tappa fondamentale e innovativa all’interno della letteratura scientifica a proposito del rapporto tra filosofia e matematica. Questo vale in primo luogo, ma non solo, per una rinnovata comprensione della filosofia classica tedesca che rendeva necessario mostrare la rilevanza della conoscenza congiunta della storia e della teoria della matematica in autori come Kant e Hegel. Questi studi, assieme a quelli che egli ha dedicato a Descartes, Leibniz, Wolff, mostrano come i concetti matematici di finito e infinito racchiudano, nelle loro esigenze tecniche, un’urgenza profondamente umana, quella di dare senso, “mensurare” nell’accezione più ampia del termine. Sotto questo profilo, il passaggio per le scienze esatte nelle ricerche di Moretto non è affatto astratto, ma costituisce il necessario cammino verso quella che Kant avrebbe chiamato “la porta stretta”, varcata la quale meglio si comprendono anche le altre parti del sistema della filosofia, così come proprio Moretto ha dimostrato dedicandosi a discutere altresì questioni di etica, di filosofia della medicina, psicologia della percezione e, perché no?, della poesia di Albrecht von Haller. Coerentemente con questo percorso di ricerca, gli autori degli scritti che costituiscono questo volume si sono impegnati a mostrare la ricchezza di significati e valenze che i concetti di limite e di infinito possono assumere all’interno delle scienze filosofiche.
Una metafisica (epistemologicamente) «debole», n G. Riconda e C. Ciancio (a cura), Filosofi italiani contemporanei, Mursia, 2013.
Il volume presenta i risultati di un ciclo di seminari tenuti all’Università di Padova nel 2011 e 2012, all’interno del Progetto di Ateneo Filosofia e storia nel pensiero politico di Aristotele. Il tema generale è il ruolo della storia nel pensiero aristotelico, secondo le più ampie accezioni del termine. Innanzitutto che uso fa Aristotele dei dati storici, come e a qual fine li utilizza e qual è per lui il valore epistemologico della storia? Storia significa anche storiografia, cioè resoconto scritto dei fatti: possiamo capire il rapporto fra il filosofo e gli storici e tra la storiografia e la politica? I contributi qui raccolti aggiungono materia a queste riflessioni raccogliendo e confrontando punti di vista di storici dell’antichità e di storici della filosofia.
Aristotele, in U. Eco (a cura), L’Antichità, 5. Grecia, Filosofia, EM Publishers srl., 2014.
Neste volume, o leitor terá a oportunidade de conhecer o pensamento de Aristóteles, um dos maiores nomes da Filosofia na Antiguidade. A visão aristotélica é apresentada de modo sintetizado, por meio da análise das obras de Aristóteles, dos conceitos-chave de sua filosofia e seus desdobramentos na sociedade atual.
Il bene di chi? Bene pubblico e bene privato nella storia, Marietti, 2014.
Un affresco dell’intrecciarsi di bene pubblico e bene privato nella storia della civiltà occidentale. Enrico Berti fa comprendere le complesse radici culturali della situazione attuale e apre domande cruciali, da un lato sul destino e la sopravvivenza dello Stato e dall’altro sul fine dell’uomo e sulle condizioni di possibilità della vita sociale. Il libro è arricchito da un dialogo sul tema tra l’autore e i partecipanti alla “Lectio Magistralis” tenuta nel corso di una delle sessioni del 2013 della Winter School, centro di studi sociali, culturali e politici. Prefazione di Giovanni Maddalena.
Il luogo dei corpi secondo Aristotele, in Lessico Intellettuale Europeo, Locus-spatium. XIV Colloquio Internazionale, a cura di D. Giovannozzi e M. Veneziani, Olschki, 2014
La ricerca della verità in filosofia, Studium, 2014.
La verità è oggi temuta come una forma di violenza, specialmente da parte dei filosofi post-moderni. Questo timore spesso è dovuto a una concezione ideologica della verità come valore assoluto da imporre a tutti, mentre esso è del tutto ingiustificato rispetto alla concezione classica della verità, non riducibile alla teoria della verità come corrispondenza. In base alla teoria classica si danno diversi tipi di verità, verità di fatto e verità di ragione, verità storiche e verità scientifiche, verità di fede e verità poetiche: alcune facili da scoprire, altre implicanti complesse e faticose ricerche. In filosofia la ricerca della verità avviene in modi diversi, secondo il tipo di filosofia che si pratica, che può essere trascendentale, dialettico, fenomenologico, analitico-linguistico, ermeneutico, dialogico-confutativo. Un caso di ricerca della verità in filosofia è costituito dalla metafisica, intesa non nel senso tradizionale di ontologia o teologia razionale, bensì come metafisica problematica e dialettica, epistemologicamente debole ma logicamente forte. Esiste anche una verità pratica, che riguarda non la legge morale, ma il desiderio della felicità intesa come pieno sviluppo della persona umana, nel singolo individuo e nella polis.
Prologo a L. E. Varela, Filosofía práctica y prudencia. Lo universal y lo particular en la ética de Aristóteles, Editorial Biblos, 2014.
El trabajo se sostiene en un conocimiento completo y perfecto de toda la obra de Aristóteles concerniente a la ética, no sólo a la Ética nicomaquea y a la Ética eudemia, sino también a la Gran Ética y al Protréptico. Los textos de estas obras son analizadas de manera precisa y rigurosa, y el análisis de ellos es siempre acompañado por una discusión de las interpretaciones suministradas por la literatura crítica, con la cual Varela está constantemente en diálogo. De ello resulta una contribución de gran claridad, equilibrio, riqueza de información y de profundización, que lo hace extremadamente útil para una relectura y una valoración nueva, plenamente satisfactoria, de la ética aristotélica.
Luis Enrique Varela. Doctor en Filosofía (Universidad del Salvador). Es actualmente profesor de Ética y de Metafísica en la Universidad Nacional de Mar del Plata. Asimismo, dicta Historia de la Filosofía Antigua en la carrera del Doctorado en Filosofía, y Ética dentro de la enseñanza de grado en la Universidad Nacional de Lanús. Dirige proyectos de investigación en temas de filosofía práctica y de metafísica tanto en la UNMDP como en la UNLA. También se desempeña como profesor de Historia de la Filosofía Antigua y del Seminario de Filosofía Práctica I en la carrera de filosofía de la Universidad de Ciencias Empresariales y Sociales (UCES). Además dicta materias de filosofía en la carrera de Filosofía del Instituto Superior del Profesorado “Joaquín V. González”.Como director del Círculo de Actualización en Filosofía de la Fundación Descartes, organizó junto con Germán García el “Encuentro Internacional Descartes 400” (1996) y “Lacan y la cultura filosófica” (2001).Es autor de numerosos
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today?, in C. Baracchi (ed.), The Bloomsbury Companion to Aristotle, Bloomsbury, 2014.
Aristotle is one of the most crucial figures in the history of Western thought, and his name and ideas continue to be invoked in a wide range of contemporary philosophical discussions. The Bloomsbury Companion to Aristotle brings together leading scholars from across the world and from a variety of philosophical traditions to survey the recent research on Aristotle’s thought and its contributions to the full spectrum of philosophical enquiry, from logic to the natural sciences and psychology, from metaphysics to ethics, politics, and aesthetics. Further essays address aspects of the transmission, preservation, and elaboration of Aristotle’s thought in subsequent phases of the history of philosophy (from the Judeo-Arabic reception to debates in Europe and North America), and look forward to potential future directions for the study of his thought. In addition, The Bloomsbury Companion to Aristotle includes an extensive range of essential reference tools offering assistance to researchers working in the field, including a chronology of recent research, a glossary of key Aristotelian terms with Latin concordances and textual references, and a guide to further reading.
List of Contributors \ Acknowledgments \ Corpus Aristotelicum \ “Introduction: Paths of Inquiry” Claudia Baracchi \ Part I: Questions \ 1. Logos \ Saying What One Sees, Letting See What One Says: Aristotle’s Rhetoric and the Rhetoric of the Sophists Barbara Cassin \ Aristotelian Definition: On the Discovery of Archai Russell Winslow \ 2. Phusis \ Aristotle on Sensible Objects: Natural Things and Body Helen Lang \ On Aristotle’s Formula: Physics IV. 11, 14 Rémi Brague \ 3. Psuchê \ Phantasia in De Anima Eric Sanday \ Mind in Body in Aristotle Erick Raphael Jiménez \ The Hermeneutic Slumber: Aristotle’s Reflections on Sleep Marcia Sá Cavalcante Schuback \ 4. Philosophia Prôtê \ First Philosophy Alejandro Vigo \ First Philosophy and the History of Being in Aristotle’s Metaphysics Spyridon Rangos \ 5. Êthos \ Aristotle on Human Nature and the Foundations of Ethics, with an “Addendum” Martha C. Nussbaum \ The Visibility of Goodness Pavlos Kontos \ To Kakon Pollachôs Legetai: The Poly-vocity of the Notion of Evil in Aristotelian Ethics Arianna Fermani \ 6. Polis \ Education: The Ethico-Political Energeia Michael Weinman \ 7. Poiêsis \ Toward the Sublime Calculus of Aristotle’s Poetics Kalliopi Nikolopoulou \ Part II: Disseminations \ Aristotle on the Natural Dwelling of Intellect Idit Dobbs-Weinstein \ The Peripatetic Method: Walking with Woodbridge, Thinking with Aristotle Christopher Long \ What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today? Enrico Berti \ Would Aristotle Be a Communitarian? Pierre Aubenque \ Glossary (Erick Raphael Jiménez) \ Chronology of Recent Research (Benjamin J. Grazzini) \ Bibliography (Erick Raphael Jiménez) \ Resources (Benjamin J. Grazzini and Erick Raphael Jiménez) \ Sources of Translated/Reprinted Essays \ General Index
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Morcelliana, 2015.
“Contraddizione” e “dialettica” sono due delle categorie costitutive della filosofia, fin dalla sua nascita nella Grecia del V secolo. Nei capitoli che sono idealmente una storia del pensiero occidentale – il lettore trova la chiara e puntuale ricostruzione dei tanti significati assunti da “contraddizione”, “non contraddizione”, “dialettica” tra Parmenide, Eraclito, Socrate, Platone e Aristotele, tra Kant e Hegel, tra Marx, Popper e la logica contemporanea. Sono categorie in cui è in gioco non solo il rigore della ragione: nella possibilità o no di superare il principio di non contraddizione è in questione la cosa stessa del pensiero. Considerando che lo stesso principio di non contraddizione si dice in più modi. Temi cui Enrico Berti ha dedicato più di cinquant’anni di studi, e che trovano qui un compendio.
È bene definire il bene?, Orthotes, 2015.
Il punto di partenza assunto nel saggio è la definibilità del bene, una volta che ci si occupi di esso non in quanto assoluto e irraggiungibile, ma piuttosto vedendolo come bene umano, praticabile e realizzabile. Come tale, esso è l’oggetto delle aspirazioni umane e concretamente indicato nei diritti fondamentali, nelle varie libertà e nei diritti politici, che documenti ufficiali hanno ormai sancito. Da Aristotele fino alla sua ripresa da parte di Martha Nussbaum, la felicità, per quanto fragile, si sostanzia proprio di questi beni, che possono essere presentati come vere e proprie “capacità”. Completa il testo un intervento di Berti sull’Etica nicomachea di Aristotele, da cui emerge il carattere pratico di una filosofia che punti a definire che cos’è il bene, ossia aristotelicamente la felicità, per l’uomo.
Aristotelismo, il Mulino, 2017.
A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati.
Un manuale in cui i maggiori studiosi di Aristotele analizzano e descrivono in modo sistematico e completo il pensiero del filosofo, attraverso le singole opere, seguendo un metodo rigorosamente storico, senza interpretazioni ideologiche o di parte.
Introduzione alla metafisica, seconda edizione, UTET, 2017.
La nuova edizione dell’Introduzione alla metafisica di Enrico Berti ripropone la concezione originale della metafisica che l’Autore va presentando da anni, la quale ha suscitato l’interesse degli studiosi di filosofia, come dimostrano le traduzioni dell’opera in altre lingue. Essa contiene alcune correzioni rispetto all’edizione precedente, dovute a ulteriori studi, e soprattutto è corredata da cinque appendici, costituite da altrettanti articoli sul tema, pubblicati dall’Autore negli anni più recenti. L’opera comprende una parte storica, che illustra le diverse forme di metafisica elaborate nella filosofia occidentale, e una parte teoretica, che difende le ragioni di un certo tipo di metafisica, caratterizzata come «metafisica dell’esperienza», sviluppando gli spunti forniti in questa direzione dalla «scuola padovana» facente capo a Marino Gentile. Nel complesso si tratta di una delle rare proposte italiane di una filosofia autenticamente metafisica, in linea con la grande tradizione della «metafisica classica» di ispirazione aristotelica, ma al tempo stesso essenzializzata e aggiornata in modo da tenere conto delle critiche e delle esigenze del pensiero contemporaneo. Il rifiorire di interesse per la metafisica, manifestatosi soprattutto nell’ambito della filosofia analitica, conferma l’attualità dell’opera.
Tradurre la “Metafisica” di Aristotele, Morcelliana, 2017.
«Essendomi recentemente cimentato con l’arduo compito di tradurre la Metafisica di Aristotele, il libro forse più difficile dell’intera storia della filosofia, mi sono imbattuto in una serie di problemi, alcuni dei quali previsti e altri invece imprevisti, che hanno reso l’impresa, oltre che ardua, anche affascinante». Affrontando problemi inerenti alla trasmissione del testo, alla traduzione e alla interpretazione, Berti mostra – contro una lettura teologizzante, di origine neoplatonica – il tratto problematico della filosofia aristotelica: la metafisica non è né teologia, né ontologia, ma scienza delle cause prime.
Aristotele Eubulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Guida, 2019.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Storia della Metafisica (a cura di), Morcelliana, 2019.
Sulla base del presupposto unanimemente riconosciuto che la metafisica, quale che sia il suo valore, ha avuto una storia, il volume individua i momenti salienti di quest’ultima in alcuni grandi filosofie correnti di pensiero: Platone, Aristotele, il platonismo antico, la metafisica arabo-islamica, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Suárez, Cartesio, Kant, Hegel, Rosmini, Heidegger, il neotomismo, la filosofia analitica. Ne risulta una storia equilibrata, ricca e coinvolgente, forse unica nel suo genere, di indubbio interesse per chiunque si occupi di filosofia.
«Il campo della razionalità espressa da logos è sempre quella dell’interazione fra uomini (che si esprime anche nel termine “dialettica”, derivato da dialeghesthai, “dialogare”, “discutere”)».
Mario Vegetti, Filosofia Antica, Zanichelli, Bologna, 1992, p. 15. Ora in Id., Filosofia e sapere della città antica, Hoepli, Milano 2018.
«Il logos non è per Socrate uno strumento retorico di persuasione, del tutto indifferente alla questione del vero e del falso; […] È anzi attraverso il linguaggio, e non attraverso i sensi, che la verità si presenta all’anima. Questo rapporto fra anima e verità, che passa attraverso il logos, ci porta subito fuori dell’ambiente sofistico; ed è chiaro indice di una connessione di Socrate con le grandi filosofie della tradizione di Pitagora, di Parmenide e di Eraclito».
Mario Vegetti, Filosofia Antica, op. cit., p. 125.
«Ci sono delle parvenze del bene: l’interesse dei potenti, o i piaceri del corpo, o l’apparente felicità degli ingiusti. Ma la parte essenziale dell’uomo è l’anima, e il vero bene è il bene per l’anima. Sarà dunque guardando nella propria anima che l’uomo scoprirà il bene: qui Socrate riprende il detto delfico “conosci te stesso”, e tramite esso si ricollega ancora una volta, al di là dei Sofisti, ad Eraclito. L’importanza dell’anima come centro della vita morale, come discriminante fra veri e falsi beni, non è necessariamente legata alla sua immortalità. Socrate propende certo per la tesi dell’immortalità dell’anima, ma (a differenza dei pitagorici e del suo discepolo Platone, e più vicino in questo a Protagora) non pone questa tesi come certa e fondamentale. È l’anima del concreto soggetto vivente a giocare un ruolo centrale nella morale socratica».
Mario Vegetti, Filosofia Antica, op. cit., p. 126.
Un classico della storia della filosofia antica, che ritorna finalmente in libreria a più di 40 anni dalla sua prima apparizione. Pubblicato come testo scolastico nel 1975 da Zanichelli, il contributo di Mario Vegetti costituiva la prima parte del primo dei tre volumi che formavano il manuale Filosofie e società, opera che ebbe poi altre due edizioni (nel 1981 e nel 1992, sempre da Zanichelli). Dalla metà degli anni ’70 alla fine degli anni ’90, la storia della filosofia antica di Mario Vegetti è stata il libro di testo su cui si sono formate diverse generazioni di studenti. Ma quasi subito si è trasformata in qualcosa di più: un libro cult, che presentava e proponeva, in modo innovativo, i filosofi del mondo antico sotto una luce inedita e meno stereotipata. Questo gioiello della manualistica scolastica viene ora riproposto in una nuova veste grafica, rivolgendosi a un pubblico di lettori più ampio. E ha tutte le carte in regola per farlo: l’autore, con uno stile accattivante e una straordinaria chiarezza espositiva, illustra le dottrine filosofiche sempre all’interno del preciso contesto culturale e sociale da cui scaturiscono le linee problematiche, i campi teorici, le conflittualità ideologiche. Un’esposizione della filosofia antica vista nelle sue relazioni concrete e variabili con le diverse forme del sapere (la matematica, la biologia, l’etnologia, la storia, l’antropologia, la sociologia, l’economia), ma anche con le forme della vita sociale e politica, e con le istituzioni culturali. Vegetti offriva e offre tuttora un’immagine della filosofia antica ricca, variegata e quanto mai convincente. Uno strumento di conoscenza, di informazione e di cultura che ha aperto ed è ancora in grado di dischiudere ai giovani e a un pubblico più maturo lo spazio della filosofia.
Indice testuale
Società e cultura in Grecia dal VII al V secolo – Natura, scienza e città: il pensiero ionico del VI e V secolo – Il sapere del tempio e la nascita della filosofia nel VI e V secolo – «Salvare i fenomeni»: una nuova forma della ragione scientifica nel materialismo del V secolo – Politica, linguaggio e scienze umane: la cultura ateniese da Solone a Socrate – Filosofia e scienza regia: Platone – L’eredità di Platone: scienza e teologia nell’Accademia del IV secolo – L’enciclopedia del sapere e il grande intellettuale: Aristotele e la sua scuola – Società e organizzazione della cultura dal IV al I secolo a.C. – Antropologia e ideologia: la «rivoluzione filosofica» del mondo ellenistico – Le scienze nell’epoca ellenistico-romana (dal III secolo a.C. al III secolo d.C.) – Cultura e società nel mondo romano dalla repubblica all’impero – Il sistema e il commento: neoplatonismo e aristotelismo dal I al VI secolo d.C.
Aristotele, Eubulo o della ricchezza. Dialogo perduto contro i governanti ricchi, autentico falso d’autore di E. Berti, Guida, Napoli 2004, pp. 96.
Platone, Repubblica Libro XI, Lettera XIV. Socrate incontra Marx lo Straniero di Treviri, autentico falso d’autore di M. Vegetti, Guida, Napoli 2004, pp. 56.
Aristotele non ha scritto un dialogo intitolato Eubulo. L’Eubulo di Enrico Berti è una geniale ricostruzione di come potevano ‘funzionare’ gli incontri ad alto livello che avevano luogo, non sappiamo con quale frequenza, tra il vecchio Platone e i suoi allievi più accreditati. Egli ci porta dunque dentro l’Accademia platonica e ci fa assistere a una sessione filosofica, come si poteva svolgere in tempi così lontani e in un contesto così singolare. A sua volta Mario Vegetti ci porta nella sala in cui avrebbe avuto luogo la conversazione che poi ha assunto la forma del dialogo ed è universalmente nota col titolo di Repubblica, per farci assistere alla scena finale e a un dibattito aggiuntivo che Platone non ci ha raccontato: quando ormai Socrate considerava concluso il suo dire, uno sconosciuto volle prendere la parola, e ne sarebbe nata una significativa prosecuzione di quel dialogo: quello che è ora l’undicesimo libro della Repubblica di Platone. Che fascino assistere a Socrate che si confronta con uno sconosciuto e a Platone che si confronta con i suoi migliori discepoli, anzitutto Aristotele! Ci troviamo dunque a entrare in stanze nelle quali si ha da sempre l’impressione di non poter accedere, e con personaggi oltremodo famosi che, per una volta, vediamo in azione. E a farci entrare sono due grandi conoscitori di Aristotele (il Berti) e della Repubblica di Platone (il Vegetti di cui lamentiamo la scomparsa nel marzo del 2018) i quali, in un momento di grazia, trovano il modo di dare il meglio di sé.
Eppure, con questi due libretti siamo, a rigore, nel regno della pura affabulazione! Ma in questo caso sono scesi in campo alcuni riconosciuti maestri della filosofia antica in Italia, solo che il contesto ci parla di un progetto che in prima battuta si direbbe giocoso e solo giocoso: provare a immaginare un incontro tra Socrate e Marx che possa in qualche modo inserirsi nella cornice della Repubblica, oppure provare a scrivere un dialogo di Aristotele che non ci è pervenuto, dunque inventarselo di sana pianta. L’editore informa, del resto, che tra gli altri “autentici falsi d’autore” ora in preparazione ci sono un falso Marx che scrive la Storia della lotta di classe nell’agro nocerino-sarnese, un falso Torquato Tasso, una falsa Saffo e magari – provo ad immaginare – un falso Dostojevski e un falso Nietzsche, un falso Heidegger e un falso Wittgenstein. Il tutto ad opera di autentici professionisti, grandi connoisseurs dell’uno o dell’altro autore, come chiaramente sono i due soli studiosi finora usciti allo scoperto. Si ammetterà che la situazione incuriosisce, ma non invoglia poi tanto a fare dei pronostici su cosa possa mai venir fuori da una miscela del tipo indicato.
In compenso, ora possiamo andare a vedere. E capiamo subito che quella di Enrico Berti è stata un’idea felice: egli ha provato a scrivere un dialogo “di Aristotele” partendo dalla constatazione che in nessun caso noi siamo in grado di rappresentarci lo scambio di idee tra i personaggi messi in scena da Aristotele in questo o quel suo dialogo, perché sul conto di queste opere disponiamo di informazioni decisamente troppo povere. Ha dunque provato a inventarne uno di sana pianta, sia pure con il tenue appiglio di poche e assai reticenti testimonianze, ed ha immaginato che ai tempi del vecchio Platone si organizzassero di tanto in tanto dei simposi ad alto livello, per i membri più autorevoli della scuola. Leggiamo dunque che Aristotele, in veste di personaggio leader del dialogo, esordisce dicendo: «Quest’anno, cari amici, tocca a me organizzare e presiedere il tradizionale simposio della nostra scuola. Non so se sarà altrettanto interessante di quello, organizzato alcuni anni fa dal nostro maestro, Platone, sulla sua dottrina delle idee», né di altri organizzati in seguito. Segue una garbata presentazione dei luoghi, dei personaggi, della figura di Eubulo e del tema: se gli uomini di governo sono troppo ricchi, se possiedono poco meno che il monopolio degli spettacoli, se hanno un potere fin troppo grande. Ne nasce una conversazione plausibile, a tratti addolcita da qualche bella trovata conversazionale, che coinvolge Platone, Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Tanto basta perché prenda forma una rappresentazione garbata e plausibile della scuola di Platone e dei suoi esponenti intorno all’anno 350 a.C., dunque di un momento particolarmente significativo della tradizione filosofica occidentale, di cui sarebbe difficile tracciare un rapido e convincente profilo. Il risultato è insomma istruttivo. Il libretto lo si legge con gusto e merita di essere non solo letto per curiosità, ma anche proposto, presentato, adottato e magari fatto recitare dai ragazzi di liceo, sicuri che così essi perverranno a fissare nella loro mente dei personaggi altrimenti esposti al più serio rischio di rimanere fin troppo evanescenti. Ne è nata infatti una sorpresa tanto istruttiva quanto gradevole da leggere.
Al confronto, Mario Vegetti osa, tutto sommato, ancora di più, perché esordisce con un Socrate che, avendo finito di raccontare quell’opera che conosciamo come la Repubblica di Platone, continua dicendo: «Credevo, a questo punto, di aver finalmente condotto a termine il lungo viaggio nel discorso che ci aveva portato da quaggiù a lassù, dalla notte del Pireo alla luce della “bella città” e dei premi che attendevano l’uomo giusto in questo e nell’altro mondo. Il primo chiarore dell’alba lambiva ormai il portico…». Ed ecco l’imprevisto: nella sala si agita, novello Trasimaco, uno straniero rozzo e barbuto, dalla voce potente, il quale pretende di parlare ed esordisce così: «Ma che favole ci vieni raccontando, Socrate? Prima dicevi che bisogna proibire alle balie di terrorizzare i bambini con le storie dell’orco e dell’uomo nero, e ora provi a spaventare gli adulti con queste … chiacchiere sull’aldilà, i viaggi dell’anima e i giudizi di Minosse?». Lo straniero insiste perché Socrate torni al tema della politica e procede quindi ad avanzare delle riserve sul comunismo della Repubblica, un comunismo che egli giudica non abbastanza radicale perché il Socrate della Repubblica ha appena delineato una poco rassicurante città di sudditi. Ed ecco che il discorso acquista subito una sua insospettata punta di plausibilità, come se il dialogo a noi noto continuasse in un undicesimo libro lanciando e discutendo qualche nuova idea, con Trasimaco che cerca di intromettersi e Socrate che trova il modo di obiettare qualcosa a Marx: i filosofi socratico-platonici sono poi così diversi dalla classe (dei proletari) che ha coscienza di sé e prende il potere anche per conto – oltre che nell’interesse – del popolo? Ciò che in tal modo perviene a prendere forma è uno stimolante confronto a distanza che il lettore competente avrebbe motivo di non lasciar cadere frettolosamente. Ed ecco che abbiamo, di nuovo, una bella provocazione a sviluppare dei pensieri sulla base di un accostamento senza dubbio ardito, ma non innaturale e non improponibile. E c’è dell’altro: Vegetti ci ha dato un esempio credibile di come si potrebbe provare a dare un qualche seguito ai dialoghi platonici, compito che è stato tante volte prospettato, ma senza tradursi in strade praticabili. Un altro punto a favore!
Siamo insomma in presenza di due felici invenzioni, oltretutto di agile lettura, che a mio avviso varrebbe proprio la pena di far conoscere largamente agli studenti di liceo e in altri contesti comparabili.
Detto questo, molto altro resterebbe da notare e commentare: il fatto di confrontarci con un Aristotele che funge da autore, da personaggio, da protagonista e da intellettuale leader del dialogo, oppure la singolare natura delle note apposte dal Vegetti alla sua introduzione, note nelle quali egli si diverte a stravolgere dati editoriali noti, come ad es. quando scrive: «Cfr. in proposito S. Pastaldi-Gambese, Bendidie, in M. Vecchietti (a cura di), Platone, Repubblica, libro I, Francopolis, Napoli 1998, pp. 6372-7277», alludendo a un articolo di Silvia Gastaldi e Silvia Campese incluso nel primo volume del grande commento diretto dallo stesso Vegetti e pubblicato da Bibliopolis… Il divertimento è certamente condiviso da ogni lettore in grado di individuare a colpo sicuro i nomi giusti, e a maggior ragione da chi ritrova il proprio nome e magari un proprio libro citati con diciture deformate ma non proprio irriconoscibili. Tutto ciò rientra nel lato accattivante e plausibile dei due falsi, che sono proprio “d’autore” e di qualità
Livio Rossetti
Recensioni già pubblicate in: «Bollettino della Società Filosofica Italiana», Rivista Quadrimestrale, Nuova Serie n. 184 – gennaio/aprile 2005, pp. 86-87.
Livio Rossetti(1938) è stato professore di filosofia greca all’Università di Perugia per decenni. Nel 1989 ha fondato la Intern. Plato Society a Perugia, nel 2006 ha dato il via agli incontri di Eleatica che si tengono tuttora a un passo dagli scavi di Elea (in pieno Cilento) e nel 2018 ha fondato la Intern. Society for Socratic Studies a Buenos Aires. Tra i suoi studi su Parmenide e Zenone ricordiamo: Un altro Parmenide (2 voll., Bologna 2017) e Una tartaruga irraggiungibile (fumetto, Bologna 2013): nel 2019 questo volumetto è stato pubblicato in spagnolo, a Buenos Aires. Nel 2020 è in pubblicazione La filosofia virtuale di Parmenide Zenone e Melisso.
Lezione tenuta nel Corso di Metodologia dell’insegnamento filosofico dell’Università di Padova il 31 maggio 2004. Il testo è stato pubblicato nel 2006 in: Enrico Berti, Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, pp. 281-294, cui si rimanda.
La filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.
Il titolo di questa conversazione riprende quello di un articolo di Franca D’Agostini, pubblicato nella rivista “Intersezioni” dell’agosto 2003,[1] aggiungendovi soltanto il punto interrogativo (di cui vedremo la ragione). Franca D’Agostini è la nota e intelligente autrice del fortunato libro Analitici e continentali (Milano 1997), che ha divulgato anche in Italia una contrapposizione del tutto impropria, perché costruita con due categorie tra loro eterogenee, una di tipo metodologico e l’altra di tipo geografico, ma tuttavia utile per classificare la maggior parte dei filosofi contemporanei. Tale contrapposizione è stata infatti coniata, non a caso, da un filosofo analitico, Kevin Mulligan, che l’ha lanciata, se non erro, nel Time’s Literary Supplement, contrapponendo per mezzo di essa i filosofi analitici a tutto il testo del mondo, e ha dato luogo a vari dibattiti, di cui in Italia è rimasto famoso quello sviluppato nel supplemento domenicale del “Sole-24 ore” del 1998. In quest’ultimo è intervenuto anche un altro filosofo analitico, Michael Dummett, con una perfetta illustrazione delle caratteristiche dei due tipi di filosofi, ovvero dei due stili, o modi, di fare filosofia.
Lo stesso Mulligan, in un recente saggio su John Searle, rivendica alla filosofia analitica il rifiuto del principio di autorità e il diritto a “pensare con la propria testa”, accusando i “continentali” di pensare con la testa dei filosofi del passato.[2] Egli così riprende la nota tesi di Kant, il quale nella Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, non solo indicò “il motto dell’illuminismo” nella nota esortazione “abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto!”, ma usò come equivalente a questa proprio l’espressione “pensare con la propria testa”. Dopo avere infatti osservato che pensare può essere faticoso, perché “io ho un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che per me decide quale debba essere la mia dieta, ecc., e quindi non ho bisogno di badare a me stesso. Purché solo possa pagare, non è necessario ch’io pensi; altri si assumeranno per me questa noiosa incombenza”, Kant aggiunge che tuttavia “si troveranno sempre […] delle persone che pensano con la propria testa, e che, scrollatesi di dosso il giogo della minorità, diffonderanno il sentimento d’un apprezzamento razionale del valore di ogni uomo e della sua vocazione a pensare da sé”.[3]
Kant, come è noto, faceva di questo concetto il nucleo della sua dottrina sul metodo dell’insegnamento della filosofia, secondo la quale non si deve insegnare la filosofia, ma si deve insegnare a filosofare. Già nello scritto “precritico” Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766 egli sostiene infatti che in generale “uno studente non deve imparare pensieri (Gedanken), ma deve imparare a pensare (denken)”. E, per quanto riguarda in particolare la filosofia, egli precisa: “il giovane licenziato crede che imparerà filosofia, ma questo è impossibile, perché ora deve imparare a filosofare (philosophiren)”.[4] Mentre, infatti, altre scienze, quali ad esempio la geometria, esistono già in una forma sistematica, sulla quale tutti convengono, per esempio gli Elementi di Euclide, ciò non accade assolutamente per la filosofia. “Per imparare la filosofia – scrive Kant – bisognerebbe, anzitutto, che ce ne fosse realmente una. Bisognerebbe poter mostrare un libro e dire: vedete, qui è la sapienza e la conoscenza sicura; imparate ad intenderlo e a capirlo, poi costruiteci su, e sarete filosofi. Finché non mi si mostrerà un tal libro di filosofia […], mi si permetta di dire che si abusa della capacità delle persone”. Per questo, conclude Kant, “il metodo peculiare dell’insegnamento della filosofia è zetetico, come lo chiamavano alcuni antichi (da zetein), cioè indagativo, e diventa in vari punti dommatico, cioè determinato, solo per la ragione alquanto esercitata”.[5]
La stessa posizione Kant mantiene nella Critica della ragion pura, dove scrive: “Tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia (salvo storicamente); ma, per ciò che concerne la ragione, tutt’al più si può imparare a filosofare”. E più avanti: “Non si può imparare alcuna filosofia; perché dove è essa, chi l’ha in possesso, e dove essa può conoscersi? Si può imparare soltanto a filosofare, cioè ad esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi principi generali a certi tentativi che ci sono, ma sempre con la riserva del diritto della ragione di cercare questi principi stessi alle loro sorgenti e di confermarli o rifiutarli”.[6] Qui sono interessanti la riserva circa la storia e l’accenno alle sorgenti, su cui ritorneremo, ma non c’è dubbio che viene ribadita la tesi già espressa nella Notizia, la quale rimarrà una tesi classica nel dibattito sull’insegnamento della filosofia.
Alla tesi di Kant si ispira esplicitamente l’insegnamento della filosofia nelle scuole francesi, cioè nelle scuole del Paese che, insieme con l’Italia, è certamente quello in cui la filosofia occupa lo spazio maggiore nella formazione dei giovani, collocandosi all’interno del liceo. È noto, infatti, che in Francia si insegna filosofia al liceo, anche se, a differenza che in Italia, solo nell’ultimo anno; ma in quest’anno la filosofia è sicuramente l’insegnamento più importante, che in certi indirizzi raggiunge anche le nove ore alla settimana, per cui l’ultimo anno del liceo è chiamato anche classe de philosophie. Ebbene, nei documenti ufficiali diffusi dal Ministère de l’Education nationale, si è sempre dichiarato che lo scopo dell’insegnamento della filosofia è di insegnare ai giovani à faire de la philosophie (in francese non esiste il verbo “filosofare”). A questo proposito un recente Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia parla della “dottrina ufficiosa” che ispira l’insegnamento della filosofia in Francia da più di un secolo e che si compendia nelle seguenti affermazioni: “L’insegnamento della filosofia è un insegnamento filosofico. La sua prima finalità non è che l’allievo sappia che cosa dice Platone o Cartesio, ma che apprenda a fare una riflessione filosofica con i propri mezzi e sviluppi così il suo spirito critico e la sua autonomia di giudizio”.[7] Anzi per molti anni negli ambienti scolastici francesi si è criticato il metodo italiano dell’insegnamento della filosofia, perché esso si limita esclusivamente alla storia della filosofia e non insegna minimamente a “fare della filosofia”.
Ma torniamo all’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa”. Su di essa non si può non essere d’accordo: non solo l’insegnamento della filosofia, ma l’intera educazione deve formare a pensare con la propria testa, se con questa espressione si intende l’esercizio del senso critico, lo spirito di osservazione personale, il rifiuto dei pregiudizi, la disponibilità al confronto con gli altri, e tutte le capacità di questo genere. Ma siamo sicuri che questo sia l’unico significato della suddetta espressione? A proposito di essa fa alcune interessanti considerazioni Franca D’Agostini nell’articolo sopra citato. Anzitutto ella precisa che, con tale esortazione, Kant non intendeva affermare il primato delle proprie idee e il disprezzo delle idee altrui, poiché in una lettera a Herder del maggio 1768 egli scrisse: “quanto a me, non mi afferro saldamente ad alcunché e con profonda imparzialità combatto tanto le mie opinioni quanto quelle altrui”.[8] Ma poi la stessa D’Agostini osserva molto acutamente: “il problema di fondo, nel tema del ‘pensare con la propria testa’, è che se c’è una testa, per così dire, essa difficilmente è propria o interamente propria”.[9]
Qui emerge tutta la consapevolezza critica, propria dei filosofi “continentali”, degli innumerevoli condizionamenti a cui ciascuno di noi è sottoposto: l’ambiente sociale in cui si è nati, l’educazione che si è ricevuta, la propria storia, la propria cultura, le tendenze, le aspettative, le speranze, ma anche i pregiudizi, le idiosincrasie e, soprattutto oggi, l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, della pubblicità, della moda. Una volta, al tempo di Kant, bisognava guardarsi dal principio di autorità, perché qualche autorità c’era. Oggi non si sono più autorità, quindi non c’è più alcun pericolo di essere vittime di tale principio, ma quanto più lo si rifiuta, tanto più si è vittima di altri condizionamenti. Anche i filosofi, che dovrebbero essere gli spiriti più critici, sono terribilmente vittime delle mode. Non parlo solo di abbigliamento, è evidente, anche se l’accettazione immediata e passiva della moda nell’abbigliamento è già un segno che dovrebbe suscitare qualche sospetto. Parlo delle mode culturali, intellettuali, filosofiche, quelle per cui “dopo il tale (che può essere Kant, o Marx, o Nietzsche, o Freud, o Heidegger, o Quine) non è più possibile dire che”, oppure “oggi è ormai assodato che”, o “la tal epoca è ormai finita”, per cui bisogna necessariamente essere “post” qualche cosa, “post-metafisici”, “post-cristiani”, “post-moderni”, ecc.
Ciò fu visto con grande chiarezza, come ricorda D’Agostini, da Hegel, al quale si deve un’altra tesi, non meno classica di quella di Kant, anche se non più illuministica, da far valere nel dibattito sull’insegnamento della filosofia. Hegel, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, dichiara: “La smania di pensare con la propria testa sta in ciò, che ognuno metta fuori una sciocchezza più grossa di un’altra”[10]. L’uso dell’espressione “pensare con la propria testa” può dare l’impressione che Hegel intenda polemizzare proprio con Kant, ma ciò non è vero, perché, come giustamente nota D’Agostini, la polemica è rivolta invece contro i filosofi romantici, cioè Eschenmayer e Jacobi. “Quest’oratoria profetica e scevra di concetto – scrive a proposito di essi Hegel – proclama dal tripode questo e quello circa l’essenza assoluta, ed esige che ognuno debba trovare immediatamente tutto questo nel proprio cuore. Il conoscer l’essenza assoluta diventa affare di cuore; è una folla d’inspirati a parlare, e ciascuno di essi dice un monologo, e capisce veramente l’altro solo nella stretta di mani e nel silenzio del sentimento. Quel che essi dicono, sono per lo più cose banali, se si prendon così come sono dette; il sentimento, l’atteggiamento, la pienezza del cuore son essi che debbono dare forza al discorso, – per sé non dicono nulla. Essi cercano di superarsi l’un l’altro con le trovate della fantasia, con la poesia nostalgica”. Certo, si tratta di un modo molto particolare di intendere il “pensare con la propria testa”, ma esso non è raro nemmeno tra i filosofi di oggi – non tra gli analitici, va detto, bensì proprio tra i continentali – che spesso hanno l’aria di ispirati, o di iniziati, che hanno scoperto da soli la verità e si decidono a rivelarla al volgo, evitando qualsiasi argomentazione e lasciandosi andare, nel migliore dei casi, a una serie di asserzioni del tutto ingiustificate, quando non oscure o addirittura incomprensibili.
“Per il filosofare – continua Hegel – non c’è speranza, l’onore è perduto; infatti esso presuppone un fondo comune di pensieri e di principi, esige che si proceda scientificamente o per lo meno esige opinioni. Ma ora tutto è stato riposto nella particolare soggettività; ognuno è diventato altezzoso e sprezzante verso gli altri. A questo si ricongiunge la rappresentazione del pensare con la propria testa, come se ci potesse esser pensiero che non sia tale”.[11] Evidentemente l’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa” aveva avuto successo, anche troppo, ed era stata distorta in un diritto ad esaltare la propria soggettività, la propria creatività, infischiandosi del “fondo comune di pensieri e di principi”. Le opinioni, che secondo Hegel il filosofare esige, sono quelle che devono essere messe in discussione, quelle che Kant voleva combattere, sia le proprie che le altrui, ma in un dibattito comune, in una dialogo con gli altri, il quale non sia il monologo di un ispirato, bensì la discussione di chi argomenta, di chi confuta o anche di chi dimostra.
È interessante, a questo proposito, richiamare anche le idee di Hegel sull’insegnamento della filosofia. Egli fu, come è noto, per alcuni anni rettore, cioè preside, del ginnasio di Norimberga (1808-1816), e questi furono gli anni in cui scrisse la Scienza della logica (1812-1816), cioè quelli in cui giunse ad elaborare in forma compiuta il suo sistema. Nel 1812 fu richiesto dal Regio consigliere scolastico superiore per la Baviera (una specie di ministro dell’istruzione), Immanuel Niethammer, di un parere riservato sull’insegnamento della filosofia del ginnasio. In questo parere Hegel scrisse, tra l’altro: “In generale, si distingue il sistema filosofico, con le sue scienze particolari, dal filosofare vero e proprio. Secondo la moda moderna, specialmente della pedagogia, non si deve tanto venire istruiti nel contenuto della filosofia quanto imparare a filosofare senza contenuto; ciò vuol dire, pressappoco: si deve viaggiare, viaggiare sempre, senza conoscere le città, i fiumi, i paesi, gli uomini, ecc.”.[12] Evidentemente la tesi di Kant aveva avuto successo anche in Baviera, specialmente tra i pedagogisti, anche allora nemici dei contenuti ed amici soprattutto dei metodi (nihil sub sole novum).
A questa tesi (dei pedagogisti bavaresi, più che di Kant) Hegel risponde con tre argomenti. “In primo luogo, nel conoscere una città, nel giungere poi ad un fiume, ad un’altra città, e così via, si impara senz’altro, in tal modo, a viaggiare, e non s’impara soltanto, ma si viaggia effettivamente. Così quando si viene a conoscenza del contenuto della filosofia, non si impara soltanto il filosofare, ma si filosofa anche già effettivamente”.[13] Evidentemente per Hegel, a differenza che per Kant, la filosofia da qualche parte esiste già ed è costituita, come vedremo tra poco, da un lato dal sistema delle scienze filosofiche, quello che lo stesso Hegel si accingeva ad esporre nella sua Enciclopedia, e dall’altro dalla storia della filosofia, la cui conoscenza, secondo Hegel, è già un modo per filosofare.
“In secondo luogo – continua Hegel – la filosofia comprende i più alti pensieri razionali intorno agli oggetti essenziali, comprende l’universale e il vero dei medesimi: è di grande importanza acquisire familiarità con questo contenuto, e accogliere nella propria testa questi pensieri. Il procedimento triste, meramente formale, il perenne cercare e vagare, senza contenuto, l’asistematico sofisticare e speculare, hanno come conseguenza la vacuità e la mancanza di pensieri in testa, il fatto che non si sappia nulla. La dottrina del diritto, la morale, la religione costituiscono un campo dotato di un importante contenuto; anche la logica è una scienza ricca di contenuto: quella oggettiva (Kant: trascendentale) comprende i pensieri fondamentali di essere, essenza, forza, sostanza, causa, ecc.; l’altra i concetti, i giudizi, i sillogismi, ecc., determinazioni fondamentali altrettanto importanti; la psicologia comprende il sentimento, l’intuizione, ecc.; l’enciclopedia filosofica, infine, in generale questo campo nella sua interezza”. Il riferimento al “pensare con la propria testa” continua ad essere presente, ma viene inteso come un “accogliere nella propria testa questi pensieri”, e non in polemica con Kant, il quale anzi viene citato come autore della logica oggettiva. Si noti inoltre come Hegel non proponga quale contenuto della filosofia soltanto il proprio sistema, ma anche le discipline filosofiche tradizionali, di origine addirittura aristotelica.
Una riflessione merita anche, a mio avviso, la polemica contro “il perenne cercare e vagare”, oggi tanto di moda in nome della problematicità, della criticità, dell’apertura. La filosofia deve certamente cercare, lo dice il suo stesso nome, e il suo metodo non può essere che quello “zetetico”, come diceva Kant. Questi lo chiamava anche “metodo scettico”, ma aggiungeva subito: “Esso è da distinguere del tutto dallo scetticismo, principio di una inscienza secondo arte e scienza, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza”.[14] Un cercare fine a se stesso è solo ipocrisia, perché chi cerca sinceramente, cerca per trovare, non per cercare. Chi cerca solo per cercare, non cerca, ma finge di cercare, perché non gli importa assolutamente nulla di ciò che cerca. Anche il mio maestro, Marino Gentile, diceva che la filosofia è “un domandare tutto che è tutto domandare”, ma con ciò intendeva dire che essa non contiene alcuna risposta già data, cioè presupposta, non che essa non aspira ad alcuna risposta. Anzi, a questo proposito paragonava il domandare alla potenza, ed affermava con Aristotele che più della potenza conta l’atto, e che una potenza incapace di passare all’atto non vale nulla.
Infine, ecco il terzo argomento di Hegel: “In terzo luogo, il procedere nella conoscenza di una filosofia ricca di contenuto non è altro che l’apprendere. La filosofia deve essere insegnata e appresa, al pari di ogni altra scienza. L’infelice prurito di insegnare a pensare da sé (Selbstdenken) ed a produrre autonomamente ha messo in ombra questa verità; come se, quando io imparo che cosa sia la sostanza, la causa o qualsiasi altra cosa, non pensassi io stesso, non producessi io stesso nel mio pensiero queste determinazioni, ma queste venissero invece gettate in esso come pietre”. In queste parole, forse discutibili nell’equiparazione della filosofia a tutte le altre scienze, io leggo la preoccupazione di salvaguardare il carattere professionale della filosofia, e quindi anche del suo insegnamento. Non ci si improvvisa filosofi, la filosofia non è un’attività spontanea, immediata, dilettantesca, ma è anche una professione, un sapere, che richiede una competenza, professionalità. E non è detto che questa competenza serva solo per fare filosofia: nella Facoltà di Medicina dell’Università di Padova, ad esempio, si ritiene utile da qualche anno impartire agli studenti di medicina, che non faranno mai i filosofi, alcune lezioni di filosofia: non di “filosofia della medicina”, ma di filosofia pura e semplice, in cui si spieghino, nella fattispecie, le nozioni di causa, effetto, fine, ecc.
Hegel continua la sua perorazione con un esempio che farà discutere: “Come se, quando ho imparato bene il teorema di Pitagora e le sue dimostrazioni, non fossi io stesso a conoscere questo teorema e a dimostrarne la verità; nella misura in cui lo studio filosofico è in sé e per sé un’attività autonoma (Selbsttun, un fare da sé), esso è un apprendere; l’apprendere una scienza già esistente, formata”. Questa sembra essere proprio una risposta a Kant, il quale osservava che la filosofia non esiste come una scienza già bell’e fatta, che si possa apprendere da un libro, e vedeva in questo la sua differenza dalla matematica, in cui rientra appunto il teorema di Pitagora. E non si può dargli torto, se per scienza si s’intende una scienza come la matematica. Ma non è alla matematica che pensa Hegel, malgrado il suo esempio. Egli infatti aggiunge: “Questa è un patrimonio costituito da un contenuto acquisito, elaborato, formato: questo bene ereditario disponibile dev’essere acquistato dall’individuo, ossia, venire appreso. L’insegnante lo possiede: egli lo pensa dapprincipio, e dopo di lui lo ripensano gli allievi. Le scienze filosofiche contengono dei propri oggetti, pensieri universali, veri; esse sono il prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi; questi pensieri veri superano ciò che un giovane non istruito produce col proprio pensiero di quanto quella massa di lavoro geniale supera la fatica di questo giovane”. Dunque è nel “prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi”, cioè nella storia della filosofia, che va ricercata la filosofia: in questo, come abbiamo visto, anche Kant era d’accordo, quando, dopo avere affermato che “tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia”, precisava “salvo storicamente”.
Certo, la storia della filosofia che contiene in sé la filosofia non è quella che lo stesso Hegel ha definito “la filastrocca di opinioni”, da Talete a giorni nostri, che ci raccontano i (cattivi) manuali o le storie della filosofia di impostazione dossografica. Queste non possono che produrre, nei giovani, il più completo disorientamento, e quindi lo scetticismo. La storia della filosofia che contiene in sé la filosofia è costituita dalle opere dei grandi filosofi, dalle quali anche i giovani che frequentano il liceo possono attingere qualche briciola di filosofia, leggendone qualche pagina, come leggono qualche pagina della grande poesia o della grande letteratura. In tal modo essi possono, almeno una volta nella vita, fare esperienza di che cosa significa affrontare un problema di senso, o di verità, in modo razionale, cioè senza fare ricorso ad una tradizione familiare, o ad una fede religiosa, o ad un’ideologia politica, ma con argomentazioni, con discussioni a favore e contro, con domande, risposte e confutazioni.
Ma vediamo anche che cosa pensava Hegel a proposito dell’insegnamento della filosofia nell’università. Sempre da Norimberga, nell’agosto del 1816, quando ormai stava per essere chiamato alla cattedra di filosofia dell’università di Heidelberg (ma già aveva insegnato, come Privat-dozent, all’università di Jena), Hegel scrisse al Regio consigliere, questa volta del governo di Prussia, Friedrich von Raumer, una lettera sull’insegnamento della filosofia nell’università, nella quale esordisce così: “Comincio subito come in generale si potrebbe cominciare questo discorso, poiché può apparire una cosa molto semplice, con l’osservazione che per l’insegnamento della filosofia dovrebbe valere soltanto quello che vale per l’insegnamento delle altre scienze”.[15] Per capire il senso di queste parole bisogna aver vissuto la situazione del professore di filosofia nell’università, continuamente tenuto a dover giustificare, presso i suoi colleghi delle facoltà scientifiche, la sua presenza, il suo diritto al riconoscimento di una dignità scientifica, e quindi a spazi adeguati, finanziamenti adeguati, posti di collaboratore adeguati. Se tutto ciò è invece incerto, o in discussione, è per colpa di quanti presentano la filosofia non come un sapere, ma come un “pensare con la propria testa”. Per fare questo, infatti, che bisogno c’è di spazi, di fondi, di posti? Basta avere una testa.
Forse anche al tempo di Hegel c’erano filosofi che giustificavano i sospetti dei propri colleghi scienziati, poiché nella citata lettera egli scrive: “Abbiamo visto dare una maggiore ampiezza alle idee generali con l’aiuto della fantasia, che mescolava alto e basso, vicino e lontano in un modo brillante ed oscuro (sottolineatura mia), spesso con profondità ed altrettanto spesso con superficialità assoluta, ed inoltre utilizzava quelle regioni della natura e dello spirito che sono per se stesse oscure ed arbitrarie. Un cammino opposto, diretto anch’esso ad una maggiore estensione, è quello critico e scettico, che ha nel materiale esistente una materia nella quale esso procede ma che d’altronde vanifica, traendone dispiacere e risultati negativi, fonti di noia. Se questo cammino serve pure in qualche modo ad esercitare l’acume, mentre il mezzo della fantasia vorrebbe invece sortire l’effetto di svegliare un effimero fermento dello spirito – ciò che si chiama anche edificazione – e di accendere di per sé nei pochi l’idea universale, nessuna di queste maniere fa tuttavia ciò che va fatto, e che è lo studio della scienza ”.[16]
L’insegnamento della filosofia nell’università (non stiamo più parlando del ginnasio o del liceo) dunque non deve né edificare, né semplicemente esercitare l’acume: altre discipline possono svolgere questo compito, forse meglio della stessa filosofia. Quanto al “modo brillante ed oscuro” con cui alcuni insegnano filosofia nell’università, Hegel coglie perfettamente la disonestà di questo atteggiamento, che per fare effetto si sottrae ad ogni possibilità di controllo, ed approfitta dell’inferiorità culturale degli studenti per épater. Piero Martinetti diceva, come è noto, che la chiarezza è l’onestà del filosofo, perché permette a tutti di valutare “con la propria testa” se ciò che il filosofo dice risponde a verità, o è minimamente convincente. Quando invece un filosofo è oscuro, chi può valutare ciò che egli afferma? La chiarezza è l’analogo, per il filosofo, di ciò che è il teatro anatomico per l’anatomista: in esso tutti possono constatare con i propri occhi, a distanza ravvicinata, se ciò che il docente afferma corrisponde a ciò che si vede.
Ma nell’università c’è un altro rischio che Hegel chiaramente denuncia, quello per cui ciascun professore vuole avere e insegnare il suo proprio sistema. “È diventato un pregiudizio – scrive Hegel sempre nella lettera a von Raumer – , e non solo nello studio filosofico, ma anche nella pedagogia – e in questa ancor più grave – che il pensare indipendente (Selbstdenken) debba essere esercitato e sviluppato, in primo luogo, nel senso che esso non dipenda dall’elemento materiale e, in secondo luogo, come se l’imparare fosse opposto al pensare indipendente […]. Secondo un errore comune, sembra che su un pensiero il sigillo dell’indipendentemente pensato (des Selbstgedachten) sia impresso solo quando esso si scosti dai pensieri degli altri uomini […]. In altre parole, è nata da qui la smania per cui ciascuno vuole avere un suo proprio sistema, e per cui un’idea è considerata tanto più originale ed eccellente quanto più è insulsa e folle, poiché essendo tale essa mostra al massimo la propria originalità e diversità dai pensieri degli altri”.[17]
L’errore a cui Hegel allude è quello di credere che “pensare con la propria testa” voglia dire avere un proprio sistema filosofico, necessariamente diverso da quelli già pensati da altri, e che il valore principale in filosofia non sia la verità, ma l’originalità. Naturalmente l’ammonizione a non cadere in questo errore vale sia per i docenti che per gli studenti. Ai docenti bisognerebbe inoltre ricordare quanto ebbe a scrivere Max Weber nella sua famosa conferenza su La scienza come professione, cioè che “la cattedra non è per i profeti e i demagoghi. Al profeta e al demagogo è stato detto: ‘Esci per le strade e parla pubblicamente’. Parla, cioè, dov’è possibile la critica. Nell’aula, ove si sta seduti di faccia a i propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza del senso di responsabilità approfittare di questa circostanza – per cui gli studenti sono obbligati dal programma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire a controbatterlo – per inculcare negli ascoltatori le proprie opinioni, invece di recar loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche”. E più oltre: “L’insegnante universitario deve desiderare e proporsi di giovare con le sue conoscenze e i suoi metodi”.[18]
Contro l’originalità a tutti i costi, che spesso si trasforma in oscurità e incapacità di comunicare, Hegel osserva: “La filosofia ottiene la possibilità di essere appresa, per mezzo della sua determinatezza, con tanto maggiore precisione quanto più essa diventa, in tal modo soltanto, comunicabile e capace di divenire un bene comune. Come essa, da una parte, vuole essere oggetto di uno studio particolare, e non è già per natura un bene comune per il solo fatto che ogni uomo in generale è dotato di ragione, così la sua universale comunicabilità le toglie anche l’apparenza – che, tra le altre, essa ha avuto negli ultimi tempi – di essere un’idiosincrasia di alcune menti trascendentali”.[19] Da un lato, insomma, non si deve credere che ogni uomo sia filosofo per il solo fatto di possedere la ragione, perché la filosofia, come abbiamo visto, è un sapere ed esige una precisa competenza, una professionalità; dall’altro lato, essa è un sapere comunicabile, non riservato soltanto a pochi iniziati, o a menti dotate di un quoziente intellettuale eccezionale, ma deve essere resa accessibile a tutti, tramite – ovviamente – un adeguato lavoro di studio e di apprendimento.
Infine contro la concezione della filosofia come edificazione Hegel scrive: “Come scienza propedeutica la filosofia ha in particolare da provvedere all’educazione (Bildung) e all’esercizio formale del pensiero; essa può far ciò solo per mezzo di un completo allontanamento dal fantastico, per mezzo della determinatezza dei concetti e di un procedimento conseguente e metodico; essa deve poter procurare quell’esercizio in una misura superiore alla matematica poiché non ha, come questa, un contenuto sensibile. Ho menzionato prima l’edificazione che spesso ci si attende dalla filosofia; a mio parere, anche quando viene presentata alla gioventù essa non deve mai essere edificante. Ma deve soddisfare ad un bisogno affine […]; compito della filosofia dev’essere giustificare ciò che ha valore per la conoscenza, coglierlo e comprenderlo in pensieri determinati e quindi proteggerlo da oscure deviazioni”[20].
Ebbene, l’unica conoscenza filosofica su cui esista l’accordo universale tra i filosofi è la conoscenza della storia della filosofia. Perciò anche in Francia, recentemente, si è messa in discussione la “dottrina ufficiosa”, cioè tradizionale, secondo la quale bisogna insegnare a fare della filosofia, come risulta dal già citato Manifesto. Tale discussione ha portato a proporre tutta una serie di nuovi “cantieri”, ovvero criteri, per l’insegnamento della filosofia. Tra i primi ce n’è subito uno che recita: “Riconoscere che l’imparare a filosofare implica un apprendimento e che insegnare la filosofia è un mestiere”[21]. Rimane dunque lo scopo della “dottrina ufficiosa”, ma si riconosce che, per attingerlo, è necessario apprendere prima qualche cosa, cioè un insieme di conoscenze. Di conseguenza l’insegnante di filosofia – si sta parlando del liceo – prima di essere un filosofo, deve essere un professionista che sa trasmettere tale insieme di conoscenze. Infatti il “cantiere” continua dicendo: “Non è privo di controindicazioni identificare puramente e semplicemente il professore di filosofia con un filosofo. Chi fa il filosofo davanti ai suoi allievi non dà loro una formazione, perché li tratta come i discepoli che non saranno mai”.
Un altro “cantiere” del nuovo manifesto recita: “Riconoscere che la filosofia non serve soltanto a filosofare”, e spiega: “ L’insegnamento della filosofia non potrebbe giustificare la posizione che occupa oggi – e ancor meno la sua presenza nei corsi scolastici e universitari – se non potesse mostrare la sua utilità nella formazione intellettuale e culturale di tutti gli allievi”.[22] E un altro ancora recita: “Formarsi alla filosofia significa apprendere a pensare attraverso l’appropriazione di conoscenze filosofiche e non-filosofiche. Si è usato ed abusato della formula kantiana secondo cui non si può apprendere la filosofia ma solo a filosofare”, e spiega: “Per esempio, se il corso di filosofia è organizzato per problemi, questi non possono in modo serio essere affrontati dagli allievi se non attraverso la conoscenza delle principali opzioni filosofiche da cui derivano e attraverso la padronanza progressiva delle distinzioni concettuali che consentono di dar loro un senso. Queste opzioni e queste distinzioni non hanno niente di naturale o di spontaneo. È nella storia della filosofia che esse sono state prodotte ed è solamente lì che possono essere ritrovate. Non si può sfuggire alla domanda: che cosa gli allievi che si accostano al filosofare devono conoscere della storia della filosofia?”.[23]
Nel leggere queste parole si ha l’impressione di trovarsi davanti ad una vera e propria ritrattazione di tutte le critiche che da parte francese sono state rivolte alla scuola italiana ed alla preminenza in essa data all’insegnamento della storia della filosofia. Certo, il metodo “italiano” di insegnare filosofia nei licei non è esente da critiche, specialmente a causa delle deformazioni che i programmi originari della riforma Gentile hanno subito ad opera dei decreti De Vecchi, della conseguente introduzione dei manuali di storia della filosofia e della progressiva sostituzione della lettura dei classici con la “filastrocca di opinioni” menzionata sopra. Contro queste deformazioni ha inteso andare la relazione della Commissione Brocca, quando ha indicato nella lettura dei testi il momento fondamentale e caratterizzante dell’insegnamento della filosofia, dove per “testi” ovviamente si intendono – purtroppo c’è bisogno di precisarlo – le opere dei filosofi, possibilmente dei “grandi” filosofi.
Qualcuno obietterà che non sta scritto da nessuna parte quali sono i “grandi” filosofi e che la loro identificazione dipende dal tipo di filosofia che si professa. Ciò non è vero: come in letteratura esistono i “grandi” poeti, e a scuola si fanno leggere questi, così in filosofia esistono i “grandi” filosofi, cioè i classici, quelli che ritornano continuamente, quelli di cui non si può fare a meno. La loro esistenza si tocca con mano proprio quando si insegna la filosofia contemporanea. Per esempio all’università la maggior parte degli studenti vogliono occuparsi di filosofi contemporanei. Heidegger, naturalmente, è uno di quelli che vanno per la maggiore. Ma quando gli studenti ne prendono in mano le opere, si accorgono che Heidegger non fa che parlare di Platone e di Aristotele, di Kant e di Hegel (per non dire dei presocratici e di Nietzsche), e che non si capisce nulla di Heidegger se non si conoscono questi altri filosofi. Per questo la Commissione Brocca aveva indicato come autori obbligatori Platone, Aristotele, Kant e Hegel, scatenando una ridda di proteste, specialmente da parte dei filosofi analitici, i quali rivendicavano l’importanza degli inglesi (Locke, Hume, Mill). Ebbene, aggiungiamo pure qualche inglese, per far contenti gli analitici, e qualche francese (Descartes, Pascal), per far contenti i francesi (ma allora anche Vico), e qualche santo (Agostino, Tommaso), per far contenti i cattolici. In ogni caso, restiamo ben lontani dalla “filastrocca di opinioni” del manuale.
Non mi addentro nel problema di come leggere i classici, su cui esiste tutta una letteratura. L’importante è anzitutto capirli, realizzando quella che Gadamer chiamava la “fusione di orizzonti”, e poi discuterli, cioè metterli in questione e, se necessario, criticarli. Mentre sulla prima operazione concordo con gli ermeneutici, che oggi sono la maggioranza dei “continentali”, sulla seconda concordo con gli “analitici”, che discutono con i classici come si fossero nostri contemporanei. Le due operazioni sono entrambe necessarie e si riassumono in quell’attività che Aristotele per primo, credo, definì con un verbo che è rarissimo incontrare nella letteratura greca, cioè sumphilosophein, “confilosofare”, fare filosofia insieme. Facendo rientrare anche l’amicizia (philia) tra gli ingredienti che costituiscono la felicità, Aristotele concluse infatti la sua grande trattazione di questa virtù (due interi libri dell’Etica Nicomachea) dichiarando che, per gli amici, cioè per le persone che si vogliono bene, la cosa più desiderabile è fare insieme le cose in cui ciascuno maggiormente identifica il proprio essere, ossia ciò per cui desidera vivere: per i bevitori bere insieme, per i giocatori giocare insieme, per i patiti di ginnastica o per i cacciatori fare ginnastica insieme o andare a caccia insieme, per i filosofi fare filosofia insieme[24]. E chi, per un filosofo, può essere più amico dei grandi filosofi? Quindi facciamo filosofia insieme a Platone o ad Aristotele, a Kant o a Hegel, a Hume, a Wittgentsein o a Heidegger, leggendo e discutendo insieme le loro opere.
Non si tratta, dunque, di apprendere la filosofia da un unico libro che la contenga tutta già bell’e fatta, come temeva Kant: la filosofia non è la geometria (per questo l’esempio del teorema di Pitagora, portato da Hegel, non è il più calzante), cioè non è un discorso dotato di propri principi, a partire dai quali si possano dimostrare dei teoremi. La filosofia, come diceva Hegel, non ha il vantaggio di poter presupporre il proprio oggetto e il proprio metodo, cioè non ha principi. Essa mette in questione tutto, è un “domandare tutto che è tutto domandare”, ma tuttavia non è stata inventata né oggi né ieri, né ciascuno può inventarla da sé. Essa esiste già da tempo e va quindi cercata. Ma bisogna cercarla là dove essa si può trovare, cioè nelle opere dei grandi filosofi, e bisogna imparare a filosofare insieme con loro, cioè partecipando alla loro ricerca. Anche questo è un metodo “zetetico”, come quello voluto da Kant.
Se posso tentare di riassumere l’intero discorso in poche parole, distinguerei ancora una volta l’insegnamento della filosofia nel liceo dall’insegnamento della filosofia nell’università. Nel liceo la filosofia viene insegnata a tutti, anzi molti di noi auspicano che venga insegnata anche negli ex istituti tecnici, in modo che tutti i ragazzi italiani possano fare esperienza, almeno una volta nella vita, di che cosa significa affrontare un problema di senso in modo razionale. Ma dove la filosofia viene insegnata a tutti, non si può pretendere che tutti diventino filosofi. Quindi la filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.
Enrico Berti
[1] F. D’Agostini, Pensare con la propria testa. Un problema metafilosofico e le sue implicazioni filosofiche, “Intersezioni”, 23, 2003, pp. 271-290.
[2] K. Mulligan, Searle, Derrida and the Ends of Phenomenology, in B. Smith (ed.), The Cambridge Companion to Searle, Cambridge 2003.
[3] I. Kant, Scritti sul criticismo, Roma-Bari 1991, pp. 5-6.
[4] E. Kant, Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766, in Vega Scalera, L’insegnamento della filosofia dall’unità alla riforma Gentile, Firenze 1990, doc. 9, sez. 52.
[6] E. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, riveduta da V. Mathieu, Bari 1959, pp. 649-650.
[7] Cf. ACIREPH (Association pour la création des Instituts de Recherche sur l’Enseignement de la Philosophie), Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia, per un possibile confronto con l’Italia, trad. di M. Trombino, in S. Martini (a cura), Per un laboratorio di didattica della filosofia, Roma 2004, pp. 89-114, spec. p. 101.
[8] I. Kant, Epistolario kantiano,Genova 1990, p. 54.
[12] G. W. F. Hegel, La scuola e l’educazione. Discorsi e relazioni (Norimberga 1808-1816), a cura di L. Sichirollo e A. Burgio, Milano 1985, p. 105 (corsivi nel testo).
Sembrava che la scienza moderna avesse confutato Aristotele per sempre. In realtà, oggi le sue idee sono tornate in auge in tanti modi: come l’irreversibilità del tempo di I. Prigogine, l’unità mente-corpo o il continuo matematico in R. Thom. Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni.
La fortuna di Aristotele nella storia della cultura si è sviluppata a periodi alterni rispetto alla fortuna di Platone. Mentre Platone fu amato soprattutto nella tarda antichità, dai filosofi cristiani e dai neoplatonici, e poi dagli umanisti del Rinascimento, Aristotele fu riscoperto dai musulmani nel Medioevo e, per influenza di questi, dai filosofi cristiani della Scolastica, che lo chiamarono «il Filosofo» per antonomasia o, con Dante, «il maestro di color che sanno». Il califfo al-Mamun, regnante a Baghdad nel IX secolo, dichiarò addirittura di aver visto Aristotele in sogno e di averlo sentito proclamare la verità fondamentale dell’Islam, cioè che c’è un solo Dio. I più grandi filosofi musulmani, come l’arabo al-Kindi, il turco al-Farabi, il persiano Ibn Sina (Avicenna) e l’andaluso Ibn Rushd (Averroè), furono tutti aristotelici. Altrettanto si può dire di filosofi cristiani come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, ma anche di Giovanni Duns Scoto e di Guglielmo di Occam. Indubbiamente musulmani e cristiani – ma anche ebrei come Mosè Maimonide – videro nel pensiero di Aristotele, interpretato attraverso il neoplatonismo, il sostegno più solido, cioè più “scientifico”, alle rispettive teologie. Così Aristotele divenne, senza sua colpa, il filosofo dei teologi. Nel Rinascimento gli umanisti riscoprirono Platone, di cui rifondarono a Firenze l’Accademia, ma Aristotele rimase nelle università, in tutte le università europee, di cui costituì il fondamento filosofico. Se Lutero insultò Aristotele, da lui visto come il filosofo della Scolastica, il suo allievo e continuatore Melantone ne fece il maestro delle università protestanti dell’intera Germania. La nascita della scienza moderna, con Galilei e Descartes, determinò nel Seicento l’eclissi della fisica e della cosmologia aristoteliche, ma la logica aristotelica continuò a dominare l’insegnamento universitario almeno fino a Kant, il quale dichiarò – anche se a torto – che dopo Aristotele la logica generale, cioè formale, non aveva fatto alcun progresso. Anche la metafisica di Aristotele riscosse nell’Ottocento l’ammirazione di Hegel, che vide in essa la vera logica della filosofia aristotelica, ma fu sfruttata anche dai critici di Hegel, cioè Feuerbach, Marx e Kierkegaard, che trovarono in essa gli argomenti con cui criticare Hegel. Non parliamo poi di Brentano, che insegnò Aristotele a Husserl, a Meinong, a Twardowski, a Freud e, da postumo, a Heidegger. Nell’Ottocento ebbe una breve eclissi l’etica di Aristotele, temporaneamente soppiantata dall’etica di Kant e poi dall’utilitarismo e dalle scienze umane (antropologia, psicologia, sociologia). Ma quando, a metà del Novecento, ci si rese conto dell’incapacità delle scienze umane di dare giudizi di valore e quindi di orientare la prassi, venne riscoperta l’etica aristotelica, anzi la «filosofia pratica» di Aristotele, intesa come forma di razionalità non scientifica e tuttavia autentica, capace di orientare la prassi. Di qui la valorizzazione della “saggezza” a opera di Gadamer e della sua scuola, delle virtù in generale da parte di McIntyre e dei comunitaristi, della nozione di eudaimonia come piena realizzazione delle capacità umane da parte di Martha Nussbaum e persino di un economista come Amartya Sen. Ma con la filosofia pratica di Aristotele è stata riscoperta anche la sua filosofia politica, che indica nella naturalità della polis la possibilità di un superamento dello Stato moderno ormai manifestamente in declino per la perdita dell’autosufficienza. Un’utilizzazione della politica aristotelica nella direzione di una società politica multinazionale si trova nel cosiddetto «gruppo di Chicago», formato dal cattolico J. Maritain, dal protestante R.M. Hutchins, dall’ebreo M.J. Adler e da altri, autori nel 1951 di un progetto di costituzione mondiale. La metafisica di Aristotele; oltre a rimanere alla base del tomismo, sia pure addomesticata secondo le esigenze della fede cattolica, continua a ispirare, con la sua dottrina delle categorie, della polisemia dell’essere, del cosiddetto focal meaning, gran parte della filosofia analitica anglo-americana, a cominciare dalla Scuola di Oxford. Ma ciò che è più sorprendente è la ripresa di alcuni aspetti della fisica aristotelica, quali la teoria del continuo a opera del matematico R. Thom e la teoria della irreversibilità del tempo a opera di Ilya Prigogine. Sempre in tema di scienza, la biologia di Aristotele non ha mai conosciuto alcuna eclissi, suscitando l’ammirazione di C. Darwin nell’Ottocento e di Max Delbrück, di Ernest Mayr, di François Jacob nel Novecento. E, sempre in tema di scienza, la psicologia di Aristotele, cioè la sua concezione dell’anima non come realtà a sé, ma come capacità del corpo di vivere e di funzionare a diversi livelli, è stata vista da molti come la soluzione più convincente del cosiddetto Mind-BodyProblem, per esempio da Hilary Putnam, che ha intitolato la prima parte del suo Words and Life (1994) «Aristotele dopo Wittgenstein».
Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni Di fronte a questa massiccia presenza nella filosofia contemporanea fanno sorridere le accuse, rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni, di avere concepito la metafisica come «onto-teologia», di avere dimenticato l’Essere e simili amenità. Del resto, uno dei più intelligenti filosofi post-moderni, Gianni Vattimo, malgrado le sue origini heideggeriane, nella sua autobiografia (Non Essere Dio, 2006) dichiara: «L’Essere non è altro che questo: il senso della parola “essere” nella storia della nostra lingua e nell’uso che ne facciamo» (pag. 133). Esattamente come sosteneva Aristotele.
Enrico Berti, La rinascita di Aristotele, pubblicato in «Il Sole-24 Ore», 10 dicembre 2006, p. 41.
Aristotele non era un teologo
Aristotele è senza dubbio il filosofo antico più utilizzato dai teologi cristiani e musulmani come base filosofica per la loro visione monoteistica della realtà. I cristiani dapprima privilegiarono Platone e il neoplatonismo – si veda il caso notissimo di Agostino –, ma poi, al seguito dei musulmani, che avevano fatto di Aristotele una specie di secondo Maometto, ne fecero anch’essi “il Filosofo” per eccellenza (per esempio Tommaso d’Aquino) e «il maestro di color che sanno» (Dante). È noto che, secondo una tradizione araba, Aristotele sarebbe apparso in sogno al califfo al-Mamun e gli avrebbe detto: «Il tuo dovere è dichiarare l’unicità di Dio», cioè precisamente la verità fondamentale dell’Islam. I musulmani videro infatti nel primo motore immobile, di cui Aristotele dimostra la necessità nel libro XII della Metafisica, l’unico Dio, creatore e signore del cielo e della terra, e quindi interpretarono questo libro come una specie di teologia, seguendo del resto in questo i commentatori greci tardo-antichi. A dire il vero essi dovettero trovare un po’ scarse le indicazioni teologiche fornite da Aristotele nel libro in questione, perché pensarono di confezionare un’opera intitolata Teologia di Aristotele, desumendone il contenuto dalle opere ben più ricche, in questo senso, di Plotino. E i cristiani furono tratti in inganno da questo falso, confermandosi nell’idea che Aristotele fosse il creatore della teologia naturale, o razionale. Dante, da sommo poeta qual era, riuscì a presentare il Motore immobile, che «muove in quanto amato», come «l’Amor che move il sole e l’altre stelle». Naturalmente le differenze tra il primo motore immobile di Aristotele e il Dio della Bibbia, concordemente adorato da cristiani e musulmani, erano sotto gli occhi di tutti: ma esse divennero un pretesto per attaccare Aristotele, accusato di avere professato un concetto di Dio troppo astratto, meccanico, impersonale, egoista (il mio professore di filosofia antica, Carlo Diano, parlava con scherno del Dio di Aristotele «che si guarda la pancia»). In tale opera di denigrazione si scatenò una nobile gara fra cristiani e musulmani, che toccò i suoi vertici in campo musulmano col teologo al-Gazali, nemico dei filosofi aristotelizzanti, e in campo cristiano con Lutero, noto per avere ricoperto il povero Aristotele degli insulti più feroci (ma già Petrarca si era lasciato un po’ andare). Ancora oggi i musulmani e i cristiani integralisti non possono soffrire il “Motore immoto” di Aristotele, dichiarando che tale espressione fa pensare a un autocarro in panne e opponendogli, con Pascal, «il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo». Solo da pochi anni studiosi benemeriti hanno ristabilito la verità storica, mostrando che Aristotele non voleva affatto essere un teologo, che per lui la “teologia” non era una disciplina filosofica, ma l’insieme dei miti sugli dèi narrati dai poeti, e che gli dèi per lui erano semplicemente dei «viventi immortali e felici», i quali si distinguono dagli uomini perché questi sono, al contrario, mortali e infelici. Esemplare è stato in questo senso il libro di Richard Bodéüs, Aristote et la théologie des vivants immortels (Montréal 1992). A risultati analoghi sono giunti i contributi pubblicati nel volume della rivista «Humanitas» (4/2005) sotto il titolo Dio e il divino nella filosofia greca, a cura di Maurizio Migliori e Arianna Fermani, ma soprattutto il bel libro di Barbara Botter, Dio e Divino in Aristotele, uscito nella collana “Intemalional Aristotle Studies”, diretta da Carlo Natali (Academia Verlag 2005). Quest’ultimo dimostra infatti con argomenti convincenti che in Aristotele e nei filosofi “pagani” in generale il termine “dio” è usato non come nome proprio, e nemmeno prevalentemente come sostantivo, bensì come attributo, o predicato, avente la funzione di indicare un grado di eccellenza in una scala ordinata di enti. Esso pertanto può essere attribuito agli dèi della religione tradizionale, ma anche agli astri, al mondo stesso nel suo insieme, all’intelletto umano, e anche al primo motore immobile. Ma in nessun caso dovrebbe essere scritto con l’iniziale maiuscola e senza articolo, come se fosse un nome proprio, bensì sempre con la minuscola e l’articolo, cioè “il dio”, come diciamo “l’uomo” o “il cavallo”. Ovviamente in un contesto monoteistico si scriverà “Dio” senza articolo. Se questa regola venisse seguita più in generale, si eviterebbe l’uso fastidioso di scrivere la parola con la maiuscola o la minuscola per mostrare che si crede o non si crede in Dio. Una conferma a queste ricerche viene anche dalla pubblicazione, per la prima volta in traduzione italiana, di un’opera nota solo agli specialisti, le Divisioni, tramandate come opera di Aristotele da alcuni manoscritti e, in versione un po’ diversa, da Diogene Laerzio, a cura di Cristina Rossitto, che ne ha fornito anche un’ampia introduzione e un accurato commento (Bompiani 2005). Quest’opera è emblematica dell’uso che la tarda antichità fece di Aristotele. È molto probabile, infatti, che essa risalga, nel suo nucleo fondamentale, proprio ad Aristotele, come hanno sostenuto anche W.D. Ross e O. Gigon, anzi all’Aristotele giovane, ancora membro dell’Accademia platonica, come ipotizza Rossitto. Ma non c’è dubbio che vi hanno messo le mani anche altri autori, cristiani o comunque teisti, come risulta inequivocabilmente da alcuni passi. In essa si parla infatti degli dèi come di viventi immortali, a cui sono dovuti onori e pratiche di culto e ai quali appartengono beni specifici, quali l’eternità, e beni comuni anche agli uomini, quali l’eccellenza e la bellezza, ma non altri beni puramente umani quali la temperanza, il coraggio e la giustizia. In un passo di essa, tuttavia, come esempio di viventi immortali vengono citati non gli dèi, bensì gli angeli, specie in tale veste del tutto sconosciuta ad Aristotele, ma ben nota ai seguaci della Bibbia, che non potevano ammettere l’esistenza di una molteplicità di dèi.
Enrico Berti, Nuovi studi dimostrano che Aristotele non era un teologo, pubblicato in: Domenicale de Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2006, p. 16.
Migliori e A. Fermani (a cura di), «Dio e il divino nella filosofla greca», “Humanitas”, LX (2005), n. 4. pp. 658-920.
B. Botter, «Dio e Divino in Aristotele», Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, pp. 306.
Aristotele ed altri autori, «Divisioni», a cura di C. Rossitto, Bompiani, Milano 2005, pp. 526.
«Platone – […] la ricchezza non ha nulla a che fare col bene della città. Mi sembra di avere portato argomenti abbastanza chiari a questo proposito nella Repubblica» (p. 20).
«Aristotele – Le elargizioni di denaro fatte per sedurre la moltitudine sono l’uso peggiore che si può fare della ricchezza. Esse producono infatti nei cittadini un piacere di breve durata e non portano alcun contributo permanente al bene comune […]» (p. 25).
«Aristotele – […] la sazietà, come dice il proverbio, genera prepotenza, mentre la mancanza di cultura, accompagnata da molti mezzi, genera stoltezza. In effetti, per coloro che sono di poco valore nelle cose che riguardano l’anima, né la ricchezza, né la forza, né la bellezza sono dei beni […]» (p. 55).
«Aristotele – Bisogna poi precisare che l’avarizia non consiste solo nello spendere troppo poco, ma anche nel desiderare troppo il denaro, nell’anteporre la ricchezza a qualunque altra cosa, nell’impegnare tutta la propria vita nell’unica attività del far soldi. Intesa in questo senso, l’avarizia, o meglio l’avidità di denaro, è oggi il vizio forse più diffuso» (p. 61).
«Aristotele – […] I bisogni umani, per natura, sono limitati, come risulta dal fatto che uno non può mangiare più di tanto, […] eccetera. Ora, l’arte di procurarsi i beni necessari a soddisfare questi bisogni è un’arte secondo natura, cioè giusta, buona, morale. Se invece uno vuole procurarsi una quantità di beni illimitata, va contro la stessa natura dell’uomo, e la sua arte sarà un’arte contro natura, cioè ingiusta, immorale. Teofrasto – Ma come è nata, Aristotele, quest’arte contro natura e immorale che chiamiamo crematistica? Aristotele – Essa è nata da un fatto del tutto naturale, cioè lo scambio dei beni. Poiché non tutti sono in grado di fare tutto, come spiega bene Platone nella Repubblica, gli uomini che abitano la città si distribuiscono i compiti, e l’uno fa il contadino, l’altro fa il calzolaio, il terzo fa il sarto, e così via. Ciascuno di questi produce un bene, o un servizio, in misura superiore a quella di cui ha bisogno per la sua famiglia, mentre non produce altri beni di cui pure ha bisogno. Nasce così la necessità di scambiarsi le merci: chi produce un certo bene in eccesso, ne dà una parte a chi non lo produce ma ne ha bisogno, per avere in cambio da lui ciò di cui ha bisogno lui e che l’altro produce in eccesso. Questo fa sì che ogni bene prodotto abbia, per così dire, due valori, un valore d’uso, che è quello per cui viene usato, e un valore di scambio, che è quello per cui viene scambiato. Un tale scambio è del tutto naturale, quindi è giusto e morale. Teofrasto – E come accade che da questo scambio naturale e giusto nasca la crematistica contro natura e immorale? Aristotele – Per comprenderlo, bisogna fare attenzione al mezzo di cui gli uomini si servono per facilitare lo scambio, cioè il denaro, la moneta. Questa infatti è un oggetto equivalente a qualunque possibile merce, perciò può essere usata al posto di qualsiasi merce, quando la merce non sia disponibile. Supponiamo che io abbia bisogno di un paio di scarpe, il cui valore è pari a quello di un sacco di grano, mentre il fabbricante di scarpe ha bisogno del grano. In luogo di questo io darò al fabbricante di scarpe una quantità di denaro pari al valore delle scarpe, e anche del sacco di grano, col quale egli potrà procurarsi il grano da chi lo produce. Questo è l’uso naturale, e quindi giusto, del denaro. Se io, invece, non ho bisogno di scarpe, ma le acquisto ugualmente pagando una certa quantità di denaro, allo scopo di rivenderle in cambio di una quantità di denaro maggiore, allora il fine dello scambio non sarà più quello di soddisfare un mio bisogno, ma sarà semplicemente quello di procurarmi una quantità maggiore di denaro. In questo caso lo scambio non sarà più naturale, ma sarà contro natura. La crematistica nasce quando, in luogo di scambiare merce con denaro, per ottenere altra merce, si scambia denaro con merce per ottenere altro denaro. Io mi sono spiegato con un esempio molto banale. Ma se tu moltiplichi questo tipo di scambi in quantità smisurata, vedi che nasce un’attività ugualmente smisurata, consistente nel cercare di procurarsi denaro all’infinito. In questo modo la ricchezza, costituita dal denaro, non è più il mezzo necessario a soddisfare i bisogni propri o della propria famiglia, ma diventa essa il fine, e questo è innaturale, quindi ingiusto e immorale. La cosa è ancora più evidente nella pratica dell’usura, dove non si scambia denaro con merce, ma denaro con denaro, cioè si presta denaro in una certa quantità per ottenerne, dopo qualche tempo, altro denaro in quantità maggiore. In tal caso il denaro serve a produrre altro denaro e quindi l’usura diventa l’emblema della crematistica smisurata» (pp. 64-67).
«Aristotele – […] Vorrei una città che conservi al suo interno […] l’uguaglianza tra i suoi cittadini, la libertà di discutere e decidere tutti insieme sulle cose da farsi, la divisione dei poteri, la giustizia, l’aspirazione alla pace. Una città […] in cui la preoccupazione più importante dei cittadini non sia quella di procurarsi le ricchezze, ma quella di vivere bene, cioè di essere felici, realizzando tutte le proprie capacità, non solo fisiche, ma anche spirituali, per mezzo dell’educazione, dell’arte, della scienza, della filosofia». Platone – È proprio bello questo che tu dici, Aristotele! Speriamo che un giorno si avveri. Vedo però che anche tu ti abbandoni alle utopie, come hai rimproverato me di fare. In realtà un po’ di utopismo è sempre necessario, altrimenti ci si rassegna alla realtà esistente e non si cerca più di migliorarla» (pp. 89-89).
***
Enrico Berti, Aristotele. Ebulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Falsi Originali [Collana diretta di Giovanni Casertano], Guida Editori, Napoli 20129.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [109]. In copertina: Statua in bronzo di Aristotele, ingresso della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, Germania. In quarta di copertina: Paul Klee, Die Zeit, 1933.
Questo volume raccoglie alcuni fra i principali studi di Enrico Berti su Martin Heidegger. Il filosofo tedesco è stato infatti una presenza costante negli studi composti in questi decenni dallo studioso padovano, sovente in rapporto al pensiero di Aristotele. Con il suo consueto approccio “classico”, in questi saggi Berti non si limita a descrivere, ma valuta, ossia prende posizione, anche critica, nei confronti di colui che pure definisce come il maggiore pensatore del XX secolo.
Indice
Introduzione
Il nichilismo dell’Occidente secondo Nietzsche, Heidegger e Severino
L’influenza di Heidegger sulla «riabilitazione della filosofia pratica» Gadamer, o della «phronesis» Ritter, ovvero dell’«ethos» Hannah Arendt, o della «praxis»
Heideggers Auseinandersetzung mit dem
Platonisch-Aristotelischen Wahrheitsverständnis Aristoteles Platon Abschluß
Heidegger and the Platonic Concept of Truth
Le passioni tra Heidegger e Aristotele Appendice
Heidegger e il libro Epsilon della Metafisica di Aristotele Prologo Prime citazioni di Aristotele (Friburgo, 1921-1923) Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): l’essere come verità Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): essere ed ente Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo (1929): di nuovo l’essere come vero Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo: la metafisica come «ontologia» Conclusione
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Qui di seguito sono riportati i riferimenti bibliografici relativi ai saggi raccolti nel presente volume.
I In tema di dialettica
Come argomentano gli ermeneutici? “Filosofia ‘91”, a cura di G. Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 13-32. La complessità della ragione “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 154, gennaio-aprile 1995, pp. 27-40. Logo e dialogo “Studia Patavina”, 42, 1995, pp. 31-42. La dialettica antica come modello di ragionevolezza “Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica”, 7, 2002, pp. 17-28. Il principio di non contraddizione: storia e significato P. Bria e F. Oneroso (a cura), Bilogica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 22-32.
II In tema di metafisica
Per una metafisica problematica e dialettica “Acta philosophica”, 1, 1992, pp. 176-190 (anche in “Per la filosofia”, 9, 1992, pp. 3-15). La via “dinamico-noologica” alla trascendenza divina in S. Biolo (a cura), Trascendenza divina. Itinerari filosofici, Contributi al XLVIII Convegno del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, aprile 1993, Torino, Rosenberg & Sellier, 1995, pp. 57-71. La prospettiva metafisica tra analitici ed ermeneutici “Seconda navigazione – Annuario di filosofia 2000”, Milano, Mondadori, 2000, pp. 45-62. Quale metafisica per il terzo millennio? in Proceedings of the Metaphysics for the Third Millennium Conference (Rome, September 5-8, 2000), Editorial de la Universidad Tecnica Particular de Loja (Equador), 2001, vol. I, pp. 29-44. Una metafisica (espistemologicamente) “debole” “Annuario Filosofico”, 16, 2000, Milano, Mursia, 2001, pp. 27-41. Metafisica debole? in Quale metafisica?, “Hermeneutica”, n. s., 2005, pp. 39-52. Dialogo su Aristotele in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi (a cura), Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 75-90.
III In tema di filosofia pratica Sostanza e individuazione in AA. VV., La tecnica, la vita, i dilemmi dell’azione (“Seconda navigazione – Annuario di filosofia 1998”), Milano, Mondadori, 1998, pp. 143-160. Dal personalismo all’identità personale in A. Bottani e N. Vassallo (a cura), Identità personale. Un dibattito aperto, Napoli, Loffredo, 2001, pp. 65-78). Persona, scienza e tecnica in G. Galeazzi e B. M. Ventura (a cura), Filosofia e scienza nella società tecnologica, Milano, F. Angeli , 2004, pp. 171-183. L’idea di bene comune tra “destra” e “sinistra” in E. Berti e S. Veca, La politica e l’amicizia, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, pp 35-62. Prudenza in “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. 159, settembre-dicembre 1966, pp. 15-24. Attualità dei diritti umani “Ars Interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 6, 2001, pp. 79-91. Pratiche filosofiche e filosofia pratica “Ars interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 10, 2005, pp. 313-328.
IV Appendice Autoritratto “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 176, maggio-agosto 2002, pp. 9-12. Pensare con la propria testa? “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 192, maggio agosto 2004, pp. 76-88. Aristotele nel Novecento “Scuola e Cultura”, 3, 2005, pp. 22-27
Luca Grecchi
Il pensiero filosofico di Enrico Berti
Petite Plaisance, 2013
ISBN 978-88-7588-110-8, 2013, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [51].
In questo libro è sintetizzata l’opera filosofica di uno dei maggiori pensatori italiani contemporanei, Enrico Berti. Teorizzatore della metafisica classica, studioso di Aristotele, storico della filosofia, Berti ha proposto, in oltre 50 anni di attività culturale ed accademica, soluzioni di grande originalità e valore non solo su temi filosofici, ma anche su temi etici, politici, educativi. La monografia, impreziosita da un saggio finale dello stesso Berti, si pone come una prima introduzione complessiva al suo pensiero.
Indice
Presentazione di Carmelo Vigna
Introduzione
I. Biografia II. L’interpretazione degli antichi e di Aristotele III. La storia della filosofia IV. L’etica e la filosofia pratica V. La politica VI. L’approccio classico alla educazione VII. Religione VIII. La metafisica IX. La critica
Postfazione Enrico Berti A proposito della critica
Principali pubblicazioni di Enrico Berti Volumi Curatele Principali articoli
La filosofia del primo Aristotele (Univ. di Padova. Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. XXXVIII), 1962.
La filosofia del primo Aristotele, Cedam, 1962.
Il “De re publica” di Cicerone e il pensiero politico classico, Padova, Cedam, 1963.
L’unità del sapere in Aristotele, Cedam, 1965.
Studi aristotelici, Japadre, 1975.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, 1977
Profilo di Aristotele, Studium, 1979.
I percorsi della filosofia, vol. I. Il pensiero antico e medioevale (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
I percorsi della filosofia. Il pensiero moderno e contemporaneo (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
Profilo di Aristotele, Nuova Universale Studium, 1985.
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, 1987.
Il pensiero d’Occidente. Pagine e testimonianze (con Sergio Moravi), Le Monnier, 1987.
Le vie della ragione, il Mulino, 1987.
Le ragioni di Aristotele, Laterza, 1989.
Storia della filosofia. Antichità e medioevo, Laterza, 1991.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 1992.
Persona e personalismo (con Georges Cottier e Giannino Piana), Gregoriana Editrice, 1992.
Etica, cultura e partecipazione politica (con Alberto Monticone), AVE, 1993
Il volume riflette l’esigenza di un approfondimento dei rapporti che intercorrono tra etica, cultura e partecipazione politica. Nel volume si delineano alcuni caratteri fondamentali della nostra vita civile: il sistema democratico, la concezione personalista e solidaristica quale fondamento della convivenza civile e dell’organizzazione sociale e politica del nostro Paese, la possibilità per le culture di ispirazione cristiana e per il movimento cattolico di dare un proprio contributo all’evoluzione della vita sociale e politica. L’impegno dell’Azione Cattolica resta quello per la formazione di un laicato adulto nella fede, capace di servizio e testimonianza in ogni ambito della propria vita ma anche quello di promuovere quotidianamente una cultura radicata nei valori del Regno e nei principi della centralità della persona umana e del bene comune.
Introduzione alla metafisica, Utet-Libreria, 1993.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Edizioni Diabasis, 1993.
Aristotele, Il libro primo della «Metafisica» (a cura di E. Berti e C. Rossiitto), Laterza, 1995.
Aristotele, Laterza, 1997.
Rifacendosi in particolare ad un’analisi diretta della Politica e dell’Etica Nicomachea, i cui testi sono ampiamente antologizzati, e confrontandosi con il dibattito critico più recente, Berti illustra tutti i temi fondamentali del pensiero politico aristotelico, come ad es. il concetto di polis, o la vagheggiata «città felice». Né manca un’analisi in parallelo con le teorie di Platone. A differenza di altri studi pubblicati in Italia sul pensiero politico di Aristotele, che hanno un carattere parziale o un’impronta ideologica, il saggio introduttivo di Berti si distingue anche per la capacità di stabilire un dialogo continuo tra esso e il pensiero politico moderno e soprattutto contemporaneo.
Aristóteles no século XX, trad. D. Davi Macedo, São Paulo, Brasil, Edi. Loyola, 1997.
La filosofia del “primo” Aristotele, Vita e Pensiero, 1997.
As razões de Aristóteles, Ed. Loyola, 1998.
Esta obra configura uma intervenção autorizada no atual debate sobre o pensamento débil e a crise da razão, por sua capacidade de relacionar aos temas da filosofia contemporânea a aguda análise de um momento culminante na história da filosofia: o pensamento de Aristóteles.
La politica e l’amicizia (con Salvatore Veca), Edizioni Lavoro, 1998.
La politica e l’amicizia sembrano essere distanti l’una dall’altra: mentre la politica si orienta verso una condivisione più ampia possibile, l’amicizia evoca prospettive più intime, private, e dunque escludenti. Enrico Berti e Salvatore Veca intendono guidare, da angolature differenti, una riflessione sulla possibilità di un incontro fra politica e amicizia.
Novos estudos aristotélicosI – Epistemologia, lógica e dialética, 1999.
Nesta obra, encontram-se ensaios sobre a contradição, a dialética e a argumentação na obra do Estagirita, além de estudos sobre a dialética em Zenão, em Górgias e em Platão, com o objetivo de evidenciar a contribuição que deram à formação do pensamento de Aristóteles.
La navicella della metafisica. Dibattito sul nichilismo e la “Terza navigazione” (con altri), Armando editore, 2000.
Marino Gentile nella filosofia del Novecento, EDS, 2003.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi, Bompiani, 2004.
Quest’opera, pubblicata originariamente nel 1977, è uno dei più importanti lavori di Berti. Essa si può considerare sia uno studio introduttivo ad Aristotele, di cui si passano in rassegna la vita, le opere, l’ambiente accademico e l’insegnamento, ma anche e soprattutto un saggio teoretico sulle costanti del pensiero metafisico: le idee, le categorie, i princìpi primi, le quattro cause, l’essere e il divenire. Il volume è arricchito da una serie di saggi dell’autore che completano il quadro della “filosofia prima” di Aristotele.
Aristotele. Eubulo o della richezza. Dialogo perduto contro i governanti ricchi, Guida, 2004.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Filosofia pratica, Guida, 2004.
L’espressione “filosofia pratica” compare per la prima volta in Aristotele e in contrapposizione a quella teoretica: mentre quest’ultima ha per fine la verità ossia la conoscenza di come e di perché le cose stanno in un certo modo, la filosofia pratica ha per fine l’opera, cioè mira a conoscere e a rendere possibile un certo tipo di azione, in particolare l’azione buona e quindi tende a rendere migliore colui che agisce. Quindi il fine, lo scopo della filosofia pratica è il tentativo di raggiungere la perfezione dell’uomo stesso.
Nuovi studi aristotelici, vol. 1: Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, 2004.
Il volume è il primo di un’opera che raccoglierà in quattro volumi l’insieme degli scritti di uno fra i maggiori specialisti della logica e della dialettica di Aristotele.
Aristotele. Il primo libro della «Metafisica» (con C. Rossitto), Laterza, 2005.
Nuovi studi aristotelici. 2 – Fisica, antropologia e metafisica, Morcelliana, 2005.
Il secondo volume degli studi aristotelici, dedicato a metafisica, fisica e antropologia, scritto dal maggior specialista italiano di Aristotele. Un libro che è una vera e propria introduzione alla “Metafisica” di Aristotele. L’Autore insegna storia della filosofia all’Università di Padova.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Diabasis, 2005.
Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, 2006.
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2006.
Aristotele e l’ontologia(con Bruno centrone e Paolo Fait), Alboversorio, 2007.
Le tesi di Aristotele rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di ontologia. Da lui, infatti, derivano gran parte dei termini ancora oggi utilizzati e dei problemi su cui non si è mai smesso di discutere. Questo libro permette, al lettore interessato, di avvicinarsi ad alcune prospettive contemporanee sull’argomento espresse da alcuni dei maggiori studiosi italiani.
Introduzione alla metafisica, Utet università, 2007.
Storia della filosofia. Dalla’antichità ad oggi. Con materiali per il docente. Ediz. compatta. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Franco Volpi), Laterza, 2007.
Antologia di filosofia. Dall’antichità ad oggi. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Cristina Rossitto e Franco Volpi), Laterza, 2008.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 2008.
La filosofia di Aristotele è un caso forse unico, nella storia, di “sistema aperto”, cioè di filosofia che è un vero sistema, dotato di una grande differenziazione interna, ma anche di una certa unità; ed è anche un sistema aperto, suscettibile di continue integrazioni, anzi di molteplici usi, data la sua grande versatilità, attestata da una fortuna tra le più longeve che mai si siano date e da una presenza massiccia nella stessa filosofia del Novecento. A essa si possono attingere concetti, categorie, distinzioni, dottrine, adoperabili per gli usi più svariati, nelle più diverse direzioni, sia filosofiche che scientifiche, sia teoretiche, cioè logico-metafisiche, che pratiche, cioè etico-politiche, per non parlare degli usi a fini poetici e retorici. Ma questi concetti, distinzioni, dottrine funzionano, cioè rispondono allo scopo per cui vengono impiegati, solo se sono utilizzati nel rispetto del loro significato originario. Si tratta di una coerenza non rigida, ma elastica, di una logica non monolitica, ma articolata e duttile, Dall’esistenzialismo di Heidegger alla filosofia pratica di Gadamer, dalla “nuova retorica” di Perelman e Toulmin alla nuova scienza di Prigogine e Jacob, alla nuova epistemologia di Kuhn e Feyerabend, Enrico Berti ritrova le tracce dell’inesauribile forza del pensiero aristotelico.
Dialectique, physique et métaphysique. Études sur Aristote, Éditions Peeters, 2008.
This volume contains around twenty articles, many of them already published elsewhere, but translated into French for the first time. They all deal with the dialectics, the physics and the metaphysics of Aristotle.
Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia (a cura di), Utet, 2008.
In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, 2008.
La meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza e desiderio di sottrarvisi, cioè di apprendere, di conoscere, dI sapere. Ecco perché proprio la meraviglia, secondo Aristotele, è l’origine della filosofia, ovvero della ricerca disinteressata di sapere. Stato d’animo raro e prezioso, la meraviglia è la sola espressione della vera libertà. Enrico Berti rilegge il pensiero dei grandi filosofi della classicità e costruisce un percorso attraverso le domande senza tempo che la filosofia occidentale ha continuato a porsi, formulate per la prima volta dai Greci.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 3 Filosofia pratica, Morcelliana, 2008.
Il presente volume, terzo della serie dei Nuovi studi aristotelici, raccoglie gli scritti concernenti la “filosofia pratica” di Aristotele, contenuta nelle due Etiche autentiche (Nicomachea e Eudemea), e la filosofia politica, contenuta nella Politica. Come è noto, per Aristotele queste ultime due discipline sono parti di un’unica scienza, da lui chiamata più volte “scienza politica” e, almeno una volta, “filosofia pratica”. Perciò non ho diviso il volume in sezioni, come invece ho fatto nei volumi precedenti. Ho scelto, come sottotitolo dell’intera raccolta, “filosofia pratica”, perché questa espressione è diventata attuale dopo la cosiddetta “riabilitazione (o rinascita) della filosofia pratica”, movimento sviluppatosi nel corso degli anni Settanta del Novecento e ancora non del tutto esaurito.(dalla Prefazione)
Ser y tiempo en Aristótele, Editorial Biblios, 2008.
Enrico Berti, uno de los más reconocidos especialistas de Aristóteles, introduce este libro con una reseña de la presencia de Aristóteles en la Contemporánea. Luego desarrolla una exposición clara y profunda de la postura aristotélica, que va desde el tiempo cósmico de la Física hasta el tiempo humano de la Poética y la Ética. En el recorrido que realiza también visita la Metafísica, pero también obras menos transitadas, como De la memoria y la reminiscencia. Además, confronta la postura de Aristóteles con uno de los trabajos más determinantes de la Contemporánea: Ser y tiempo de Martin Heidegger.
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2008.
La Metafisica è l’opera più famosa di Aristotele. Si tratta degli appunti che Aristotele preparava per le sue lezioni all’interno del Peripato. Lo Stagirita pone qui i problemi fondamentali sull’essere e sul perché del divenire ricercandone le cause e i principi primi.
En el principio era la maravilla. Las grandes preguntas de la filosofía antigua, traducción de Helena Aguilà, Madrid, Editorial Gredos, 2009.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4\1. L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento, Morcelliana, 2009.
Il libro vuole essere un contributo allo studio della cosiddetta tradizione aristotelica, dell’influenza esercitata da Aristotele sull’intera storia della cultura “occidentale” (termine nel quale va compresa anche la cultura islamica). Tale influenza è stata sia di tipo positivo, nel senso che le dottrine di Aristotele sono state accolte, interpretate e trasformate dai filosofi posteriori, sia di tipo negativo, nel senso che esse sono state oggetto di critiche e spesso di dure polemiche, ma anche in questo caso hanno condizionato le filosofie posteriori. Del primo tipo è l’influenza esercitata da Aristotele sugli aristotelici: su Teofrasto, Aspasio, Alessandro di Afrodisia, Porfirio, i filosofi arabi ed ebrei, Tommaso d’Aquino, Marsilio da Padova, Giacomo Zabarella, William Harvey. Del secondo tipo è invece l’influenza esercitata da Aristotele sui suoi “avversari”: l’epicureo Filodemo di Gadara, Plotino, Bonaventura da Bagnoregio, Niccolò Cusano, Galileo Galilei. Un caso particolare è costituito dal rapporto tra la filosofia di Aristotele e il primo cristianesimo, emblematicamente rappresentato dal discorso di san Paolo agli Ateniesi, dove l’influenza di Aristotele è ravvisabile nel contributo da lui dato alla formazione di quel concetto di “Dio dei filosofi” che Paolo ripropone consapevolmente agli Ateniesi, ma al fine di integrarlo e superarlo nella rivelazione cristiana.
A partire dai filosofi antichi(con Luca Grecchi), Il Prato, 2010.
I problemi filosofici esaminati vengono presentati nella forma di una discussione avvincente che rievoca l’andamento dei dialoghi platonici, in cui la verità emerge dal movimento del discorso che, nel suo correre incessantemente da un interlocutore all’altro, si fa «dia-logo» nel senso più alto. Del resto, i temi trattati dai due autori sono tra i più importanti tra quelli su cui si è andata formando la civiltà occidentale: il valore veritativo della filosofia, il rapporto tra fede e sapere, la morale, l’educazione, il ruolo dell’uomo, la libertà, la politica, la morte, l’ontologia, la metafisica, la critica, e moltissimi altri ancora. Ad accomunare, nel libro, questi temi così vasti ed eterogenei è il punto di partenza da cui ciascuno di essi viene sviluppato: il mondo dell’antica filosofia greca, concepita sia da Berti sia da Grecchi come fonte originaria delle «domande fondamentali» dell’uomo occidentale e come tentativo di elaborazione di alcune grandiose soluzioni che continuano a esercitare un fascino intramontabile. La filosofia greca fa da sfondo anche alle considerazioni svolte da Berti e da Grecchi intorno al pensiero di Kant, di Hegel e di Marx. A partire, appunto, dai «filosofi antichi», i due studiosi ripercorrono in maniera dialogica, anche attraverso la cinquantennale esperienza accademica di Enrico Berti, i nodi maggiori della tradizione filosofica e le problematiche fondamentali del nostro presente.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4/2. L’influenza di Aristotele. L’età moderna e contemporanea, Morcelliana, 2010.
l secondo tomo del volume dedicato all’influenza di Aristotele comprende saggi relativi all’età moderna e all’età contemporanea. Per l’età moderna è evidente la persistenza della filosofia pratica di Aristotele, la quale, dopo essersi eclissata nell’antichità ellenistica e nella tarda antichità, ed essere stata riscoperta nel medioevo, sia musulmano che ebraico e cristiano, sopravvive nel Seicento e nel Settecento, soprattutto in Germania.Per quanto riguarda l’Ottocento i saggi riguardano la critica di Hegel al principio di non contraddizione, e l’influenza di Aristotele sui critici di Hegel: Feuerbach, Trendelenburg, Marx e Kierkegaard. Per la Germania è anche massiccia l’influenza di Aristotele su Brentano e, attraverso di lui, su tutti i suoi discepoli, da Husserl a Meinong, a Twardowski, a Freud. Interessante è anche il rapporto intrattenuto con Aristotele da Paul Natorp, che ebbe ad influenzare, insieme con la dissertazione di Brentano, Martin Heidegger.I capitoli dedicati all’età contemporanea illustrano la presenza di Aristotele in Heidegger e nella filosofia analitica inglese, ovvero nell’analisi del linguaggio ordinario condotta da J. Austin, G. Ryle, P. Strawson, D. Wiggins e altri. Indi illustrano la cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, prima in Germania, ad opera di filosofi come H.-G. Gadamer e J. Ritter, e poi negli USA, ad opera di A. MacIntyre, H. Jonas, Martha C. Nussbaum.
Profilo di Aristotele, Studium, 2010.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2010.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Invito alla filosofia, La Scuola, 2011.
Un libro per chiunque voglia accostarsi ad un sapere che parte dal sentimento della meraviglia per arrivare ad esercitare un uso consapevole della ragione. Un invito per chiunque sia alla ricerca di motivazioni (esistenziali, religiose, etiche, scientifiche, politiche) e voglia porre domande per scoprire la verità partendo da opinioni consolidate. Perché la filosofia, nel suo stesso modo di procedere dialettico-confutatorio, esalta l’essenza umana che si fonda sul ragionamento.
Preguntas de la filosofía antigüa, Tapa blanda, 2001.
Muchas de las grandes preguntas que la filosofía occidental ha seguido planteándose las formularon por primera vez los griegos. No todas, claro está. Por ejemplo, los griegos no se preguntaron cuáles eran, a priori, las condiciones del conocimiento, o qué leyes rigen la historia, o cómo indagar en el subconsciente del hombre y otras cosas por el estilo. Pero las preguntas que plantearon, a excepción de unas pocas (por ejemplo: ¿quiénes son los dioses?), son las mismas con las que se ha seguido enfrentando la filosofía occidental a lo largo de los siglos. Enrico Berti recorre el pensamiento de los grandes filósofos clásicos y traza un sorprendente itinerario a través de las preguntas sin tiempo que la filosofía occidental ha seguido planteándose y que los griegos formularon por primera vez: ¿Qué es el hombre? ¿Qué es la felicidad? ¿Quiénes son los dioses? ¿Cuál es nuestro destino?
Profilo di Aristotele, Studium, 2012.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e corretta, Morcelliana, 2012.
Il dovere di introdurre, e con ciò di giustificare nella sua unità, la presente raccolta mi fornisce l’occasione più opportuna per riflettere sulle ricerche da me compiute in questi anni e anche per risalire alle origini del mio interesse per Aristotele, allo scopo di determinarne il più esattamente possibile il senso e l’orientamento generale. Uno dei fili conduttori dei miei lavori è la persuasione del valore classico, cioè perenne, e quindi anche attuale di certe istanze del pensiero aristotelico. Si tratta di una valutazione di ordine teoretico, o filosofico, che oggi, a causa dell’imperante storicismo e del conseguente relativismo, può sembrare, nel migliore dei casi, ingenua. Tuttavia è una persuasione a cui tengo particolarmente; non ho difficoltà infatti a confessare che, se non la possedessi, non riuscirei a dare alcun senso al lavoro fatto. Le ragioni del valore classico della metafisica antica si trovano nel rilevamento, da parte di Aristotele, di un’inadeguatezza tra il sistema platonico e il problema da cui ogni filosofo deve prendere le mosse, cioè la problematicità integrale e assoluta. Questa problematicità si esprime in un “domandare tutto”, che è insieme un “tutto domandare”, in una domanda che investe la totalità del reale e, per il fatto di escludere ogni precedente certezza, è integralmente domanda; e si identifica con la stessa esperienza intesa come conoscenza di tutto e insieme domanda della ragione di tutto.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2012.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Aristotele e la democrazia, in C. Rossitto, A. Coppola, F. Biasutti (a cura), Aristotele e la storia, Padova, CLEUP, 2013.
Aristotele, La Scuola, 2013.
«Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità e, più di tutte, amano la sensazione della vista. In effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose». Metafisica, libro I.
The Classical Notion of Person and Its Criticism by Modern Philosophy, in B. Babich and D. Ginev (eds.), The Multidimensionality of Hermeneutic Phenomenology, Heidelberg-New York-Dordrecht-London, Springer, 2013.
La phronêsis nella filosofia antica, in A. Fidora, A. Niederberger, M. Scattola (eds.), Phronêsis – prudentia – Klugheit. Das Wissen der Kluge in Mittelalter, Renaissance und Neuzeit, Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales, Porto, 2013.
Mente e anima: due entità?, in G. Erle (a cura), Il limite e l’infinito. Studi in onore di Antonio Moretto, Bologna, Archetipolibri, 2013.
La ricerca filosofica di Antonio Moretto segna una tappa fondamentale e innovativa all’interno della letteratura scientifica a proposito del rapporto tra filosofia e matematica. Questo vale in primo luogo, ma non solo, per una rinnovata comprensione della filosofia classica tedesca che rendeva necessario mostrare la rilevanza della conoscenza congiunta della storia e della teoria della matematica in autori come Kant e Hegel. Questi studi, assieme a quelli che egli ha dedicato a Descartes, Leibniz, Wolff, mostrano come i concetti matematici di finito e infinito racchiudano, nelle loro esigenze tecniche, un’urgenza profondamente umana, quella di dare senso, “mensurare” nell’accezione più ampia del termine. Sotto questo profilo, il passaggio per le scienze esatte nelle ricerche di Moretto non è affatto astratto, ma costituisce il necessario cammino verso quella che Kant avrebbe chiamato “la porta stretta”, varcata la quale meglio si comprendono anche le altre parti del sistema della filosofia, così come proprio Moretto ha dimostrato dedicandosi a discutere altresì questioni di etica, di filosofia della medicina, psicologia della percezione e, perché no?, della poesia di Albrecht von Haller. Coerentemente con questo percorso di ricerca, gli autori degli scritti che costituiscono questo volume si sono impegnati a mostrare la ricchezza di significati e valenze che i concetti di limite e di infinito possono assumere all’interno delle scienze filosofiche.
Una metafisica (epistemologicamente) «debole», n G. Riconda e C. Ciancio (a cura), Filosofi italiani contemporanei, Mursia, 2013.
Il volume presenta i risultati di un ciclo di seminari tenuti all’Università di Padova nel 2011 e 2012, all’interno del Progetto di Ateneo Filosofia e storia nel pensiero politico di Aristotele. Il tema generale è il ruolo della storia nel pensiero aristotelico, secondo le più ampie accezioni del termine. Innanzitutto che uso fa Aristotele dei dati storici, come e a qual fine li utilizza e qual è per lui il valore epistemologico della storia? Storia significa anche storiografia, cioè resoconto scritto dei fatti: possiamo capire il rapporto fra il filosofo e gli storici e tra la storiografia e la politica? I contributi qui raccolti aggiungono materia a queste riflessioni raccogliendo e confrontando punti di vista di storici dell’antichità e di storici della filosofia.
Aristotele, in U. Eco (a cura), L’Antichità, 5. Grecia, Filosofia, EM Publishers srl., 2014.
Neste volume, o leitor terá a oportunidade de conhecer o pensamento de Aristóteles, um dos maiores nomes da Filosofia na Antiguidade. A visão aristotélica é apresentada de modo sintetizado, por meio da análise das obras de Aristóteles, dos conceitos-chave de sua filosofia e seus desdobramentos na sociedade atual.
Il bene di chi? Bene pubblico e bene privato nella storia, Marietti, 2014.
Un affresco dell’intrecciarsi di bene pubblico e bene privato nella storia della civiltà occidentale. Enrico Berti fa comprendere le complesse radici culturali della situazione attuale e apre domande cruciali, da un lato sul destino e la sopravvivenza dello Stato e dall’altro sul fine dell’uomo e sulle condizioni di possibilità della vita sociale. Il libro è arricchito da un dialogo sul tema tra l’autore e i partecipanti alla “Lectio Magistralis” tenuta nel corso di una delle sessioni del 2013 della Winter School, centro di studi sociali, culturali e politici. Prefazione di Giovanni Maddalena.
Il luogo dei corpi secondo Aristotele, in Lessico Intellettuale Europeo, Locus-spatium. XIV Colloquio Internazionale, a cura di D. Giovannozzi e M. Veneziani, Olschki, 2014
La ricerca della verità in filosofia, Studium, 2014.
La verità è oggi temuta come una forma di violenza, specialmente da parte dei filosofi post-moderni. Questo timore spesso è dovuto a una concezione ideologica della verità come valore assoluto da imporre a tutti, mentre esso è del tutto ingiustificato rispetto alla concezione classica della verità, non riducibile alla teoria della verità come corrispondenza. In base alla teoria classica si danno diversi tipi di verità, verità di fatto e verità di ragione, verità storiche e verità scientifiche, verità di fede e verità poetiche: alcune facili da scoprire, altre implicanti complesse e faticose ricerche. In filosofia la ricerca della verità avviene in modi diversi, secondo il tipo di filosofia che si pratica, che può essere trascendentale, dialettico, fenomenologico, analitico-linguistico, ermeneutico, dialogico-confutativo. Un caso di ricerca della verità in filosofia è costituito dalla metafisica, intesa non nel senso tradizionale di ontologia o teologia razionale, bensì come metafisica problematica e dialettica, epistemologicamente debole ma logicamente forte. Esiste anche una verità pratica, che riguarda non la legge morale, ma il desiderio della felicità intesa come pieno sviluppo della persona umana, nel singolo individuo e nella polis.
Prologo a L. E. Varela, Filosofía práctica y prudencia. Lo universal y lo particular en la ética de Aristóteles, Editorial Biblos, 2014.
El trabajo se sostiene en un conocimiento completo y perfecto de toda la obra de Aristóteles concerniente a la ética, no sólo a la Ética nicomaquea y a la Ética eudemia, sino también a la Gran Ética y al Protréptico. Los textos de estas obras son analizadas de manera precisa y rigurosa, y el análisis de ellos es siempre acompañado por una discusión de las interpretaciones suministradas por la literatura crítica, con la cual Varela está constantemente en diálogo. De ello resulta una contribución de gran claridad, equilibrio, riqueza de información y de profundización, que lo hace extremadamente útil para una relectura y una valoración nueva, plenamente satisfactoria, de la ética aristotélica.
Luis Enrique Varela. Doctor en Filosofía (Universidad del Salvador). Es actualmente profesor de Ética y de Metafísica en la Universidad Nacional de Mar del Plata. Asimismo, dicta Historia de la Filosofía Antigua en la carrera del Doctorado en Filosofía, y Ética dentro de la enseñanza de grado en la Universidad Nacional de Lanús. Dirige proyectos de investigación en temas de filosofía práctica y de metafísica tanto en la UNMDP como en la UNLA. También se desempeña como profesor de Historia de la Filosofía Antigua y del Seminario de Filosofía Práctica I en la carrera de filosofía de la Universidad de Ciencias Empresariales y Sociales (UCES). Además dicta materias de filosofía en la carrera de Filosofía del Instituto Superior del Profesorado “Joaquín V. González”.Como director del Círculo de Actualización en Filosofía de la Fundación Descartes, organizó junto con Germán García el “Encuentro Internacional Descartes 400” (1996) y “Lacan y la cultura filosófica” (2001).Es autor de numerosos
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today?, in C. Baracchi (ed.), The Bloomsbury Companion to Aristotle, Bloomsbury, 2014.
Aristotle is one of the most crucial figures in the history of Western thought, and his name and ideas continue to be invoked in a wide range of contemporary philosophical discussions. The Bloomsbury Companion to Aristotle brings together leading scholars from across the world and from a variety of philosophical traditions to survey the recent research on Aristotle’s thought and its contributions to the full spectrum of philosophical enquiry, from logic to the natural sciences and psychology, from metaphysics to ethics, politics, and aesthetics. Further essays address aspects of the transmission, preservation, and elaboration of Aristotle’s thought in subsequent phases of the history of philosophy (from the Judeo-Arabic reception to debates in Europe and North America), and look forward to potential future directions for the study of his thought. In addition, The Bloomsbury Companion to Aristotle includes an extensive range of essential reference tools offering assistance to researchers working in the field, including a chronology of recent research, a glossary of key Aristotelian terms with Latin concordances and textual references, and a guide to further reading.
List of Contributors \ Acknowledgments \ Corpus Aristotelicum \ “Introduction: Paths of Inquiry” Claudia Baracchi \ Part I: Questions \ 1. Logos \ Saying What One Sees, Letting See What One Says: Aristotle’s Rhetoric and the Rhetoric of the Sophists Barbara Cassin \ Aristotelian Definition: On the Discovery of Archai Russell Winslow \ 2. Phusis \ Aristotle on Sensible Objects: Natural Things and Body Helen Lang \ On Aristotle’s Formula: Physics IV. 11, 14 Rémi Brague \ 3. Psuchê \ Phantasia in De Anima Eric Sanday \ Mind in Body in Aristotle Erick Raphael Jiménez \ The Hermeneutic Slumber: Aristotle’s Reflections on Sleep Marcia Sá Cavalcante Schuback \ 4. Philosophia Prôtê \ First Philosophy Alejandro Vigo \ First Philosophy and the History of Being in Aristotle’s Metaphysics Spyridon Rangos \ 5. Êthos \ Aristotle on Human Nature and the Foundations of Ethics, with an “Addendum” Martha C. Nussbaum \ The Visibility of Goodness Pavlos Kontos \ To Kakon Pollachôs Legetai: The Poly-vocity of the Notion of Evil in Aristotelian Ethics Arianna Fermani \ 6. Polis \ Education: The Ethico-Political Energeia Michael Weinman \ 7. Poiêsis \ Toward the Sublime Calculus of Aristotle’s Poetics Kalliopi Nikolopoulou \ Part II: Disseminations \ Aristotle on the Natural Dwelling of Intellect Idit Dobbs-Weinstein \ The Peripatetic Method: Walking with Woodbridge, Thinking with Aristotle Christopher Long \ What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today? Enrico Berti \ Would Aristotle Be a Communitarian? Pierre Aubenque \ Glossary (Erick Raphael Jiménez) \ Chronology of Recent Research (Benjamin J. Grazzini) \ Bibliography (Erick Raphael Jiménez) \ Resources (Benjamin J. Grazzini and Erick Raphael Jiménez) \ Sources of Translated/Reprinted Essays \ General Index
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Morcelliana, 2015.
“Contraddizione” e “dialettica” sono due delle categorie costitutive della filosofia, fin dalla sua nascita nella Grecia del V secolo. Nei capitoli che sono idealmente una storia del pensiero occidentale – il lettore trova la chiara e puntuale ricostruzione dei tanti significati assunti da “contraddizione”, “non contraddizione”, “dialettica” tra Parmenide, Eraclito, Socrate, Platone e Aristotele, tra Kant e Hegel, tra Marx, Popper e la logica contemporanea. Sono categorie in cui è in gioco non solo il rigore della ragione: nella possibilità o no di superare il principio di non contraddizione è in questione la cosa stessa del pensiero. Considerando che lo stesso principio di non contraddizione si dice in più modi. Temi cui Enrico Berti ha dedicato più di cinquant’anni di studi, e che trovano qui un compendio.
È bene definire il bene?, Orthotes, 2015.
Il punto di partenza assunto nel saggio è la definibilità del bene, una volta che ci si occupi di esso non in quanto assoluto e irraggiungibile, ma piuttosto vedendolo come bene umano, praticabile e realizzabile. Come tale, esso è l’oggetto delle aspirazioni umane e concretamente indicato nei diritti fondamentali, nelle varie libertà e nei diritti politici, che documenti ufficiali hanno ormai sancito. Da Aristotele fino alla sua ripresa da parte di Martha Nussbaum, la felicità, per quanto fragile, si sostanzia proprio di questi beni, che possono essere presentati come vere e proprie “capacità”. Completa il testo un intervento di Berti sull’Etica nicomachea di Aristotele, da cui emerge il carattere pratico di una filosofia che punti a definire che cos’è il bene, ossia aristotelicamente la felicità, per l’uomo.
Aristotelismo, il Mulino, 2017.
A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati.
Un manuale in cui i maggiori studiosi di Aristotele analizzano e descrivono in modo sistematico e completo il pensiero del filosofo, attraverso le singole opere, seguendo un metodo rigorosamente storico, senza interpretazioni ideologiche o di parte.
Introduzione alla metafisica, seconda edizione, UTET, 2017.
La nuova edizione dell’Introduzione alla metafisica di Enrico Berti ripropone la concezione originale della metafisica che l’Autore va presentando da anni, la quale ha suscitato l’interesse degli studiosi di filosofia, come dimostrano le traduzioni dell’opera in altre lingue. Essa contiene alcune correzioni rispetto all’edizione precedente, dovute a ulteriori studi, e soprattutto è corredata da cinque appendici, costituite da altrettanti articoli sul tema, pubblicati dall’Autore negli anni più recenti. L’opera comprende una parte storica, che illustra le diverse forme di metafisica elaborate nella filosofia occidentale, e una parte teoretica, che difende le ragioni di un certo tipo di metafisica, caratterizzata come «metafisica dell’esperienza», sviluppando gli spunti forniti in questa direzione dalla «scuola padovana» facente capo a Marino Gentile. Nel complesso si tratta di una delle rare proposte italiane di una filosofia autenticamente metafisica, in linea con la grande tradizione della «metafisica classica» di ispirazione aristotelica, ma al tempo stesso essenzializzata e aggiornata in modo da tenere conto delle critiche e delle esigenze del pensiero contemporaneo. Il rifiorire di interesse per la metafisica, manifestatosi soprattutto nell’ambito della filosofia analitica, conferma l’attualità dell’opera.
Tradurre la “Metafisica” di Aristotele, Morcelliana, 2017.
«Essendomi recentemente cimentato con l’arduo compito di tradurre la Metafisica di Aristotele, il libro forse più difficile dell’intera storia della filosofia, mi sono imbattuto in una serie di problemi, alcuni dei quali previsti e altri invece imprevisti, che hanno reso l’impresa, oltre che ardua, anche affascinante». Affrontando problemi inerenti alla trasmissione del testo, alla traduzione e alla interpretazione, Berti mostra – contro una lettura teologizzante, di origine neoplatonica – il tratto problematico della filosofia aristotelica: la metafisica non è né teologia, né ontologia, ma scienza delle cause prime.
Aristotele Eubulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Guida, 2019.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Storia della Metafisica (a cura di), Morcelliana, 2019.
Sulla base del presupposto unanimemente riconosciuto che la metafisica, quale che sia il suo valore, ha avuto una storia, il volume individua i momenti salienti di quest’ultima in alcuni grandi filosofie correnti di pensiero: Platone, Aristotele, il platonismo antico, la metafisica arabo-islamica, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Suárez, Cartesio, Kant, Hegel, Rosmini, Heidegger, il neotomismo, la filosofia analitica. Ne risulta una storia equilibrata, ricca e coinvolgente, forse unica nel suo genere, di indubbio interesse per chiunque si occupi di filosofia.
Sembrava che la scienza moderna avesse confutato Aristotele per sempre. In realtà, oggi le sue idee sono tornate in auge in tanti modi: come l’irreversibilità del tempo di I. Prigogine, l’unità mente-corpo o il continuo matematico in R. Thom. Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni.
La fortuna di Aristotele nella storia della cultura si è sviluppata a periodi alterni rispetto alla fortuna di Platone. Mentre Platone fu amato soprattutto nella tarda antichità, dai filosofi cristiani e dai neoplatonici, e poi dagli umanisti del Rinascimento, Aristotele fu riscoperto dai musulmani nel Medioevo e, per influenza di questi, dai filosofi cristiani della Scolastica, che lo chiamarono «il Filosofo» per antonomasia o, con Dante, «il maestro di color che sanno». Il califfo al-Mamun, regnante a Baghdad nel IX secolo, dichiarò addirittura di aver visto Aristotele in sogno e di averlo sentito proclamare la verità fondamentale dell’Islam, cioè che c’è un solo Dio. I più grandi filosofi musulmani, come l’arabo al-Kindi, il turco al-Farabi, il persiano Ibn Sina (Avicenna) e l’andaluso Ibn Rushd (Averroè), furono tutti aristotelici. Altrettanto si può dire di filosofi cristiani come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, ma anche di Giovanni Duns Scoto e di Guglielmo di Occam. Indubbiamente musulmani e cristiani – ma anche ebrei come Mosè Maimonide – videro nel pensiero di Aristotele, interpretato attraverso il neoplatonismo, il sostegno più solido, cioè più “scientifico”, alle rispettive teologie. Così Aristotele divenne, senza sua colpa, il filosofo dei teologi. Nel Rinascimento gli umanisti riscoprirono Platone, di cui rifondarono a Firenze l’Accademia, ma Aristotele rimase nelle università, in tutte le università europee, di cui costituì il fondamento filosofico. Se Lutero insultò Aristotele, da lui visto come il filosofo della Scolastica, il suo allievo e continuatore Melantone ne fece il maestro delle università protestanti dell’intera Germania. La nascita della scienza moderna, con Galilei e Descartes, determinò nel Seicento l’eclissi della fisica e della cosmologia aristoteliche, ma la logica aristotelica continuò a dominare l’insegnamento universitario almeno fino a Kant, il quale dichiarò – anche se a torto – che dopo Aristotele la logica generale, cioè formale, non aveva fatto alcun progresso. Anche la metafisica di Aristotele riscosse nell’Ottocento l’ammirazione di Hegel, che vide in essa la vera logica della filosofia aristotelica, ma fu sfruttata anche dai critici di Hegel, cioè Feuerbach, Marx e Kierkegaard, che trovarono in essa gli argomenti con cui criticare Hegel. Non parliamo poi di Brentano, che insegnò Aristotele a Husserl, a Meinong, a Twardowski, a Freud e, da postumo, a Heidegger. Nell’Ottocento ebbe una breve eclissi l’etica di Aristotele, temporaneamente soppiantata dall’etica di Kant e poi dall’utilitarismo e dalle scienze umane (antropologia, psicologia, sociologia). Ma quando, a metà del Novecento, ci si rese conto dell’incapacità delle scienze umane di dare giudizi di valore e quindi di orientare la prassi, venne riscoperta l’etica aristotelica, anzi la «filosofia pratica» di Aristotele, intesa come forma di razionalità non scientifica e tuttavia autentica, capace di orientare la prassi. Di qui la valorizzazione della “saggezza” a opera di Gadamer e della sua scuola, delle virtù in generale da parte di McIntyre e dei comunitaristi, della nozione di eudaimonia come piena realizzazione delle capacità umane da parte di Martha Nussbaum e persino di un economista come Amartya Sen. Ma con la filosofia pratica di Aristotele è stata riscoperta anche la sua filosofia politica, che indica nella naturalità della polis la possibilità di un superamento dello Stato moderno ormai manifestamente in declino per la perdita dell’autosufficienza. Un’utilizzazione della politica aristotelica nella direzione di una società politica multinazionale si trova nel cosiddetto «gruppo di Chicago», formato dal cattolico J. Maritain, dal protestante R.M. Hutchins, dall’ebreo M.J. Adler e da altri, autori nel 1951 di un progetto di costituzione mondiale. La metafisica di Aristotele; oltre a rimanere alla base del tomismo, sia pure addomesticata secondo le esigenze della fede cattolica, continua a ispirare, con la sua dottrina delle categorie, della polisemia dell’essere, del cosiddetto focal meaning, gran parte della filosofia analitica anglo-americana, a cominciare dalla Scuola di Oxford. Ma ciò che è più sorprendente è la ripresa di alcuni aspetti della fisica aristotelica, quali la teoria del continuo a opera del matematico R. Thom e la teoria della irreversibilità del tempo a opera di Ilya Prigogine. Sempre in tema di scienza, la biologia di Aristotele non ha mai conosciuto alcuna eclissi, suscitando l’ammirazione di C. Darwin nell’Ottocento e di Max Delbrück, di Ernest Mayr, di François Jacob nel Novecento. E, sempre in tema di scienza, la psicologia di Aristotele, cioè la sua concezione dell’anima non come realtà a sé, ma come capacità del corpo di vivere e di funzionare a diversi livelli, è stata vista da molti come la soluzione più convincente del cosiddetto Mind-BodyProblem, per esempio da Hilary Putnam, che ha intitolato la prima parte del suo Words and Life (1994) «Aristotele dopo Wittgenstein».
Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni Di fronte a questa massiccia presenza nella filosofia contemporanea fanno sorridere le accuse, rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni, di avere concepito la metafisica come «onto-teologia», di avere dimenticato l’Essere e simili amenità. Del resto, uno dei più intelligenti filosofi post-moderni, Gianni Vattimo, malgrado le sue origini heideggeriane, nella sua autobiografia (Non Essere Dio, 2006) dichiara: «L’Essere non è altro che questo: il senso della parola “essere” nella storia della nostra lingua e nell’uso che ne facciamo» (pag. 133). Esattamente come sosteneva Aristotele.
Enrico Berti, La rinascita di Aristotele, pubblicato in «Il Sole-24 Ore», 10 dicembre 2006, p. 41.
Aristotele non era un teologo
Aristotele è senza dubbio il filosofo antico più utilizzato dai teologi cristiani e musulmani come base filosofica per la loro visione monoteistica della realtà. I cristiani dapprima privilegiarono Platone e il neoplatonismo – si veda il caso notissimo di Agostino –, ma poi, al seguito dei musulmani, che avevano fatto di Aristotele una specie di secondo Maometto, ne fecero anch’essi “il Filosofo” per eccellenza (per esempio Tommaso d’Aquino) e «il maestro di color che sanno» (Dante). È noto che, secondo una tradizione araba, Aristotele sarebbe apparso in sogno al califfo al-Mamun e gli avrebbe detto: «Il tuo dovere è dichiarare l’unicità di Dio», cioè precisamente la verità fondamentale dell’Islam. I musulmani videro infatti nel primo motore immobile, di cui Aristotele dimostra la necessità nel libro XII della Metafisica, l’unico Dio, creatore e signore del cielo e della terra, e quindi interpretarono questo libro come una specie di teologia, seguendo del resto in questo i commentatori greci tardo-antichi. A dire il vero essi dovettero trovare un po’ scarse le indicazioni teologiche fornite da Aristotele nel libro in questione, perché pensarono di confezionare un’opera intitolata Teologia di Aristotele, desumendone il contenuto dalle opere ben più ricche, in questo senso, di Plotino. E i cristiani furono tratti in inganno da questo falso, confermandosi nell’idea che Aristotele fosse il creatore della teologia naturale, o razionale. Dante, da sommo poeta qual era, riuscì a presentare il Motore immobile, che «muove in quanto amato», come «l’Amor che move il sole e l’altre stelle». Naturalmente le differenze tra il primo motore immobile di Aristotele e il Dio della Bibbia, concordemente adorato da cristiani e musulmani, erano sotto gli occhi di tutti: ma esse divennero un pretesto per attaccare Aristotele, accusato di avere professato un concetto di Dio troppo astratto, meccanico, impersonale, egoista (il mio professore di filosofia antica, Carlo Diano, parlava con scherno del Dio di Aristotele «che si guarda la pancia»). In tale opera di denigrazione si scatenò una nobile gara fra cristiani e musulmani, che toccò i suoi vertici in campo musulmano col teologo al-Gazali, nemico dei filosofi aristotelizzanti, e in campo cristiano con Lutero, noto per avere ricoperto il povero Aristotele degli insulti più feroci (ma già Petrarca si era lasciato un po’ andare). Ancora oggi i musulmani e i cristiani integralisti non possono soffrire il “Motore immoto” di Aristotele, dichiarando che tale espressione fa pensare a un autocarro in panne e opponendogli, con Pascal, «il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo». Solo da pochi anni studiosi benemeriti hanno ristabilito la verità storica, mostrando che Aristotele non voleva affatto essere un teologo, che per lui la “teologia” non era una disciplina filosofica, ma l’insieme dei miti sugli dèi narrati dai poeti, e che gli dèi per lui erano semplicemente dei «viventi immortali e felici», i quali si distinguono dagli uomini perché questi sono, al contrario, mortali e infelici. Esemplare è stato in questo senso il libro di Richard Bodéüs, Aristote et la théologie des vivants immortels (Montréal 1992). A risultati analoghi sono giunti i contributi pubblicati nel volume della rivista «Humanitas» (4/2005) sotto il titolo Dio e il divino nella filosofia greca, a cura di Maurizio Migliori e Arianna Fermani, ma soprattutto il bel libro di Barbara Botter, Dio e Divino in Aristotele, uscito nella collana “Intemalional Aristotle Studies”, diretta da Carlo Natali (Academia Verlag 2005). Quest’ultimo dimostra infatti con argomenti convincenti che in Aristotele e nei filosofi “pagani” in generale il termine “dio” è usato non come nome proprio, e nemmeno prevalentemente come sostantivo, bensì come attributo, o predicato, avente la funzione di indicare un grado di eccellenza in una scala ordinata di enti. Esso pertanto può essere attribuito agli dèi della religione tradizionale, ma anche agli astri, al mondo stesso nel suo insieme, all’intelletto umano, e anche al primo motore immobile. Ma in nessun caso dovrebbe essere scritto con l’iniziale maiuscola e senza articolo, come se fosse un nome proprio, bensì sempre con la minuscola e l’articolo, cioè “il dio”, come diciamo “l’uomo” o “il cavallo”. Ovviamente in un contesto monoteistico si scriverà “Dio” senza articolo. Se questa regola venisse seguita più in generale, si eviterebbe l’uso fastidioso di scrivere la parola con la maiuscola o la minuscola per mostrare che si crede o non si crede in Dio. Una conferma a queste ricerche viene anche dalla pubblicazione, per la prima volta in traduzione italiana, di un’opera nota solo agli specialisti, le Divisioni, tramandate come opera di Aristotele da alcuni manoscritti e, in versione un po’ diversa, da Diogene Laerzio, a cura di Cristina Rossitto, che ne ha fornito anche un’ampia introduzione e un accurato commento (Bompiani 2005). Quest’opera è emblematica dell’uso che la tarda antichità fece di Aristotele. È molto probabile, infatti, che essa risalga, nel suo nucleo fondamentale, proprio ad Aristotele, come hanno sostenuto anche W.D. Ross e O. Gigon, anzi all’Aristotele giovane, ancora membro dell’Accademia platonica, come ipotizza Rossitto. Ma non c’è dubbio che vi hanno messo le mani anche altri autori, cristiani o comunque teisti, come risulta inequivocabilmente da alcuni passi. In essa si parla infatti degli dèi come di viventi immortali, a cui sono dovuti onori e pratiche di culto e ai quali appartengono beni specifici, quali l’eternità, e beni comuni anche agli uomini, quali l’eccellenza e la bellezza, ma non altri beni puramente umani quali la temperanza, il coraggio e la giustizia. In un passo di essa, tuttavia, come esempio di viventi immortali vengono citati non gli dèi, bensì gli angeli, specie in tale veste del tutto sconosciuta ad Aristotele, ma ben nota ai seguaci della Bibbia, che non potevano ammettere l’esistenza di una molteplicità di dèi.
Enrico Berti, Nuovi studi dimostrano che Aristotele non era un teologo, pubblicato in: Domenicale de Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2006, p. 16.
Migliori e A. Fermani (a cura di), «Dio e il divino nella filosofla greca», “Humanitas”, LX (2005), n. 4. pp. 658-920.
B. Botter, «Dio e Divino in Aristotele», Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, pp. 306.
Aristotele ed altri autori, «Divisioni», a cura di C. Rossitto, Bompiani, Milano 2005, pp. 526.
«Platone – […] la ricchezza non ha nulla a che fare col bene della città. Mi sembra di avere portato argomenti abbastanza chiari a questo proposito nella Repubblica» (p. 20).
«Aristotele – Le elargizioni di denaro fatte per sedurre la moltitudine sono l’uso peggiore che si può fare della ricchezza. Esse producono infatti nei cittadini un piacere di breve durata e non portano alcun contributo permanente al bene comune […]» (p. 25).
«Aristotele – […] la sazietà, come dice il proverbio, genera prepotenza, mentre la mancanza di cultura, accompagnata da molti mezzi, genera stoltezza. In effetti, per coloro che sono di poco valore nelle cose che riguardano l’anima, né la ricchezza, né la forza, né la bellezza sono dei beni […]» (p. 55).
«Aristotele – Bisogna poi precisare che l’avarizia non consiste solo nello spendere troppo poco, ma anche nel desiderare troppo il denaro, nell’anteporre la ricchezza a qualunque altra cosa, nell’impegnare tutta la propria vita nell’unica attività del far soldi. Intesa in questo senso, l’avarizia, o meglio l’avidità di denaro, è oggi il vizio forse più diffuso» (p. 61).
«Aristotele – […] I bisogni umani, per natura, sono limitati, come risulta dal fatto che uno non può mangiare più di tanto, […] eccetera. Ora, l’arte di procurarsi i beni necessari a soddisfare questi bisogni è un’arte secondo natura, cioè giusta, buona, morale. Se invece uno vuole procurarsi una quantità di beni illimitata, va contro la stessa natura dell’uomo, e la sua arte sarà un’arte contro natura, cioè ingiusta, immorale. Teofrasto – Ma come è nata, Aristotele, quest’arte contro natura e immorale che chiamiamo crematistica? Aristotele – Essa è nata da un fatto del tutto naturale, cioè lo scambio dei beni. Poiché non tutti sono in grado di fare tutto, come spiega bene Platone nella Repubblica, gli uomini che abitano la città si distribuiscono i compiti, e l’uno fa il contadino, l’altro fa il calzolaio, il terzo fa il sarto, e così via. Ciascuno di questi produce un bene, o un servizio, in misura superiore a quella di cui ha bisogno per la sua famiglia, mentre non produce altri beni di cui pure ha bisogno. Nasce così la necessità di scambiarsi le merci: chi produce un certo bene in eccesso, ne dà una parte a chi non lo produce ma ne ha bisogno, per avere in cambio da lui ciò di cui ha bisogno lui e che l’altro produce in eccesso. Questo fa sì che ogni bene prodotto abbia, per così dire, due valori, un valore d’uso, che è quello per cui viene usato, e un valore di scambio, che è quello per cui viene scambiato. Un tale scambio è del tutto naturale, quindi è giusto e morale. Teofrasto – E come accade che da questo scambio naturale e giusto nasca la crematistica contro natura e immorale? Aristotele – Per comprenderlo, bisogna fare attenzione al mezzo di cui gli uomini si servono per facilitare lo scambio, cioè il denaro, la moneta. Questa infatti è un oggetto equivalente a qualunque possibile merce, perciò può essere usata al posto di qualsiasi merce, quando la merce non sia disponibile. Supponiamo che io abbia bisogno di un paio di scarpe, il cui valore è pari a quello di un sacco di grano, mentre il fabbricante di scarpe ha bisogno del grano. In luogo di questo io darò al fabbricante di scarpe una quantità di denaro pari al valore delle scarpe, e anche del sacco di grano, col quale egli potrà procurarsi il grano da chi lo produce. Questo è l’uso naturale, e quindi giusto, del denaro. Se io, invece, non ho bisogno di scarpe, ma le acquisto ugualmente pagando una certa quantità di denaro, allo scopo di rivenderle in cambio di una quantità di denaro maggiore, allora il fine dello scambio non sarà più quello di soddisfare un mio bisogno, ma sarà semplicemente quello di procurarmi una quantità maggiore di denaro. In questo caso lo scambio non sarà più naturale, ma sarà contro natura. La crematistica nasce quando, in luogo di scambiare merce con denaro, per ottenere altra merce, si scambia denaro con merce per ottenere altro denaro. Io mi sono spiegato con un esempio molto banale. Ma se tu moltiplichi questo tipo di scambi in quantità smisurata, vedi che nasce un’attività ugualmente smisurata, consistente nel cercare di procurarsi denaro all’infinito. In questo modo la ricchezza, costituita dal denaro, non è più il mezzo necessario a soddisfare i bisogni propri o della propria famiglia, ma diventa essa il fine, e questo è innaturale, quindi ingiusto e immorale. La cosa è ancora più evidente nella pratica dell’usura, dove non si scambia denaro con merce, ma denaro con denaro, cioè si presta denaro in una certa quantità per ottenerne, dopo qualche tempo, altro denaro in quantità maggiore. In tal caso il denaro serve a produrre altro denaro e quindi l’usura diventa l’emblema della crematistica smisurata» (pp. 64-67).
«Aristotele – […] Vorrei una città che conservi al suo interno […] l’uguaglianza tra i suoi cittadini, la libertà di discutere e decidere tutti insieme sulle cose da farsi, la divisione dei poteri, la giustizia, l’aspirazione alla pace. Una città […] in cui la preoccupazione più importante dei cittadini non sia quella di procurarsi le ricchezze, ma quella di vivere bene, cioè di essere felici, realizzando tutte le proprie capacità, non solo fisiche, ma anche spirituali, per mezzo dell’educazione, dell’arte, della scienza, della filosofia». Platone – È proprio bello questo che tu dici, Aristotele! Speriamo che un giorno si avveri. Vedo però che anche tu ti abbandoni alle utopie, come hai rimproverato me di fare. In realtà un po’ di utopismo è sempre necessario, altrimenti ci si rassegna alla realtà esistente e non si cerca più di migliorarla» (pp. 89-89).
***
Enrico Berti, Aristotele. Ebulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Falsi Originali [Collana diretta di Giovanni Casertano], Guida Editori, Napoli 20129.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [109]. In copertina: Statua in bronzo di Aristotele, ingresso della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, Germania. In quarta di copertina: Paul Klee, Die Zeit, 1933.
Questo volume raccoglie alcuni fra i principali studi di Enrico Berti su Martin Heidegger. Il filosofo tedesco è stato infatti una presenza costante negli studi composti in questi decenni dallo studioso padovano, sovente in rapporto al pensiero di Aristotele. Con il suo consueto approccio “classico”, in questi saggi Berti non si limita a descrivere, ma valuta, ossia prende posizione, anche critica, nei confronti di colui che pure definisce come il maggiore pensatore del XX secolo.
Indice
Introduzione
Il nichilismo dell’Occidente secondo Nietzsche, Heidegger e Severino
L’influenza di Heidegger sulla «riabilitazione della filosofia pratica» Gadamer, o della «phronesis» Ritter, ovvero dell’«ethos» Hannah Arendt, o della «praxis»
Heideggers Auseinandersetzung mit dem
Platonisch-Aristotelischen Wahrheitsverständnis Aristoteles Platon Abschluß
Heidegger and the Platonic Concept of Truth
Le passioni tra Heidegger e Aristotele Appendice
Heidegger e il libro Epsilon della Metafisica di Aristotele Prologo Prime citazioni di Aristotele (Friburgo, 1921-1923) Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): l’essere come verità Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): essere ed ente Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo (1929): di nuovo l’essere come vero Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo: la metafisica come «ontologia» Conclusione
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Qui di seguito sono riportati i riferimenti bibliografici relativi ai saggi raccolti nel presente volume.
I In tema di dialettica
Come argomentano gli ermeneutici? “Filosofia ‘91”, a cura di G. Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 13-32. La complessità della ragione “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 154, gennaio-aprile 1995, pp. 27-40. Logo e dialogo “Studia Patavina”, 42, 1995, pp. 31-42. La dialettica antica come modello di ragionevolezza “Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica”, 7, 2002, pp. 17-28. Il principio di non contraddizione: storia e significato P. Bria e F. Oneroso (a cura), Bilogica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 22-32.
II In tema di metafisica
Per una metafisica problematica e dialettica “Acta philosophica”, 1, 1992, pp. 176-190 (anche in “Per la filosofia”, 9, 1992, pp. 3-15). La via “dinamico-noologica” alla trascendenza divina in S. Biolo (a cura), Trascendenza divina. Itinerari filosofici, Contributi al XLVIII Convegno del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, aprile 1993, Torino, Rosenberg & Sellier, 1995, pp. 57-71. La prospettiva metafisica tra analitici ed ermeneutici “Seconda navigazione – Annuario di filosofia 2000”, Milano, Mondadori, 2000, pp. 45-62. Quale metafisica per il terzo millennio? in Proceedings of the Metaphysics for the Third Millennium Conference (Rome, September 5-8, 2000), Editorial de la Universidad Tecnica Particular de Loja (Equador), 2001, vol. I, pp. 29-44. Una metafisica (espistemologicamente) “debole” “Annuario Filosofico”, 16, 2000, Milano, Mursia, 2001, pp. 27-41. Metafisica debole? in Quale metafisica?, “Hermeneutica”, n. s., 2005, pp. 39-52. Dialogo su Aristotele in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi (a cura), Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 75-90.
III In tema di filosofia pratica Sostanza e individuazione in AA. VV., La tecnica, la vita, i dilemmi dell’azione (“Seconda navigazione – Annuario di filosofia 1998”), Milano, Mondadori, 1998, pp. 143-160. Dal personalismo all’identità personale in A. Bottani e N. Vassallo (a cura), Identità personale. Un dibattito aperto, Napoli, Loffredo, 2001, pp. 65-78). Persona, scienza e tecnica in G. Galeazzi e B. M. Ventura (a cura), Filosofia e scienza nella società tecnologica, Milano, F. Angeli , 2004, pp. 171-183. L’idea di bene comune tra “destra” e “sinistra” in E. Berti e S. Veca, La politica e l’amicizia, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, pp 35-62. Prudenza in “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. 159, settembre-dicembre 1966, pp. 15-24. Attualità dei diritti umani “Ars Interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 6, 2001, pp. 79-91. Pratiche filosofiche e filosofia pratica “Ars interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 10, 2005, pp. 313-328.
IV Appendice Autoritratto “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 176, maggio-agosto 2002, pp. 9-12. Pensare con la propria testa? “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 192, maggio agosto 2004, pp. 76-88. Aristotele nel Novecento “Scuola e Cultura”, 3, 2005, pp. 22-27
Luca Grecchi
Il pensiero filosofico di Enrico Berti
Petite Plaisance, 2013
ISBN 978-88-7588-110-8, 2013, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [51].
In questo libro è sintetizzata l’opera filosofica di uno dei maggiori pensatori italiani contemporanei, Enrico Berti. Teorizzatore della metafisica classica, studioso di Aristotele, storico della filosofia, Berti ha proposto, in oltre 50 anni di attività culturale ed accademica, soluzioni di grande originalità e valore non solo su temi filosofici, ma anche su temi etici, politici, educativi. La monografia, impreziosita da un saggio finale dello stesso Berti, si pone come una prima introduzione complessiva al suo pensiero.
Indice
Presentazione di Carmelo Vigna
Introduzione
I. Biografia II. L’interpretazione degli antichi e di Aristotele III. La storia della filosofia IV. L’etica e la filosofia pratica V. La politica VI. L’approccio classico alla educazione VII. Religione VIII. La metafisica IX. La critica
Postfazione Enrico Berti A proposito della critica
Principali pubblicazioni di Enrico Berti Volumi Curatele Principali articoli
La filosofia del primo Aristotele (Univ. di Padova. Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. XXXVIII), 1962.
La filosofia del primo Aristotele, Cedam, 1962.
Il “De re publica” di Cicerone e il pensiero politico classico, Padova, Cedam, 1963.
L’unità del sapere in Aristotele, Cedam, 1965.
Studi aristotelici, Japadre, 1975.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, 1977
Profilo di Aristotele, Studium, 1979.
I percorsi della filosofia, vol. I. Il pensiero antico e medioevale (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
I percorsi della filosofia. Il pensiero moderno e contemporaneo (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
Profilo di Aristotele, Nuova Universale Studium, 1985.
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, 1987.
Il pensiero d’Occidente. Pagine e testimonianze (con Sergio Moravi), Le Monnier, 1987.
Le vie della ragione, il Mulino, 1987.
Le ragioni di Aristotele, Laterza, 1989.
Storia della filosofia. Antichità e medioevo, Laterza, 1991.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 1992.
Persona e personalismo (con Georges Cottier e Giannino Piana), Gregoriana Editrice, 1992.
Etica, cultura e partecipazione politica (con Alberto Monticone), AVE, 1993
Il volume riflette l’esigenza di un approfondimento dei rapporti che intercorrono tra etica, cultura e partecipazione politica. Nel volume si delineano alcuni caratteri fondamentali della nostra vita civile: il sistema democratico, la concezione personalista e solidaristica quale fondamento della convivenza civile e dell’organizzazione sociale e politica del nostro Paese, la possibilità per le culture di ispirazione cristiana e per il movimento cattolico di dare un proprio contributo all’evoluzione della vita sociale e politica. L’impegno dell’Azione Cattolica resta quello per la formazione di un laicato adulto nella fede, capace di servizio e testimonianza in ogni ambito della propria vita ma anche quello di promuovere quotidianamente una cultura radicata nei valori del Regno e nei principi della centralità della persona umana e del bene comune.
Introduzione alla metafisica, Utet-Libreria, 1993.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Edizioni Diabasis, 1993.
Aristotele, Il libro primo della «Metafisica» (a cura di E. Berti e C. Rossiitto), Laterza, 1995.
Aristotele, Laterza, 1997.
Rifacendosi in particolare ad un’analisi diretta della Politica e dell’Etica Nicomachea, i cui testi sono ampiamente antologizzati, e confrontandosi con il dibattito critico più recente, Berti illustra tutti i temi fondamentali del pensiero politico aristotelico, come ad es. il concetto di polis, o la vagheggiata «città felice». Né manca un’analisi in parallelo con le teorie di Platone. A differenza di altri studi pubblicati in Italia sul pensiero politico di Aristotele, che hanno un carattere parziale o un’impronta ideologica, il saggio introduttivo di Berti si distingue anche per la capacità di stabilire un dialogo continuo tra esso e il pensiero politico moderno e soprattutto contemporaneo.
Aristóteles no século XX, trad. D. Davi Macedo, São Paulo, Brasil, Edi. Loyola, 1997.
La filosofia del “primo” Aristotele, Vita e Pensiero, 1997.
As razões de Aristóteles, Ed. Loyola, 1998.
Esta obra configura uma intervenção autorizada no atual debate sobre o pensamento débil e a crise da razão, por sua capacidade de relacionar aos temas da filosofia contemporânea a aguda análise de um momento culminante na história da filosofia: o pensamento de Aristóteles.
La politica e l’amicizia (con Salvatore Veca), Edizioni Lavoro, 1998.
La politica e l’amicizia sembrano essere distanti l’una dall’altra: mentre la politica si orienta verso una condivisione più ampia possibile, l’amicizia evoca prospettive più intime, private, e dunque escludenti. Enrico Berti e Salvatore Veca intendono guidare, da angolature differenti, una riflessione sulla possibilità di un incontro fra politica e amicizia.
Novos estudos aristotélicosI – Epistemologia, lógica e dialética, 1999.
Nesta obra, encontram-se ensaios sobre a contradição, a dialética e a argumentação na obra do Estagirita, além de estudos sobre a dialética em Zenão, em Górgias e em Platão, com o objetivo de evidenciar a contribuição que deram à formação do pensamento de Aristóteles.
La navicella della metafisica. Dibattito sul nichilismo e la “Terza navigazione” (con altri), Armando editore, 2000.
Marino Gentile nella filosofia del Novecento, EDS, 2003.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi, Bompiani, 2004.
Quest’opera, pubblicata originariamente nel 1977, è uno dei più importanti lavori di Berti. Essa si può considerare sia uno studio introduttivo ad Aristotele, di cui si passano in rassegna la vita, le opere, l’ambiente accademico e l’insegnamento, ma anche e soprattutto un saggio teoretico sulle costanti del pensiero metafisico: le idee, le categorie, i princìpi primi, le quattro cause, l’essere e il divenire. Il volume è arricchito da una serie di saggi dell’autore che completano il quadro della “filosofia prima” di Aristotele.
Aristotele. Eubulo o della richezza. Dialogo perduto contro i governanti ricchi, Guida, 2004.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Filosofia pratica, Guida, 2004.
L’espressione “filosofia pratica” compare per la prima volta in Aristotele e in contrapposizione a quella teoretica: mentre quest’ultima ha per fine la verità ossia la conoscenza di come e di perché le cose stanno in un certo modo, la filosofia pratica ha per fine l’opera, cioè mira a conoscere e a rendere possibile un certo tipo di azione, in particolare l’azione buona e quindi tende a rendere migliore colui che agisce. Quindi il fine, lo scopo della filosofia pratica è il tentativo di raggiungere la perfezione dell’uomo stesso.
Nuovi studi aristotelici, vol. 1: Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, 2004.
Il volume è il primo di un’opera che raccoglierà in quattro volumi l’insieme degli scritti di uno fra i maggiori specialisti della logica e della dialettica di Aristotele.
Aristotele. Il primo libro della «Metafisica» (con C. Rossitto), Laterza, 2005.
Nuovi studi aristotelici. 2 – Fisica, antropologia e metafisica, Morcelliana, 2005.
Il secondo volume degli studi aristotelici, dedicato a metafisica, fisica e antropologia, scritto dal maggior specialista italiano di Aristotele. Un libro che è una vera e propria introduzione alla “Metafisica” di Aristotele. L’Autore insegna storia della filosofia all’Università di Padova.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Diabasis, 2005.
Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, 2006.
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2006.
Aristotele e l’ontologia(con Bruno centrone e Paolo Fait), Alboversorio, 2007.
Le tesi di Aristotele rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di ontologia. Da lui, infatti, derivano gran parte dei termini ancora oggi utilizzati e dei problemi su cui non si è mai smesso di discutere. Questo libro permette, al lettore interessato, di avvicinarsi ad alcune prospettive contemporanee sull’argomento espresse da alcuni dei maggiori studiosi italiani.
Introduzione alla metafisica, Utet università, 2007.
Storia della filosofia. Dalla’antichità ad oggi. Con materiali per il docente. Ediz. compatta. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Franco Volpi), Laterza, 2007.
Antologia di filosofia. Dall’antichità ad oggi. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Cristina Rossitto e Franco Volpi), Laterza, 2008.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 2008.
La filosofia di Aristotele è un caso forse unico, nella storia, di “sistema aperto”, cioè di filosofia che è un vero sistema, dotato di una grande differenziazione interna, ma anche di una certa unità; ed è anche un sistema aperto, suscettibile di continue integrazioni, anzi di molteplici usi, data la sua grande versatilità, attestata da una fortuna tra le più longeve che mai si siano date e da una presenza massiccia nella stessa filosofia del Novecento. A essa si possono attingere concetti, categorie, distinzioni, dottrine, adoperabili per gli usi più svariati, nelle più diverse direzioni, sia filosofiche che scientifiche, sia teoretiche, cioè logico-metafisiche, che pratiche, cioè etico-politiche, per non parlare degli usi a fini poetici e retorici. Ma questi concetti, distinzioni, dottrine funzionano, cioè rispondono allo scopo per cui vengono impiegati, solo se sono utilizzati nel rispetto del loro significato originario. Si tratta di una coerenza non rigida, ma elastica, di una logica non monolitica, ma articolata e duttile, Dall’esistenzialismo di Heidegger alla filosofia pratica di Gadamer, dalla “nuova retorica” di Perelman e Toulmin alla nuova scienza di Prigogine e Jacob, alla nuova epistemologia di Kuhn e Feyerabend, Enrico Berti ritrova le tracce dell’inesauribile forza del pensiero aristotelico.
Dialectique, physique et métaphysique. Études sur Aristote, Éditions Peeters, 2008.
This volume contains around twenty articles, many of them already published elsewhere, but translated into French for the first time. They all deal with the dialectics, the physics and the metaphysics of Aristotle.
Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia (a cura di), Utet, 2008.
In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, 2008.
La meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza e desiderio di sottrarvisi, cioè di apprendere, di conoscere, dI sapere. Ecco perché proprio la meraviglia, secondo Aristotele, è l’origine della filosofia, ovvero della ricerca disinteressata di sapere. Stato d’animo raro e prezioso, la meraviglia è la sola espressione della vera libertà. Enrico Berti rilegge il pensiero dei grandi filosofi della classicità e costruisce un percorso attraverso le domande senza tempo che la filosofia occidentale ha continuato a porsi, formulate per la prima volta dai Greci.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 3 Filosofia pratica, Morcelliana, 2008.
Il presente volume, terzo della serie dei Nuovi studi aristotelici, raccoglie gli scritti concernenti la “filosofia pratica” di Aristotele, contenuta nelle due Etiche autentiche (Nicomachea e Eudemea), e la filosofia politica, contenuta nella Politica. Come è noto, per Aristotele queste ultime due discipline sono parti di un’unica scienza, da lui chiamata più volte “scienza politica” e, almeno una volta, “filosofia pratica”. Perciò non ho diviso il volume in sezioni, come invece ho fatto nei volumi precedenti. Ho scelto, come sottotitolo dell’intera raccolta, “filosofia pratica”, perché questa espressione è diventata attuale dopo la cosiddetta “riabilitazione (o rinascita) della filosofia pratica”, movimento sviluppatosi nel corso degli anni Settanta del Novecento e ancora non del tutto esaurito.(dalla Prefazione)
Ser y tiempo en Aristótele, Editorial Biblios, 2008.
Enrico Berti, uno de los más reconocidos especialistas de Aristóteles, introduce este libro con una reseña de la presencia de Aristóteles en la Contemporánea. Luego desarrolla una exposición clara y profunda de la postura aristotélica, que va desde el tiempo cósmico de la Física hasta el tiempo humano de la Poética y la Ética. En el recorrido que realiza también visita la Metafísica, pero también obras menos transitadas, como De la memoria y la reminiscencia. Además, confronta la postura de Aristóteles con uno de los trabajos más determinantes de la Contemporánea: Ser y tiempo de Martin Heidegger.
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2008.
La Metafisica è l’opera più famosa di Aristotele. Si tratta degli appunti che Aristotele preparava per le sue lezioni all’interno del Peripato. Lo Stagirita pone qui i problemi fondamentali sull’essere e sul perché del divenire ricercandone le cause e i principi primi.
En el principio era la maravilla. Las grandes preguntas de la filosofía antigua, traducción de Helena Aguilà, Madrid, Editorial Gredos, 2009.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4\1. L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento, Morcelliana, 2009.
Il libro vuole essere un contributo allo studio della cosiddetta tradizione aristotelica, dell’influenza esercitata da Aristotele sull’intera storia della cultura “occidentale” (termine nel quale va compresa anche la cultura islamica). Tale influenza è stata sia di tipo positivo, nel senso che le dottrine di Aristotele sono state accolte, interpretate e trasformate dai filosofi posteriori, sia di tipo negativo, nel senso che esse sono state oggetto di critiche e spesso di dure polemiche, ma anche in questo caso hanno condizionato le filosofie posteriori. Del primo tipo è l’influenza esercitata da Aristotele sugli aristotelici: su Teofrasto, Aspasio, Alessandro di Afrodisia, Porfirio, i filosofi arabi ed ebrei, Tommaso d’Aquino, Marsilio da Padova, Giacomo Zabarella, William Harvey. Del secondo tipo è invece l’influenza esercitata da Aristotele sui suoi “avversari”: l’epicureo Filodemo di Gadara, Plotino, Bonaventura da Bagnoregio, Niccolò Cusano, Galileo Galilei. Un caso particolare è costituito dal rapporto tra la filosofia di Aristotele e il primo cristianesimo, emblematicamente rappresentato dal discorso di san Paolo agli Ateniesi, dove l’influenza di Aristotele è ravvisabile nel contributo da lui dato alla formazione di quel concetto di “Dio dei filosofi” che Paolo ripropone consapevolmente agli Ateniesi, ma al fine di integrarlo e superarlo nella rivelazione cristiana.
A partire dai filosofi antichi(con Luca Grecchi), Il Prato, 2010.
I problemi filosofici esaminati vengono presentati nella forma di una discussione avvincente che rievoca l’andamento dei dialoghi platonici, in cui la verità emerge dal movimento del discorso che, nel suo correre incessantemente da un interlocutore all’altro, si fa «dia-logo» nel senso più alto. Del resto, i temi trattati dai due autori sono tra i più importanti tra quelli su cui si è andata formando la civiltà occidentale: il valore veritativo della filosofia, il rapporto tra fede e sapere, la morale, l’educazione, il ruolo dell’uomo, la libertà, la politica, la morte, l’ontologia, la metafisica, la critica, e moltissimi altri ancora. Ad accomunare, nel libro, questi temi così vasti ed eterogenei è il punto di partenza da cui ciascuno di essi viene sviluppato: il mondo dell’antica filosofia greca, concepita sia da Berti sia da Grecchi come fonte originaria delle «domande fondamentali» dell’uomo occidentale e come tentativo di elaborazione di alcune grandiose soluzioni che continuano a esercitare un fascino intramontabile. La filosofia greca fa da sfondo anche alle considerazioni svolte da Berti e da Grecchi intorno al pensiero di Kant, di Hegel e di Marx. A partire, appunto, dai «filosofi antichi», i due studiosi ripercorrono in maniera dialogica, anche attraverso la cinquantennale esperienza accademica di Enrico Berti, i nodi maggiori della tradizione filosofica e le problematiche fondamentali del nostro presente.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4/2. L’influenza di Aristotele. L’età moderna e contemporanea, Morcelliana, 2010.
l secondo tomo del volume dedicato all’influenza di Aristotele comprende saggi relativi all’età moderna e all’età contemporanea. Per l’età moderna è evidente la persistenza della filosofia pratica di Aristotele, la quale, dopo essersi eclissata nell’antichità ellenistica e nella tarda antichità, ed essere stata riscoperta nel medioevo, sia musulmano che ebraico e cristiano, sopravvive nel Seicento e nel Settecento, soprattutto in Germania.Per quanto riguarda l’Ottocento i saggi riguardano la critica di Hegel al principio di non contraddizione, e l’influenza di Aristotele sui critici di Hegel: Feuerbach, Trendelenburg, Marx e Kierkegaard. Per la Germania è anche massiccia l’influenza di Aristotele su Brentano e, attraverso di lui, su tutti i suoi discepoli, da Husserl a Meinong, a Twardowski, a Freud. Interessante è anche il rapporto intrattenuto con Aristotele da Paul Natorp, che ebbe ad influenzare, insieme con la dissertazione di Brentano, Martin Heidegger.I capitoli dedicati all’età contemporanea illustrano la presenza di Aristotele in Heidegger e nella filosofia analitica inglese, ovvero nell’analisi del linguaggio ordinario condotta da J. Austin, G. Ryle, P. Strawson, D. Wiggins e altri. Indi illustrano la cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, prima in Germania, ad opera di filosofi come H.-G. Gadamer e J. Ritter, e poi negli USA, ad opera di A. MacIntyre, H. Jonas, Martha C. Nussbaum.
Profilo di Aristotele, Studium, 2010.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2010.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Invito alla filosofia, La Scuola, 2011.
Un libro per chiunque voglia accostarsi ad un sapere che parte dal sentimento della meraviglia per arrivare ad esercitare un uso consapevole della ragione. Un invito per chiunque sia alla ricerca di motivazioni (esistenziali, religiose, etiche, scientifiche, politiche) e voglia porre domande per scoprire la verità partendo da opinioni consolidate. Perché la filosofia, nel suo stesso modo di procedere dialettico-confutatorio, esalta l’essenza umana che si fonda sul ragionamento.
Preguntas de la filosofía antigüa, Tapa blanda, 2001.
Muchas de las grandes preguntas que la filosofía occidental ha seguido planteándose las formularon por primera vez los griegos. No todas, claro está. Por ejemplo, los griegos no se preguntaron cuáles eran, a priori, las condiciones del conocimiento, o qué leyes rigen la historia, o cómo indagar en el subconsciente del hombre y otras cosas por el estilo. Pero las preguntas que plantearon, a excepción de unas pocas (por ejemplo: ¿quiénes son los dioses?), son las mismas con las que se ha seguido enfrentando la filosofía occidental a lo largo de los siglos. Enrico Berti recorre el pensamiento de los grandes filósofos clásicos y traza un sorprendente itinerario a través de las preguntas sin tiempo que la filosofía occidental ha seguido planteándose y que los griegos formularon por primera vez: ¿Qué es el hombre? ¿Qué es la felicidad? ¿Quiénes son los dioses? ¿Cuál es nuestro destino?
Profilo di Aristotele, Studium, 2012.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e corretta, Morcelliana, 2012.
Il dovere di introdurre, e con ciò di giustificare nella sua unità, la presente raccolta mi fornisce l’occasione più opportuna per riflettere sulle ricerche da me compiute in questi anni e anche per risalire alle origini del mio interesse per Aristotele, allo scopo di determinarne il più esattamente possibile il senso e l’orientamento generale. Uno dei fili conduttori dei miei lavori è la persuasione del valore classico, cioè perenne, e quindi anche attuale di certe istanze del pensiero aristotelico. Si tratta di una valutazione di ordine teoretico, o filosofico, che oggi, a causa dell’imperante storicismo e del conseguente relativismo, può sembrare, nel migliore dei casi, ingenua. Tuttavia è una persuasione a cui tengo particolarmente; non ho difficoltà infatti a confessare che, se non la possedessi, non riuscirei a dare alcun senso al lavoro fatto. Le ragioni del valore classico della metafisica antica si trovano nel rilevamento, da parte di Aristotele, di un’inadeguatezza tra il sistema platonico e il problema da cui ogni filosofo deve prendere le mosse, cioè la problematicità integrale e assoluta. Questa problematicità si esprime in un “domandare tutto”, che è insieme un “tutto domandare”, in una domanda che investe la totalità del reale e, per il fatto di escludere ogni precedente certezza, è integralmente domanda; e si identifica con la stessa esperienza intesa come conoscenza di tutto e insieme domanda della ragione di tutto.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2012.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Aristotele e la democrazia, in C. Rossitto, A. Coppola, F. Biasutti (a cura), Aristotele e la storia, Padova, CLEUP, 2013.
Aristotele, La Scuola, 2013.
«Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità e, più di tutte, amano la sensazione della vista. In effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose». Metafisica, libro I.
The Classical Notion of Person and Its Criticism by Modern Philosophy, in B. Babich and D. Ginev (eds.), The Multidimensionality of Hermeneutic Phenomenology, Heidelberg-New York-Dordrecht-London, Springer, 2013.
La phronêsis nella filosofia antica, in A. Fidora, A. Niederberger, M. Scattola (eds.), Phronêsis – prudentia – Klugheit. Das Wissen der Kluge in Mittelalter, Renaissance und Neuzeit, Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales, Porto, 2013.
Mente e anima: due entità?, in G. Erle (a cura), Il limite e l’infinito. Studi in onore di Antonio Moretto, Bologna, Archetipolibri, 2013.
La ricerca filosofica di Antonio Moretto segna una tappa fondamentale e innovativa all’interno della letteratura scientifica a proposito del rapporto tra filosofia e matematica. Questo vale in primo luogo, ma non solo, per una rinnovata comprensione della filosofia classica tedesca che rendeva necessario mostrare la rilevanza della conoscenza congiunta della storia e della teoria della matematica in autori come Kant e Hegel. Questi studi, assieme a quelli che egli ha dedicato a Descartes, Leibniz, Wolff, mostrano come i concetti matematici di finito e infinito racchiudano, nelle loro esigenze tecniche, un’urgenza profondamente umana, quella di dare senso, “mensurare” nell’accezione più ampia del termine. Sotto questo profilo, il passaggio per le scienze esatte nelle ricerche di Moretto non è affatto astratto, ma costituisce il necessario cammino verso quella che Kant avrebbe chiamato “la porta stretta”, varcata la quale meglio si comprendono anche le altre parti del sistema della filosofia, così come proprio Moretto ha dimostrato dedicandosi a discutere altresì questioni di etica, di filosofia della medicina, psicologia della percezione e, perché no?, della poesia di Albrecht von Haller. Coerentemente con questo percorso di ricerca, gli autori degli scritti che costituiscono questo volume si sono impegnati a mostrare la ricchezza di significati e valenze che i concetti di limite e di infinito possono assumere all’interno delle scienze filosofiche.
Una metafisica (epistemologicamente) «debole», n G. Riconda e C. Ciancio (a cura), Filosofi italiani contemporanei, Mursia, 2013.
Il volume presenta i risultati di un ciclo di seminari tenuti all’Università di Padova nel 2011 e 2012, all’interno del Progetto di Ateneo Filosofia e storia nel pensiero politico di Aristotele. Il tema generale è il ruolo della storia nel pensiero aristotelico, secondo le più ampie accezioni del termine. Innanzitutto che uso fa Aristotele dei dati storici, come e a qual fine li utilizza e qual è per lui il valore epistemologico della storia? Storia significa anche storiografia, cioè resoconto scritto dei fatti: possiamo capire il rapporto fra il filosofo e gli storici e tra la storiografia e la politica? I contributi qui raccolti aggiungono materia a queste riflessioni raccogliendo e confrontando punti di vista di storici dell’antichità e di storici della filosofia.
Aristotele, in U. Eco (a cura), L’Antichità, 5. Grecia, Filosofia, EM Publishers srl., 2014.
Neste volume, o leitor terá a oportunidade de conhecer o pensamento de Aristóteles, um dos maiores nomes da Filosofia na Antiguidade. A visão aristotélica é apresentada de modo sintetizado, por meio da análise das obras de Aristóteles, dos conceitos-chave de sua filosofia e seus desdobramentos na sociedade atual.
Il bene di chi? Bene pubblico e bene privato nella storia, Marietti, 2014.
Un affresco dell’intrecciarsi di bene pubblico e bene privato nella storia della civiltà occidentale. Enrico Berti fa comprendere le complesse radici culturali della situazione attuale e apre domande cruciali, da un lato sul destino e la sopravvivenza dello Stato e dall’altro sul fine dell’uomo e sulle condizioni di possibilità della vita sociale. Il libro è arricchito da un dialogo sul tema tra l’autore e i partecipanti alla “Lectio Magistralis” tenuta nel corso di una delle sessioni del 2013 della Winter School, centro di studi sociali, culturali e politici. Prefazione di Giovanni Maddalena.
Il luogo dei corpi secondo Aristotele, in Lessico Intellettuale Europeo, Locus-spatium. XIV Colloquio Internazionale, a cura di D. Giovannozzi e M. Veneziani, Olschki, 2014
La ricerca della verità in filosofia, Studium, 2014.
La verità è oggi temuta come una forma di violenza, specialmente da parte dei filosofi post-moderni. Questo timore spesso è dovuto a una concezione ideologica della verità come valore assoluto da imporre a tutti, mentre esso è del tutto ingiustificato rispetto alla concezione classica della verità, non riducibile alla teoria della verità come corrispondenza. In base alla teoria classica si danno diversi tipi di verità, verità di fatto e verità di ragione, verità storiche e verità scientifiche, verità di fede e verità poetiche: alcune facili da scoprire, altre implicanti complesse e faticose ricerche. In filosofia la ricerca della verità avviene in modi diversi, secondo il tipo di filosofia che si pratica, che può essere trascendentale, dialettico, fenomenologico, analitico-linguistico, ermeneutico, dialogico-confutativo. Un caso di ricerca della verità in filosofia è costituito dalla metafisica, intesa non nel senso tradizionale di ontologia o teologia razionale, bensì come metafisica problematica e dialettica, epistemologicamente debole ma logicamente forte. Esiste anche una verità pratica, che riguarda non la legge morale, ma il desiderio della felicità intesa come pieno sviluppo della persona umana, nel singolo individuo e nella polis.
Prologo a L. E. Varela, Filosofía práctica y prudencia. Lo universal y lo particular en la ética de Aristóteles, Editorial Biblos, 2014.
El trabajo se sostiene en un conocimiento completo y perfecto de toda la obra de Aristóteles concerniente a la ética, no sólo a la Ética nicomaquea y a la Ética eudemia, sino también a la Gran Ética y al Protréptico. Los textos de estas obras son analizadas de manera precisa y rigurosa, y el análisis de ellos es siempre acompañado por una discusión de las interpretaciones suministradas por la literatura crítica, con la cual Varela está constantemente en diálogo. De ello resulta una contribución de gran claridad, equilibrio, riqueza de información y de profundización, que lo hace extremadamente útil para una relectura y una valoración nueva, plenamente satisfactoria, de la ética aristotélica.
Luis Enrique Varela. Doctor en Filosofía (Universidad del Salvador). Es actualmente profesor de Ética y de Metafísica en la Universidad Nacional de Mar del Plata. Asimismo, dicta Historia de la Filosofía Antigua en la carrera del Doctorado en Filosofía, y Ética dentro de la enseñanza de grado en la Universidad Nacional de Lanús. Dirige proyectos de investigación en temas de filosofía práctica y de metafísica tanto en la UNMDP como en la UNLA. También se desempeña como profesor de Historia de la Filosofía Antigua y del Seminario de Filosofía Práctica I en la carrera de filosofía de la Universidad de Ciencias Empresariales y Sociales (UCES). Además dicta materias de filosofía en la carrera de Filosofía del Instituto Superior del Profesorado “Joaquín V. González”.Como director del Círculo de Actualización en Filosofía de la Fundación Descartes, organizó junto con Germán García el “Encuentro Internacional Descartes 400” (1996) y “Lacan y la cultura filosófica” (2001).Es autor de numerosos
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today?, in C. Baracchi (ed.), The Bloomsbury Companion to Aristotle, Bloomsbury, 2014.
Aristotle is one of the most crucial figures in the history of Western thought, and his name and ideas continue to be invoked in a wide range of contemporary philosophical discussions. The Bloomsbury Companion to Aristotle brings together leading scholars from across the world and from a variety of philosophical traditions to survey the recent research on Aristotle’s thought and its contributions to the full spectrum of philosophical enquiry, from logic to the natural sciences and psychology, from metaphysics to ethics, politics, and aesthetics. Further essays address aspects of the transmission, preservation, and elaboration of Aristotle’s thought in subsequent phases of the history of philosophy (from the Judeo-Arabic reception to debates in Europe and North America), and look forward to potential future directions for the study of his thought. In addition, The Bloomsbury Companion to Aristotle includes an extensive range of essential reference tools offering assistance to researchers working in the field, including a chronology of recent research, a glossary of key Aristotelian terms with Latin concordances and textual references, and a guide to further reading.
List of Contributors \ Acknowledgments \ Corpus Aristotelicum \ “Introduction: Paths of Inquiry” Claudia Baracchi \ Part I: Questions \ 1. Logos \ Saying What One Sees, Letting See What One Says: Aristotle’s Rhetoric and the Rhetoric of the Sophists Barbara Cassin \ Aristotelian Definition: On the Discovery of Archai Russell Winslow \ 2. Phusis \ Aristotle on Sensible Objects: Natural Things and Body Helen Lang \ On Aristotle’s Formula: Physics IV. 11, 14 Rémi Brague \ 3. Psuchê \ Phantasia in De Anima Eric Sanday \ Mind in Body in Aristotle Erick Raphael Jiménez \ The Hermeneutic Slumber: Aristotle’s Reflections on Sleep Marcia Sá Cavalcante Schuback \ 4. Philosophia Prôtê \ First Philosophy Alejandro Vigo \ First Philosophy and the History of Being in Aristotle’s Metaphysics Spyridon Rangos \ 5. Êthos \ Aristotle on Human Nature and the Foundations of Ethics, with an “Addendum” Martha C. Nussbaum \ The Visibility of Goodness Pavlos Kontos \ To Kakon Pollachôs Legetai: The Poly-vocity of the Notion of Evil in Aristotelian Ethics Arianna Fermani \ 6. Polis \ Education: The Ethico-Political Energeia Michael Weinman \ 7. Poiêsis \ Toward the Sublime Calculus of Aristotle’s Poetics Kalliopi Nikolopoulou \ Part II: Disseminations \ Aristotle on the Natural Dwelling of Intellect Idit Dobbs-Weinstein \ The Peripatetic Method: Walking with Woodbridge, Thinking with Aristotle Christopher Long \ What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today? Enrico Berti \ Would Aristotle Be a Communitarian? Pierre Aubenque \ Glossary (Erick Raphael Jiménez) \ Chronology of Recent Research (Benjamin J. Grazzini) \ Bibliography (Erick Raphael Jiménez) \ Resources (Benjamin J. Grazzini and Erick Raphael Jiménez) \ Sources of Translated/Reprinted Essays \ General Index
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Morcelliana, 2015.
“Contraddizione” e “dialettica” sono due delle categorie costitutive della filosofia, fin dalla sua nascita nella Grecia del V secolo. Nei capitoli che sono idealmente una storia del pensiero occidentale – il lettore trova la chiara e puntuale ricostruzione dei tanti significati assunti da “contraddizione”, “non contraddizione”, “dialettica” tra Parmenide, Eraclito, Socrate, Platone e Aristotele, tra Kant e Hegel, tra Marx, Popper e la logica contemporanea. Sono categorie in cui è in gioco non solo il rigore della ragione: nella possibilità o no di superare il principio di non contraddizione è in questione la cosa stessa del pensiero. Considerando che lo stesso principio di non contraddizione si dice in più modi. Temi cui Enrico Berti ha dedicato più di cinquant’anni di studi, e che trovano qui un compendio.
È bene definire il bene?, Orthotes, 2015.
Il punto di partenza assunto nel saggio è la definibilità del bene, una volta che ci si occupi di esso non in quanto assoluto e irraggiungibile, ma piuttosto vedendolo come bene umano, praticabile e realizzabile. Come tale, esso è l’oggetto delle aspirazioni umane e concretamente indicato nei diritti fondamentali, nelle varie libertà e nei diritti politici, che documenti ufficiali hanno ormai sancito. Da Aristotele fino alla sua ripresa da parte di Martha Nussbaum, la felicità, per quanto fragile, si sostanzia proprio di questi beni, che possono essere presentati come vere e proprie “capacità”. Completa il testo un intervento di Berti sull’Etica nicomachea di Aristotele, da cui emerge il carattere pratico di una filosofia che punti a definire che cos’è il bene, ossia aristotelicamente la felicità, per l’uomo.
Aristotelismo, il Mulino, 2017.
A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati.
Un manuale in cui i maggiori studiosi di Aristotele analizzano e descrivono in modo sistematico e completo il pensiero del filosofo, attraverso le singole opere, seguendo un metodo rigorosamente storico, senza interpretazioni ideologiche o di parte.
Introduzione alla metafisica, seconda edizione, UTET, 2017.
La nuova edizione dell’Introduzione alla metafisica di Enrico Berti ripropone la concezione originale della metafisica che l’Autore va presentando da anni, la quale ha suscitato l’interesse degli studiosi di filosofia, come dimostrano le traduzioni dell’opera in altre lingue. Essa contiene alcune correzioni rispetto all’edizione precedente, dovute a ulteriori studi, e soprattutto è corredata da cinque appendici, costituite da altrettanti articoli sul tema, pubblicati dall’Autore negli anni più recenti. L’opera comprende una parte storica, che illustra le diverse forme di metafisica elaborate nella filosofia occidentale, e una parte teoretica, che difende le ragioni di un certo tipo di metafisica, caratterizzata come «metafisica dell’esperienza», sviluppando gli spunti forniti in questa direzione dalla «scuola padovana» facente capo a Marino Gentile. Nel complesso si tratta di una delle rare proposte italiane di una filosofia autenticamente metafisica, in linea con la grande tradizione della «metafisica classica» di ispirazione aristotelica, ma al tempo stesso essenzializzata e aggiornata in modo da tenere conto delle critiche e delle esigenze del pensiero contemporaneo. Il rifiorire di interesse per la metafisica, manifestatosi soprattutto nell’ambito della filosofia analitica, conferma l’attualità dell’opera.
Tradurre la “Metafisica” di Aristotele, Morcelliana, 2017.
«Essendomi recentemente cimentato con l’arduo compito di tradurre la Metafisica di Aristotele, il libro forse più difficile dell’intera storia della filosofia, mi sono imbattuto in una serie di problemi, alcuni dei quali previsti e altri invece imprevisti, che hanno reso l’impresa, oltre che ardua, anche affascinante». Affrontando problemi inerenti alla trasmissione del testo, alla traduzione e alla interpretazione, Berti mostra – contro una lettura teologizzante, di origine neoplatonica – il tratto problematico della filosofia aristotelica: la metafisica non è né teologia, né ontologia, ma scienza delle cause prime.
Aristotele Eubulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Guida, 2019.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Storia della Metafisica (a cura di), Morcelliana, 2019.
Sulla base del presupposto unanimemente riconosciuto che la metafisica, quale che sia il suo valore, ha avuto una storia, il volume individua i momenti salienti di quest’ultima in alcuni grandi filosofie correnti di pensiero: Platone, Aristotele, il platonismo antico, la metafisica arabo-islamica, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Suárez, Cartesio, Kant, Hegel, Rosmini, Heidegger, il neotomismo, la filosofia analitica. Ne risulta una storia equilibrata, ricca e coinvolgente, forse unica nel suo genere, di indubbio interesse per chiunque si occupi di filosofia.
L’11 marzo del 2018 ci lasciava Mario Vegetti. Il 7 marzo, quattro giorni prima, ci aveva lasciato anche Diego Lanza, suo grande amico. Vogliamo ricordare Mario pubblicando qui di seguito l’introduzione a un suo libro del 2007, Scritti con la mano sinistra e ricordare Diego con un suo breve scritto, Pathos, del 1997.
Quello che mi ha colpito, nel rileggere i testi dispersi in sedi molto diverse lungo l’arco di più di un quarto di secolo e pubblicati in Scritti con la mano sinistra, è stata in primo luogo la loro coerenza. Devo dire subito che non ritengo che la coerenza sia necessariamente una virtù: essa può significare in effetti testardaggine cocciuta, miopia e sordità nei confronti di ciò che di nuovo accade nelle cose e nelle idee, insomma anelasticità intellettuale. Ci può tuttavia essere qualcosa di virtuoso nella coerenza.
Si tratta – per prelevare due parole dal lessico caro a Franco Fortini – dei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso non di ribadire tesi e dogmi, ma di continuare tenacemente a porre, e a pormi, problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, e accettando invece l’apertura e la variabilità della gamma delle risposte cercate. E anche nel senso di rifiutare la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria: convincersi di “aver sbagliato” perché si è perduto rappresenta secondo me il residuo di una concezione teologica (il nemico è uno strumento divino per punirci delle nostre colpe). Qualche volta può essere così, ma più spesso l’avversario vince semplicemente perché è più forte sul terreno. E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale, da un lato, la nostra collocazione in un mondo, dall’altro (insomma, in lettere minuscole, il nostro destino).
Almeno in questo senso, la coerenza può forse risultare una virtù, e questa è stata la prima ragione che mi ha indotto ad accettare la proposta di raccogliere alcuni miei scritti in Scritti con la mano sinistra, appunto. Ovviamente nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (questa espressione non ha naturalmente a che fare con appartenenze di “tessera”, ma con una decisione di fondo, la scelta “da che parte stare”).
“A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. Un futuro comunista, anche: con la necessaria precisazione che per “comunismo” non intendo un’identità ereditata e conclusa, in qualche misura “anagrafica” o certificata da un’iscrizione, ma appunto un orizzonte di ricerca e di azione, una prospettiva di liberazione e di giustizia, che si situa all’intersezione fra la parzialità della “presa di partito” e l’universalità che appartiene ai valori. Un’utopia, forse, della quale non nego l’ascendenza platonica oltre che giacobina e marxiana, che tuttavia, se vuole essere presa sul serio, deve poter individuare i suoi vettori storici di realizzabilità, le sue condizioni di possibilità, i livelli concreti di attuazione parziale e approssimata.
È appena il caso di aggiungere che in questi scritti non devono venire cercati né la chiave di lettura né il senso “segreto” dei miei lavori professionali di ricerca nel campo della storia della filosofia antica. Come ogni indagine disciplinare e a suo modo “scientifica”, essi contengono in se stessi, cioè nella relazione interpretativa che istituiscono con i testi e gli autori, e negli strumenti di metodo dichiaratamente messi in opera, le condizioni per la propria validità, e presentano il proprio specifico ambito di significazione. Stabilita questa necessaria clausola di salvaguardia, sarebbe tuttavia ingenuo, e anche a mio avviso metodicamente erroneo, assumere una perfetta “neutralità” dell’osservatore di fronte ai suoi oggetti di indagine, o una totale immunità di questa indagine dalla posizione extra-scientifica dello studioso. Ingenuo, erroneo e dal mio punto di vista anche inammissibile: credo infatti che la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirino e sorveglino (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore.
Può darsi, dunque, che questi “scritti con la mano sinistra”, dichiarando esplicitamente la seconda senza riguardo per la finzione di “neutralità” del primo, contribuiscano a definire più chiaramente gli interessi intellettuali, i punti di vista da cui vengono formulate le domande di senso messe in questione nell’indagine storica. Anzi, l’esser consapevoli della propria parzialità può evitare di cadere in una tentazione, di commettere un errore storiografico in cui spesso si incorre, più o meno ingenuamente: quello di “piantare le proprie bandierine” sul campo di indagine, cioè di riconoscere nel passato “precursori” delle idee in cui si crede (che siano il comunismo o il socialismo o il liberalismo o il cristianesimo: quanto spesso Platone è stato arruolato sotto queste insegne?). Si tratta di un errore particolarmente funesto, perché lo studio del passato non serve allora a conoscere il passato stesso e per suo tramite a comprendere meglio noi stessi, bensì soltanto, narcisisticamente, a specchiarsi nel passato per riconoscervisi: il che non porta ad alcun incremento di comprensione né da una parte né dall’altra.
Questo libro è diviso in tre parti. La prima, Tra filosofia e politica, comprende scritti che discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Che cosa significa la “crisi della ragione” e delle sue pretese universalistiche, tematizzata nel dibattito filosofico dell’ultimo scorcio del Novecento, dal punto di vista dei conflitti sociali e valoriali? Qual è il rilievo dell’esaurimento teorico della filosofia storicistico-dialettica dello “sviluppo”, e la sfida che esso propone a un pensiero non evoluzionistico della rivoluzione come progetto di emancipazione? Quale autonomia e quale ruolo restano all’intellettuale, e in particolare al filosofo, di fronte al dominio dei poteri sociali di conformazione della soggettività? Infine: c’è ancora uno spazio possibile per una prospettiva etica come orizzonte di senso della politica? Intorno a queste domande insistenti si articola la riflessione sviluppata – certo in modo solo incoativo – in questo primo gruppo di scritti.
La seconda sezione si intitola, per contro, Tra politica e filosofia. Qui l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Un primo nodo problematico è costituito dalle condizioni di possibilità di una soggettività collettiva antagonista (il “partito dei comunisti”) nell’epoca del tardo-capitalismo in cui si è prodotto il progressivo logoramento delle grandi strutture di formazione di identità sociale (la fabbrica, il sindacato, l’esercito), in altre epoche capaci di esprimere una propria guida e rappresentanza politica. Emerge qui l’urgenza di pratiche collettive intese primariamente a “fare società”, cioè a creare legami sociali e progettualità collettive di cui la politica possa farsi interprete e strumento. E ancora una volta la questione dell’etica si profila come decisiva per costruire forme nuove di aggregazione sociale.
Un compito imprescindibile in questa prospettiva è quello di comprendere le ragioni della crisi dei modelli di Stato e di società storicamente sperimentati dal movimento operaio e dai suoi partiti nel corso nel Novecento, e in primo luogo delle forme del cosiddetto “socialismo reale”. Ma altrettanto importante è riflettere – al di fuori delle semplificazioni propagandistiche e delle deformazioni ideologiche – sui temi della guerra e della “violenza”, tanto nelle loro dimensioni antropologiche quanto nelle implicazioni politiche che vi sono connesse.
Infine, e soprattutto, c’è l’esigenza imprescindibile di immaginare un futuro possibile, come orientamento della prassi quotidiana e anche come presupposto di un recupero valoriale della tradizione, ai fini della ricostruzione di una soggettività progettuale, di una nuova presa di coscienza della storicità capace di uscire dalle secche del “pensiero unico” e dalla minaccia della “fine della storia”. Al pari della società, la storicità non è un dato di fatto che si possa considerare acquisito, ma un obiettivo da costruire, un compito da perseguire, insomma una possibilità che non è garantita ma deve venir prodotta nell’azione collettiva di comprensione e di trasformazione.
La terza sezione, Fra gli antichi e noi, torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche che si sono venute fin qui delineando. Da un lato si discutono le possibilità e i limiti di un impiego delle categorie marxiane per l’interpretazione delle forme sociali e culturali del mondo antico: si tratta ancor oggi di uno strumento euristico indispensabile, anche per rettificare vedute dell’antico ingenue o ideologiche che ne oscurino il carattere profondamente conflittuale; uno strumento che va però maneggiato con cautela metodica e consapevolezza critica, vista la differenza che intercorre fra il sistema sociale del capitalismo moderno, in cui quelle categorie si sono formate, e la struttura delle “forme economiche pre-capitalistiche” su cui ci interroghiamo. Dall’altro lato sono in questione importanti episodi di reinterpretazione dell’antico da parte del pensiero contemporaneo, come le recenti indagini di M. Foucault sull’etica e l’antropologia antiche, e la vicenda novecentesca delle interpretazioni del pensiero politico di Platone, con i suoi abusi ideologici. Questo stesso pensiero viene infine indagato in due direzioni: l’utopia della comunità “giusta”, da un lato, e la critica – non disgiunta da un’inquietante attrazione – per una forma di potere politico assoluto ed efficace quale fu rappresentata nel IV secolo dalla tirannide: il circolo in questo modo si chiude, perché l’utopia della comunità giusta e la prospettiva del potere tirannico come strumento di trasformazione sociale ci riportano prepotentemente a questioni centrali della riflessione politica contemporanea.
Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti. Che non aspirano davvero a fornire risposte, e neppure, in molti casi, a formulare le domande in modo filosoficamente adeguato. Ma che possono, forse, rivendicare a proprio merito lo sforzo di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno. Ma se sarà riuscito a riproporre, con la sua insistenza, un richiamo a questa responsabilità, a suscitare qualche consenso e naturalmente molti dissensi intorno al suo modo (certo controvertibile) di porre questioni e di condurre il ragionamento, questo piccolo libro non avrà del tutto deluso la fiducia di coloro cui si deve il progetto della sua realizzazione, e le speranze del suo autore.
Mario Vegetti, il sognatore che pensa, il pensatore che sogna.
Il 4 gennaio 2020 Mario Vegetti avrebbe compiuto 83 anni. Era nato il 4 gennaio del 1937 (tre giorni prima del suo amico Diego Lanza, con il quale condividerà, in una straordinaria amicizia filosofica, fondamentali percorsi di ricerca, fino a quando – dopo che Diego ci aveva lasciato il 7 marzo 2018 – anche Mario ci ha lasciato, quattro giorni dopo, l’11 marzo 2018. Vogliamo ricordare Mario con questo suo piccolo-grande scritto, la sua “Storia raccontata dal Saggio del Capitale“, in cui risuonano le note dell’Internazionale, un racconto da lui portato alla considerazione di Socrate, in questo “XI Libro” de La Repubblica di Platone, che immagina sia stato ritrovato nel 1937 in un convento dell’Armenia.
Mario Vegetti, sognatore che pensa e pensatore che sogna, ci ha insegnato che solo con una perseverante educazione umanistica l’uomo potrà realizzare la propria specifica “umanità”, e, con una strenua resistenza culturale, liberarsi da quella generica “animalità” che da secoli lo vincola ad una conflittuale sussistenza sociale, senza consegnare alle attuali modalità sociali la propria dignità, e più in generale la propria vita.
Associazione culturale Petite Plaisance
Una storia raccontata dal Saggio del Capitale
«Lo Straniero di Treviri: […] Questa è dunque la storia che mi è stata narrata da un vecchio profeta delle mie parti che là chiamavano il Saggio del Capitale.
“C’è un fantasma che si aggira per il mondo – il Fantasma del Comunismo. In molti hanno contribuito ad evocarlo – anche tu, Socrate – ma poi, spaventati dalla sua forza e dal suo aspetto terribile, si sono fermati a metà strada e hanno cercato di farlo nuovamente sparire con i loro falsi esorcismi. Ma una volta ridestato l’immenso fantasma non fermerà mai più il suo cammino. Talvolta agisce in piena luce, e il mondo conosce allora epoche grandi e tremende. Spesso invece lavora in segreto e in silenzio, e come una talpa erode sottoterra le fondamenta dell’ingiustizia. Esso combatte contro i mostri che dominano la nostra storia: vampiri che si alimentano del lavoro vivo di chi opera nei campi e nelle officine, orrendi feticci impastati di merce e di denaro. La sua bandiera è rossa e un giorno tutti gli sfruttati e gli oppressi del mondo si riuniranno sotto di essa, spezzeranno le loro catene e avanzeranno verso un nuovo sole che sorgerà sulle tenebre della storia. Allora non vi saranno più padroni e schiavi nobili e plebei, borghesi e proletari, ricchi e poveri, non vi saranno più stati e nazioni, imperi e colonie, e non vi saranno più guerre fra i popoli, riuniti finalmente in un’internazionale che sarà l’inizio della futura umanità. Tutti saranno liberi, uguali e fratelli tra loro. La vita tornerà ad essere davvero umana: non se ne dovrà più cedere ad alcuno il tempo in cambio dei mezzi di sussistenza, l’uomo tornerà al centro del mondo e non dovrà più ricorrere, per consolarsi, alle fole della religione e dell’aldilà. Chi lo vorrà, e quando lo vorrà, potrà essere filosofo e pescatore, politico e artigiano, artista e contadino. Fioriranno le arti e le scienze, non più poste al servizio del potere e della ricchezza. Le macchine libereranno gli uomini dalla fatica del lavoro necessario, la natura, non più sfruttata per arricchire i pochi che possiedono le terre, le acque, i cieli, tornerà a donare ad ognuno i suoi frutti copiosi, come diceva anche, credo, un vostro vecchio poeta. Non esisteranno più Stati né governi né eserciti né polizie, perché tutti vivranno liberi e autonomi, secondo giustizia. Il Fantasma avrà così compiuto la sua opera secolare, e il genere umano sarà finalmente liberato dai mali e dalle sciagure che l’hanno afflitto nel corso dei tempi. Ma non prima di allora”.
Lo Straniero di Treviri: Io non so, Socrate, se questa storia potrà un giorno avverarsi. Ma di una cosa sono convinto: o la profezia del Saggio derl Capitale verrà realizzata, oppure il mondo precipiterà in una barbarie ancora peggiore di quella che conosciamo, in una notte di distruzione e di morte che neppure, forse, riusciamo ad immaginare.
Trasimaco Ma per il Cane, eccone un altro che si mette a raccontarci le storie dei fantasmi, come se non ci bastassero quelle di Socrate. Care le mie nonnette, sappiate che siamo ormai adulti, e la verità non ci fa paura. E la verità, ma ormai mi sono stancato di ripetervelo, è che non ci sono né dèi né uomini, diavoli o fantasmi che tengano: chi è forte comanda, chi è debole subisce. E si consola con i sogni della giustizia in questo o nell’altro mondo.
Socrate Trasimaco, ti ripeti davvero in un modo un po’ monotono. Su una cosa però io e lo Straniero qui siamo d’accordo: occorre ed è ogni giorno più urgente una straordinaria mutazione del corso del mondo, perché la barbarie è davvero alle porte, e l’ingiustizia di cui ora soffriamo non è più tollerabile per il genere umano.. Ben venga il tuo fantasma, Straniero, se potrà aiutarci in questo mutamento. Quanto a te, Trasimaco, forse un giorno potrai tu stesso allearti con noi, se il tuo personale spettro – intendo l’ossessione del potere – potrà servire come uno strumento utile a fornirci la forza per cambiare l’inerzia dei tempi. Io però ora, cari compagni, sono stanco: lascio ad altri il compito di raccogliere la bandiera che la vecchiezza e la sorte che mi attende, mi costringono a lasciar cadere a terra, su queste polverose strade del Pireo.
Lo Straniero di Treviri: Ripresi allora finalmente (era ormai giorno fatto) la salita che mi conduceva in città. Gli altri, credo, continuarono a far onore al buon vino di Cefalo».
Mario Vegetti, Platone, Repubblica, Libro XI – Lettera agli amici d’Italia, Guida-Falsi originali, 2018, pp. 31-33.
Questo volume presenta due testi inediti di Platone, a lungo dimenticati poiché considerati apocrifi: il libro XI (nonché ultimo) della Repubblica, e la Lettera XIV agli amici d’Italia sulla giustizia. Entrambi i testi suscitano uno straordinario interesse perché documentano una svolta imprevista nel pensiero del grande filosofo: l’incontro di Socrate con l’enigmatica figura dello “straniero di Treviri”, nel quale è forse possibile riconoscere un antico precursore di Karl Marx. Questo incontro è drammaticamente descritto nel libro XI della Repubblica. La Lettera invece documenta un episodio della storia d’Italia finora sconosciuto: un piccolo avventuriero, demagogo spregiatore della giustizia, esercita la tirannide con l’appoggio di alcune selvagge tribù di barbari del Nord. Entrambi gli scritti platonici sono accompagnati da ampi commenti critici e filologici.
Enrico Berti – Luciano Canfora – Bruno Centrone Franco Ferrari – Francesco Fronterotta – Silvia Gastaldi
Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività. La selezione dei saggi qui pubblicati è stata realizzata dall’Autore negli ultimi mesi della sua vita. A causa della sua morte, avvenuta il giorno 11 marzo 2018, l’Autore non ha potuto rivedere le bozze.
Questo libro, cui l’Autore teneva tanto, ci consente di mantenere vivo il ricordo anche di questa parte della sua opera; ecco dunque il motivo per cui siamo lieti, insieme alla sua famiglia, di offrire ai lettori, soprattutto a quelli più giovani, la presente raccolta. Per la quale, innanzitutto, dobbiamo ringraziare Mario.
I saggi raccolti in questo volume ripercorrono gli ultimi cinquant’anni di ricerca ippocratica. Gli entusiasmi iniziali, ben motivati dalla “scoperta” di un grande territorio del sapere scientifico fino ad allora relativamente inesplorato, dei suoi metodi e della sua efficacia terapeutica, hanno via via ceduto in parte il campo a un più equilibrato atteggiamento critico-storico. Nel suo insieme, una lettura di questi testi può continuare ad offrire un panorama intellettuale utile a comprendere le coordinate metodiche e sociali che hanno consentito la comparsa di uno dei fenomeni più rilevanti dell’antica tradizione scientifica dell’Occidente. I saggi sono disposti in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni al volume ippocratico (1964 e 1973) che sono poste al termine per il loro carattere riassuntivo.
«La stagione culturale cui appartiene Il coltello e lo stilo va certo messa in contesto ma non può venire rimossa né esser soggetta ad alcuna damnatio memoriae; può anzi darsi che essa continui a restarci indispensabile, tanto sul piano intellettuale quanto appunto su quello dell’ethos».
Mario Vegetti
Premessa alla nuova edizione del 2018
Il coltello e lo stilo fu pubblicato nella primavera del 1979. Fin dalla sua comparsa, suscitò un vivace interesse, non solo, e non tanto, fra gli specialisti di antichistica, quanto presso un pubblico composito di lettori che frequentavano i territori che allora si chiamavano “cultura critica”: epistemologia, antropologia, psicoanalisi, ed eventualmente movimenti come quello femminista e animalista. Ne uscirono naturalmente diverse interpretazioni del senso e degli intenti del libro (dalla critica irrazionalistica ai fondamenti “violenti” della scienza, a una rivisitazione moderata di Foucault). Nell’introduzione all’edizione del 1996, riprodotta in questo volume, ho tentato di delineare le coordinate culturali entro le quali Il coltello e lo stilo era stato concepito, e di indicare un punto di vista d’autore sulla collocazione del libro. Ha fatto però bene l’editore a ristampare qui la prima edizione, quella del 1979. Da un lato, questo restituisce ai primi lettori la possibilità di un rinnovato incontro con il testo; dall’altro, e soprattutto, consente a nuovi lettori l’accesso alla forma originale del libro ormai da gran tempo esaurita. Non è immotivato pensare che questa ristampa possa apparire a qualcuno come una riscoperta, e ridestare almeno in parte l’interesse e la discussione così vivaci tanti anni or sono. Se così fosse, potremmo augurare “bentornato” al Coltello e lo stilo.
L’Edipo re di Sofocle e gli Elementi di Euclide costituiscono in un certo senso i confini entro i quali si svolge il percorso della razionalità antica. La tragedia del V secolo è anche un conflitto drammatico di saperi: quello profano e indagatore di Edipo, quelli sacri di Apollo e Tiresia, quello critico e sfuggente di Giocasta. All’opposto, il trattato euclideo propone l’idea di una scienza pacificata, senza conflitti e soggettività, tutta affidata al potere della dimostrazione. Tra questi limiti, il libro indaga una costellazione di forme del sapere antico, con i loro valori antropologici: dalle metafore politiche della medicina ippocratica a un oggetto scientificamente disturbante come la scimmia, dal problema del bambino cattivo nell’antropologia stoica alla zoologia immaginaria di Plinio. Il confronto tra l’idealismo di Galeno e la sfida materialistica proposta dalla medicina metodica, e l’indagine sugli stili epistemologici della scienza ellenistica concludono i saggi raccolti nel volume.
Paola Manuli – Mario Vegetti
Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico. In Appendice: Galeno e l’antropologia platonica.
La questione del ruolo da assegnare nell’organismo al cuore, al sangue e al cervello, e in particolare di stabilire a quale, o quali, di essi tocchi il rango di principio egemone, la signoria nell’organismo stesso, sta al centro di una delle vicende più tormentate della storia della biologia greca. Il suo interesse va oltre quello della genesi di una teoria biologica, l’encefalocentrismo, che pure avrebbe consegnato al sapere occidentale tutta una serie di certezze durevoli e di importanza fondamentale. Questa vicenda è un caso tipico, metodologicamente esemplare delle questioni connesse alla storia della scienza antica, e più in generale alle fasi di gestazione di una teoria scientifica: in essa elementi e vettori exstrascientifici si compongono in un intreccio indissolubile con i “dati” positivi e pilotano la stessa costruzione della teoria. Qui ogni decisione presa all’interno del discorso biologico circa il “principio” dell’organismo interagisce con le esigenze di una psicologia e di una antropologia le quali, di norma, si costruiscono al di fuori di quel discorso, e in ogni caso rappresentano istanze ideologiche molto più generali, concezioni complessive sull’uomo, sulla società, sul mondo.
Questi testi si caratterizzano per la loro coerenza, nei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso di continuare tenacemente a porre problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, rifiutando la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria. E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale e la nostra collocazione. Scritti con la mano sinistra, appunto. Nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (la scelta “da che parte stare”). “A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. E la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirano e sorvegliano (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore. Il libro è diviso in tre parti. Nella prima, Tra filosofia e politica, si discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Nella seconda, Tra politica e filosofia, l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Nella terza, Tra gli antichi e noi, si torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche delineate. Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti, nell’intento di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno.
Aristotele è senza dubbio il filosofo antico più utilizzato dai teologi cristiani e musulmani come base filosofica per la loro visione monoteistica della realtà. I cristiani dapprima privilegiarono Platone e il neoplatonismo – si veda il caso notissimo di Agostino –, ma poi, al seguito dei musulmani, che avevano fatto di Aristotele una specie di secondo Maometto, ne fecero anch’essi “il Filosofo” per eccellenza (per esempio Tommaso d’Aquino) e «il maestro di color che sanno» (Dante). È noto che, secondo una tradizione araba, Aristotele sarebbe apparso in sogno al califfo al-Mamun e gli avrebbe detto: «Il tuo dovere è dichiarare l’unicità di Dio», cioè precisamente la verità fondamentale dell’Islam. I musulmani videro infatti nel primo motore immobile, di cui Aristotele dimostra la necessità nel libro XII della Metafisica, l’unico Dio, creatore e signore del cielo e della terra, e quindi interpretarono questo libro come una specie di teologia, seguendo del resto in questo i commentatori greci tardo-antichi. A dire il vero essi dovettero trovare un po’ scarse le indicazioni teologiche fornite da Aristotele nel libro in questione, perché pensarono di confezionare un’opera intitolata Teologia di Aristotele, desumendone il contenuto dalle opere ben più ricche, in questo senso, di Plotino. E i cristiani furono tratti in inganno da questo falso, confermandosi nell’idea che Aristotele fosse il creatore della teologia naturale, o razionale. Dante, da sommo poeta qual era, riuscì a presentare il Motore immobile, che «muove in quanto amato», come «l’Amor che move il sole e l’altre stelle». Naturalmente le differenze tra il primo motore immobile di Aristotele e il Dio della Bibbia, concordemente adorato da cristiani e musulmani, erano sotto gli occhi di tutti: ma esse divennero un pretesto per attaccare Aristotele, accusato di avere professato un concetto di Dio troppo astratto, meccanico, impersonale, egoista (il mio professore di filosofia antica, Carlo Diano, parlava con scherno del Dio di Aristotele «che si guarda la pancia»). In tale opera di denigrazione si scatenò una nobile gara fra cristiani e musulmani, che toccò i suoi vertici in campo musulmano col teologo al-Gazali, nemico dei filosofi aristotelizzanti, e in campo cristiano con Lutero, noto per avere ricoperto il povero Aristotele degli insulti più feroci (ma già Petrarca si era lasciato un po’ andare). Ancora oggi i musulmani e i cristiani integralisti non possono soffrire il “Motore immoto” di Aristotele, dichiarando che tale espressione fa pensare a un autocarro in panne e opponendogli, con Pascal, «il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo». Solo da pochi anni studiosi benemeriti hanno ristabilito la verità storica, mostrando che Aristotele non voleva affatto essere un teologo, che per lui la “teologia” non era una disciplina filosofica, ma l’insieme dei miti sugli dèi narrati dai poeti, e che gli dèi per lui erano semplicemente dei «viventi immortali e felici», i quali si distinguono dagli uomini perché questi sono, al contrario, mortali e infelici. Esemplare è stato in questo senso il libro di Richard Bodéüs, Aristote et la théologie des vivants immortels (Montréal 1992). A risultati analoghi sono giunti i contributi pubblicati nel volume della rivista «Humanitas» (4/2005) sotto il titolo Dio e il divino nella filosofia greca, a cura di Maurizio Migliori e Arianna Fermani, ma soprattutto il bel libro di Barbara Botter, Dio e Divino in Aristotele, uscito nella collana “Intemalional Aristotle Studies”, diretta da Carlo Natali (Academia Verlag 2005). Quest’ultimo dimostra infatti con argomenti convincenti che in Aristotele e nei filosofi “pagani” in generale il termine “dio” è usato non come nome proprio, e nemmeno prevalentemente come sostantivo, bensì come attributo, o predicato, avente la funzione di indicare un grado di eccellenza in una scala ordinata di enti. Esso pertanto può essere attribuito agli dèi della religione tradizionale, ma anche agli astri, al mondo stesso nel suo insieme, all’intelletto umano, e anche al primo motore immobile. Ma in nessun caso dovrebbe essere scritto con l’iniziale maiuscola e senza articolo, come se fosse un nome proprio, bensì sempre con la minuscola e l’articolo, cioè “il dio”, come diciamo “l’uomo” o “il cavallo”. Ovviamente in un contesto monoteistico si scriverà “Dio” senza articolo. Se questa regola venisse seguita più in generale, si eviterebbe l’uso fastidioso di scrivere la parola con la maiuscola o la minuscola per mostrare che si crede o non si crede in Dio. Una conferma a queste ricerche viene anche dalla pubblicazione, per la prima volta in traduzione italiana, di un’opera nota solo agli specialisti, le Divisioni, tramandate come opera di Aristotele da alcuni manoscritti e, in versione un po’ diversa, da Diogene Laerzio, a cura di Cristina Rossitto, che ne ha fornito anche un’ampia introduzione e un accurato commento (Bompiani 2005). Quest’opera è emblematica dell’uso che la tarda antichità fece di Aristotele. È molto probabile, infatti, che essa risalga, nel suo nucleo fondamentale, proprio ad Aristotele, come hanno sostenuto anche W.D. Ross e O. Gigon, anzi all’Aristotele giovane, ancora membro dell’Accademia platonica, come ipotizza Rossitto. Ma non c’è dubbio che vi hanno messo le mani anche altri autori, cristiani o comunque teisti, come risulta inequivocabilmente da alcuni passi. In essa si parla infatti degli dèi come di viventi immortali, a cui sono dovuti onori e pratiche di culto e ai quali appartengono beni specifici, quali l’eternità, e beni comuni anche agli uomini, quali l’eccellenza e la bellezza, ma non altri beni puramente umani quali la temperanza, il coraggio e la giustizia. In un passo di essa, tuttavia, come esempio di viventi immortali vengono citati non gli dèi, bensì gli angeli, specie in tale veste del tutto sconosciuta ad Aristotele, ma ben nota ai seguaci della Bibbia, che non potevano ammettere l’esistenza di una molteplicità di dèi.
Enrico Berti, Nuovi studi dimostrano che Aristotele non era un teologo, pubblicato in: Domenicale de Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2006, p. 16.
Migliori e A. Fermani (a cura di), «Dio e il divino nella filosofla greca», “Humanitas”, LX (2005), n. 4. pp. 658-920.
B. Botter, «Dio e Divino in Aristotele», Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, pp. 306.
Aristotele ed altri autori, «Divisioni», a cura di C. Rossitto, Bompiani, Milano 2005, pp. 526.
«Platone – […] la ricchezza non ha nulla a che fare col bene della città. Mi sembra di avere portato argomenti abbastanza chiari a questo proposito nella Repubblica» (p. 20).
«Aristotele – Le elargizioni di denaro fatte per sedurre la moltitudine sono l’uso peggiore che si può fare della ricchezza. Esse producono infatti nei cittadini un piacere di breve durata e non portano alcun contributo permanente al bene comune […]» (p. 25).
«Aristotele – […] la sazietà, come dice il proverbio, genera prepotenza, mentre la mancanza di cultura, accompagnata da molti mezzi, genera stoltezza. In effetti, per coloro che sono di poco valore nelle cose che riguardano l’anima, né la ricchezza, né la forza, né la bellezza sono dei beni […]» (p. 55).
«Aristotele – Bisogna poi precisare che l’avarizia non consiste solo nello spendere troppo poco, ma anche nel desiderare troppo il denaro, nell’anteporre la ricchezza a qualunque altra cosa, nell’impegnare tutta la propria vita nell’unica attività del far soldi. Intesa in questo senso, l’avarizia, o meglio l’avidità di denaro, è oggi il vizio forse più diffuso» (p. 61).
«Aristotele – […] I bisogni umani, per natura, sono limitati, come risulta dal fatto che uno non può mangiare più di tanto, […] eccetera. Ora, l’arte di procurarsi i beni necessari a soddisfare questi bisogni è un’arte secondo natura, cioè giusta, buona, morale. Se invece uno vuole procurarsi una quantità di beni illimitata, va contro la stessa natura dell’uomo, e la sua arte sarà un’arte contro natura, cioè ingiusta, immorale. Teofrasto – Ma come è nata, Aristotele, quest’arte contro natura e immorale che chiamiamo crematistica? Aristotele – Essa è nata da un fatto del tutto naturale, cioè lo scambio dei beni. Poiché non tutti sono in grado di fare tutto, come spiega bene Platone nella Repubblica, gli uomini che abitano la città si distribuiscono i compiti, e l’uno fa il contadino, l’altro fa il calzolaio, il terzo fa il sarto, e così via. Ciascuno di questi produce un bene, o un servizio, in misura superiore a quella di cui ha bisogno per la sua famiglia, mentre non produce altri beni di cui pure ha bisogno. Nasce così la necessità di scambiarsi le merci: chi produce un certo bene in eccesso, ne dà una parte a chi non lo produce ma ne ha bisogno, per avere in cambio da lui ciò di cui ha bisogno lui e che l’altro produce in eccesso. Questo fa sì che ogni bene prodotto abbia, per così dire, due valori, un valore d’uso, che è quello per cui viene usato, e un valore di scambio, che è quello per cui viene scambiato. Un tale scambio è del tutto naturale, quindi è giusto e morale. Teofrasto – E come accade che da questo scambio naturale e giusto nasca la crematistica contro natura e immorale? Aristotele – Per comprenderlo, bisogna fare attenzione al mezzo di cui gli uomini si servono per facilitare lo scambio, cioè il denaro, la moneta. Questa infatti è un oggetto equivalente a qualunque possibile merce, perciò può essere usata al posto di qualsiasi merce, quando la merce non sia disponibile. Supponiamo che io abbia bisogno di un paio di scarpe, il cui valore è pari a quello di un sacco di grano, mentre il fabbricante di scarpe ha bisogno del grano. In luogo di questo io darò al fabbricante di scarpe una quantità di denaro pari al valore delle scarpe, e anche del sacco di grano, col quale egli potrà procurarsi il grano da chi lo produce. Questo è l’uso naturale, e quindi giusto, del denaro. Se io, invece, non ho bisogno di scarpe, ma le acquisto ugualmente pagando una certa quantità di denaro, allo scopo di rivenderle in cambio di una quantità di denaro maggiore, allora il fine dello scambio non sarà più quello di soddisfare un mio bisogno, ma sarà semplicemente quello di procurarmi una quantità maggiore di denaro. In questo caso lo scambio non sarà più naturale, ma sarà contro natura. La crematistica nasce quando, in luogo di scambiare merce con denaro, per ottenere altra merce, si scambia denaro con merce per ottenere altro denaro. Io mi sono spiegato con un esempio molto banale. Ma se tu moltiplichi questo tipo di scambi in quantità smisurata, vedi che nasce un’attività ugualmente smisurata, consistente nel cercare di procurarsi denaro all’infinito. In questo modo la ricchezza, costituita dal denaro, non è più il mezzo necessario a soddisfare i bisogni propri o della propria famiglia, ma diventa essa il fine, e questo è innaturale, quindi ingiusto e immorale. La cosa è ancora più evidente nella pratica dell’usura, dove non si scambia denaro con merce, ma denaro con denaro, cioè si presta denaro in una certa quantità per ottenerne, dopo qualche tempo, altro denaro in quantità maggiore. In tal caso il denaro serve a produrre altro denaro e quindi l’usura diventa l’emblema della crematistica smisurata» (pp. 64-67).
«Aristotele – […] Vorrei una città che conservi al suo interno […] l’uguaglianza tra i suoi cittadini, la libertà di discutere e decidere tutti insieme sulle cose da farsi, la divisione dei poteri, la giustizia, l’aspirazione alla pace. Una città […] in cui la preoccupazione più importante dei cittadini non sia quella di procurarsi le ricchezze, ma quella di vivere bene, cioè di essere felici, realizzando tutte le proprie capacità, non solo fisiche, ma anche spirituali, per mezzo dell’educazione, dell’arte, della scienza, della filosofia». Platone – È proprio bello questo che tu dici, Aristotele! Speriamo che un giorno si avveri. Vedo però che anche tu ti abbandoni alle utopie, come hai rimproverato me di fare. In realtà un po’ di utopismo è sempre necessario, altrimenti ci si rassegna alla realtà esistente e non si cerca più di migliorarla» (pp. 89-89).
***
Enrico Berti, Aristotele. Ebulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Falsi Originali [Collana diretta di Giovanni Casertano], Guida Editori, Napoli 20129.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [109]. In copertina: Statua in bronzo di Aristotele, ingresso della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, Germania. In quarta di copertina: Paul Klee, Die Zeit, 1933.
Questo volume raccoglie alcuni fra i principali studi di Enrico Berti su Martin Heidegger. Il filosofo tedesco è stato infatti una presenza costante negli studi composti in questi decenni dallo studioso padovano, sovente in rapporto al pensiero di Aristotele. Con il suo consueto approccio “classico”, in questi saggi Berti non si limita a descrivere, ma valuta, ossia prende posizione, anche critica, nei confronti di colui che pure definisce come il maggiore pensatore del XX secolo.
Indice
Introduzione
Il nichilismo dell’Occidente secondo Nietzsche, Heidegger e Severino
L’influenza di Heidegger sulla «riabilitazione della filosofia pratica» Gadamer, o della «phronesis» Ritter, ovvero dell’«ethos» Hannah Arendt, o della «praxis»
Heideggers Auseinandersetzung mit dem
Platonisch-Aristotelischen Wahrheitsverständnis Aristoteles Platon Abschluß
Heidegger and the Platonic Concept of Truth
Le passioni tra Heidegger e Aristotele Appendice
Heidegger e il libro Epsilon della Metafisica di Aristotele Prologo Prime citazioni di Aristotele (Friburgo, 1921-1923) Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): l’essere come verità Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): essere ed ente Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo (1929): di nuovo l’essere come vero Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo: la metafisica come «ontologia» Conclusione
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Qui di seguito sono riportati i riferimenti bibliografici relativi ai saggi raccolti nel presente volume.
I In tema di dialettica
Come argomentano gli ermeneutici? “Filosofia ‘91”, a cura di G. Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 13-32. La complessità della ragione “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 154, gennaio-aprile 1995, pp. 27-40. Logo e dialogo “Studia Patavina”, 42, 1995, pp. 31-42. La dialettica antica come modello di ragionevolezza “Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica”, 7, 2002, pp. 17-28. Il principio di non contraddizione: storia e significato P. Bria e F. Oneroso (a cura), Bilogica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 22-32.
II In tema di metafisica
Per una metafisica problematica e dialettica “Acta philosophica”, 1, 1992, pp. 176-190 (anche in “Per la filosofia”, 9, 1992, pp. 3-15). La via “dinamico-noologica” alla trascendenza divina in S. Biolo (a cura), Trascendenza divina. Itinerari filosofici, Contributi al XLVIII Convegno del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, aprile 1993, Torino, Rosenberg & Sellier, 1995, pp. 57-71. La prospettiva metafisica tra analitici ed ermeneutici “Seconda navigazione – Annuario di filosofia 2000”, Milano, Mondadori, 2000, pp. 45-62. Quale metafisica per il terzo millennio? in Proceedings of the Metaphysics for the Third Millennium Conference (Rome, September 5-8, 2000), Editorial de la Universidad Tecnica Particular de Loja (Equador), 2001, vol. I, pp. 29-44. Una metafisica (espistemologicamente) “debole” “Annuario Filosofico”, 16, 2000, Milano, Mursia, 2001, pp. 27-41. Metafisica debole? in Quale metafisica?, “Hermeneutica”, n. s., 2005, pp. 39-52. Dialogo su Aristotele in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi (a cura), Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 75-90.
III In tema di filosofia pratica Sostanza e individuazione in AA. VV., La tecnica, la vita, i dilemmi dell’azione (“Seconda navigazione – Annuario di filosofia 1998”), Milano, Mondadori, 1998, pp. 143-160. Dal personalismo all’identità personale in A. Bottani e N. Vassallo (a cura), Identità personale. Un dibattito aperto, Napoli, Loffredo, 2001, pp. 65-78). Persona, scienza e tecnica in G. Galeazzi e B. M. Ventura (a cura), Filosofia e scienza nella società tecnologica, Milano, F. Angeli , 2004, pp. 171-183. L’idea di bene comune tra “destra” e “sinistra” in E. Berti e S. Veca, La politica e l’amicizia, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, pp 35-62. Prudenza in “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. 159, settembre-dicembre 1966, pp. 15-24. Attualità dei diritti umani “Ars Interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 6, 2001, pp. 79-91. Pratiche filosofiche e filosofia pratica “Ars interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 10, 2005, pp. 313-328.
IV Appendice Autoritratto “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 176, maggio-agosto 2002, pp. 9-12. Pensare con la propria testa? “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 192, maggio agosto 2004, pp. 76-88. Aristotele nel Novecento “Scuola e Cultura”, 3, 2005, pp. 22-27
Luca Grecchi
Il pensiero filosofico di Enrico Berti
Petite Plaisance, 2013
ISBN 978-88-7588-110-8, 2013, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [51].
In questo libro è sintetizzata l’opera filosofica di uno dei maggiori pensatori italiani contemporanei, Enrico Berti. Teorizzatore della metafisica classica, studioso di Aristotele, storico della filosofia, Berti ha proposto, in oltre 50 anni di attività culturale ed accademica, soluzioni di grande originalità e valore non solo su temi filosofici, ma anche su temi etici, politici, educativi. La monografia, impreziosita da un saggio finale dello stesso Berti, si pone come una prima introduzione complessiva al suo pensiero.
Indice
Presentazione di Carmelo Vigna
Introduzione
I. Biografia II. L’interpretazione degli antichi e di Aristotele III. La storia della filosofia IV. L’etica e la filosofia pratica V. La politica VI. L’approccio classico alla educazione VII. Religione VIII. La metafisica IX. La critica
Postfazione Enrico Berti A proposito della critica
Principali pubblicazioni di Enrico Berti Volumi Curatele Principali articoli
La filosofia del primo Aristotele (Univ. di Padova. Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. XXXVIII), 1962.
La filosofia del primo Aristotele, Cedam, 1962.
Il “De re publica” di Cicerone e il pensiero politico classico, Padova, Cedam, 1963.
L’unità del sapere in Aristotele, Cedam, 1965.
Studi aristotelici, Japadre, 1975.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, 1977
Profilo di Aristotele, Studium, 1979.
I percorsi della filosofia, vol. I. Il pensiero antico e medioevale (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
I percorsi della filosofia. Il pensiero moderno e contemporaneo (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
Profilo di Aristotele, Nuova Universale Studium, 1985.
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, 1987.
Il pensiero d’Occidente. Pagine e testimonianze (con Sergio Moravi), Le Monnier, 1987.
Le vie della ragione, il Mulino, 1987.
Le ragioni di Aristotele, Laterza, 1989.
Storia della filosofia. Antichità e medioevo, Laterza, 1991.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 1992.
Persona e personalismo (con Georges Cottier e Giannino Piana), Gregoriana Editrice, 1992.
Etica, cultura e partecipazione politica (con Alberto Monticone), AVE, 1993
Il volume riflette l’esigenza di un approfondimento dei rapporti che intercorrono tra etica, cultura e partecipazione politica. Nel volume si delineano alcuni caratteri fondamentali della nostra vita civile: il sistema democratico, la concezione personalista e solidaristica quale fondamento della convivenza civile e dell’organizzazione sociale e politica del nostro Paese, la possibilità per le culture di ispirazione cristiana e per il movimento cattolico di dare un proprio contributo all’evoluzione della vita sociale e politica. L’impegno dell’Azione Cattolica resta quello per la formazione di un laicato adulto nella fede, capace di servizio e testimonianza in ogni ambito della propria vita ma anche quello di promuovere quotidianamente una cultura radicata nei valori del Regno e nei principi della centralità della persona umana e del bene comune.
Introduzione alla metafisica, Utet-Libreria, 1993.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Edizioni Diabasis, 1993.
Aristotele, Il libro primo della «Metafisica» (a cura di E. Berti e C. Rossiitto), Laterza, 1995.
Aristotele, Laterza, 1997.
Rifacendosi in particolare ad un’analisi diretta della Politica e dell’Etica Nicomachea, i cui testi sono ampiamente antologizzati, e confrontandosi con il dibattito critico più recente, Berti illustra tutti i temi fondamentali del pensiero politico aristotelico, come ad es. il concetto di polis, o la vagheggiata «città felice». Né manca un’analisi in parallelo con le teorie di Platone. A differenza di altri studi pubblicati in Italia sul pensiero politico di Aristotele, che hanno un carattere parziale o un’impronta ideologica, il saggio introduttivo di Berti si distingue anche per la capacità di stabilire un dialogo continuo tra esso e il pensiero politico moderno e soprattutto contemporaneo.
Aristóteles no século XX, trad. D. Davi Macedo, São Paulo, Brasil, Edi. Loyola, 1997.
La filosofia del “primo” Aristotele, Vita e Pensiero, 1997.
As razões de Aristóteles, Ed. Loyola, 1998.
Esta obra configura uma intervenção autorizada no atual debate sobre o pensamento débil e a crise da razão, por sua capacidade de relacionar aos temas da filosofia contemporânea a aguda análise de um momento culminante na história da filosofia: o pensamento de Aristóteles.
La politica e l’amicizia (con Salvatore Veca), Edizioni Lavoro, 1998.
La politica e l’amicizia sembrano essere distanti l’una dall’altra: mentre la politica si orienta verso una condivisione più ampia possibile, l’amicizia evoca prospettive più intime, private, e dunque escludenti. Enrico Berti e Salvatore Veca intendono guidare, da angolature differenti, una riflessione sulla possibilità di un incontro fra politica e amicizia.
Novos estudos aristotélicosI – Epistemologia, lógica e dialética, 1999.
Nesta obra, encontram-se ensaios sobre a contradição, a dialética e a argumentação na obra do Estagirita, além de estudos sobre a dialética em Zenão, em Górgias e em Platão, com o objetivo de evidenciar a contribuição que deram à formação do pensamento de Aristóteles.
La navicella della metafisica. Dibattito sul nichilismo e la “Terza navigazione” (con altri), Armando editore, 2000.
Marino Gentile nella filosofia del Novecento, EDS, 2003.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi, Bompiani, 2004.
Quest’opera, pubblicata originariamente nel 1977, è uno dei più importanti lavori di Berti. Essa si può considerare sia uno studio introduttivo ad Aristotele, di cui si passano in rassegna la vita, le opere, l’ambiente accademico e l’insegnamento, ma anche e soprattutto un saggio teoretico sulle costanti del pensiero metafisico: le idee, le categorie, i princìpi primi, le quattro cause, l’essere e il divenire. Il volume è arricchito da una serie di saggi dell’autore che completano il quadro della “filosofia prima” di Aristotele.
Aristotele. Eubulo o della richezza. Dialogo perduto contro i governanti ricchi, Guida, 2004.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Filosofia pratica, Guida, 2004.
L’espressione “filosofia pratica” compare per la prima volta in Aristotele e in contrapposizione a quella teoretica: mentre quest’ultima ha per fine la verità ossia la conoscenza di come e di perché le cose stanno in un certo modo, la filosofia pratica ha per fine l’opera, cioè mira a conoscere e a rendere possibile un certo tipo di azione, in particolare l’azione buona e quindi tende a rendere migliore colui che agisce. Quindi il fine, lo scopo della filosofia pratica è il tentativo di raggiungere la perfezione dell’uomo stesso.
Nuovi studi aristotelici, vol. 1: Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, 2004.
Il volume è il primo di un’opera che raccoglierà in quattro volumi l’insieme degli scritti di uno fra i maggiori specialisti della logica e della dialettica di Aristotele.
Aristotele. Il primo libro della «Metafisica» (con C. Rossitto), Laterza, 2005.
Nuovi studi aristotelici. 2 – Fisica, antropologia e metafisica, Morcelliana, 2005.
Il secondo volume degli studi aristotelici, dedicato a metafisica, fisica e antropologia, scritto dal maggior specialista italiano di Aristotele. Un libro che è una vera e propria introduzione alla “Metafisica” di Aristotele. L’Autore insegna storia della filosofia all’Università di Padova.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Diabasis, 2005.
Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, 2006.
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2006.
Aristotele e l’ontologia(con Bruno centrone e Paolo Fait), Alboversorio, 2007.
Le tesi di Aristotele rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di ontologia. Da lui, infatti, derivano gran parte dei termini ancora oggi utilizzati e dei problemi su cui non si è mai smesso di discutere. Questo libro permette, al lettore interessato, di avvicinarsi ad alcune prospettive contemporanee sull’argomento espresse da alcuni dei maggiori studiosi italiani.
Introduzione alla metafisica, Utet università, 2007.
Storia della filosofia. Dalla’antichità ad oggi. Con materiali per il docente. Ediz. compatta. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Franco Volpi), Laterza, 2007.
Antologia di filosofia. Dall’antichità ad oggi. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Cristina Rossitto e Franco Volpi), Laterza, 2008.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 2008.
La filosofia di Aristotele è un caso forse unico, nella storia, di “sistema aperto”, cioè di filosofia che è un vero sistema, dotato di una grande differenziazione interna, ma anche di una certa unità; ed è anche un sistema aperto, suscettibile di continue integrazioni, anzi di molteplici usi, data la sua grande versatilità, attestata da una fortuna tra le più longeve che mai si siano date e da una presenza massiccia nella stessa filosofia del Novecento. A essa si possono attingere concetti, categorie, distinzioni, dottrine, adoperabili per gli usi più svariati, nelle più diverse direzioni, sia filosofiche che scientifiche, sia teoretiche, cioè logico-metafisiche, che pratiche, cioè etico-politiche, per non parlare degli usi a fini poetici e retorici. Ma questi concetti, distinzioni, dottrine funzionano, cioè rispondono allo scopo per cui vengono impiegati, solo se sono utilizzati nel rispetto del loro significato originario. Si tratta di una coerenza non rigida, ma elastica, di una logica non monolitica, ma articolata e duttile, Dall’esistenzialismo di Heidegger alla filosofia pratica di Gadamer, dalla “nuova retorica” di Perelman e Toulmin alla nuova scienza di Prigogine e Jacob, alla nuova epistemologia di Kuhn e Feyerabend, Enrico Berti ritrova le tracce dell’inesauribile forza del pensiero aristotelico.
Dialectique, physique et métaphysique. Études sur Aristote, Éditions Peeters, 2008.
This volume contains around twenty articles, many of them already published elsewhere, but translated into French for the first time. They all deal with the dialectics, the physics and the metaphysics of Aristotle.
Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia (a cura di), Utet, 2008.
In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, 2008.
La meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza e desiderio di sottrarvisi, cioè di apprendere, di conoscere, dI sapere. Ecco perché proprio la meraviglia, secondo Aristotele, è l’origine della filosofia, ovvero della ricerca disinteressata di sapere. Stato d’animo raro e prezioso, la meraviglia è la sola espressione della vera libertà. Enrico Berti rilegge il pensiero dei grandi filosofi della classicità e costruisce un percorso attraverso le domande senza tempo che la filosofia occidentale ha continuato a porsi, formulate per la prima volta dai Greci.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 3 Filosofia pratica, Morcelliana, 2008.
Il presente volume, terzo della serie dei Nuovi studi aristotelici, raccoglie gli scritti concernenti la “filosofia pratica” di Aristotele, contenuta nelle due Etiche autentiche (Nicomachea e Eudemea), e la filosofia politica, contenuta nella Politica. Come è noto, per Aristotele queste ultime due discipline sono parti di un’unica scienza, da lui chiamata più volte “scienza politica” e, almeno una volta, “filosofia pratica”. Perciò non ho diviso il volume in sezioni, come invece ho fatto nei volumi precedenti. Ho scelto, come sottotitolo dell’intera raccolta, “filosofia pratica”, perché questa espressione è diventata attuale dopo la cosiddetta “riabilitazione (o rinascita) della filosofia pratica”, movimento sviluppatosi nel corso degli anni Settanta del Novecento e ancora non del tutto esaurito.(dalla Prefazione)
Ser y tiempo en Aristótele, Editorial Biblios, 2008.
Enrico Berti, uno de los más reconocidos especialistas de Aristóteles, introduce este libro con una reseña de la presencia de Aristóteles en la Contemporánea. Luego desarrolla una exposición clara y profunda de la postura aristotélica, que va desde el tiempo cósmico de la Física hasta el tiempo humano de la Poética y la Ética. En el recorrido que realiza también visita la Metafísica, pero también obras menos transitadas, como De la memoria y la reminiscencia. Además, confronta la postura de Aristóteles con uno de los trabajos más determinantes de la Contemporánea: Ser y tiempo de Martin Heidegger.
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2008.
La Metafisica è l’opera più famosa di Aristotele. Si tratta degli appunti che Aristotele preparava per le sue lezioni all’interno del Peripato. Lo Stagirita pone qui i problemi fondamentali sull’essere e sul perché del divenire ricercandone le cause e i principi primi.
En el principio era la maravilla. Las grandes preguntas de la filosofía antigua, traducción de Helena Aguilà, Madrid, Editorial Gredos, 2009.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4\1. L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento, Morcelliana, 2009.
Il libro vuole essere un contributo allo studio della cosiddetta tradizione aristotelica, dell’influenza esercitata da Aristotele sull’intera storia della cultura “occidentale” (termine nel quale va compresa anche la cultura islamica). Tale influenza è stata sia di tipo positivo, nel senso che le dottrine di Aristotele sono state accolte, interpretate e trasformate dai filosofi posteriori, sia di tipo negativo, nel senso che esse sono state oggetto di critiche e spesso di dure polemiche, ma anche in questo caso hanno condizionato le filosofie posteriori. Del primo tipo è l’influenza esercitata da Aristotele sugli aristotelici: su Teofrasto, Aspasio, Alessandro di Afrodisia, Porfirio, i filosofi arabi ed ebrei, Tommaso d’Aquino, Marsilio da Padova, Giacomo Zabarella, William Harvey. Del secondo tipo è invece l’influenza esercitata da Aristotele sui suoi “avversari”: l’epicureo Filodemo di Gadara, Plotino, Bonaventura da Bagnoregio, Niccolò Cusano, Galileo Galilei. Un caso particolare è costituito dal rapporto tra la filosofia di Aristotele e il primo cristianesimo, emblematicamente rappresentato dal discorso di san Paolo agli Ateniesi, dove l’influenza di Aristotele è ravvisabile nel contributo da lui dato alla formazione di quel concetto di “Dio dei filosofi” che Paolo ripropone consapevolmente agli Ateniesi, ma al fine di integrarlo e superarlo nella rivelazione cristiana.
A partire dai filosofi antichi(con Luca Grecchi), Il Prato, 2010.
I problemi filosofici esaminati vengono presentati nella forma di una discussione avvincente che rievoca l’andamento dei dialoghi platonici, in cui la verità emerge dal movimento del discorso che, nel suo correre incessantemente da un interlocutore all’altro, si fa «dia-logo» nel senso più alto. Del resto, i temi trattati dai due autori sono tra i più importanti tra quelli su cui si è andata formando la civiltà occidentale: il valore veritativo della filosofia, il rapporto tra fede e sapere, la morale, l’educazione, il ruolo dell’uomo, la libertà, la politica, la morte, l’ontologia, la metafisica, la critica, e moltissimi altri ancora. Ad accomunare, nel libro, questi temi così vasti ed eterogenei è il punto di partenza da cui ciascuno di essi viene sviluppato: il mondo dell’antica filosofia greca, concepita sia da Berti sia da Grecchi come fonte originaria delle «domande fondamentali» dell’uomo occidentale e come tentativo di elaborazione di alcune grandiose soluzioni che continuano a esercitare un fascino intramontabile. La filosofia greca fa da sfondo anche alle considerazioni svolte da Berti e da Grecchi intorno al pensiero di Kant, di Hegel e di Marx. A partire, appunto, dai «filosofi antichi», i due studiosi ripercorrono in maniera dialogica, anche attraverso la cinquantennale esperienza accademica di Enrico Berti, i nodi maggiori della tradizione filosofica e le problematiche fondamentali del nostro presente.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4/2. L’influenza di Aristotele. L’età moderna e contemporanea, Morcelliana, 2010.
l secondo tomo del volume dedicato all’influenza di Aristotele comprende saggi relativi all’età moderna e all’età contemporanea. Per l’età moderna è evidente la persistenza della filosofia pratica di Aristotele, la quale, dopo essersi eclissata nell’antichità ellenistica e nella tarda antichità, ed essere stata riscoperta nel medioevo, sia musulmano che ebraico e cristiano, sopravvive nel Seicento e nel Settecento, soprattutto in Germania.Per quanto riguarda l’Ottocento i saggi riguardano la critica di Hegel al principio di non contraddizione, e l’influenza di Aristotele sui critici di Hegel: Feuerbach, Trendelenburg, Marx e Kierkegaard. Per la Germania è anche massiccia l’influenza di Aristotele su Brentano e, attraverso di lui, su tutti i suoi discepoli, da Husserl a Meinong, a Twardowski, a Freud. Interessante è anche il rapporto intrattenuto con Aristotele da Paul Natorp, che ebbe ad influenzare, insieme con la dissertazione di Brentano, Martin Heidegger.I capitoli dedicati all’età contemporanea illustrano la presenza di Aristotele in Heidegger e nella filosofia analitica inglese, ovvero nell’analisi del linguaggio ordinario condotta da J. Austin, G. Ryle, P. Strawson, D. Wiggins e altri. Indi illustrano la cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, prima in Germania, ad opera di filosofi come H.-G. Gadamer e J. Ritter, e poi negli USA, ad opera di A. MacIntyre, H. Jonas, Martha C. Nussbaum.
Profilo di Aristotele, Studium, 2010.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2010.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Invito alla filosofia, La Scuola, 2011.
Un libro per chiunque voglia accostarsi ad un sapere che parte dal sentimento della meraviglia per arrivare ad esercitare un uso consapevole della ragione. Un invito per chiunque sia alla ricerca di motivazioni (esistenziali, religiose, etiche, scientifiche, politiche) e voglia porre domande per scoprire la verità partendo da opinioni consolidate. Perché la filosofia, nel suo stesso modo di procedere dialettico-confutatorio, esalta l’essenza umana che si fonda sul ragionamento.
Preguntas de la filosofía antigüa, Tapa blanda, 2001.
Muchas de las grandes preguntas que la filosofía occidental ha seguido planteándose las formularon por primera vez los griegos. No todas, claro está. Por ejemplo, los griegos no se preguntaron cuáles eran, a priori, las condiciones del conocimiento, o qué leyes rigen la historia, o cómo indagar en el subconsciente del hombre y otras cosas por el estilo. Pero las preguntas que plantearon, a excepción de unas pocas (por ejemplo: ¿quiénes son los dioses?), son las mismas con las que se ha seguido enfrentando la filosofía occidental a lo largo de los siglos. Enrico Berti recorre el pensamiento de los grandes filósofos clásicos y traza un sorprendente itinerario a través de las preguntas sin tiempo que la filosofía occidental ha seguido planteándose y que los griegos formularon por primera vez: ¿Qué es el hombre? ¿Qué es la felicidad? ¿Quiénes son los dioses? ¿Cuál es nuestro destino?
Profilo di Aristotele, Studium, 2012.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e corretta, Morcelliana, 2012.
Il dovere di introdurre, e con ciò di giustificare nella sua unità, la presente raccolta mi fornisce l’occasione più opportuna per riflettere sulle ricerche da me compiute in questi anni e anche per risalire alle origini del mio interesse per Aristotele, allo scopo di determinarne il più esattamente possibile il senso e l’orientamento generale. Uno dei fili conduttori dei miei lavori è la persuasione del valore classico, cioè perenne, e quindi anche attuale di certe istanze del pensiero aristotelico. Si tratta di una valutazione di ordine teoretico, o filosofico, che oggi, a causa dell’imperante storicismo e del conseguente relativismo, può sembrare, nel migliore dei casi, ingenua. Tuttavia è una persuasione a cui tengo particolarmente; non ho difficoltà infatti a confessare che, se non la possedessi, non riuscirei a dare alcun senso al lavoro fatto. Le ragioni del valore classico della metafisica antica si trovano nel rilevamento, da parte di Aristotele, di un’inadeguatezza tra il sistema platonico e il problema da cui ogni filosofo deve prendere le mosse, cioè la problematicità integrale e assoluta. Questa problematicità si esprime in un “domandare tutto”, che è insieme un “tutto domandare”, in una domanda che investe la totalità del reale e, per il fatto di escludere ogni precedente certezza, è integralmente domanda; e si identifica con la stessa esperienza intesa come conoscenza di tutto e insieme domanda della ragione di tutto.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2012.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Aristotele e la democrazia, in C. Rossitto, A. Coppola, F. Biasutti (a cura), Aristotele e la storia, Padova, CLEUP, 2013.
Aristotele, La Scuola, 2013.
«Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità e, più di tutte, amano la sensazione della vista. In effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose». Metafisica, libro I.
The Classical Notion of Person and Its Criticism by Modern Philosophy, in B. Babich and D. Ginev (eds.), The Multidimensionality of Hermeneutic Phenomenology, Heidelberg-New York-Dordrecht-London, Springer, 2013.
La phronêsis nella filosofia antica, in A. Fidora, A. Niederberger, M. Scattola (eds.), Phronêsis – prudentia – Klugheit. Das Wissen der Kluge in Mittelalter, Renaissance und Neuzeit, Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales, Porto, 2013.
Mente e anima: due entità?, in G. Erle (a cura), Il limite e l’infinito. Studi in onore di Antonio Moretto, Bologna, Archetipolibri, 2013.
La ricerca filosofica di Antonio Moretto segna una tappa fondamentale e innovativa all’interno della letteratura scientifica a proposito del rapporto tra filosofia e matematica. Questo vale in primo luogo, ma non solo, per una rinnovata comprensione della filosofia classica tedesca che rendeva necessario mostrare la rilevanza della conoscenza congiunta della storia e della teoria della matematica in autori come Kant e Hegel. Questi studi, assieme a quelli che egli ha dedicato a Descartes, Leibniz, Wolff, mostrano come i concetti matematici di finito e infinito racchiudano, nelle loro esigenze tecniche, un’urgenza profondamente umana, quella di dare senso, “mensurare” nell’accezione più ampia del termine. Sotto questo profilo, il passaggio per le scienze esatte nelle ricerche di Moretto non è affatto astratto, ma costituisce il necessario cammino verso quella che Kant avrebbe chiamato “la porta stretta”, varcata la quale meglio si comprendono anche le altre parti del sistema della filosofia, così come proprio Moretto ha dimostrato dedicandosi a discutere altresì questioni di etica, di filosofia della medicina, psicologia della percezione e, perché no?, della poesia di Albrecht von Haller. Coerentemente con questo percorso di ricerca, gli autori degli scritti che costituiscono questo volume si sono impegnati a mostrare la ricchezza di significati e valenze che i concetti di limite e di infinito possono assumere all’interno delle scienze filosofiche.
Una metafisica (epistemologicamente) «debole», n G. Riconda e C. Ciancio (a cura), Filosofi italiani contemporanei, Mursia, 2013.
Il volume presenta i risultati di un ciclo di seminari tenuti all’Università di Padova nel 2011 e 2012, all’interno del Progetto di Ateneo Filosofia e storia nel pensiero politico di Aristotele. Il tema generale è il ruolo della storia nel pensiero aristotelico, secondo le più ampie accezioni del termine. Innanzitutto che uso fa Aristotele dei dati storici, come e a qual fine li utilizza e qual è per lui il valore epistemologico della storia? Storia significa anche storiografia, cioè resoconto scritto dei fatti: possiamo capire il rapporto fra il filosofo e gli storici e tra la storiografia e la politica? I contributi qui raccolti aggiungono materia a queste riflessioni raccogliendo e confrontando punti di vista di storici dell’antichità e di storici della filosofia.
Aristotele, in U. Eco (a cura), L’Antichità, 5. Grecia, Filosofia, EM Publishers srl., 2014.
Neste volume, o leitor terá a oportunidade de conhecer o pensamento de Aristóteles, um dos maiores nomes da Filosofia na Antiguidade. A visão aristotélica é apresentada de modo sintetizado, por meio da análise das obras de Aristóteles, dos conceitos-chave de sua filosofia e seus desdobramentos na sociedade atual.
Il bene di chi? Bene pubblico e bene privato nella storia, Marietti, 2014.
Un affresco dell’intrecciarsi di bene pubblico e bene privato nella storia della civiltà occidentale. Enrico Berti fa comprendere le complesse radici culturali della situazione attuale e apre domande cruciali, da un lato sul destino e la sopravvivenza dello Stato e dall’altro sul fine dell’uomo e sulle condizioni di possibilità della vita sociale. Il libro è arricchito da un dialogo sul tema tra l’autore e i partecipanti alla “Lectio Magistralis” tenuta nel corso di una delle sessioni del 2013 della Winter School, centro di studi sociali, culturali e politici. Prefazione di Giovanni Maddalena.
Il luogo dei corpi secondo Aristotele, in Lessico Intellettuale Europeo, Locus-spatium. XIV Colloquio Internazionale, a cura di D. Giovannozzi e M. Veneziani, Olschki, 2014
La ricerca della verità in filosofia, Studium, 2014.
La verità è oggi temuta come una forma di violenza, specialmente da parte dei filosofi post-moderni. Questo timore spesso è dovuto a una concezione ideologica della verità come valore assoluto da imporre a tutti, mentre esso è del tutto ingiustificato rispetto alla concezione classica della verità, non riducibile alla teoria della verità come corrispondenza. In base alla teoria classica si danno diversi tipi di verità, verità di fatto e verità di ragione, verità storiche e verità scientifiche, verità di fede e verità poetiche: alcune facili da scoprire, altre implicanti complesse e faticose ricerche. In filosofia la ricerca della verità avviene in modi diversi, secondo il tipo di filosofia che si pratica, che può essere trascendentale, dialettico, fenomenologico, analitico-linguistico, ermeneutico, dialogico-confutativo. Un caso di ricerca della verità in filosofia è costituito dalla metafisica, intesa non nel senso tradizionale di ontologia o teologia razionale, bensì come metafisica problematica e dialettica, epistemologicamente debole ma logicamente forte. Esiste anche una verità pratica, che riguarda non la legge morale, ma il desiderio della felicità intesa come pieno sviluppo della persona umana, nel singolo individuo e nella polis.
Prologo a L. E. Varela, Filosofía práctica y prudencia. Lo universal y lo particular en la ética de Aristóteles, Editorial Biblos, 2014.
El trabajo se sostiene en un conocimiento completo y perfecto de toda la obra de Aristóteles concerniente a la ética, no sólo a la Ética nicomaquea y a la Ética eudemia, sino también a la Gran Ética y al Protréptico. Los textos de estas obras son analizadas de manera precisa y rigurosa, y el análisis de ellos es siempre acompañado por una discusión de las interpretaciones suministradas por la literatura crítica, con la cual Varela está constantemente en diálogo. De ello resulta una contribución de gran claridad, equilibrio, riqueza de información y de profundización, que lo hace extremadamente útil para una relectura y una valoración nueva, plenamente satisfactoria, de la ética aristotélica.
Luis Enrique Varela. Doctor en Filosofía (Universidad del Salvador). Es actualmente profesor de Ética y de Metafísica en la Universidad Nacional de Mar del Plata. Asimismo, dicta Historia de la Filosofía Antigua en la carrera del Doctorado en Filosofía, y Ética dentro de la enseñanza de grado en la Universidad Nacional de Lanús. Dirige proyectos de investigación en temas de filosofía práctica y de metafísica tanto en la UNMDP como en la UNLA. También se desempeña como profesor de Historia de la Filosofía Antigua y del Seminario de Filosofía Práctica I en la carrera de filosofía de la Universidad de Ciencias Empresariales y Sociales (UCES). Además dicta materias de filosofía en la carrera de Filosofía del Instituto Superior del Profesorado “Joaquín V. González”.Como director del Círculo de Actualización en Filosofía de la Fundación Descartes, organizó junto con Germán García el “Encuentro Internacional Descartes 400” (1996) y “Lacan y la cultura filosófica” (2001).Es autor de numerosos
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today?, in C. Baracchi (ed.), The Bloomsbury Companion to Aristotle, Bloomsbury, 2014.
Aristotle is one of the most crucial figures in the history of Western thought, and his name and ideas continue to be invoked in a wide range of contemporary philosophical discussions. The Bloomsbury Companion to Aristotle brings together leading scholars from across the world and from a variety of philosophical traditions to survey the recent research on Aristotle’s thought and its contributions to the full spectrum of philosophical enquiry, from logic to the natural sciences and psychology, from metaphysics to ethics, politics, and aesthetics. Further essays address aspects of the transmission, preservation, and elaboration of Aristotle’s thought in subsequent phases of the history of philosophy (from the Judeo-Arabic reception to debates in Europe and North America), and look forward to potential future directions for the study of his thought. In addition, The Bloomsbury Companion to Aristotle includes an extensive range of essential reference tools offering assistance to researchers working in the field, including a chronology of recent research, a glossary of key Aristotelian terms with Latin concordances and textual references, and a guide to further reading.
List of Contributors \ Acknowledgments \ Corpus Aristotelicum \ “Introduction: Paths of Inquiry” Claudia Baracchi \ Part I: Questions \ 1. Logos \ Saying What One Sees, Letting See What One Says: Aristotle’s Rhetoric and the Rhetoric of the Sophists Barbara Cassin \ Aristotelian Definition: On the Discovery of Archai Russell Winslow \ 2. Phusis \ Aristotle on Sensible Objects: Natural Things and Body Helen Lang \ On Aristotle’s Formula: Physics IV. 11, 14 Rémi Brague \ 3. Psuchê \ Phantasia in De Anima Eric Sanday \ Mind in Body in Aristotle Erick Raphael Jiménez \ The Hermeneutic Slumber: Aristotle’s Reflections on Sleep Marcia Sá Cavalcante Schuback \ 4. Philosophia Prôtê \ First Philosophy Alejandro Vigo \ First Philosophy and the History of Being in Aristotle’s Metaphysics Spyridon Rangos \ 5. Êthos \ Aristotle on Human Nature and the Foundations of Ethics, with an “Addendum” Martha C. Nussbaum \ The Visibility of Goodness Pavlos Kontos \ To Kakon Pollachôs Legetai: The Poly-vocity of the Notion of Evil in Aristotelian Ethics Arianna Fermani \ 6. Polis \ Education: The Ethico-Political Energeia Michael Weinman \ 7. Poiêsis \ Toward the Sublime Calculus of Aristotle’s Poetics Kalliopi Nikolopoulou \ Part II: Disseminations \ Aristotle on the Natural Dwelling of Intellect Idit Dobbs-Weinstein \ The Peripatetic Method: Walking with Woodbridge, Thinking with Aristotle Christopher Long \ What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today? Enrico Berti \ Would Aristotle Be a Communitarian? Pierre Aubenque \ Glossary (Erick Raphael Jiménez) \ Chronology of Recent Research (Benjamin J. Grazzini) \ Bibliography (Erick Raphael Jiménez) \ Resources (Benjamin J. Grazzini and Erick Raphael Jiménez) \ Sources of Translated/Reprinted Essays \ General Index
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Morcelliana, 2015.
“Contraddizione” e “dialettica” sono due delle categorie costitutive della filosofia, fin dalla sua nascita nella Grecia del V secolo. Nei capitoli che sono idealmente una storia del pensiero occidentale – il lettore trova la chiara e puntuale ricostruzione dei tanti significati assunti da “contraddizione”, “non contraddizione”, “dialettica” tra Parmenide, Eraclito, Socrate, Platone e Aristotele, tra Kant e Hegel, tra Marx, Popper e la logica contemporanea. Sono categorie in cui è in gioco non solo il rigore della ragione: nella possibilità o no di superare il principio di non contraddizione è in questione la cosa stessa del pensiero. Considerando che lo stesso principio di non contraddizione si dice in più modi. Temi cui Enrico Berti ha dedicato più di cinquant’anni di studi, e che trovano qui un compendio.
È bene definire il bene?, Orthotes, 2015.
Il punto di partenza assunto nel saggio è la definibilità del bene, una volta che ci si occupi di esso non in quanto assoluto e irraggiungibile, ma piuttosto vedendolo come bene umano, praticabile e realizzabile. Come tale, esso è l’oggetto delle aspirazioni umane e concretamente indicato nei diritti fondamentali, nelle varie libertà e nei diritti politici, che documenti ufficiali hanno ormai sancito. Da Aristotele fino alla sua ripresa da parte di Martha Nussbaum, la felicità, per quanto fragile, si sostanzia proprio di questi beni, che possono essere presentati come vere e proprie “capacità”. Completa il testo un intervento di Berti sull’Etica nicomachea di Aristotele, da cui emerge il carattere pratico di una filosofia che punti a definire che cos’è il bene, ossia aristotelicamente la felicità, per l’uomo.
Aristotelismo, il Mulino, 2017.
A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati.
Un manuale in cui i maggiori studiosi di Aristotele analizzano e descrivono in modo sistematico e completo il pensiero del filosofo, attraverso le singole opere, seguendo un metodo rigorosamente storico, senza interpretazioni ideologiche o di parte.
Introduzione alla metafisica, seconda edizione, UTET, 2017.
La nuova edizione dell’Introduzione alla metafisica di Enrico Berti ripropone la concezione originale della metafisica che l’Autore va presentando da anni, la quale ha suscitato l’interesse degli studiosi di filosofia, come dimostrano le traduzioni dell’opera in altre lingue. Essa contiene alcune correzioni rispetto all’edizione precedente, dovute a ulteriori studi, e soprattutto è corredata da cinque appendici, costituite da altrettanti articoli sul tema, pubblicati dall’Autore negli anni più recenti. L’opera comprende una parte storica, che illustra le diverse forme di metafisica elaborate nella filosofia occidentale, e una parte teoretica, che difende le ragioni di un certo tipo di metafisica, caratterizzata come «metafisica dell’esperienza», sviluppando gli spunti forniti in questa direzione dalla «scuola padovana» facente capo a Marino Gentile. Nel complesso si tratta di una delle rare proposte italiane di una filosofia autenticamente metafisica, in linea con la grande tradizione della «metafisica classica» di ispirazione aristotelica, ma al tempo stesso essenzializzata e aggiornata in modo da tenere conto delle critiche e delle esigenze del pensiero contemporaneo. Il rifiorire di interesse per la metafisica, manifestatosi soprattutto nell’ambito della filosofia analitica, conferma l’attualità dell’opera.
Tradurre la “Metafisica” di Aristotele, Morcelliana, 2017.
«Essendomi recentemente cimentato con l’arduo compito di tradurre la Metafisica di Aristotele, il libro forse più difficile dell’intera storia della filosofia, mi sono imbattuto in una serie di problemi, alcuni dei quali previsti e altri invece imprevisti, che hanno reso l’impresa, oltre che ardua, anche affascinante». Affrontando problemi inerenti alla trasmissione del testo, alla traduzione e alla interpretazione, Berti mostra – contro una lettura teologizzante, di origine neoplatonica – il tratto problematico della filosofia aristotelica: la metafisica non è né teologia, né ontologia, ma scienza delle cause prime.
Aristotele Eubulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Guida, 2019.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Storia della Metafisica (a cura di), Morcelliana, 2019.
Sulla base del presupposto unanimemente riconosciuto che la metafisica, quale che sia il suo valore, ha avuto una storia, il volume individua i momenti salienti di quest’ultima in alcuni grandi filosofie correnti di pensiero: Platone, Aristotele, il platonismo antico, la metafisica arabo-islamica, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Suárez, Cartesio, Kant, Hegel, Rosmini, Heidegger, il neotomismo, la filosofia analitica. Ne risulta una storia equilibrata, ricca e coinvolgente, forse unica nel suo genere, di indubbio interesse per chiunque si occupi di filosofia.
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.AcceptRead More
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.