Paolo Jedlowski – Nell’orizzonte di senso della mia generazione c’era anche il senso della critica, il non adattarsi alle cose come stanno. L’atteggiamento critico si ibridava con il pensiero utopico che è pensiero e slancio e funziona come funziona la speranza.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.

Ernst Bloch – La speranza non si lascia liquidare, non si lascia sopprimere, non si lascia banalizzare e ancor meno teologicizzare, ma appartiene all’immanenza del nostro esistere, al «trascendere senza trascendenza»: la filosofia è tenuta a riflettere su questo trascendere, che mette in gioco le domande centrali relative al non-ancora, all’utopia reale, all’utopia concreta.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.

Alice Bigli – Per Gianni Rodari la scintilla dell’Utopia è il passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo.


Il grande nucleo tematico attraverso cui rileggere Rodari da adulti per poi riportarlo con pienezza e senza banalizzarlo ai bambini, è quello dell’utopia.

Questa è infatti una vera parola chiave per l’opera di Rodari che chi vorrà approfondirne la conoscenza critica troverà utilizzata da tutti i suoi più importanti studiosi.

Rodari vuole raccontare storie in cui realtà e fantasia siano sempre fuse in modo virtuoso. Nella sua opera, non solo non esiste contrapposizione tra questi due generi, ma l’una sembra indispensabile all’altra.

[…] Anche nei racconti più stravaganti e buffi, l’autore trasfigura spesso temi della realtà o stimola riflessioni su di essa. Contemporaneamente, come si vedrà ben esplicitato nella Grammatica della fantasia, nella ricerca di qualcosa che stimoli la fantasia e l’invenzione si parte sempre da oggetti, fatti, elementi comuni e del quotidiano.

Fantasia e osservazione del reale, critica al presente e sogno sul futuro si mescolano sempre.

Rodari propone ai bambini una spinta continua all’utopia, intesa come passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo.

Alice Bigli, La scintilla dell’utopia. Rileggere Gianni Rodari con i bambini, Edizioni San Paolo, Cinesello Balsamo 2020, p. 49-52.

Alice Bigli
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.

Luca Grecchi – «Il desiderio chiamato Utopia». Jameson indica la strada giusta, quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire: criticare senza costruire è cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

Luca Grecchi

Il  desiderio chiamato Utopia. Jameson indica la strada giusta, quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire: criticare senza costruire è cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

 

Fredric Jameson, critico letterario statunitense e teorico politico marxista nato nel 1934, è noto al grande pubblico soprattutto per i suoi studi letterari (è stato allievo di Erich Auerbach), nonché per la sua ottima analisi del postmoderno. In questo libro, tuttavia, egli tratta specificamente di un tema troppo spesso ingiustamente snobbato dalla teoria marxista, ovvero quello dell’utopia. Il suo approccio risulta in merito, come mostreremo (leggendo il suo libro Il desiderio chiamato Utopia, Feltrinelli, Milano 2007, ed. or. 2005.), non viziato dai consueti pregiudizi marxisti, in quanto la sua valutazione dell’utopia come ideale riferimento teoretico e politico, risulta essere nella sostanza molto positiva.

Jameson inizia sottolineando, come si fa di consueto, la ambivalenza del termine «utopia», interpretabile – secondo l’etimologia greca volta per volta preferita – sia come «luogo inesistente» (per i detrattori dell’utopia), sia come «buon luogo» (per gli ammiratori dell’utopia). A causa di Marx, ma soprattutto di Engels, il marxismo ha da sempre considerato l’utopia come un modello negativo, un luogo ideale irraggiungibile volto solo a rendere astratta ed inconcludente la progettualità politica, facendola confluire in sogni separati dalla realtà che non portano appunto in «nessun luogo». Jameson, non cadendo in questo pregiudizio, ricorda sin da subito che, nonostante questa sia la vulgata prevalente, «Lenin e Marx hanno scritto entrambi di Utopia, il primo in Stato e Rivoluzione del 1917, il secondo ne La guerra civile in Francia del 1871» (pag. 10). Jameson rimarca ciò in quanto si rende conto che, senza una progettualità alternativa, anche utopica, che sia radicalmente altra rispetto alla effettualità capitalistica, la proposta comunista è destinata a non trovare sbocco, e dunque – essa sì – a confluire in «nessun luogo», ossia a non produrre effetti.

Descrivendo le tendenze in atto nell’attuale modo di produzione capitalistico, che per Jameson «smantella instancabile tutti i progressi sociali strappati a partire dalla nascita del movimento socialista e comunista» (pag. 10), egli afferma giustamente che la maggiore «disgrazia non è la presenza di questo nemico, bensì la convinzione universale non solo della irreversibilità di questa tendenza, ma dell’impossibilità e della non praticabilità delle alternative storiche al capitalismo, la certezza che non sia concepibile né tantomeno realizzabile nella pratica alcun altro sistema socio-economico» (pagg. 10-11). La critica al modo di produzione capitalistico, infatti, non può vivere di solo “marxismo” (intendendo con questo termine, genericamente, la critica sociale alla effettualità esistente), ma deve vivere di una progettualità che, pur partendo dal nostro tempo, deve saper immaginare, basandosi su ciò che è in potenza presente nella natura umana, un modo di produzione sociale migliore, che consenta appunto di porre in atto ciò che è in tale natura presente. Per questo, secondo Jameson, è necessaria una ripresa di interesse per l’utopia (che io tradurrei – anche se lui non lo dice – come una ripresa di interesse per la filosofia classica, sulla base della quale soltanto è possibile progettare idealmente), in quanto «non è possibile immaginare un qualsiasi cambiamento fondamentale nella nostra società che non si sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche» (pag. 11), ossia progetti alternativi.

Tutto questo discorso, davvero promettente, che Jameson svolge nelle prime pagine del libro, non possiede però, purtroppo, la base filosofica che pure gli sarebbe necessaria, e di conseguenza si smarrisce presto, subito dopo la pur corretta indicazione di principio; dopo le prime pagine, infatti, prende piede soprattutto l’amore per la letteratura di Jameson, che dell’utopia si mostra quasi più interessato alla forma letteraria che al contenuto rivoluzionario, tanto da affermare che essa risulta essere, a suo avviso, un «sottogenere socio-economico» della fantascienza (pag. 12). Nonostante questo “eruditismo”, però, l’approccio di Jameson può essere considerato – nelle sue linee generali – condivisibile, in quanto egli riprende l’approccio di Ernst Bloch presente soprattutto nel libro Diritto naturale e dignità umana, affermando che «vedere ovunque, come fa Bloch, tracce di pulsione utopica significa naturalizzarla, e implica che essa sia in una qualche maniera radicata nella natura umana» (pag. 27). L’uomo, infatti, è sempre il necessario fondamento onto-assiologico di ogni proposta filosofico-politica.

Dove, tuttavia, si può trovare, oggi, la speranza che questo afflato ideale non scompaia, dato che la mentalità capitalistica ha oramai pervaso pressoché tutti i campi della vita? Ritengo che l’unico «luogo» in cui sia possibile ritrovarlo sia proprio la natura umana, che richiede ragionevolezza e moralità, e che è comunque un «buon luogo», in quanto è in potenza presente in tutti gli uomini, sicché questa speranza ha una forte possibilità di realizzarsi, nonostante tutto oggi giochi in senso contrario. I pensatori utopisti, secondo Jameson, ancor più dei filosofi possono svolgere, in questo compito, un ruolo molto importante, in quanto «i grandi rivoluzionari mirano sempre alla attenuazione ed alla eliminazione delle fonti dello sfruttamento e della sofferenza» (pag. 29). In questo senso, egli scrive correttamente che «l’iniziale gesto utopico di Moro, l’abolizione del denaro e della proprietà privata, corre lungo la tradizione utopica come un filo rosso che talvolta affiora prepotente alla superficie, talaltra viene tacitamente presupposto in forma più blanda» (pag. 40), ma che comunque non può mai abbandonare l’ideale umano.

Jameson mostra dunque, in maniera pienamente condivisibile, che l’utopia non deve essere considerata, come ha fatto per decenni il marxismo (abituato a farsi dei nemici tra i “vicini di casa” per sfogare le frustrazioni che, per mancanza di mezzi, non poteva rovesciare sui “lontani capitalisti”), come qualcosa di negativo ed inutile, bensì come qualcosa di positivo ed utile, anzi indispensabile, e che è possibile coniugare – come fecero appunto i grandi utopisti, in primis Moro, ma anche Platone – con la critica del proprio tempo; come ha scritto infatti sempre il Nostro, «non è possibile alcuna Utopia moderna che non intenda porre a tema, tra le tante altre questioni, i problemi economici causati dal capitalismo» (pag. 249).

In Jameson manca certo, come ricordato, la base filosofica e la conseguente proposta politico-progettuale su come organizzare un modo di produzione sociale alternativo; tuttavia, nel bivio iniziale per dirimere la questione, ovvero quello fra «progettuali» (utopisti) e «critici» (marxisti), egli prende subito, a mio avviso, la strada giusta, ossia quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire; e di chi, anzi, ritiene quasi che criticare senza costruire sia cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

Già pubblicato in, L. Grecchi, Il presente della filosofia nel mondo. Postfazione di Giacomo Pezzano: «Nur noch Griechenland kann uns retten», Petite Plaisance, Pistoia 2012, pp. 51-53 (indicepresentazioneautoresintesi ).


http://www.petiteplaisance.it/libri/151-200/186/int186.html

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

info@petiteplaisance.it,

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

e saranno immediatamente rimossi.

Italo Calvino (1923-1985) – Due modi d’usare l’utopia: considerandola per quello che in essa appare realizzabile, oppure per quello che in essa appare irreducibile a ogni conciliazione, in opposizione radicale non solo al mondo che ci circonda ma ai condizionamenti interni che governano le nostre attribuzioni di valori, la nostra immaginazione, la nostra capacità di desiderare una vita diversa, il nostro modo di rappresentarci il mondo: una rappresentazione totale che ci liberi dentro per renderci capaci di liberarci fuori.

Italo Calvino - Charles Fourier

È la contraddizione tra i due modi d’usare l’utopia: considerandola per quello che in essa appare realizzabile, come il modello d’una società nuova che possa crescere in margine alla vecchia per eclissarla con l’evidenza dei nuovi valori, oppure per quello che in essa appare irreducibile a ogni conciliazione, in opposizione radicale non solo al mondo che ci circonda ma ai condizionamenti interni che governano le nostre attribuzioni di valori, la nostra immaginazione, la nostra capacità di desiderare una vita diversa, il nostro modo di rappresentarci il mondo: una rappresentazione totale che ci liberi dentro per renderci capaci di liberarci fuori.

Italo Calvino, Introduzione a Charles Fourier, Teoria dei quattro movimenti. Il nuovo mondo amoroso, e altri scritti sul lavoro, l’educazione, l’architettura nella società d’Armonia, Scelta e introduzione di Italo Calvino, Giulio Einaudi editore, Torino 1971, p. IX.


Italo Calvino (1923-1985) – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme.
Italo Calvino (1923-1985) – La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso.
Italo Calvino (1923-1985) – Cavalcanti si libera d’un salto “sì come colui che leggerissimo era”. L’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostra che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi appartiene al regno della morte.
Italo Calvino (1923-1985) – Leggere significa affrontare qualcosa che sta proprio cominciando a esistere.
Italo Calvino (1923-1985) – … il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento …
Italo Calvino (1923-1985) – Questo è il significato vero della lotta: Una spinta di riscatto umano da tutte le nostre umiliazioni. Questo il nostro lavoro politico: utilizzare anche la nostra miseria umana per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.
Italo Calvino (1923-1985) – Classici sono quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.

Wisława Szymborska (1923-2012) – Utopia è l’isola dove tutto si chiarisce. Qui ci si può fondare su prove. Qui cresce l’albero della Giusta Ipotesi. Dalla sua cima si spazia sull’Essenza delle Cose. Malgrado le sue attrattive l’isola è deserta, e le tenui orme visibili sulle rive sono tutte dirette verso il mare.

Wisława Szymborska002

UTOPIA

 

Isola dove tutto si chiarisce.

Qui ci si può fondare su prove.

L’unica strada è quella d’accesso.

Gli arbusti fin si piegano sotto le risposte.

Qui cresce l’albero della Giusta Ipotesi

con rami districati da sempre.

Di abbagliante linearità è l’albero del Senno

presso la fonte detta Ah Dunque E’ Così.

Più ti addentri nel bosco, più si allarga

la Valle dell’Evidenza.

Se sorge un dubbio, il vento lo disperde.

L’eco prende la parola senza che la si desti

e chiarisce volenterosa i misteri dei mondi.

A destra una grotta in cui giace il senso.

A sinistra il lago della profonda Convinzione.

Dal fondo si stacca la verità e lieve viene a galla.

Domina sulla valle la Certezza Incrollabile.

Dalla sua cima si spazia sull’Essenza delle Cose.

Malgrado le sue attrattive l’isola è deserta,

e le tenui orme visibili sulle rive

sono tutte dirette verso il mare.

Come se da qui si andasse soltanto via,

immergendosi irrevocabilmente nell’abisso.

Nella vita inconcepibile.

 

Wislawa Szymborska, Grande numero, Libri Scheiwiller, 2006.


Wislawa Szymborska – «SULLA MORTE SENZA ESAGERARE». Non c’è vita che almeno per un attimo non sia stata immortale. La morte è sempre in ritardo di quell’attimo.
Wisława Szymborska (1923-2012) – La poesia non tollera né il superfluo, né il vano.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.

Vittorio Morfino – Utopia e critica immanente di fronte al capitalismo: il polo di una conoscenza non fine a se stessa, ma capace di aprire degli orizzonti di azione, e il polo di una politica che non sia un mero manovrare nel quadro esistente, ma che a partire da esso sappia guardare oltre, valorizzando le forze che in esso sono già date.

Vittorio Morfino 01

Vittorio Morfino, Prefazione a: Il “futuro impedito”: utopia e critica di fronte al capitalismo, a cura di Chiara Angela De Cosmo; con prefazione di Vittorio Morfino; con contributi di Fabrizio Arcuri, Matteo Corsi, Chiara Angela De Cosmo, Raffaele Grandoni, Nicola Lorenzetti, Sebastiano Taccola Edizioni ETS, 2018, pp. 5-12.

Il “futuro impedito”, termine blochiano, non è semplicemente l’immagine di una dimensione temporale che trova degli ostacoli o l’espressione di un’aspirazione che non si è potuta attualizzare. Si tratta, piuttosto, di una nuova prospettiva attraverso cui guardare al passato. Il passato non è «residuo in via di sparizione», ma contraddizione ancora vivente che può agire in senso trasformativo sul reale. Interrogarsi sul concetto di utopia non significa identificare configurazioni del nuovo ma individuare le contraddizioni materiali del presente per lasciar emergere la novità in un senso negativo. Gli interventi di questo volume sono tentativi di critica immanente della società presente facendo leva sulle sue tendenze profonde e radicali.



Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Vittorio Morfino …

… prima in galleria

e, a seguire, libro per libro …



Vittorio Morfino è docente a contratto di Storia della filosofia presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. È autore di Substantia sive Organismus (Milano 1997), Sulla violenza. Una lettura di Hegel (Como-Pavia 2000) e Il tempo e l’occasione. L’incontro Spinoza Machiavelli (Milano 2002) oltre che di alcuni saggi pubblicati su riviste italiane e straniere, ha curato Spinoza ‘contra’ Leibniz (Milano 1998), Il problema della sostanza nel Seicento (Milano 2002) e, con Luca Pinzolo, i saggi Sul materialismo aleatorio di Louis Althusser (Milano 2000). È redattore delle riviste «Oltrecorrente» e «Quaderni materialisti».


Soggettività e trasformazione. Prospettive marxiane,
a cura di Luca Basso, Giorgio Cesarale, Vittorio Morfino, Manifestolibri, 2021.

Nato da un convegno internazionale tenutosi nel 2018, bicentenario della nascita di Marx, questo libro raccoglie i contributi dei maggiori studiosi che, sullo scenario globale, hanno proposto negli ultimi anni interpretazioni innovative e attuali della riflessione marxiana. I saggi raccolti nel volume affrontano, da differenti punti di vista, tutte le più importanti questioni che riguardano l’interpretazione del pensiero di Marx e la sua attualità: dalla critica dell’economia politica alle trasformazioni del lavoro, dal concetto di popolo ai rapporti tra marxismo e femminismo. Nel complesso i testi contribuiscono a delineare una lettura molto articolata del pensiero marxiano capace di metterlo in relazione con il tempo presente.


The Layers of History and the Politics in Gramsci. In D. Cadeddu (a cura di),
A Companion to Antonio Gramsci . Essays on History and Theories of History, Politics and Historiography,
Brill, Leide, 2020

A Companion to Antonio Gramsci some of the most important Italian scholars of Antonio Gramsci’s thought combine their efforts to present an insightful and original intellectual portrait of one of the 20th century’s most influential Marxist thinkers. Thematically organized into five parts, the volume focuses on the Sardinian’s most important contributions. The first section offers readers a biographical sketch of Gramsci’s life and work, the second presents his theories of history, the third and fourth examine his contributions to political theory, and the last deals with Gramsci’s legacy and enduring influence.

Contributors include: Alberto Burgio, Davide Cadeddu, Giuseppe Cospito, Angelo d’Orsi, Michele Filippini, Guido Liguori, Marcello Montanari, Vittorio Morfino, Stefano Petrucciani, Michele Prospero, Leonardo Rapone, Giuseppe Vacca, and Marzio Zanantoni.


Althusser e il materialismo storico, surdeterminazione, non contemporaneità e apparati,
in Marx nei margini. Dal marxismo nero al femminismo postcoloniale
(a cura d i Miguel Mellino e Andrea Ruben Pomella), Alegre, 2020.

Colonialismo, imperialismo e razzismo sono stati al centro della riflessione marxista sin dagli inizi. Nonostante ciò il marxismo tradizionale è una costellazione teorico-politica genealogicamente occidentale ed eurocentrica, la cui bianchezza non sta tanto nel colore della pelle dei suoi pensatori ma nella tendenza ad assolutizzare le circostanze storico-geografiche occidentali dello sviluppo del capitalismo, trascurando la materialità culturale ed economica del colonialismo e del razzismo, letti come tipologie di sfruttamento particolari e non costitutive. L’obiettivo è «decolonizzare il marxismo» reinterpretando l’analisi classica in funzione delle diverse contingenze globali e dell’irruzione di soggetti storici imprevisti rispetto alla tradizionale classe operaia. Per eliminare le pieghe bianche del marxismo gli autori guardano al contributo di studiosi che, senza rinnegarlo, se ne collocano nei margini e lo spingono a fare i conti con alcune rigidità partendo dai suoi limiti riguardo la questione razziale e di genere. Oggetto dei saggi raccolti sono pensatori non occidentali come Aimé Césaire, Gayatri Spivak, C.L.R. James, Huey P. Newton e il Black Panther Party, Claudia Jones, Amílcar Cabral, José Carlos Mariátegui, o europei come Raymond Williams e Louis Althusser mai affrontati prima nei loro contributi a una distensione anticoloniale del marxismo. Un incontro tra il pensiero anticoloniale non occidentale e il marxismo classico europeo che ne libera tutte le potenzialità teoriche emancipative.


La temporalità plurale tra Bloch, Gramsci e Althusser, in Marx e la critica del presente (A cura di M. Gatto), Atti del convegno “Marx e la critica del presente (1818-2018)”, Roma, 27-29 novembre 2018, Rosemberg e Sellier, 2020.


V. Morfino e S. Pippa, Reading Althusser, again,
in REVISTA DE FILOSOFIA DE LA UNIVERSIDAD DE COSTA RICA, 58(152), 11-14, 2020.


Pippa Stefano, Morfino Vittorio,
Althusser entre Spinoza et Lacan,
Publications of Centre Culturel International de Cerisy, 2020.


Cultura del terrore, Franco De Masi, Aldo Giannuli, Vittorio Morfino, Mimesis, 2017

Gli atti di terrorismo, che colpiscono crudelmente molti cittadini inermi di ogni parte del mondo, impressionano spesso per quella che appare come una mancanza di logica: che responsabilità avranno mai i passeggeri in un aeroporto o in una stazione di autobus per atti che altri compiono, spesso a loro totale insaputa, in altre parti del mondo e in scenari completamente diversi? Lo sforzo degli autori del libro è quello di indagare appunto ciò che, prima facie, appare inspiegabile. Che cosa fa sì che emerga progressivamente nella mente di molti individui, e nella mentalità dei loro gruppi di riferimento, la fantasia di una distruttività che non individua nemmeno più un oggetto meglio definito, ma solo un grumo di elementi indefiniti e comunque ostili? L’idea freudiana che le rappresentazioni inconsce non si formino a caso, ma che seguano percorsi piuttosto rigidi, potrebbe essere vista come l’idea base di questo volume; si cerca in effetti nelle sue pagine di mettere in rilievo come il terrorismo sia il frutto di una cultura del terrore che ha molti padri, quasi tutti pronti a disconoscerlo come creatura propria. La storia dei rapporti politici, sociali, culturali e psicologici tra popolazioni dominate, nell’epoca del colonialismo classico, e paesi dominanti, ha non solo lasciato resti importanti, ma anche prodotto ulteriori fatti e relazioni che hanno aumentato a dismisura il magma di risentimento, odio, senso di emarginazione e desideri di rivalsa che paiono oggi dominare il mondo intero.


Tempora multa. Il governo del tempo, Mimesis, 2013.

Il titolo del libro riprende un verso di Lucrezio, «in uno tempore, tempora multa latent», in un istante si celano una pluralità di tempi. I saggi in esso contenuti si propongono di rileggere la tradizione marxista in una prospettiva nuova, privilegiando non il tempo unico del cammino della storia, ma le temporalità plurali che si intrecciano in ogni congiuntura storica data, o, meglio ancora, la costituiscono. Da Rousseau a Marx, da Bloch ad Althusser, da Gramsci ai Postcolonial, la tradizione marxista è così ‘spazzolata a contropelo’. I saggi qui raccolti, esito di un seminario tenutosi nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca tra il 2009 e il 2011, pur non proponendo una risposta univoca alla questione, delimitano tuttavia con chiarezza un campo problematico: si è voluto affermare con essi una netta presa di distanza tanto dalla questione della molteplicità irrelata e indifferente dei tempi della chiacchiera postmoderna, quanto dalle temporalità multiple dello stream of consciousness, delle filosofie dell’esperienza. La temporalità plurale oggetto di questi studi è la temporalità reale e immaginaria della vita delle masse, la cui conoscenza è la premessa necessaria di una rinnovata politica di emancipazione.

Introduzione, di Vittorio Morfino, Augusto Illuminati, Il tempo della volonté, Luca Basso, Rivoluzione francese e temporalità del soggetto collettivo: tra Sieyès e Marx, Massimiliano Tomba, I tempi storici della lunga accumulazione capitalistica, Stefano Bracaletti, Per una analisi della temporalità nel Capitale, Vittorio Morfino, Sul non contemporaneo: Marx, Bloch, Althusser, Mauro Farnesi Camellone, Ernst Bloch e il tempo della comunità, Peter D. Thomas, Gramsci e le temporalità plurali, Fabio Frosini, Spazio e potere alla luce della teoria dell’egemonia, Luca Pinzolo, I germi della storia antica. L’anacronismo polemico di Pier Paolo Pasolini, Nicola Marcucci, Tempi moderni. Temporalità e sociologia tra modernità multiple e critica post-coloniale.


Spinoza e il non contemporaneo, Ombre Corte, 2009.


Il tempo della moltitudine. Materialismo e politica prima e dopo Spinoza, Manifestolibri, 2005.

Assumendo come punto di riferimento il pensiero di Spinoza, “grande anomalia del moderno”, il volume ne rintraccia genealogie, presupposti e influenze, ricostruendo una corrente “sotterranea” dell’immanenza che va da Lucrezio a Machiavelli, da Marx a Darwin, da Althusser a Simondon, attraverso incursioni storico-filosofiche che scompaginano le fila delle grandi ricostruzioni onnicomprensive. Nel modo di concepire l’immanenza emergono infatti alternative radicali, che investono figure decisive come temporalità, relazione, contingenza, libertà, violenza: la corrente spinozista viene messa a confronto con la grande tradizione tedesca e i suoi modelli teo-teleologici.


Incursioni spinoziste. Causa, tempo, relazione, Mimesis, 2002.

«Le pagine di Morfino, attraverso una discussione storica dei temi fondamentali della modernità, dove campeggia Spinoza, ma sono gran parte dei filosofi moderni ad essere chiamati al simposio, dicono quali sono le regole corrette per pensare chi siamo, che cosa immaginiamo di essere, che cosa possiamo essere, come dobbiamo raccontarci senza cadere prigionieri di retoriche sublimi o di euforiche emancipazioni nella fiera del nulla. L’autore è un giovane filosofo che giustamente (nel momento della legge nello spettacolo) ha il pudore teoretico di far parlare l’analisi di temi fondamentali della storia della filosofia per giungere a un punto dove l’analisi stessa si trasforma in un pensiero positivo che assume la contingenza e la conoscenza delle reti plurali e relazionali delle contigenze materiali, come statuto del nostro essere: essere finiti senza infinito, temporali senza eterno». (Dalla Prefazione di Fulvio Papi).


Sulla violenza. Una lettura di Hegel, Ibis, 2000.


Substantia sive organismus. Immagine e funzione teorica di Spinoza negli scritti jenesi di Hegel,
Guerini e Associati, 1997.



Vittorio Morfino in Accademia.EU


Lista completa delle pubblicazioni di Vittorio Morfino


Youtube



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.

Cosimo Quarta (1941-2016) – L’utopia trae le sue origini da una profonda coscienza etica. La perenne tensione tra l’essere e il dover essere è ciò che fa dell’uomo un essere progettuale. Platone nella Repubblica sottolinea a più riprese che il progetto da lui delineato non È impossibile, ma solo difficile da realizzare e aveva fatto della paideia il cardine di ogni rapporto umano. Educare è umanizzare. Umanizzare è liberare. La paideia è la via che conduce alla libertà.

Cosimo Quarta 007

È opportuno chiarire che qui il termine «utopia» (con tutti i suoi derivati) non è usato nel senso comune e banale di sogno, castello in aria, chimera, fantasticheria, gioco letterario; né in quello più impegnativo, ma ugualmente distorsivo, di stato ideale. Partendo dalla nuova parola coniata da Thomas More, è agevole scorgere com’essa oscilli, fin dalle origini, tra ou-topia («non luogo») ed eu-topia («buon luogo»), sicché l’utopia si configura come la «società buona» che «non c’è». Solo che questo suo «non essere» non coincide col nudo «non essere» degli eleati, ma si presenta, per dirla con Ernst Bloch, come un «non essere ancora», nel senso che ha la stessa realtà e consistenza di un progetto. L’utopia, dunque, è il progetto della società buona che non è ancora, e che proprio per questo gli uomini sono protesi a realizzare.
Ora il progetto nasce sempre da un bisogno; e il bisogno implica una carenza d’essere, esprime cioè la presa di coscienza che la realtà di fatto, il mondo in cui ci si ritrova a vivere, non soddisfa adeguatamente le profonde esigenze umane. Donde, appunto, il protendersi degli uomini verso realtà nuove e diverse, ritenute idonee a soddisfare i loro fondamentali bisogni di libertà, sicurezza, pace, giustizia, eguaglianza, fraternità, amore. Questi bisogni sono sempre stati presenti lungo la storia, anche se espressi in forme varie e molteplici. In questo senso essi sono fondamentali, ossia primordiali, radicati nella natura umana ab origine. Anzi sono proprio essi a costituire, in certo modo, l’essenza specifica dell’uomo, a farne cioè, come ho detto altrove, un homo utopicus, un essere cioè proteso a realizzare il suo dover essere, ch’è poi l’«umanità» e la società in cui vivere «umanamente»: la società giusta e fraterna.
Questa perenne tensione tra l’essere e il dover essere è ciò che fa dell’uomo un essere progettuale. Ma progettando e realizzando se stesso, l’uomo, proprio perché originariamente dimensionato di socialità, progetta e realizza anche la storia. E nell’incontro-scontro di questi esseri progettanti che sono gli uomini, l’utopia s’invera e diventa il progetto della storia. Non v’è infatti generazione che non abbia tentato non solo di elaborare, ma anche di realizzare, in qualche modo, il suo progetto di umanità e di società. I modi e i criteri di tale elaborazione sono stati certo diversi sul piano della consapevolezza teorica e dell’efficacia storica (miti, favole, messaggi di salvezza, progetti filosofici, prassi politica e rivoluzionaria), ma tutti ugualmente significativi sotto il profilo antropologico.
L’utopia non nasce dunque, come generalmente si crede, da una coscienza ludica, ma trae le sue origini da una profonda coscienza etica. È l’insostenibilità delle condizioni presenti che spinge gli uomini ad elaborare un progetto o, comunque, a prefigurare uno stato di cose diverso da quello in cui essi vivono. L’utopia nasce sotto l’urgenza della prassi, ossia dietro la spinta di bisogni concreti e, in quanto tale, è ben lungi dall’essere qualcosa di «astratto», come opinano molti dei suoi detrattori. L’accusa di «astrattezza» deriva il più delle volte dal fatto di aver confuso lutopia con l’ideale. Infatti, mentre uno dei caratteri fondamentali dell’ideale è quello di essere irrealizzabile per principio, l’utopia si caratterizza invece come progetto teso alla realizzazione. Ciò che del resto era stato già chiarito da Platone quando nella Repubblica sottolineava a più riprese che il progetto da lui delineato non era impossibile, ma solo difficile da realizzare; notando al tempo stesso come le difficoltà di realizzazione derivassero fondamentalmente dallo scarto che inevitabilmente s’interpone tra teoria e prassi.
Occorre inoltre rilevare che il «meglio» o l’«ottimo» che il pensiero utopico persegue non è il «meglio» o l’«ottimo» in senso assoluto, ma solo in senso relativo; ossia è il «meglio» che gli uomini di quella determinata società e di quel determinato tempo sono riusciti o riescono a scorgere. Nell’utopia non v’è quindi alcuna chiusura, né spaziale né temporale. Essa, infatti, non si chiude in se stessa, isolandosi dalla realtà circostante, ma è aperta al mondo, a ciò che di meglio il mondo produce. La tensione verso un futuro migliore non significa negazione della tradizione, del passato-presente. L’utopia se da un lato rifiuta quanto d’ingiusto e di negativo il presente contiene, dall’altro raccoglie e sviluppa tutto quello che di positivo le generazioni passate ci hanno tramandato. Ogni generazione, come si diceva, ha il suo progetto utopico, le cui istanze però, e le relative realizzazioni, dipendono dalle condizioni storiche di fatto. Sicché, ciò che una generazione non riesce a realizzare viene ripreso e istanziato dalle successive. E in questo processo dialettico tra le generazioni o, ciò che è lo stesso, tra passato, presente e futuro, consiste la storia; la quale, almeno per quanto in essa v’è di positivo, può essere a ragione considerata come il prodotto dell’utopia.
Vista in questa luce, l’utopia si presenta come la molla dell’agire umano e, insieme, come il motore della storia. Se poi, come spesso capita, gli uomini utilizzano questo motore per tornare indietro invece che per spingersi in avanti, allora questa forza potente che muove la storia, proprio perché ha mutato segno e direzione, dev’essere chiamata con un nome diverso da quello di utopia. In tal caso, infatti, ci si trova di fronte alla distopia, ossia ad un progetto di società perversa; una forza altrettanto potente con cui l’utopia da sempre si scontra e che è causa non secondaria del lento scorrere dei processi storici, e quindi dei ritardi nella maturazione della coscienza storica. La confusione tra utopia e distopia ha indotto non pochi critici, tra cui Popper, a caratterizzare il pensiero utopico in termini di illiberalità, intolleranza, massificazione, totalitarismo, violenza ecc., generando così numerosi fraintendimenti che, com’è noto, hanno colpito anche Platone.
L’approccio utopico, ossia la rilettura in chiave storico-macrostorica dei testi platonici che questo libro propone, lungi dal ridurre la complessità e problematicità del pensiero di questo grande maestro, mira invece ad esaltarne la profondità, la lungimiranza, l’esemplarità e, ultima ma non per importanza, la perdurante e, per certi aspetti, sconcertante attualità. Platone è attuale non solo perché, come tutti i veri «classici», ha parlato e continua a parlare agli uomini di ogni tempo e luogo, ma anche perché in non pochi passaggi delle sue opere lo sentiamo come un «contemporaneo», come uno che vive in mezzo a noi ed è gravato dai nostri medesimi problemi. Basti, a dimostrazione di ciò, un solo piccolo esempio tratto dalla Lettera settima (325 cd): «Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica, e le leggi e i costumi, quanto più li esaminavo ed avanzavo nell’età, tanto più mi sembrava che fosse difficile partecipare all’amministrazione dello stato, restando onesto» (tr. il. A. Maddalena, Bari, 1971; il corsivo è mio). Un brano, questo, che s’attaglia assai bene a quel che accade oggi, soprattutto in Italia, dove disonestà, corruzione, affarismo, hanno infangato la politica, trasformandola da «attività eroica» in attività criminale. Di qui l’urgenza di ridare alla politica il suo autentico ruolo. E su questo Platone può darci ancora utili suggerimenti.

[…] Platone non trascurava affatto la felicità dei singoli. La sua preoccupazione era quella che lo stato diventasse uno strumento per il perseguimento della felicità dei «pochi». Infatti, egli dice, «il fine propostoci nel fondare lo stato» non è quello di far sì che una sola categoria di cittadini sia «particolarmente felice», ma quello di assicurare allintero stato il massimo possibile di felicità.[1] Come si vede, Platone è ben lungi dal negare ai cittadini del suo stato, in quanto singoli, la felicità . Ciò che egli vieta è che nessun cittadino o gruppo di cittadini goda di una felicità tutt’affatto «speciale», «straordinaria», rispetto agli altri. Se i critici di Platone non avessero sorvolato sul ruolo e significato che il termine «speciale» (diapherontos) assume per una corretta interpretazione del passo in questione, molti equivoci si sarebbero potuti evitare.
Qui Platone sottolinea che, di fronte alla felicità, tutti i cittadini sono uguali; e che nessuno, quale che sia la propria funzione nello stato, può rivendicare il diritto ad una felicità «speciale», «privilegiata». Lo stato esiste perché tutti e non solo alcuni siano il più possibile felici. Era questa una concezione dello stato talmente avanzata che nemmeno Aristotele riuscì a coglierne lo spirito, né tanto meno l’enorme portata utopica. […] Platone enuncia e sancisce proprio questo principio: il diritto di tutti alla felicità senza discriminazione veruna. I «custodi-reggitori» non saranno infelici, ma avranno la loro parte di felicità (e d’infelicità), «per quanto è possibile, nella stessa misura degli altri».[2] E di ciò si contentino. Lo «stato giusto», se vuole essere e conservarsi tale, non può permettere che i suoi «custodi-reggitori» approfittino delle funzioni che la comunità ha loro assegnato per procurarsi una felicità «speciale»; poiché così facendo il «tutto» verrebbe asservito a una sola «parte», stravolgendo l’ordine delle cose. Lo stato cesserebbe in tal modo d’essere una comunità politica e si trasformerebbe in una consorteria di privati, o meglio, in una giungla, dove i più potenti o i più furbi sottometterebbero i più deboli e onesti in vista del loro esclusivo tornaconto.
Si potrebbe a questo punto obiettare: ma questa felicità, cui tutti nello «stato giusto» hanno diritto, in che cosa propriamente consiste? E inoltre: i «custodi-reggitori», che attingono i gradi più alti del sapere, possono essere felici allo stesso modo degli altri cittadini, la cui natura non ha permesso loro di elevarsi ai fastigi della scienza? La risposta al primo quesito non presenta particolari difficoltà, dal momento che Platone ha sempre sostenuto, dai suoi primi scritti fino alle Leggi, che la vera felicità consiste nella virtù, ossia nel possesso della saggezza, della temperanza, della giustizia.[3]
[…] Platone, da un lato, riconosce nei filosofi-reggitori il più alto livello di umanità, proprio a causa della loro sapienza, che li pone in grado di conoscere «l’idea del bene», dall’altro, egli dice pure, come s’è già visto, che tale sapienza, se non è accompagnata dalla giustizia, non è affatto virtuosa. I filosofi-reggitori sono virtuosi soprattutto perché sono «giusti»; e sono «giusti» perché, obbedendo al principio del ta eautou prattein, non si limitano a contemplare il « bene» da loro speculativamente raggiunto, ma devono anche saper usare di questa loro «scienza del bene», dato che per Platone la felicità non si consegue attraverso il possesso dei «beni» […], ma mediante la capacità di usarne rettamente.[4] Ora, l’unico modo che i filosofi-reggitori hanno di usare correttamente, ossia di mettere in pratica la loro sapienza, che è appunto «scienza del bene», è quello di ridiscendere nella «caverna», ossia di impegnarsi concretamente nel governo della polis. In tal modo essi divengono «giusti», cioè virtuosi e, quindi, felici. Al pari degli altri cittadini, i quali, se vogliono essere felici, devono anch’essi usare rettamente dei beni in loro possesso, quali che siano. Se, infatti, la scienza è «lo strumento che procura il retto uso e la buona fortuna», allora, dice Platone, è necessario che «tutti gli uomini … s’impegnino … a divenire quanto più e possibile sapienti …».[5]
Tutti gli uomini, quindi, e non solo alcuni, per essere felici, devono acquisire quel grado di sapienza che consenta loro di svolgere al meglio possibile la funzione sociale per cui sono più adatti. […]
Come avrebbe potuto pensare, d’altronde, di eliminare la « personalità individuale »un autore come Platone che aveva fatto della paideia il cardine di ogni rapporto umano? E qual è lo scopo ultimo della paideia se non quello di sviluppare la personalità di ciascuno? Educare è umanizzare; umanizzare è liberare. La paideia è la via che conduce alla libertà. È vero che nella Repubblica il problema della libertà non viene affrontato in maniera organica; di tale problema infatti si parla solo per fugaci accenni. Ma come poteva Platone escludere dal suo modello «primo», dal suo stato «giusto» e «perfetto» la libertà e istanziarla invece nello «stato secondo» e «imperfetto» descritto nelle Leggi […]? […] Come avrebbe potuto Platone, acuto indagatore e profondo conoscitore dell’animo umano e del suo insopprimibile anelito di libertà, concepire uno stato che fosse in netto contrasto con quelle profonde esigenze umane per la cui crescita e soddisfazione, del resto, lo stato stesso è nato e ha senso?
La considerazione platonica dell’individuo non fa mai astrazione dalla comunità alla quale egli appartiene e in cui vive e convive. Nello stato platonico, individuo e società interagiscono in modo armonioso, senza squilibri. […] Un chiaro esempio di come Platone trattasse con pari dignità individuo e società, senza alcuna propensione a far prevalere l’una a scapito dell’altro, o viceversa, è dato da Repubblica, IV, 441 c-d, in cui, alternativamente, stato e individuo vengono considerati modelli l’uno dell’altro. Per non parlare poi di quelle profonde ed eloquenti pagine dei libri VIII e IX, dove trasformazioni costituzionali e trasformazione dei caratteri individuali procedono in perfetta sintonia, senza squilibri e sfasature.
Se dunque […] per Platone lo stato non è «tutto», nel senso che non è il «fine» assoluto cui la persona si rapporterebbe come puro «mezzo», occorre tuttavia guardarsi dal cadere nell’errore opposto; affermando cioè che nella Repubblica l’individuo è «il prius rispetto allo stato».[6] Questa ipotesi, infatti, al pari della precedente, poggia su basi alquanto labili. […] Il problema dei rapporti stato-individuo non può essere risolto ricorrendo a categorie del tipo prius-posterius. Poiché in tal modo si corre il rischio di falsare gli stessi termini del problema.
In che senso, infatti, l’individuo può essere il prius? Non certo sul piano fisico, ontologico; dov’egli si presenta chiaramente come il «risultato» della volontà o, comunque, dell’azione procreatrice dei genitori e, quindi, come posterius. L’individuo può forse considerarsi il prius sul piano etico? Anche su questo piano il problema si presenta tutt’altro che semplice. Certamente, una norma diviene etica nel momento in cui s’impone alla coscienza, o meglio, nel momento in cui la coscienza la riconosce e liberamente l’accetta come vincolo insuperabile, ossia come un «imperativo» cui si ispira la «massima» che guida il proprio «agire». In questo senso la norma etica, in quanto scaturente da un processo interiore è senz’altro un fatto individuale, anzi si rivela come il fatto individuale per eccellenza. E tuttavia rimane pur sempre, al tempo stesso, un fatto sociale, dal momento che si tratta di una libera (e perciò etica) accettazione di una norma preesistente all’individuo, nel senso ch’egli la « riconosce» (prima ancora di accettarla e farla propria) perché la «trova», per così dire, già in qualche modo operante nel contesto di società-storia in cui vive.
[…] Proprio perché sociali tali «valori» hanno la loro prima radice nella volontà delle singole persone che formano appunto la società. La norma morale, oggettiva e universale, non è un misterioso a priori, un dettame della «pura ragione» di cui si ignora la genesi, ma è un risultato storico, ossia il prodotto della convergenza di una pluralità di singole volontà verso un obiettivo comune: la salvezza e il progresso dell’umanità. Cioè dell’uomo in quanto specie, non in quanto singolo. Un patrimonio (culturale, certo, non genetico) che gli uomini di ieri hanno lasciato alle generazioni presenti le quali, a loro volta, hanno il «dovere» di trasmetterlo, migliorato, a quelle future. Poiché è in tal modo appunto che l’umanità si va costruendo.
[…] Se il problema dei rapporti stato-individuo s’imposta in termini di prius e di posterius, invece di avvicinarsi alla soluzione dello stesso ci si allontana. Stato e individuo non possono essere considerati secondo un prima e un dopo, perché essi non sono entità distinte e contrapposte. La società non è altro che l’insieme degli individui che la compongono, mentre l’individuo, a sua volta, non può essere concepito se non come membro di una società. Al di fuori di ogni rapporto sociale l’individuo umano semplicemente non sussisterebbe come tale. Affermare che l’individuo è il «prius rispetto allo stato» sarebbe come dire che l’individuo è il prius rispetto alla specie. Il che, evidentemente, sarebbe privo di senso dato che l’individuo è, per dirla con Kierkegaard, «in ogni momento … se stesso e la specie».[7]

 

Cosimo Quarta, L’utopia platonica. Il progetto politico di un grande filosofo, Edizioni Dedalo, Bari 1993, pp. 7-7, 240-247.

***

[1] Platone, Repubblica, IV, 420 b-e. Il medesimo concetto è ribadito a VII, 520 e, e anche altrove. Che Platone mirasse a rendere «veramente felice» ogni cittadino del suo «ottimo stato», lo aveva già riconosciuto un critico piuttosto severo del pensiero politico platonico come R.H. Crossman, Plalo Today, London, 1937, p. 111.

[2] Aristotele, Politica, II, 1264 b 22-24. È opportuno osservare che in altro luogo Aristotele affermerà, come Platone, che uno stato è felice non se una sola classe è felice, ma se tutti i cittadini lo sono. Cfr. Ivi, VII. 1329 a 22-24.

[3] Cfr., tra gli altri, Alcibiade primo, 134 b -135 e; Gorgia, 493 b-d; 506 d – 508 a; Repubblica, V, 621 c-d e passim; Leggi, II, 661 d – 663a; anche V, 732 d – 734 e.

[4] Eutidemo, 280 a – 282 a.

[5] Eutidemo, 282 a.

[6] M. Isnardi Parente, Socrate e Platone, p. 245.

[7] S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, tr. it., Firenze, 1968, p. 33.


Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Cosimo Quarta – Se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana.
Cosimo Quarta – Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità, ossia bisogno forte e urgente di utopia, il cui strumento privilegiato è la progettualità.
Cosimo Quarta – Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino.

Cosimo Quarta (1941-2016) – Nell’utopia si esprime la coscienza critica per la carenza d’essere, per l’insufficienza fattuale del reale, per la sua non rispondenza ai bisogni umani.

Cosimo Quarta (1941-2016) – Il mondo ha bisogno come non mai di utopia, di progettualità. L’utopia è un progetto storico, nasce da una profonda coscienza etica, si sviluppa in una coscienza critica e s’adempie in una coscienza progettuale. La coscienza utopica non è una coscienza sognante, pigra, pacificata con la realtà, e proprio perché si riconosce finita, limitata, è pronta al rischio e perfino allo scacco. Fine dell’utopia significa assenza di progettualità, smarrimento dei valori-guida.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Cosimo Quarta (1941-2016) – Il mondo ha bisogno come non mai di utopia, di progettualità. L’utopia è un progetto storico, nasce da una profonda coscienza etica, si sviluppa in una coscienza critica e s’adempie in una coscienza progettuale. La coscienza utopica non è una coscienza sognante, pigra, pacificata con la realtà, e proprio perché si riconosce finita, limitata, è pronta al rischio e perfino allo scacco. Fine dell’utopia significa assenza di progettualità, smarrimento dei valori-guida.

Cosimo Quarta - Utopia - Progettualità

Per un risveglio della coscienza utopica

[…] Oggi viviamo in società estremamente complesse. Alcuni ritengono che è proprio la complessità a non tollerare progetti sociali di sorta. Poiché, si dice, è praticamente impossibile forzare entro schemi progettuali le odierne società complesse, è meglio rinunciare ai progetti globali, considerati come arbitrarie fughe in avanti, e limitarsi a controllare di giorno in giorno i singoli sottosistemi, intervenendo soltanto là dove dovessero verificarsi grosse smagliature che potrebbero mettere in crisi il sistema nella sua interezza. Non ci si accorge che è stata proprio l’assenza di un progetto globale, la politica del giorno per giorno e degli interventi-tampone a determinare quello che forse può essere considerato il più grosso disastro di tutti i tempi: la crisi ecologica a livello planetario. Così come è l’assenza di progettualità politica a produrre le forti sperequazioni tra cittadini nei Paesi sviluppati e il crescente divario, sotto ogni profilo, tra il Nord e il Sud del mondo. Altro che “fine dell’utopia”. Oggi il mondo ha bisogno come non mai di utopia, di progettualità. Si tratta certo di intendersi. È chiaro che qui, per utopia, non s’intende quella banalizzata dal marxismo, né quella demonizzata dall’ideologia borghese. Non è cioè vuota “fantasticheria” né progetto totalizzante.

L’utopia […] è un progetto storico, che nasce da una profonda coscienza etica, si sviluppa in una coscienza critica e s’adempie in una coscienza progettuale. Tale è infatti l’originario contenuto semantico del termine stesso, che oscilla, appunto, tra ou-topia “nessun luogo”) ed eu-topia “buon luogo”). L’utopia come luogo della società buona e felice che non c’è ancora. Il pensiero utopico nasce dalla consapevolezza che il mondo, o meglio, la società, così com’è, è carente d’essere: è inadeguata cioè a soddisfare i bisogni di ciascuno e a garantirne i diritti. Lo stato di cose presente è sentito fondamentalmente come ingiusto proprio perché non dà a ciascuno il suo. Questa rivolta morale contro l’ingiustizia sarebbe tuttavia velleitaria e impotente se non si tramutasse in coscienza critica, se cioè non individuasse quelle forme e quelle strutture concrete che sono causa d’iniquità, in ordine alla loro rimozione. Ma lo spirito critico-eversivo non sarebbe fecondo se non fosse sorretto da una coscienza progettuale, la sola che permette di ricostruire o rifondare la società secondo i dettami della giustizia, ossia di sostituire il “vecchio” con il “nuovo”.

Questo non significa […] che la mentalità utopica sia protesa a negare in maniera assoluta il presente, ossia a negare non solo il “negativo”, ma anche quel che di “positivo” vi è nel presente. In realtà, non tutto ciò che il presente contiene è “vecchio”, vale a dire superato, non rispondente agli imperativi della coscienza etica. Proprio perché l’utopia è il progetto della storia, che è nato e si va facendo nella storia, essa non può rinnegare le sue stesse conquiste. La coscienza utopica non rinuncia al bene presente in vista di un bene futuro. Al contrario, essa accetta e conserva tutto ciò che di positivo il presente offre, ben sapendo che il presente non è altro che il futuro del passato. In ogni presente possono venire a maturazione le spinte e le aspirazioni delle generazioni passate. La critica del presente, dunque, mira solo a rigettare tutto quel che di negativo e ingiusto il presente racchiude in sé.

Quella utopica non è una coscienza sognante, pigra, pacificata con la realtà, ma è sempre vigile, inquieta e in lotta contro le ideologie di turno, che tendono a mascherare la realtà effettuale, presentandola come il migliore dei mondi possibili. Avendo come suoi valori-guida fondamentali la giustizia, la libertà, l’uguaglianza, la fraternità, l’amore, la felicità, la pace, la coscienza utopica si protende a realizzarli con tutte le proprie forze. E poiché la realizzazione dei valori passa anzitutto attraverso le coscienze dei singoli, essa non può mai essere data per acquisita una volta per tutte. Donde la continua tensione, la vigilanza per evitare la ricaduta nell’ideologia, che è sempre in agguato per riproporre subdolamente istanze obsolete e “ripescaggi” antistorici.

La coscienza utopica, proprio perché si riconosce finita, limitata, è pronta al rischio e perfino allo scacco. Solo che il rischio e lo scacco non la deprimono, ma le infondono coraggio, perché sa bene che gli autentici valori umani che essa persegue possono pur subire uno scacco nel breve periodo, ma alla lunga prevarranno. La coscienza utopica consente all’uomo di correre il rischio di pensare e decidere autonomamente. Le nostre società, dove il lavoro sociale si svolge in forme sempre più parcellizzate, hanno di fatto espropriato l’uomo del gusto del rischio, deprivandolo così anche della responsabilità. Tale espropriazione, che con il passare del tempo si è tramutata in una tacita delega agli “specialisti” (della politica e della scienza-tecnologia) di pensare e di decidere per tutti, ci ha regalato quella che a giusta ragione è stata definita «la società del rischio». […] Occorre perciò riappropriarsi del diritto al rischio, del diritto a decidere responsabilmente e autonomamente, liberandosi dalle “tutele” false e interessate e, in particolare, dall’ideologia scientista, che non è meno pericolosa delle altre di cui si “celebra”, spesso in modo allegramente discorsivo, la crisi.

Si può dunque affermare che mentre la crisi delle ideologie, se correttamente intesa, costituisce un fatto largamente positivo, poiché ci libera dalla “falsa coscienza”, la crisi, o ancor più la fine dell’utopia sarebbe una sciagura per l’umanità.

Fine dell’utopia significa assenza di progettualità, smarrimento dei valori-guida, e quindi ritorno a uno stato ingiusto, dove i rapporti umani vengono regolati non dalla coscienza etica e dalla ragione, bensì dalla forza. Se dovesse venir meno l’utopia, la stessa politica, da arte o scienza del buon governo degli uomini, decadrebbe a mera lotta per il potere sugli uomini. Sarebbe il trionfo definitivo di quella che è stata recentemente definita «ragione cinica». Una strada su cui si è incamminata gran parte delle nostre società, proprio a causa dell’affievolirsi della coscienza e della tensione etica, che ha portato alla crisi e allo smarrimento dei valori autenticamente umani e, di conseguenza, alla caduta dello spirito utopico. Se la storia ha un qualche valore pedagogico, essa ci insegna che sovente il sonno dell’utopia ha generato i mostri.

È dunque tempo di svegliarsi, per riprendere, con l’energia necessaria, il cammino interrotto dalle forze distopiche, che in questi ultimi decenni hanno prevalso, anche a causa dell’attuale processo di globalizzazione, che si sta rivelando profondamente dannoso e ingiusto non solo per l’uomo, ma anche per l’ecosfera.

Cosimo Quarta, Homo utopicus. La dimensione storico-antropologica dell’utopia, Dedalo, Bari 2015, pp. 167-170.


Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Cosimo Quarta – Se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana.
Cosimo Quarta – Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità, ossia bisogno forte e urgente di utopia, il cui strumento privilegiato è la progettualità.
Cosimo Quarta – Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino.
Cosimo Quarta (1941-2016) – Nell’utopia si esprime la coscienza critica per la carenza d’essere, per l’insufficienza fattuale del reale, per la sua non rispondenza ai bisogni umani.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Petite Plaisance – La «buona utopia» oggi è necessaria per l’indispensabile pianificazione comunitaria e per realizzare una umanità felice. Finché la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale continuerà ad avere un ruolo centrale, la parte migliore della umanità rimarrà schiacciata. La «buona utopia» si oppone e guarda «oltre» il sistema privatistico e la sua ideologia, e pertanto agisce come forza dialettica all’interno del processo storico.

Petite Plaisance -Utopia buona copia

La modernità (da intendersi qui come contemporaneità) è l’epoca della scienza e della tecnica, non della filosofia, che pure, occupandosi dell’intero, ne costituisce la base. La scienza e la tecnica, le quali si occupano delle parti, senza una consapevolezza filosofica sono però cieche rispetto al fine di cui sono strumenti. Tale fine, da almeno un paio di secoli, è purtroppo dettato dal modo di produzione capitalistico, e consiste dunque nella massima valorizzazione del capitale, il quale non ha nessuna cura per l’uomo e nessun rispetto per la natura.
In merito alla effettuale priorità moderna della scienza e della tecnica sulla filosofia, concordano sia la maggioritaria componente liberale della modernità, sia la minoritaria componente marxista. Per ambedue queste componenti, il pensiero filosofico-politico classico è infatti secondario in quanto “non scientifico”. Ciò, per il pensiero liberale, lo rende “pericoloso”, in quanto esso – non richiesto – effettua analisi ed emette giudizi sulla totalità sociale; ciò, per il pensiero marxista, lo rende invece “inefficace”, in quanto il pensiero filosofico-politico classico si illude soltanto di effettuare analisi ed emettere giudizi sulla totalità sociale. In sostanza, ciò che il pensiero moderno critica più duramente del pensiero filosofico-politico classico è la sua pretesa di fondazione onto-assiologica, ritenuta arbitraria, e la sua conseguente – e pertanto ancor più arbitraria – “utopia progettuale”.
Del concetto di “utopia” si sono date almeno due interpretazioni. La prima, liberale, sostiene che ogni “utopia” è espressione di un pensiero totalitario e violento (un sostenitore di questa tesi fu ad esempio Karl Popper). La seconda, marxista, sostiene che ogni “utopia” è espressione di un pensiero astratto ed illusorio (sostenitori di questa tesi furono anche, almeno in parte, Karl Marx e Friedrich Engels).
L’etimologia greca del termine «utopia», coniato da Tommaso Moro, in qualunque modo venga ricavata, se in alcun caso può autorizzare la interpretazione liberale, può invece autorizzare la interpretazione marxista, che considera in sostanza l’utopia come la descrizione non di un «cattivo luogo», bensì come la descrizione di un «non luogo», ovvero di qualcosa di irrealizzabile nella storia. Tuttavia, come lo stesso Moro fa ben comprendere nel suo celebre testo, l’etimologia greca più verosimile del termine, ma soprattutto la più auspicabile, è quella per cui l’utopia descrive un «buon luogo» ideale in cui vivere, un modo di produzione sociale ideale conforme alla natura umana. È questa del resto la migliore definizione possibile di “comunismo”: quella di un modo di produzione sociale in cui gli uomini possano vivere in modo armonico realizzando la propria natura razionale e morale, dunque realizzando se stessi in modo compiuto.
Contro ogni interpretazione “utopica” del comunismo (ossia contro ogni “progettazione di un buon luogo ideale in cui vivere”) si è, come accennato, schierato pressoché tutto il pensiero marxista, a cominciare da quello originario di Marx ed Engels. Questo erroneo e fuorviante approccio – la cui genesi è da ricavare nel clima scientistico-positivistico in cui si formò il pensiero marxiano e marxista – deve essere radicalmente rivisto, in quanto costituisce un regresso anche rispetto alla antica tradizione platonica. Soffermermandosi, sebbene sinteticamente, sul pensiero utopico di poco antecedente la nascita della modernità, strettamente derivato dal pensiero antico, si può dire quanto segue.
I nomi dei due principali utopisti premoderni di epoca rinascimentale sono noti a tutti: Tommaso Moro e Tommaso Campanella. Il primo si ispirò fortemente a Platone, il secondo si ispirò fortemente al primo (oltre che al pensiero cristiano), a riprova di come il pensiero filosofico-politico classico sia stato il principale ispiratore del comunismo premoderno, ossia premarxiano. Nonostante tale rapporto diretto – o forse anche a causa dello stesso – Marx ed il marxismo ritennero in linea generale il tentativo utopico-progettuale del pensiero filosofico classico, così come quelli di Moro, Campanella e degli altri socialisti di epoche successive, “utopici” nel senso di “astratti, illusori, irrealizzabili”. Marx ed il marxismo ritennero tali questi tentativi in quanto non basati, a loro avviso, sulla analisi delle condizioni storico-sociali presenti, ma solo sul concetto classico – per loro assai discutibile – di “natura umana”.
L’utopia progettuale pre-moderna fu insomma, per Marx ed il marxismo, nonostante alcuni meriti della medesima, quasi inservibile sia sul piano pratico (in quanto si basava sulla politica anziché sulla storia), sia sul piano teorico (in quanto si basava sulla filosofia anziché sulla scienza).
Questa tesi è da ritenere errata. Pur nella consapevolezzza – basti consultare le molteplici pubblicazioni edite in proposito da Petite Plaisance negli ultimi 25 anni – del valore filosofico e scientifico del materialismo storico, e dunque della importanza della analisi storico-sociale, si sottolinea però che, senza mai giungere ad una consapevole comprensione filosofica, l’analisi storico-sociale, per quanto “scientifica”, non conduca a nulla. Molte premesse marx-engelsiane che si volevano “scientifiche” si sono peraltro rivelate errate in quanto, verosimilmente, inserite all’interno di un quadro di riferimento di tipo “scientistico-fideistico” – che ne richiedeva la “certezza” ma che come tale non era in grado di garantirla –, e non all’interno di un quadro filosofico classico, in cui invece avrebbero potuto essere valutate entro un più corretto orizzonte di “potenzialità” onto-assiologica.

Tornnando in ogni caso, per un momento, a Platone, occorre rilevare che, ispirandosi al suo pensiero, anche Moro e buona parte degli utopisti partirono dalla analisi critica e dalla valutazione negativa del proprio contesto storico-sociale, per delineare un modo di produzione sociale ideale storicamente realizzabile. Può essere interessante, per comprendere – in continuità col precedente pensiero greco e cristiano, ed in anticipazione del successivo pensiero moderno di Spinoza, Fichte, Hegel e Marx – il contenuto umanistico ed anticrematistico del pensiero utopico rinascimentale, riportare alcuni brani tratti proprio dall’Utopia di Moro che, se si escludono alcuni pensatori stoici, fu colui che per primo recuperò la grande progettualità ideale platonica.
Moro, che scrisse Utopia nel 1516, analizzò in maniera lucida la realtà del proprio tempo, ed individuò sin da allora nella proprietà privata dei mezzi della produzione sociale, e nella conseguente centralità della merce e del denaro, la radice principale dei maggiori mali sociali. Contrariamente, infatti, a tutti coloro che considerano Moro e gli utopisti come pensatori astratti e fantasiosi, la lettura di qualche brano dell’Utopia potrà confermare che Moro aveva idee molto concrete e chiare. A suo avviso, in effetti, è letteralmente impossibile ben governare e far fiorire una buona comunità laddove tutto si misuri sulla ricchezza privata.
Moro fu d’accordo con Platone su questo punto, e dunque ritenne che il solo modo per perseguire il benessere della comunità consiste nell’applicare in ogni campo il principio di uguaglianza; ma tale principio, sia per Platone che per Moro, non può essere rispettato nel momento in cui si tollera la proprietà privata. Secondo Moro, finché la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale continuerà ad avere un ruolo centrale, la parte migliore della umanità rimarrà schiacciata dall’inevitabile fardello della povertà e della miseria.
Egli peraltro non si limitò alla ricerca delle cause della disarmonia sociale ma, coerentemente, propose anche delle soluzioni che, a suo avviso, avrebbero dovuto essere accettate dai governanti per ricostituire un minimo di giustizia e di armonia sociale. In maniera analoga a Marx ed Engels – ma anche, ancora una volta, a Solone e Platone – Moro propose infatti di porre un limite ai terreni che ognuno può possedere, e al denaro che ciascuno può accumulare. Egli fu però consapevole che, senza la realizzazione di un modo di produzione compiutamente comunitario, con simili riforme potevano solo essere mitigati i mali cui accennava, un po’ come assidue e continue cure possono solo lenire le sofferenze di un corpo prossimo alla morte. Di curarlo a fondo non se ne parla nemmeno, finché esiste la proprietà privata.
Non fosse che per queste parole, Moro risulta essere assai più radicale di molti “intellettuali di sinistra” che pure oggi vanno per la maggiore, i quali o si rifiutano di fare proposte, o fanno proposte “riformistiche” spacciandole per rivoluzionarie, o ipotizzano inverosimili “salti in avanti”. Moro invece, consapevole che «dove tutto si misura col denaro, si devono necessariamente esercitar molte arti del tutto senza senso, a servizio soltanto del lusso e del capriccio», riteneva che fossero completamente da rivoluzionare le finalità e le modalità della produzione, ma che ciò non potesse essere fatto senza un preliminare rivoluzionamento delle forme della proprietà. Se infatti la proprietà dei mezzi della produzione fosse comune, anche il lavoro potrebbe essere comune e pertanto l’attività da svolgere potrebbe essere distribuita nelle occupazioni necessarie al soddisfacimento dei bisogni primari, occupando un tempo assai minore, ma sufficiente per produrre tutto ciò che serve per vivere felici. In effetti, per Moro, tutto il tempo che non è strettamente necessario per i bisogni primari dovrebbe essere meglio impiegato dai cittadini, dedicandosi alle attività dello spirito e della cultura. In rapporto alle scarne affermazioni di Marx su come dovrebbe essere il comunismo, Moro – che pure non utilizza mai questo termine – sembra avere le idee molto più chiare, sottolineando innanzitutto la necessità di una pianificazione della produzione e della distribuzione: i prodotti del lavoro devono essere portati in determinati edifici, per essere divisi a seconda del genere; da questi magazzini si deve prendere solo ciò di cui si  ha bisogno, senza dare in cambio denaro né prestazioni particolari. E, d’altronde, perché si dovrebbe prendere più di quanto risulti bastante, sapendo che non verrà mai a mancare nulla? In questo modo, scrive Moro, l’intero paese sarà come un’unica famiglia, in cui i comportamenti non comunitari saranno socialmente condannati.
Per Moro, gli abitanti dell’isola di Utopia, ossia i futuri uomini di una società comunista, saranno felici in quanto non subiranno più il dominio della economia, ma lasceranno primeggiare la politica o, meglio ancora, la filosofia. «La questione fondamentale che costoro si pongono è in che cosa consiste la felicità dell’uomo», ed essa consiste nel «vivere secondo natura». La natura, a sua volta, «invita a vivere gioiosamente sostenendosi a vicenda». Privarsi di qualcosa per darla ad un altro è segno di umanità e gentilezza, ed è soprattutto motivo di arricchimento spirituale. Questa la struttura comunitaria che fu propria, in seguito, di varie utopie. Tutte o quasi queste utopie, da Moro in avanti (almeno fino al XIX secolo), hanno in effetti non solo stigmatizzato la proprietà privata ed il mercato, ma anche lo sfruttamento, la alienazione ed i lunghi orari di lavoro.
Chiunque ritenga ogni fondato modello di totalità sociale come un qualcosa che si connoterebbe soltanto come statico ed astratto, non comprende il carattere insieme dinamico e concreto delle utopie. Tale carattere è stato in effetti messo in evidenza da pochi studiosi, fra cui sicuramente Luigi Firpo, secondo cui l’utopia si oppone sempre ad un determinato sistema ed alla sua ideologia, e pertanto agisce appunto come forza dialettica all’interno del processo storico. Un altro autore che si è espresso in tal senso – esperto, non a caso, di utopie antiche – è stato Lucio Bertelli, per il quale «il rapporto fra utopia e realtà è dialettico, nel senso che lo stesso insegnamento delle condizioni date e rifiutate si presenta come un’operazione di rettifica globale, che affonda le sue radici in una analisi radicale della realtà stessa».
Da un lato il liberalismo, e dall’altro il marxismo, hanno attaccato il concetto di utopia (pur diversamente inteso). Tuttavia, l’utopia intesa come «buon luogo» ideale, come «paradigma in cielo» (lo scriveva Platone nella Repubblica, 592 B), rimane un elemento insostituibile per il pensiero umano, poiché per favorire la realizzazione di una totalità sociale migliore non vi è modo più appropriato che pensarla prima nelle sue strutture essenziali, valutando teoreticamente appunto prima se essa possa reggere alla prova dei fatti ed essere desiderabile, così da porsi poi come modello realizzabile. Nonostante, infatti, le due discutibili concezioni dell’utopia prodotte dal liberalismo e dal marxismo, essa rimane sostanzialmente un progetto al contempo di critica radicale del proprio contesto storico-sociale, e di costruzione teorica di un modo di produzione sociale alternativo.
In un contesto come l’attuale, in cui regnano ingiustizia, sofferenza, povertà, alienazione, sfruttamento, l’unico motivo che spinge le persone a non voler abbandonare il capitalismo è l’incertezza nei confronti del mondo che potrà esserci, una volta che quello presente sia stato sostituito. Ebbene: nei limiti del possibile, ossia nei limiti della contingenza storica che necessariamente accompagnerà l’eventuale realizzazione di questo progetto, la «buona utopia» vuole proprio ridurre questa incertezza, ritenendo di poterlo fare non descrivendo le presunte leggi scientifiche della storia che dovrebbero portare al superamento del capitalismo, bensì delineando i princípi filosofici tramite cui questo progetto di superamento può e deve essere realizzato. La filosofia infatti, assai più della storia, costituisce la principale modalità culturale che può produrre una risposta politica di ampio respiro, la quale abbia come Soggetto l’intero genere umano trascendentalmente inteso (e non una singola classe). L’armonia, la comunità, la felicità o sono di tutti o di nessuno, poiché non si può essere realmente felici (ossia vivere in modo armonico e comunitario) quando una così gran parte dell’umanità soffre per cause evitabili. Poiché le cause di sofferenza umana (su vari piani) determinate dalle modalità sociali capitalistiche sono evitabili, è necessario pensare ad una nuova progettualità comunista, semplicemente per coerenza verso ciò che l’umanità richiede per realizzare compiutamente se stessa. Facciamo però un passo alla volta.
Circa la tesi della possibilità di delineare in anticipo i tratti generali di un modo di produzione sociale alternativo, va detto che anche i critici del capitalismo più vicini alla filosofia tendono a diffidarne. Costoro ritengono in effetti che, così come si possono conoscere – data la limitatezza della condizione umana – solo poche facce di quel prisma poliedrico che è la storia dell’uomo, allo stesso modo si possono conoscere solo poche facce di quel prisma poliedrico che è l’uomo. L’uomo insomma, essendo – come molti filosofi nel corso del tempo hanno scritto – un ente troppo complesso per poter essere definito, sarebbe a loro avviso un ente che non possiede una natura stabile, bensì una natura mutevole nei diversi contesti storico-sociali. Per questo motivo non sarebbe pensabile alcuno stabile progetto di modo di produzione sociale ideale alternativo.
Non dobbiamo stupirci della forza di questa tesi, che anche Marx, come ricordato, ha sostenuto in ampi passaggi della sua opera. Non dobbiamo stupircene poiché sostenere che una natura umana esiste, che può essere definita e che la sua struttura è razionale e morale (ossia che essa, per realizzarsi e rendere l’umanità felice, deve operare per la verità e per il bene), vincola, impegna, impone di realizzare nella vita, in ogni momento, i comportamenti migliori, quelli umanamente più rispettosi e fraterni, che certamente sono inizialmente i più difficili da porre in essere nell’attuale contesto storico-sociale. Non si tratta, sostenendo la tesi della esistenza e della definibilità della natura umana, di essere vittime del mito della “trasparenza totale” dell’uomo, che ci farebbe ritenere capaci di conoscere ogni lato di quel famoso prisma cui si accennava in precedenza. Si tratta solo di comprendere che l’uomo, come ogni ente facente parte dell’essere, possiede necessariamente una essenza, una sostanza, un contenuto stabile al di là delle sue empiriche molteplici determinazioni (anche il prisma, del resto, pur avendo molteplici facce, rimane pur sempre sostanzialmente un prisma), e che tale contenuto può dall’Uomo essere compreso.
La «buona utopia» oggi è necessaria poiché, nella attuale devastazione materiale e spirituale della vita posta in essere dal modo di produzione capitalistico, per rapportarsi al futuro ci si deve affidare alla dimensione del “progetto”, ossia ad una visione d’insieme di ciò che gli uomini sono e di ciò che devono essere per realizzare una umanità felice.



1 2 3 4