Anna Beltrametti – Populismo: da oggi alla scena originaria, comica e nera di Aristofane. Per contendersi il favore del Popolo, trasformato da soggetto politico in oggetto (in merce), i contendenti si rivelano per quello che sono: strumenti, burattini di un’élite che li manovra e li usa senza apparire.

Beltrametti Anna_Aristofane
Fortunato Depero, Al teatro dei piccoli/Balli plastici, 1918
Anna Beltrametti

Populismo: da oggi alla scena originaria, comica e nera di Aristofane

Populism: from today to the original, comic and black scene of Aristophanes

Starting with the debatable and discussed term of populism, the essay deepens the contemporary political drift in which people, rather than a political subject, become an object, a commodity of exchange. The illusion of direct democracy, as it is represented and unmasked in the Knights, is re-proposed to the attention of an audience not always willing to look and understand what is happening on stage. For Aristophanes and for us, paying too much attention people seems to coincide with the extreme degradation of politics that has betrayed its tasks and has taken ugly folds, like the “dirty and somewhat loose shoes” of Giorgio Gaber.

Giorgio Gaber

Vorrei ripartire da un Gaber indimenticabile, ma non per mettermi nel coro di chi lamenta o canta la fine della destra e della sinistra.

Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po’ di destra
ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos’è la destra cos’è la sinistra…

Come le scarpe sporche e un po’ slacciate… il populismo – i comportamenti e i linguaggi che oggi definiamo populisti – è da manipolati spesso inconsapevoli e da manipolatori sempre consapevoli, più che di sinistra o di destra. E non perché la sinistra e la destra abbiano finito il loro tempo come alcuni si affannano ad argomentare – del resto dopo il 1989 si era decretata anche la fine della storia conclusa con la fine della guerra fredda – ma perché, come le scarpe di Gaber, hanno preso una brutta piega. Si sono sformate nelle varianti del populismo che, tutte, prendono le parole chiave da una parte e dall’altra e le associano in un quadro che ne richiama altri già visti e sperimentati in varie epoche e in vari luoghi: i diritti del popolo affidati all’abbraccio dell’uomo forte che saprà garantirli.
Il populismo non è un’ideologia né un partito né una linea politica. Ma non è neppure un’invenzione nominalistica, considerata la greve concretezza degli uomini che lo interpretano. Il populismo è una modalità, accuratamente e scientemente sgangherata di fare politica a sinistra come a destra in un’ignobile ed efficacissima gara di degradazione dei linguaggi e degli ideali.
Troppo si è detto anche sulla legittimità e non legittimità del termine “populismo”. Marc Bloch ci ha insegnato che la storia è irreversibile e che non si ripete neppure quando eventi o atmosfere contemporanee sembrano riecheggia­re o addirittura ripresentare fatti e situazioni del passato più o meno recente: altro senso e altro impatto hanno eventi e comportamenti simili in contesti socioculturali del tutto mutati. E davvero poco o nulla ha a che fare, almeno nella coscienza e nella competenza storica dei più, il cosiddetto populismo di questo primo XXI secolo con il populismo russo, narodničestvo, propriamente detto delle sperimentazioni sociopolitiche nella Russia zarista di metà Ottocento, in tempi e luoghi di produzione asiatica.
Certo è che il termine italiano “populismo”, con quel suffisso –ismo che nella nostra lingua indica l’astrazione, ma spesso alludendo alla maniera e all’eccesso – si pensi a virtuosismo vs virtù, a paternalismo vs paternità, a trionfalismo vs trionfo e, per restare nella stessa costellazione del populismo, a sovranismo vs sovranità e a protezionismo vs protezione — peggiora la nozione di “popolo” e di “popolare” da cui origina. E non c’è demagogia che tenga per dare un nome più antico, o più “classico” e nobile, ai populismi di oggi, se intendiamo la parola greca etimologicamente come capacità di un oratore di persuadere e trascinare dalla propria parte, una parte ben definita, l’antica assemblea popolare. Non può la demagogia, intesa come suprema padronanza delle tecniche del discorso al servizio di un’ideologia o di una battaglia, ricoprire le implicazioni salienti che il termine populismo si porta dentro. E in italiano, forse più che in altre lingue, il nome suona perfetto per indicare quella frequentazione insistita, quel troppo di attenzione, quasi una compulsione, che deteriora l’oggetto dell’interesse, il popolo, trasformandolo da soggetto politico in oggetto, si potrebbe dire merce, di scambio. In tal senso “populismo” è anche nome del tutto coerente con le politiche attuali, italiane e non solo italiane, dei sussidi e delle elargizioni una tantum prevalenti sulle politiche strutturali a lungo termine del lavoro. Con quelle politiche bipartisan del “dono” che alimentano e non sconfiggono le nuove povertà e che, provvedimento dopo provvedimento, trasformano il popolo sovrano in plebe clientelare da vendere e comprare secondo i flussi del consenso.
Non c’è dubbio che all’origine del populismo contemporaneo nelle sue varianti, per altro meno evidenti e meno percepibili delle analogie, ci siano gli scadimenti della politica tradizionale da gioco dell’intelligenza astuta a gioco truccato, quando non sporcato da troppo frequenti episodi di inadeguatezza o di collusione e financo di corruzione. Sono le élites che hanno smarrito anche gli ultimi retaggi della cultura della vergogna ad aver legittimato le intemperanze, anche le sfrontatezze, dei populismi. Ma i populismi, all’estremo delle derive politiche, non sono più politica e non promettono rinascite politiche. È difficile immaginare che possano produrre nuove aggregazioni o nuove comunità, movimenti e discorsi che, per un verso, insistono su un popolo astratto e unanime, del tutto fittizio, e per l’altro seminano paure e divisioni, facendo leva sui pericoli dell’altro, inteso prima come straniero migrante e ravvisabile poi nel competitor della porta accanto. È più facile prevedere che questi movimenti e questi discorsi, con la straordinaria insistenza sul popolo cui vogliono dare voce e che si impegnano a proteggere, invece che a una linea di pensiero condiviso approdino a soluzioni autoritarie incentrate sì su una voce sola, quella dell’uomo solo al comando. A meno che il popolo, non quello astratto e unanime della finzione populista, ma quello reale e plurale della storia, non si risvegli, stuzzicato dagli eccessi di accudimento di qualcuno dei suoi sedicenti interpreti o servi, e li giochi uno contro l’altro riprendendosi la scena e la parola. Così accadeva nei Cavalieri di Aristofane, la commedia che aveva drammatizzato e smascherato, dandone spettacolo, l’irrefrenabile e stucchevole corsa al popolo di due rivali pronti a tutto e capaci di tutto, panourgoi paradigmatici.

 

La commedia, composta nel 424 dal drammaturgo come allegoria esplicita, costruisce un quadro ancora interessante, oltre che esilarante, di un impegno supremo a servire il popolo con lo scopo malcelato di asservirlo. Due servi, quello in carica e quello che cerca di scalzarlo, si affrontano sulla pubblica piazza per garantirsi il posto di primo servo presso un vecchietto apparentemente rimbambito di nome Demos, Popolo. Nella finzione comica, il servo in carica si chiama Paflagone, un nome che è un programma comico e allude a un’origine straniera e schiavile dalla Paflagonia in Asia Minore, ma è anche onomatopeico del roboante gorgogliare di una pentola straripante. Si è arricchito con l’attività di conciapelli, mentre l’altro, che arriva chiamato dai Cavalieri del coro, è un salsicciaio, un conciabudella dunque. I due si combattono a forza di manicaretti, torte e doni di vestiario offerti a Demos che attende a bocca aperta di essere ingozzato e imbonito. Si insultano e si minacciano con un linguaggio estremamente violento, rivendicando però, ciascuno per sé, la più infima bassezza, la furfanteria più spregiudicata, il primato nel servilismo totale. La violenza delle invettive è calata in una rete di metafore ossessivamente giocate sul cibo, sul mangiare o essere mangiati, sul far mangiare e sul farsi mangiare, sul rubare e sul corrompere, sul concedere briciole per sottrarre di nascosto le focacce.

La prima edizione dell’opera in lingua italiana (Venezia, 1545).

I fondamentali dei populismi, anche di quelli attuali, sono tutti in gioco nei Cavalieri*. Il linguaggio semplificato e forte, letteralmente triviale perché appreso nei trivi della città, dei due rivali e i loro scontri senza mediazione possono essere intesi come pratiche estreme e caricaturali della democrazia greca e diretta che esprime la voce del popolo e parla al popolo. Ma Aristofane è perfido: nel corso della commedia, i due che si battono per contendersi il favore di Popolo, alias del popolo, si rivelano per quello che sono, gli strumenti o i burattini di un’élite che li manovra e li usa senza apparire.

Il coro dei Cavalieri che dà il titolo alla commedia, tenendosi apparentemente ai margini della vicenda e dissimulando la propria tenacia oligarchica con il parlare di poetica e di storia del teatro comico, scatena il Salsicciaio contro il Conciapelli e lo sostiene. Finge di appoggiare la promessa di democrazia ancora più radicale del nuovo arrivato e persegue l’intento di far implodere il sistema, affossandolo nelle sue proprie crepe.
La grande illusione della democrazia diretta non poteva trovare una rappresentazione più efficace, grottesca e straniante. La storia non si ripete, ma la risata nera di Aristofane ci morde ancora. O dovrebbe morderci.

*I cavalieri (Ἱππεῖς, Hippeîs) è una commedia di Aristofane, andata in scena per la prima volta ad Atene, in occasione delle Lenee del 424 a.C., nelle quali l’opera vinse il primo premio.

Anna Beltrametti, un sabato di marzo 2019, articolo già pubblicato in «Stratagemmi. Prospettive teatrali», 038 – 039 [ 2/2018 – 1/2019 ], pp. 113-116, Direttore Maddalena Giovannelli, Rivista fondata nel 2007 da Francesca Gambarini, Maddalena Giovannelli, Francesca Serrazanetti e Gioia Zenoni. Un progetto di Associazione Culturale Prospettive Teatrali. www.stratagemmi.it – Info: redazione@stratagemmi.it – Via Fogazzaro 8, 20135 Milano

Anna Beltrametti – C’è anche un pensiero delle donne? Le donne del teatro greco sono laboratori di utopia infiniti. Sono talmente forti in questa loro energia utopica di un mondo da rifondare, da rinnovare, di un mondo possibile, che è la filosofia stessa ad attingere al loro pensiero.
Anna Beltrametti – Il punto più alto che Platone tocca nelle riflessioni sulla paura è proprio il reciproco implicarsi di potere personale e paura. Paura che l’uomo di potere riesce ad incutere ai suoi governati, ma anche paura provata dall’uomo di potere nei confronti di chi è migliore di lui, come pure della paura che ha di tutta la schiera di manutengoli che, dopo averlo lusingato, vogliono essere lusingati e pretendono lusinghe.
Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti

Salvatore Bravo – Il 23 Novembre del 2013 veniva a mancare Costanzo Preve. Ci lascia una importante eredità morale e filosofica: cercare verità, complessità, libertà dalle conventicole. La filosofia non ha il compito di rassicurare, ma di porre domande, rinunciando alle facili risposte.

Costanzo Preve_ sei anni dalla morte

Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia

ISBN 978-88-7588-108-5, 2013, pp. 544, 170×2140 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [50]

indicepresentazioneautoresintesi

Costanzo Preve

Il 23 Novembre del 2013 è venuto a mancare Costanzo Preve, non l’ho conosciuto personalmente, ma attraverso i suoi scritti ed i video in cui continuava a diffondere le proprie idee. Per me è stato un incontro importante. Le modalità con cui si può entrare in relazione con una persona sono plurime, i testi scritti ed i video sono il modo in cui è avvenuto quest’incontro. Costanzo Preve “mi ha parlato” in un momento storico dominato dalla chiacchiera e da un conformismo meno che mediocre; “mi ha comunicato” un messaggio. Ha ravvivato in me la passione per la verità e per la Filosofia. Non che non vi fosse, ma un pensatore che ha il coraggio della radicalità della filosofia, ha la forza morale ed intellettuale di far sentire a casa coloro che cercano la verità, o che si confrontano con essa. Normalmente la passione per la verità nella nostra epoca causa un senso profondo di estraneità, di distanza, per cui si ha la sensazione di essere sospinti in una indefinibile periferia a cui si giunge incalzati da una realtà sociale che sdembra abbia rinunciato ad ogni possibile ricerca della verità. È un’immensa palude in cui tutto si omologa, in cui diventa la verità l’irrilevanza, sostanza che tutto muove senza che nulla muti.
Costanzo Preve si è tratto fuori dalla palude dell’irrilevanza, ed ha vissuto nella sua carne dolente la coerenza della filosofia che propugnava con le parole, con le argomentazioni logiche, con la scelta di vivere e testimoniare la sua posizione filosofica distante dalle accademie, dai luoghi in cui il pensiero diventa arte del meretricio. “Lo scandalo Preve” è consistito nel riaffermare la centralità della verità senza la quale la filosofia è solo una disciplina che si confonde con una serie di discipline altre. La verità è stata la sua trasgressione all’ordine costituito, trasgressione non priva di speranza, perché – come amava ripetere – l’essere umano per natura non può che pensare la verità. Pertanto gli innumerevoli “filosofi” della morte della verità e dell’osanna al capitalismo non sono che l’effetto di una congiuntura epocale. Le mode passeranno, mentre la verità degli uomini e delle donne non potrà fermare il proprio cammino.
Costanzo Preve: una voce fuori dal coro. Ma il suo messaggio è giunto a me nella sua forza veritativa. Egli ha difeso strenuamente il valore e la dignità della filosofia dalla sua riduzione a presenza decorativa e decaffeinata nei salotti del capitale. La verità in primis, Costanzo Preve, lo ha ribadito nell’arco di tutta la sua vita:

«Per l’appunto. La verità filosofica nasce infatti da un terzo approccio, che non è né religioso né scientifico. L’aspetto della verità filosofica è quello dialogico. La verità nasce da un agone dialogico, da una “lotta amichevole” come quella che stiamo facendo noi due ora, per avvicinarsi il più possibile alla verità. Rimane però anche qui un problema: nella storia dell’uomo, l’agone dialogico è per definizione interminabile. Pertanto, chi ricerca la verità solo nell’agone dialogico, non troverà la verità se non nel dialogo. Il dialogo stesso, però, ha questo equivoco: da un lato è lo scopo della ricerca della verità, e dall’altro il mezzo con cui essa può essere raggiunta. Questa è, a mio parere, la contraddizione strutturale della filosofia, da cui essa non potrà uscire mai. Se il dialogo è lo scopo, la verità non è più lo scopo, ma semplicemente una forma di vita saggia, che sostituisce la violenza con la contrattazione. Se invece il dialogo è un mezzo per la realizzazione della verità, la verità stessa diventa scopo, ma allora è messa oltre il dialogo. Il dialogo filosofico ha questa caratteristica essenziale: che ad ogni proposizione può essere opposta un’altra pro-posizione. Personalmente, non credo in un dialogo filosofico risolutivo dei problemi. Mentre la scienza conosce quei metodi definitori chiamati protocolli, accertamenti, sperimentazioni e così via, e perciò permette alla comunità scientifica di chimici, fisici e biologi di giungere almeno a delle verità provvisorie condivise dalla comunità di appartenenza, la filosofia per sua natura non dispone di simili metodi».[1]

La verità filosofica non è un ciclo concluso e consegnato alla storia, la verità ha la sua struttura imprescindibile nel dialogo. Pertanto è sempre oggetto di ridefinizioni, di spostamenti argomentativi. La verità è socraticamente disposta all’altro. Per la sua radicalità senza integralismo, analizza ogni passaggio, è processuale, disposta a cercarne le falle della sua costruzione: il risultato è sicuramente importante, ma fondamentale è il processo veritativo, ed ogni processo è necessariamente comunitario.

Verità e filosofia
La precondizione per svolgere l’attività filosofica è il credere argomentato nella verità. Costanzo Preve, in tal modo, effettua un chiaro taglio epistemologico tra le filosofie e le sue imitazioni. La pluralità delle filosofie non nega la verità, anzi ciascuna curva la verità secondo prospettive che si completano, si integrano, senza confondersi o cannibalizzarsi, perché la filosofia e la verità sono in uno stato di perenne tensione, di ricerca dell’alterità. La insegue al fine di autochiarirsi: la filosofia rinuncia al tribalismo dell’appartenenza per scegliere la dialettica della comprensione:

«E tuttavia, il primo problema della filosofia consiste nel chiarire che non c’è contraddizione fra la fisiologica pluralità delle scuole filosofiche e la sostanziale unicità della verità, per cui la pluralità non determina necessariamente relativismo.

Che cos’è allora la filosofia? Do senza arroganza alcuna la mia definizione. La filosofia è un’attività comunitaria, che si determina necessariamente in individualità nominative. Queste individualità nominative, tuttavia, anche se sembra che passino il tempo scambiandosi solo opinioni, in realtà si muovono su di un terreno che presuppone l’esistenza della verità, per cui la filosofia ha come oggetto la verità, non il semplice scambio delle opinioni, che è soltanto propedeutico per la comprensione della verità stessa. Chi ha espresso meglio questo concetto è stato nell’antichità Platone, e nella modernità Hegel».[2]

La contaminazione
Filosofare è dunque trascendere gli steccati ideologici. Il filosofo cerca il confronto, travalica i confini, per cui non teme di essere tacciato di incoerenza e di opportunismo, ma si assume il rischio dell’incomprensione in nome della verità. Costanzo Preve può confondere, in quanto invita ad un riorientamento gestaltico, ovvero a ripensare categorie e paradigmi in cui spesso ci si rifugia. L’alterità politica e filosofica non è un nemico da evitare. Anzi, se si ha la chiarezza di cercare la verità, se si ha il coraggio di assumere una posizione filosofica personale, la cui genealogia è nella parola che unisce senza facili sovrapposizioni identitarie, non si deve temere la “contaminazione” con la parte avversa, la quale può essere motivo per analizzare, per disegnare confini consapevoli e specialmente nuove mappe concettuali alle quali giungere mediante il faticoso attraversamento delle posizioni dell’altro. Perché ciò possa accadere si dev’essere disponibili a congedarsi da se stessi, a rinascere dolorosamente in nuovi concetti che non eliminano la nostra storia personale, ma la integrano, ed in altri casi la trascendono in nuovi orditi:

«Noi siamo sempre ipnotizzati, e quindi di fatto paralizzati, non tanto dall’incantesimo dell’appartenenza originaria (e quindi dal senso di colpa sprigionante dalla coscienza inquieta di averla abbandonata), quanto dall’attrazione gravitazionale verso il profilo ideale e culturale che ci ha originariamente costituiti. Come ha scritto genialmente Krahl a proposito di Adorno, è difficile congedarsi senza congedo. Ma solo chi è integralmente congedato dal proprio congedo potrà veramente tendete ad una nuova sintesi […]. Vorrei soffermarmi ancora sul mio caso, cosa legittima visto che in fondo la domanda l’hai rivolta a me. Io ritengo di aver attuato con un certo successo la problematizzazione aporetica dell’identità culturale di sinistra, di aver proposto un’interpretazione originale del pensiero di Marx sia sul suo versante filosofico che sul suo versante scientifico, di aver criticato con la necessaria spietatezza la tradizione marxista italiana sia nel suo aspetto storicistico che nel suo aspetto operaistico, di aver avviato un confronto fra la tradizione filosofica marxista e tradizioni ad essa in vario modo ostili, e di aver infine infranto il tabù dell’impurità e del pensiero magico animistico imperfettamente secolarizzato pubblicando e stampando per case editrici “intoccabili”». [3]

                                       

Il pensiero complesso
L’immaginario della contaminazione non solo favorisce le appartenenze ideologiche, ma specialmente esemplifica le posizioni concettuali. Poiché ci si rifugia tra eguali, è naturalmente facile l’impegno filosofico ed intellettuale di coloro che si circondano di eguali che puntualmente condividono la sua “opinione”. La paura della contaminazione va superata in nome della complessità, del pensiero che esige la presenza di posizioni plurime prima di concettualizzare l’argomentazione. La complessità è il segno distintivo della filosofia, essa necessariamente vuole che non si debba temere la dialettica, l’altro è nemico della filosofia se fa dell’ateismo nelle sue forme plurali l’unico facile obiettivo del suo filosofare:

«L’immaginario della contaminazione è di tipo religioso, e mi sembra che su questo non vi siano dubbi. In proposito, è quasi comico (anche se talvolta irritante) che i cosiddetti “laici” non sembrino sospettarlo, laddove si è qui di fronte ad uno dei casi più macroscopici di secolarizzazione imperfetta di una categoria religiosa precedente. Per quanto riguarda il caso Alain De Benoist, ritengo che questo immaginario della contaminazione debba essere ulteriormente “disaggregato” in due elementi, e cioè la contaminazione per un peccato originale irriscattabile, da un lato, e la contaminazione dovuta ad infiltrazione nello spazio storico della sinistra, considerata aprioristicamente luogo del bene, dall’altro».[4]

Filosofare non è paragonabile con l’abitudine alla chiacchiera colta. Filosofare significa utilizzare una chiara metodologia di ricerca. Nel caso di Costanzo Preve consiste in primis nel dialogo comunitario, sulla deduzione sociale delle categorie e sull’ontologia dell’essere sociale, modalità non contrattabili della metafisica previana:

«La pratica filosofica deve invece strutturarsi non sulla (impossibile) prevedibilità, oppure sulla (ancora più impossibile) scientificità, ma su tre solidi fondamenti: il carattere dialogico comunitario, la deduzione sociale delle categorie, e l’ontologia dell’essere sociale».[5]

Costanzo Preve ci ha consegnato e donato una importante eredità morale e filosofica: verità, complessità, libertà dalle conventicole che erigono muri di fango. La filosofia non ha il compito di rassicurare, anzi pone domande, ci invita a rinunciare alle facili risposte le quali sono il vero veicolo della violenza a cui la filosofia si oppone con la verità della parola.

 

[1] C. Preve – L. Grecchi, Marx e gli antichi greci, Petite Plaisance, Pistoia 2005, p. 28.

[2] C. Preve, Il significato di filosofia, Arianna editrice, 18/1/2013

[3] A. De Benoist – G. Giaccio, Dialoghi sul presente, controcorrente, Napoli 2005, pp. 75-76.

[4] C. Preve, Il paradosso De Benoist, Settimo Sigillo, Roma 2006, p. 20.

[5] C. Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia 2013, p. 516.

Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013
Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.
Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.
Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.
Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez
Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.
Costanzo Preve – Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante
Costanzo Preve – Religione Politica Dualista Destra/Sinistra. Considerazioni preliminari sulla genesi storica passata, sulla funzionalità sistemica presente e sulle prospettive future di questa moderna Religione
Costanzo Preve – Invito allo Straniamento 2° • Costanzo Preve marxiano ci invita ad un riorientamento, ad uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo.
Costanzo Preve (1943-2013) – Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca (luglio 2012) de “Il Bombardamento Etico”. Un libro che è ancora più attuale di quando fu scritto, sedici anni or sono.
Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica
Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.
Costanzo Preve (1943-2013) – Il Sessantotto è una costellazione di eventi eterogenei impropriamente unificati. Il mettere in comune questi eventi eterogenei è un falso storiografico.
Costanzo Preve (1943-2013) – «Il convitato di pietra». Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza, senza la fatica del concettualizzare
Costanzo Preve (1943-2013) – Teniamo la barra del timone diritta in una prospettiva di lunga durata. La “passione durevole” per il comunismo coincide certo con il percorso della nostra vita concreta fatalmente breve, ma essa è anche ideale, nel senso che va al di là della nostra stessa vita.
Costanzo Preve (1943-2013) – Telling the truth about capitalism and about communism. The dialectic of limitlessness and the dialectic of corruption. Dire la verità sul capitalismo e sul comunismo. Dialettica dell’ illimitatezza, dialettica della corruzione.
Costanzo Preve (1943-2013) – Su laicismo, verità, relativismo e nichilismo
Costanzo Preve (1943-2013) – Gesù tra i dottori. Esperienza religiosa e pensiero filosofico nella costituzione del legame sociale capitalistico.
Costanzo Preve (1943-2013) – Il Kant della fondazione individualistica della morale ed il rifiuto dell’etica comunitaria come eteronomia.

Enrico Berti – «Scritti su Heidegger».

Enrico Berti, Scritti su Heidegger

Enrico Berti

Scritti su Heidegger

indicepresentazioneautoresintesi

Petite Plaisance

ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [109].
In copertina: Statua in bronzo di Aristotele, ingresso della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, Germania. In quarta di copertina: Paul Klee, Die Zeit, 1933.

Questo volume raccoglie alcuni fra i principali studi di Enrico Berti su Martin Heidegger. Il filosofo tedesco è stato infatti una presenza costante negli studi composti in questi decenni dallo studioso padovano, sovente in rapporto al pensiero di Aristotele. Con il suo consueto approccio “classico”, in questi saggi Berti non si limita a descrivere, ma valuta, ossia prende posizione, anche critica, nei confronti di colui che pure definisce come il maggiore pensatore del XX secolo.



Indice

 

Introduzione

Il nichilismo dellOccidente secondo Nietzsche, Heidegger e Severino

L’influenza di Heidegger sulla «riabilitazione della filosofia pratica»
Gadamer, o della «phronesis»
Ritter, ovvero dell’«ethos»
Hannah Arendt, o della «praxis»

Heideggers Auseinandersetzung mit dem

Platonisch-Aristotelischen Wahrheitsverständnis
Aristoteles
Platon
Abschluß

Heidegger and the Platonic Concept of Truth

Le passioni tra Heidegger e Aristotele
Appendice

Heidegger e il libro Epsilon della Metafisica di Aristotele
Prologo
Prime citazioni di Aristotele (Friburgo, 1921-1923)
Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): l’essere come verità
Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): essere ed ente
Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo (1929): di nuovo l’essere come vero
Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo: la metafisica come «ontologia»
Conclusione

***





Enrico Berti

Incontri con la filosofia contemporanea

Petite Plaisance

ISBN 88-7588-002-6, 2006, pp. 336, formato 140×210 mm., € 25,00 – Collana “Il giogo” [14]

indicepresentazioneautoresintesi

Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti.
A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra.
I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.

Qui di seguito sono riportati i riferimenti bibliografici
relativi ai saggi raccolti nel presente volume.

I
In tema di dialettica

Come argomentano gli ermeneutici?
“Filosofia ‘91”, a cura di G.  Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 13-32.
La complessità della ragione
“Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 154, gennaio-aprile 1995, pp. 27-40.
Logo e dialogo
“Studia Patavina”, 42, 1995, pp. 31-42.
La dialettica antica come modello di ragionevolezza
“Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica”, 7, 2002, pp. 17-28.
Il principio di non contraddizione: storia e significato
P. Bria e F. Oneroso (a cura), Bilogica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico,
Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 22-32.

II
In tema di metafisica

Per una metafisica problematica e dialettica
“Acta philosophica”, 1, 1992, pp. 176-190 (anche in “Per la filosofia”, 9, 1992, pp. 3-15).
La via “dinamico-noologica” alla trascendenza divina
in S.  Biolo (a cura), Trascendenza divina. Itinerari filosofici, Contributi al XLVIII Convegno del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, aprile 1993, Torino, Rosenberg & Sellier, 1995, pp. 57-71.
La prospettiva metafisica tra analitici ed ermeneutici
“Seconda navigazione – Annuario di filosofia 2000”, Milano, Mondadori, 2000, pp. 45-62.
Quale metafisica per il terzo millennio?
in Proceedings of the Metaphysics for the Third Millennium Conference (Rome, September 5-8, 2000), Editorial de la Universidad Tecnica Particular de Loja (Equador), 2001, vol. I, pp. 29-44.
Una metafisica (espistemologicamente) “debole”
“Annuario Filosofico”, 16, 2000, Milano, Mursia, 2001, pp. 27-41.
Metafisica debole?
in Quale metafisica?, “Hermeneutica”, n. s., 2005, pp. 39-52.
Dialogo su Aristotele
in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi (a cura),
Le parole dell’Essere. Per Emanuele  Severino, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 75-90.

III
In tema di filosofia pratica
Sostanza e individuazione
in AA. VV., La tecnica, la vita, i dilemmi dell’azione
(“Seconda navigazione – Annuario di filosofia 1998”), Milano, Mondadori, 1998, pp. 143-160.
Dal personalismo all’identità personale
in A.  Bottani e N.  Vassallo (a cura),
Identità personale. Un dibattito aperto, Napoli, Loffredo, 2001, pp. 65-78).
Persona, scienza e tecnica
in G. Galeazzi e B. M. Ventura (a cura),
Filosofia e scienza nella società tecnologica, Milano, F. Angeli , 2004, pp. 171-183.
L’idea di bene comune tra “destra” e “sinistra”
in E. Berti e  S. Veca, La politica e l’amicizia, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, pp 35-62.
Prudenza
in “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. 159, settembre-dicembre 1966, pp. 15-24.
Attualità dei diritti umani
“Ars Interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 6, 2001, pp. 79-91.
Pratiche filosofiche e filosofia pratica
“Ars interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 10, 2005, pp. 313-328.

IV
Appendice
Autoritratto
“Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 176, maggio-agosto 2002, pp. 9-12.
Pensare con la propria testa?
“Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 192, maggio agosto 2004, pp. 76-88.
Aristotele nel Novecento
“Scuola e Cultura”, 3, 2005, pp. 22-27


 



Luca Grecchi

Il pensiero filosofico di Enrico Berti

Petite Plaisance, 2013

ISBN 978-88-7588-110-8, 2013, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [51].

indicepresentazioneautoresintesi

In questo libro è sintetizzata l’opera filosofica di uno dei maggiori pensatori italiani contemporanei, Enrico Berti. Teorizzatore della metafisica classica, studioso di Aristotele, storico della filosofia, Berti ha proposto, in oltre 50 anni di attività culturale ed accademica, soluzioni di grande originalità e valore non solo su temi filosofici, ma anche su temi etici, politici, educativi.
La monografia, impreziosita da un saggio finale dello stesso Berti, si pone come una prima introduzione complessiva al suo pensiero.

Indice

Presentazione di Carmelo Vigna

Introduzione

I. Biografia
II. L’interpretazione degli antichi e di Aristotele
III. La storia della filosofia
IV. L’etica e la filosofia pratica
V. La politica
VI. L’approccio classico alla educazione
VII. Religione
VIII. La metafisica
IX. La critica

Postfazione Enrico Berti
A proposito della critica

Principali pubblicazioni di Enrico Berti
Volumi
Curatele
Principali articoli

Indice dei nomi e delle opere




Pensieri, riflessioni, rimandi …

Enrico Berti – La mia esperienza nella filosofia italiana di oggi.
Enrico Berti – Per una nuova società politica
Enrico Berti – La capacità che una filosofia dimostra di risolvere i problemi del proprio tempo è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché essa sia giudicata eventualmente capace di risolvere i problemi di altri tempi, o del nostro tempo, e dunque possa essere considerata veramente “classica”.
Enrico Berti – Ciò che definisce l’uomo è anzitutto la parola. Non è del tutto appropriata la traduzione latina della definizione di uomo messa in circolazione dalla scolastica medievale, cioè animal rationale, la quale si basa sulla traduzione di logos con ratio. Certamente l’uomo è anche animale razionale, ma il concetto di logos è molto più ricco di quello di “ragione”.
Enrico Berti – Nichilismo moderno e postmoderno
Enrico Berti – È risonata più volte la proclamazione heideggeriana della fine dell’epoca della metafisica. Di fatto è esistita, e quindi ha una storia. Anche le più famose negazioni di essa sono state ridimensionate, e la metafisica appare oggi ancora viva e vigorosa.
Enrico Berti – Nessuno vorrà ritornare a concezioni metastoriche e disincarnate della filosofia. Il far filosofia non può essere infatti un’attività a buon mercato, non comportante alcun rischio, ma deve costar caro […].

Pubblicati su You tube e  … altrove

Enrico Berti – La natura del bello nel pensiero di Aristotele
Enrico Berti, L’etica in Aristotele

Enrico Berti, Aristotele e la “philia”

Incontro di studio con Enrico Berti – 13 giugno 2017

Enrico Berti, La Dottrina delle idee in Platone

Enrico Berti, Heidegger e l’etica aristotelica

Enrico Berti, La giustizia nella filosofia antica

Enrico Berti, Logos e techne nellafilosofia antica

Il realismo di Aristotele: vecchio o nuovo?

Enrico Berti, Aristotele, “Politica”

Enrico Berti, Dialogando

Enrico Berti, Intervista

Enrico Berti, Relazione al Convegno “Dio come essere”? Metafisiche classiche e analitiche

Enrico Berti, Relazione al “Festival della Filosofia” del 2 settembre 2018

Enrico Berti, Leggere Heidegger

Enrico Berti, L’ontologia aristotelica e analitica

Enrico Berti, Lectio magistralis, in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Accademico 2015-16 del Corso di Laurea in Filosofia dell’Università del Salento

Enrico Berti, L’etica delle virtù e l’educazione del futuro

Enrico Berti, La metafisica di Aristotele e il principio di non contraddizione

Enrico Berti, Sulla Metafisica (Filosofia prima) di Aristotele

Enrico Berti, Che cosa è la logica aristotelica?

Enrico Berti, Le prove della esistenza di Dio nella filosofia classica



Tra i molti libri pubblicati da Enrico Berti

La filosofia del primo Aristotele
(Univ. di Padova. Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. XXXVIII), 1962.


La filosofia del primo Aristotele, Cedam, 1962.


Il “De re publica” di Cicerone e il pensiero politico classico, Padova, Cedam, 1963.


L’unità del sapere in Aristotele, Cedam, 1965.


Studi aristotelici, Japadre, 1975.


Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, 1977


Profilo di Aristotele, Studium, 1979.


I percorsi della filosofia, vol. I. Il pensiero antico e medioevale (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.


I percorsi della filosofia. Il pensiero moderno e contemporaneo (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.


Profilo di Aristotele, Nuova Universale Studium, 1985.


Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, 1987.


Il pensiero d’Occidente. Pagine e testimonianze (con Sergio Moravi), Le Monnier, 1987.


Le vie della ragione, il Mulino, 1987.


 


Le ragioni di Aristotele, Laterza, 1989.


Storia della filosofia. Antichità e medioevo, Laterza, 1991.


Aristotele nel Novecento, Laterza, 1992.


Persona e personalismo (con Georges Cottier e Giannino Piana), Gregoriana Editrice, 1992.


Etica, cultura e partecipazione politica (con Alberto Monticone), AVE, 1993

Il volume riflette l’esigenza di un approfondimento dei rapporti che intercorrono tra etica, cultura e partecipazione politica. Nel volume si delineano alcuni caratteri fondamentali della nostra vita civile: il sistema democratico, la concezione personalista e solidaristica quale fondamento della convivenza civile e dell’organizzazione sociale e politica del nostro Paese, la possibilità per le culture di ispirazione cristiana e per il movimento cattolico di dare un proprio contributo all’evoluzione della vita sociale e politica. L’impegno dell’Azione Cattolica resta quello per la formazione di un laicato adulto nella fede, capace di servizio e testimonianza in ogni ambito della propria vita ma anche quello di promuovere quotidianamente una cultura radicata nei valori del Regno e nei principi della centralità della persona umana e del bene comune.


Introduzione alla metafisica, Utet-Libreria, 1993.


Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Edizioni Diabasis, 1993.


Aristotele, Il libro primo della «Metafisica» (a cura di E. Berti e C. Rossiitto), Laterza, 1995.


Aristotele, Laterza, 1997.

Rifacendosi in particolare ad un’analisi diretta della Politica e dell’Etica Nicomachea, i cui testi sono ampiamente antologizzati, e confrontandosi con il dibattito critico più recente, Berti illustra tutti i temi fondamentali del pensiero politico aristotelico, come ad es. il concetto di polis, o la vagheggiata «città felice». Né manca un’analisi in parallelo con le teorie di Platone. A differenza di altri studi pubblicati in Italia sul pensiero politico di Aristotele, che hanno un carattere parziale o un’impronta ideologica, il saggio introduttivo di Berti si distingue anche per la capacità di stabilire un dialogo continuo tra esso e il pensiero politico moderno e soprattutto contemporaneo.


Aristóteles no século XX, trad. D. Davi Macedo, São Paulo, Brasil, Edi. Loyola, 1997.


La filosofia del “primo” Aristotele, Vita e Pensiero, 1997.


As razões de Aristóteles, Ed. Loyola, 1998.

Esta obra configura uma intervenção autorizada no atual debate sobre o pensamento débil e a crise da razão, por sua capacidade de relacionar aos temas da filosofia contemporânea a aguda análise de um momento culminante na história da filosofia: o pensamento de Aristóteles.


La politica e l’amicizia (con Salvatore Veca), Edizioni Lavoro, 1998.

La politica e l’amicizia sembrano essere distanti l’una dall’altra: mentre la politica si orienta verso una condivisione più ampia possibile, l’amicizia evoca prospettive più intime, private, e dunque escludenti. Enrico Berti e Salvatore Veca intendono guidare, da angolature differenti, una riflessione sulla possibilità di un incontro fra politica e amicizia.


Novos estudos aristotélicos I – Epistemologia, lógica e dialética, 1999.

Nesta obra, encontram-se ensaios sobre a contradição, a dialética e a argumentação na obra do Estagirita, além de estudos sobre a dialética em Zenão, em Górgias e em Platão, com o objetivo de evidenciar a contribuição que deram à formação do pensamento de Aristóteles.


La navicella della metafisica.
Dibattito sul nichilismo e la “Terza navigazione”
(con altri), Armando editore, 2000.


Marino Gentile nella filosofia del Novecento, EDS, 2003.


Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi, Bompiani, 2004.

Quest’opera, pubblicata originariamente nel 1977, è uno dei più importanti lavori di Berti. Essa si può considerare sia uno studio introduttivo ad Aristotele, di cui si passano in rassegna la vita, le opere, l’ambiente accademico e l’insegnamento, ma anche e soprattutto un saggio teoretico sulle costanti del pensiero metafisico: le idee, le categorie, i princìpi primi, le quattro cause, l’essere e il divenire. Il volume è arricchito da una serie di saggi dell’autore che completano il quadro della “filosofia prima” di Aristotele.


Aristotele. Eubulo o della richezza. Dialogo perduto contro i governanti ricchi, Guida, 2004.

Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.


Filosofia pratica, Guida, 2004.

L’espressione “filosofia pratica” compare per la prima volta in Aristotele e in contrapposizione a quella teoretica: mentre quest’ultima ha per fine la verità ossia la conoscenza di come e di perché le cose stanno in un certo modo, la filosofia pratica ha per fine l’opera, cioè mira a conoscere e a rendere possibile un certo tipo di azione, in particolare l’azione buona e quindi tende a rendere migliore colui che agisce. Quindi il fine, lo scopo della filosofia pratica è il tentativo di raggiungere la perfezione dell’uomo stesso.


Nuovi studi aristotelici, vol. 1: Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, 2004.

Il volume è il primo di un’opera che raccoglierà in quattro volumi l’insieme degli scritti di uno fra i maggiori specialisti della logica e della dialettica di Aristotele.


Aristotele. Il primo libro della «Metafisica» (con C. Rossitto), Laterza, 2005.


Nuovi studi aristotelici. 2 – Fisica, antropologia e metafisica, Morcelliana, 2005.

Il secondo volume degli studi aristotelici, dedicato a metafisica, fisica e antropologia, scritto dal maggior specialista italiano di Aristotele. Un libro che è una vera e propria introduzione alla “Metafisica” di Aristotele. L’Autore insegna storia della filosofia all’Università di Padova.


 

Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Diabasis, 2005.


Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, 2006.

Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti.
A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra.
I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.


Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2006.


Aristotele e l’ontologia (con Bruno centrone e Paolo Fait), Alboversorio, 2007.

Le tesi di Aristotele rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di ontologia. Da lui, infatti, derivano gran parte dei termini ancora oggi utilizzati e dei problemi su cui non si è mai smesso di discutere. Questo libro permette, al lettore interessato, di avvicinarsi ad alcune prospettive contemporanee sull’argomento espresse da alcuni dei maggiori studiosi italiani.


Introduzione alla metafisica, Utet università, 2007.


Storia della filosofia. Dalla’antichità ad oggi.
Con materiali per il docente.
Ediz. compatta. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Franco Volpi), Laterza, 2007.


Antologia di filosofia. Dall’antichità ad oggi.
Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Cristina Rossitto e Franco Volpi), Laterza, 2008.


Aristotele nel Novecento, Laterza, 2008.

La filosofia di Aristotele è un caso forse unico, nella storia, di “sistema aperto”, cioè di filosofia che è un vero sistema, dotato di una grande differenziazione interna, ma anche di una certa unità; ed è anche un sistema aperto, suscettibile di continue integrazioni, anzi di molteplici usi, data la sua grande versatilità, attestata da una fortuna tra le più longeve che mai si siano date e da una presenza massiccia nella stessa filosofia del Novecento. A essa si possono attingere concetti, categorie, distinzioni, dottrine, adoperabili per gli usi più svariati, nelle più diverse direzioni, sia filosofiche che scientifiche, sia teoretiche, cioè logico-metafisiche, che pratiche, cioè etico-politiche, per non parlare degli usi a fini poetici e retorici. Ma questi concetti, distinzioni, dottrine funzionano, cioè rispondono allo scopo per cui vengono impiegati, solo se sono utilizzati nel rispetto del loro significato originario. Si tratta di una coerenza non rigida, ma elastica, di una logica non monolitica, ma articolata e duttile, Dall’esistenzialismo di Heidegger alla filosofia pratica di Gadamer, dalla “nuova retorica” di Perelman e Toulmin alla nuova scienza di Prigogine e Jacob, alla nuova epistemologia di Kuhn e Feyerabend, Enrico Berti ritrova le tracce dell’inesauribile forza del pensiero aristotelico.


Dialectique, physique et métaphysique. Études sur Aristote, Éditions Peeters, 2008.

This volume contains around twenty articles, many of them already published elsewhere, but translated into French for the first time. They all deal with the dialectics, the physics and the metaphysics of Aristotle.


Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia (a cura di), Utet, 2008.


In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, 2008.

La meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza e desiderio di sottrarvisi, cioè di apprendere, di conoscere, dI sapere. Ecco perché proprio la meraviglia, secondo Aristotele, è l’origine della filosofia, ovvero della ricerca disinteressata di sapere. Stato d’animo raro e prezioso, la meraviglia è la sola espressione della vera libertà. Enrico Berti rilegge il pensiero dei grandi filosofi della classicità e costruisce un percorso attraverso le domande senza tempo che la filosofia occidentale ha continuato a porsi, formulate per la prima volta dai Greci.


Nuovi studi aristotelici. Vol. 3 Filosofia pratica, Morcelliana, 2008.

Il presente volume, terzo della serie dei Nuovi studi aristotelici, raccoglie gli scritti concernenti la “filosofia pratica” di Aristotele, contenuta nelle due Etiche autentiche (Nicomachea e Eudemea), e la filosofia politica, contenuta nella Politica. Come è noto, per Aristotele queste ultime due discipline sono parti di un’unica scienza, da lui chiamata più volte “scienza politica” e, almeno una volta, “filosofia pratica”. Perciò non ho diviso il volume in sezioni, come invece ho fatto nei volumi precedenti. Ho scelto, come sottotitolo dell’intera raccolta, “filosofia pratica”, perché questa espressione è diventata attuale dopo la cosiddetta “riabilitazione (o rinascita) della filosofia pratica”, movimento sviluppatosi nel corso degli anni Settanta del Novecento e ancora non del tutto esaurito.(dalla Prefazione)


Ser y tiempo en Aristótele, Editorial Biblios, 2008.

Enrico Berti, uno de los más reconocidos especialistas de Aristóteles, introduce este libro con una reseña de la presencia de Aristóteles en la Contemporánea. Luego desarrolla una exposición clara y profunda de la postura aristotélica, que va desde el tiempo cósmico de la Física hasta el tiempo humano de la Poética y la Ética. En el recorrido que realiza también visita la Metafísica, pero también obras menos transitadas, como De la memoria y la reminiscencia. Además, confronta la postura de Aristóteles con uno de los trabajos más determinantes de la Contemporánea: Ser y tiempo de Martin Heidegger.

Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.


Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2008.

La Metafisica è l’opera più famosa di Aristotele. Si tratta degli appunti che Aristotele preparava per le sue lezioni all’interno del Peripato. Lo Stagirita pone qui i problemi fondamentali sull’essere e sul perché del divenire ricercandone le cause e i principi primi.


En el principio era la maravilla. Las grandes preguntas de la filosofía antigua,
traducción de Helena Aguilà, Madrid, Editorial Gredos, 2009.


Nuovi studi aristotelici.
Vol. 4\1. L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento, Morcelliana, 2009.

Il libro vuole essere un contributo allo studio della cosiddetta tradizione aristotelica, dell’influenza esercitata da Aristotele sull’intera storia della cultura “occidentale” (termine nel quale va compresa anche la cultura islamica). Tale influenza è stata sia di tipo positivo, nel senso che le dottrine di Aristotele sono state accolte, interpretate e trasformate dai filosofi posteriori, sia di tipo negativo, nel senso che esse sono state oggetto di critiche e spesso di dure polemiche, ma anche in questo caso hanno condizionato le filosofie posteriori. Del primo tipo è l’influenza esercitata da Aristotele sugli aristotelici: su Teofrasto, Aspasio, Alessandro di Afrodisia, Porfirio, i filosofi arabi ed ebrei, Tommaso d’Aquino, Marsilio da Padova, Giacomo Zabarella, William Harvey. Del secondo tipo è invece l’influenza esercitata da Aristotele sui suoi “avversari”: l’epicureo Filodemo di Gadara, Plotino, Bonaventura da Bagnoregio, Niccolò Cusano, Galileo Galilei. Un caso particolare è costituito dal rapporto tra la filosofia di Aristotele e il primo cristianesimo, emblematicamente rappresentato dal discorso di san Paolo agli Ateniesi, dove l’influenza di Aristotele è ravvisabile nel contributo da lui dato alla formazione di quel concetto di “Dio dei filosofi” che Paolo ripropone consapevolmente agli Ateniesi, ma al fine di integrarlo e superarlo nella rivelazione cristiana.


A partire dai filosofi antichi  (con Luca Grecchi), Il Prato, 2010.

I problemi filosofici esaminati vengono presentati nella forma di una discussione avvincente che rievoca l’andamento dei dialoghi platonici, in cui la verità emerge dal movimento del discorso che, nel suo correre incessantemente da un interlocutore all’altro, si fa «dia-logo» nel senso più alto. Del resto, i temi trattati dai due autori sono tra i più importanti tra quelli su cui si è andata formando la civiltà occidentale: il valore veritativo della filosofia, il rapporto tra fede e sapere, la morale, l’educazione, il ruolo dell’uomo, la libertà, la politica, la morte, l’ontologia, la metafisica, la critica, e moltissimi altri ancora. Ad accomunare, nel libro, questi temi così vasti ed eterogenei è il punto di partenza da cui ciascuno di essi viene sviluppato: il mondo dell’antica filosofia greca, concepita sia da Berti sia da Grecchi come fonte originaria delle «domande fondamentali» dell’uomo occidentale e come tentativo di elaborazione di alcune grandiose soluzioni che continuano a esercitare un fascino intramontabile. La filosofia greca fa da sfondo anche alle considerazioni svolte da Berti e da Grecchi intorno al pensiero di Kant, di Hegel e di Marx. A partire, appunto, dai «filosofi antichi», i due studiosi ripercorrono in maniera dialogica, anche attraverso la cinquantennale esperienza accademica di Enrico Berti, i nodi maggiori della tradizione filosofica e le problematiche fondamentali del nostro presente.


Nuovi studi aristotelici.
Vol. 4/2. L’influenza di Aristotele. L’età moderna e contemporanea, Morcelliana, 2010.

l secondo tomo del volume dedicato all’influenza di Aristotele comprende saggi relativi all’età moderna e all’età contemporanea. Per l’età moderna è evidente la persistenza della filosofia pratica di Aristotele, la quale, dopo essersi eclissata nell’antichità ellenistica e nella tarda antichità, ed essere stata riscoperta nel medioevo, sia musulmano che ebraico e cristiano, sopravvive nel Seicento e nel Settecento, soprattutto in Germania.Per quanto riguarda l’Ottocento i saggi riguardano la critica di Hegel al principio di non contraddizione, e l’influenza di Aristotele sui critici di Hegel: Feuerbach, Trendelenburg, Marx e Kierkegaard. Per la Germania è anche massiccia l’influenza di Aristotele su Brentano e, attraverso di lui, su tutti i suoi discepoli, da Husserl a Meinong, a Twardowski, a Freud. Interessante è anche il rapporto intrattenuto con Aristotele da Paul Natorp, che ebbe ad influenzare, insieme con la dissertazione di Brentano, Martin Heidegger.I capitoli dedicati all’età contemporanea illustrano la presenza di Aristotele in Heidegger e nella filosofia analitica inglese, ovvero nell’analisi del linguaggio ordinario condotta da J. Austin, G. Ryle, P. Strawson, D. Wiggins e altri. Indi illustrano la cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, prima in Germania, ad opera di filosofi come H.-G. Gadamer e J. Ritter, e poi negli USA, ad opera di A. MacIntyre, H. Jonas, Martha C. Nussbaum.


Profilo di Aristotele, Studium, 2010.

La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.


Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2010.

Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.


 

Invito alla filosofia, La Scuola, 2011.

Un libro per chiunque voglia accostarsi ad un sapere che parte dal sentimento della meraviglia per arrivare ad esercitare un uso consapevole della ragione. Un invito per chiunque sia alla ricerca di motivazioni (esistenziali, religiose, etiche, scientifiche, politiche) e voglia porre domande per scoprire la verità partendo da opinioni consolidate. Perché la filosofia, nel suo stesso modo di procedere dialettico-confutatorio, esalta l’essenza umana che si fonda sul ragionamento.


Preguntas de la filosofía antigüa, Tapa blanda, 2001.

Muchas de las grandes preguntas que la filosofía occidental ha seguido planteándose las formularon por primera vez los griegos. No todas, claro está. Por ejemplo, los griegos no se preguntaron cuáles eran, a priori, las condiciones del conocimiento, o qué leyes rigen la historia, o cómo indagar en el subconsciente del hombre y otras cosas por el estilo. Pero las preguntas que plantearon, a excepción de unas pocas (por ejemplo: ¿quiénes son los dioses?), son las mismas con las que se ha seguido enfrentando la filosofía occidental a lo largo de los siglos. Enrico Berti recorre el pensamiento de los grandes filósofos clásicos y traza un sorprendente itinerario a través de las preguntas sin tiempo que la filosofía occidental ha seguido planteándose y que los griegos formularon por primera vez: ¿Qué es el hombre? ¿Qué es la felicidad? ¿Quiénes son los dioses? ¿Cuál es nuestro destino?


Profilo di Aristotele, Studium, 2012.

La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.


Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e corretta, Morcelliana, 2012.

Il dovere di introdurre, e con ciò di giustificare nella sua unità, la presente raccolta mi fornisce l’occasione più opportuna per riflettere sulle ricerche da me compiute in questi anni e anche per risalire alle origini del mio interesse per Aristotele, allo scopo di determinarne il più esattamente possibile il senso e l’orientamento generale. Uno dei fili conduttori dei miei lavori è la persuasione del valore classico, cioè perenne, e quindi anche attuale di certe istanze del pensiero aristotelico. Si tratta di una valutazione di ordine teoretico, o filosofico, che oggi, a causa dell’imperante storicismo e del conseguente relativismo, può sembrare, nel migliore dei casi, ingenua. Tuttavia è una persuasione a cui tengo particolarmente; non ho difficoltà infatti a confessare che, se non la possedessi, non riuscirei a dare alcun senso al lavoro fatto. Le ragioni del valore classico della metafisica antica si trovano nel rilevamento, da parte di Aristotele, di un’inadeguatezza tra il sistema platonico e il problema da cui ogni filosofo deve prendere le mosse, cioè la problematicità integrale e assoluta. Questa problematicità si esprime in un “domandare tutto”, che è insieme un “tutto domandare”, in una domanda che investe la totalità del reale e, per il fatto di escludere ogni precedente certezza, è integralmente domanda; e si identifica con la stessa esperienza intesa come conoscenza di tutto e insieme domanda della ragione di tutto.


Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2012.

Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.


Aristotele e la democrazia,
in C. Rossitto, A. Coppola, F. Biasutti (a cura), Aristotele e la storia, Padova, CLEUP, 2013.


Aristotele, La Scuola, 2013.

«Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità e, più di tutte, amano la sensazione della vista. In effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose». Metafisica, libro I.


The Classical Notion of Person and Its Criticism by Modern Philosophy,
in B. Babich and D. Ginev (eds.), The Multidimensionality of Hermeneutic Phenomenology, Heidelberg-New York-Dordrecht-London, Springer, 2013.


La phronêsis nella filosofia antica,
in A. Fidora, A. Niederberger, M. Scattola (eds.),
Phronêsis – prudentia – Klugheit. Das Wissen der Kluge in Mittelalter, Renaissance und Neuzeit, Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales, Porto, 2013.


Mente e anima: due entità?,
in G. Erle (a cura), Il limite e l’infinito. Studi in onore di Antonio Moretto, Bologna, Archetipolibri, 2013.

La ricerca filosofica di Antonio Moretto segna una tappa fondamentale e innovativa all’interno della letteratura scientifica a proposito del rapporto tra filosofia e matematica. Questo vale in primo luogo, ma non solo, per una rinnovata comprensione della filosofia classica tedesca che rendeva necessario mostrare la rilevanza della conoscenza congiunta della storia e della teoria della matematica in autori come Kant e Hegel. Questi studi, assieme a quelli che egli ha dedicato a Descartes, Leibniz, Wolff, mostrano come i concetti matematici di finito e infinito racchiudano, nelle loro esigenze tecniche, un’urgenza profondamente umana, quella di dare senso, “mensurare” nell’accezione più ampia del termine. Sotto questo profilo, il passaggio per le scienze esatte nelle ricerche di Moretto non è affatto astratto, ma costituisce il necessario cammino verso quella che Kant avrebbe chiamato “la porta stretta”, varcata la quale meglio si comprendono anche le altre parti del sistema della filosofia, così come proprio Moretto ha dimostrato dedicandosi a discutere altresì questioni di etica, di filosofia della medicina, psicologia della percezione e, perché no?, della poesia di Albrecht von Haller. Coerentemente con questo percorso di ricerca, gli autori degli scritti che costituiscono questo volume si sono impegnati a mostrare la ricchezza di significati e valenze che i concetti di limite e di infinito possono assumere all’interno delle scienze filosofiche.


Una metafisica (epistemologicamente) «debole»,
n G. Riconda e C. Ciancio (a cura), Filosofi italiani contemporanei, Mursia, 2013.

Il volume presenta i risultati di un ciclo di seminari tenuti all’Università di Padova nel 2011 e 2012, all’interno del Progetto di Ateneo Filosofia e storia nel pensiero politico di Aristotele. Il tema generale è il ruolo della storia nel pensiero aristotelico, secondo le più ampie accezioni del termine. Innanzitutto che uso fa Aristotele dei dati storici, come e a qual fine li utilizza e qual è per lui il valore epistemologico della storia? Storia significa anche storiografia, cioè resoconto scritto dei fatti: possiamo capire il rapporto fra il filosofo e gli storici e tra la storiografia e la politica? I contributi qui raccolti aggiungono materia a queste riflessioni raccogliendo e confrontando punti di vista di storici dell’antichità e di storici della filosofia.


Aristotele,
in U. Eco (a cura), L’Antichità, 5. Grecia, Filosofia, EM Publishers srl., 2014.


Aristóteles. Pensamento dinàmico, Ideas Letras, 2014.

Neste volume, o leitor terá a oportunidade de conhecer o pensamento de Aristóteles, um dos maiores nomes da Filosofia na Antiguidade. A visão aristotélica é apresentada de modo sintetizado, por meio da análise das obras de Aristóteles, dos conceitos-chave de sua filosofia e seus desdobramentos na sociedade atual.


Il bene di chi? Bene pubblico e bene privato nella storia, Marietti, 2014.

Un affresco dell’intrecciarsi di bene pubblico e bene privato nella storia della civiltà occidentale. Enrico Berti fa comprendere le complesse radici culturali della situazione attuale e apre domande cruciali, da un lato sul destino e la sopravvivenza dello Stato e dall’altro sul fine dell’uomo e sulle condizioni di possibilità della vita sociale. Il libro è arricchito da un dialogo sul tema tra l’autore e i partecipanti alla “Lectio Magistralis” tenuta nel corso di una delle sessioni del 2013 della Winter School, centro di studi sociali, culturali e politici. Prefazione di Giovanni Maddalena.


Il luogo dei corpi secondo Aristotele,
in Lessico Intellettuale Europeo, Locus-spatium. XIV Colloquio Internazionale,
a cura di D. Giovannozzi e M. Veneziani, Olschki, 2014


La ricerca della verità in filosofia, Studium, 2014.

La verità è oggi temuta come una forma di violenza, specialmente da parte dei filosofi post-moderni. Questo timore spesso è dovuto a una concezione ideologica della verità come valore assoluto da imporre a tutti, mentre esso è del tutto ingiustificato rispetto alla concezione classica della verità, non riducibile alla teoria della verità come corrispondenza. In base alla teoria classica si danno diversi tipi di verità, verità di fatto e verità di ragione, verità storiche e verità scientifiche, verità di fede e verità poetiche: alcune facili da scoprire, altre implicanti complesse e faticose ricerche. In filosofia la ricerca della verità avviene in modi diversi, secondo il tipo di filosofia che si pratica, che può essere trascendentale, dialettico, fenomenologico, analitico-linguistico, ermeneutico, dialogico-confutativo. Un caso di ricerca della verità in filosofia è costituito dalla metafisica, intesa non nel senso tradizionale di ontologia o teologia razionale, bensì come metafisica problematica e dialettica, epistemologicamente debole ma logicamente forte. Esiste anche una verità pratica, che riguarda non la legge morale, ma il desiderio della felicità intesa come pieno sviluppo della persona umana, nel singolo individuo e nella polis.


Prologo a L. E. Varela, Filosofía práctica y prudencia. Lo universal y lo particular en la ética de Aristóteles, Editorial Biblos, 2014.

El trabajo se sostiene en un conocimiento completo y perfecto de toda la obra de Aristóteles concerniente a la ética, no sólo a la Ética nicomaquea y a la Ética eudemia, sino también a la Gran Ética y al Protréptico. Los textos de estas obras son analizadas de manera precisa y rigurosa, y el análisis de ellos es siempre acompañado por una discusión de las interpretaciones suministradas por la literatura crítica, con la cual Varela está constantemente en diálogo. De ello resulta una contribución de gran claridad, equilibrio, riqueza de información y de profundización, que lo hace extremadamente útil para una relectura y una valoración nueva, plenamente satisfactoria, de la ética aristotélica. 

Luis Enrique Varela. Doctor en Filosofía (Universidad del Salvador). Es actualmente profesor de Ética y de Metafísica en la Universidad Nacional de Mar del Plata. Asimismo, dicta Historia de la Filosofía Antigua en la carrera del Doctorado en Filosofía, y Ética dentro de la enseñanza de grado en la Universidad Nacional de Lanús. Dirige proyectos de investigación en temas de filosofía práctica y de metafísica tanto en la UNMDP como en la UNLA. También se desempeña como profesor de Historia de la Filosofía Antigua y del Seminario de Filosofía Práctica I en la carrera de filosofía de la Universidad de Ciencias Empresariales y Sociales (UCES). Además dicta materias de filosofía en la carrera de Filosofía del Instituto Superior del Profesorado “Joaquín V. González”.Como director del Círculo de Actualización en Filosofía de la Fundación Descartes, organizó junto con Germán García el “Encuentro Internacional Descartes 400” (1996) y “Lacan y la cultura filosófica” (2001).Es autor de numerosos

Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.


What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today?,
in C. Baracchi (ed.), The Bloomsbury Companion to Aristotle, Bloomsbury, 2014.

Aristotle is one of the most crucial figures in the history of Western thought, and his name and ideas continue to be invoked in a wide range of contemporary philosophical discussions. The Bloomsbury Companion to Aristotle brings together leading scholars from across the world and from a variety of philosophical traditions to survey the recent research on Aristotle’s thought and its contributions to the full spectrum of philosophical enquiry, from logic to the natural sciences and psychology, from metaphysics to ethics, politics, and aesthetics. Further essays address aspects of the transmission, preservation, and elaboration of Aristotle’s thought in subsequent phases of the history of philosophy (from the Judeo-Arabic reception to debates in Europe and North America), and look forward to potential future directions for the study of his thought.
In addition, The Bloomsbury Companion to Aristotle includes an extensive range of essential reference tools offering assistance to researchers working in the field, including a chronology of recent research, a glossary of key Aristotelian terms with Latin concordances and textual references, and a guide to further reading.

List of Contributors \ Acknowledgments \ Corpus Aristotelicum \ “Introduction: Paths of Inquiry” Claudia Baracchi \ Part I: Questions \ 1. Logos \ Saying What One Sees, Letting See What One Says: Aristotle’s Rhetoric and the Rhetoric of the Sophists Barbara Cassin \ Aristotelian Definition: On the Discovery of Archai Russell Winslow \ 2. Phusis \ Aristotle on Sensible Objects: Natural Things and Body Helen Lang \ On Aristotle’s Formula: Physics IV. 11, 14 Rémi Brague \ 3. Psuchê \ Phantasia in De Anima Eric Sanday \ Mind in Body in Aristotle Erick Raphael Jiménez \ The Hermeneutic Slumber: Aristotle’s Reflections on Sleep Marcia Sá Cavalcante Schuback \ 4. Philosophia Prôtê \ First Philosophy Alejandro Vigo \ First Philosophy and the History of Being in Aristotle’s Metaphysics Spyridon Rangos \ 5. Êthos \ Aristotle on Human Nature and the Foundations of Ethics, with an “Addendum” Martha C. Nussbaum \ The Visibility of Goodness Pavlos Kontos \ To Kakon Pollachôs Legetai: The Poly-vocity of the Notion of Evil in Aristotelian Ethics Arianna Fermani \ 6. Polis \ Education: The Ethico-Political Energeia Michael Weinman \ 7. Poiêsis \ Toward the Sublime Calculus of Aristotle’s Poetics Kalliopi Nikolopoulou \ Part II: Disseminations \ Aristotle on the Natural Dwelling of Intellect Idit Dobbs-Weinstein \ The Peripatetic Method: Walking with Woodbridge, Thinking with Aristotle Christopher Long \ What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today? Enrico Berti \ Would Aristotle Be a Communitarian? Pierre Aubenque \ Glossary (Erick Raphael Jiménez) \ Chronology of Recent Research (Benjamin J. Grazzini) \ Bibliography (Erick Raphael Jiménez) \ Resources (Benjamin J. Grazzini and Erick Raphael Jiménez) \ Sources of Translated/Reprinted Essays \ General Index


Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Morcelliana, 2015.

“Contraddizione” e “dialettica” sono due delle categorie costitutive della filosofia, fin dalla sua nascita nella Grecia del V secolo. Nei capitoli che sono idealmente una storia del pensiero occidentale – il lettore trova la chiara e puntuale ricostruzione dei tanti significati assunti da “contraddizione”, “non contraddizione”, “dialettica” tra Parmenide, Eraclito, Socrate, Platone e Aristotele, tra Kant e Hegel, tra Marx, Popper e la logica contemporanea. Sono categorie in cui è in gioco non solo il rigore della ragione: nella possibilità o no di superare il principio di non contraddizione è in questione la cosa stessa del pensiero. Considerando che lo stesso principio di non contraddizione si dice in più modi. Temi cui Enrico Berti ha dedicato più di cinquant’anni di studi, e che trovano qui un compendio.


È bene definire il bene?, Orthotes, 2015.

Il punto di partenza assunto nel saggio è la definibilità del bene, una volta che ci si occupi di esso non in quanto assoluto e irraggiungibile, ma piuttosto vedendolo come bene umano, praticabile e realizzabile. Come tale, esso è l’oggetto delle aspirazioni umane e concretamente indicato nei diritti fondamentali, nelle varie libertà e nei diritti politici, che documenti ufficiali hanno ormai sancito. Da Aristotele fino alla sua ripresa da parte di Martha Nussbaum, la felicità, per quanto fragile, si sostanzia proprio di questi beni, che possono essere presentati come vere e proprie “capacità”. Completa il testo un intervento di Berti sull’Etica nicomachea di Aristotele, da cui emerge il carattere pratico di una filosofia che punti a definire che cos’è il bene, ossia aristotelicamente la felicità, per l’uomo.


Aristotelismo, il Mulino, 2017.

A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati.


Guida ad Aristotele.
Logica, Fisica, Cosmologia, Psicologia, Biologia, Metafisica, Etica, Politica, Poetica, Retorica
, Laterza, 2017.

Un manuale in cui i maggiori studiosi di Aristotele analizzano e descrivono in modo sistematico e completo il pensiero del filosofo, attraverso le singole opere, seguendo un metodo rigorosamente storico, senza interpretazioni ideologiche o di parte.


Introduzione alla metafisica,
seconda edizione, UTET, 2017.

La nuova edizione dell’Introduzione alla metafisica di Enrico Berti ripropone la concezione originale della metafisica che l’Autore va presentando da anni, la quale ha suscitato l’interesse degli studiosi di filosofia, come dimostrano le traduzioni dell’opera in altre lingue. Essa contiene alcune correzioni rispetto all’edizione precedente, dovute a ulteriori studi, e soprattutto è corredata da cinque appendici, costituite da altrettanti articoli sul tema, pubblicati dall’Autore negli anni più recenti. L’opera comprende una parte storica, che illustra le diverse forme di metafisica elaborate nella filosofia occidentale, e una parte teoretica, che difende le ragioni di un certo tipo di metafisica, caratterizzata come «metafisica dell’esperienza», sviluppando gli spunti forniti in questa direzione dalla «scuola padovana» facente capo a Marino Gentile. Nel complesso si tratta di una delle rare proposte italiane di una filosofia autenticamente metafisica, in linea con la grande tradizione della «metafisica classica» di ispirazione aristotelica, ma al tempo stesso essenzializzata e aggiornata in modo da tenere conto delle critiche e delle esigenze del pensiero contemporaneo. Il rifiorire di interesse per la metafisica, manifestatosi soprattutto nell’ambito della filosofia analitica, conferma l’attualità dell’opera.


Tradurre la “Metafisica” di Aristotele, Morcelliana, 2017.

«Essendomi recentemente cimentato con l’arduo compito di tradurre la Metafisica di Aristotele, il libro forse più difficile dell’intera storia della filosofia, mi sono imbattuto in una serie di problemi, alcuni dei quali previsti e altri invece imprevisti, che hanno reso l’impresa, oltre che ardua, anche affascinante». Affrontando problemi inerenti alla trasmissione del testo, alla traduzione e alla interpretazione, Berti mostra – contro una lettura teologizzante, di origine neoplatonica – il tratto problematico della filosofia aristotelica: la metafisica non è né teologia, né ontologia, ma scienza delle cause prime.


Aristotele Eubulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Guida, 2019.

Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.


Storia della Metafisica (a cura di), Morcelliana, 2019.

Sulla base del presupposto unanimemente riconosciuto che la metafisica, quale che sia il suo valore, ha avuto una storia, il volume individua i momenti salienti di quest’ultima in alcuni grandi filosofie correnti di pensiero: Platone, Aristotele, il platonismo antico, la metafisica arabo-islamica, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Suárez, Cartesio, Kant, Hegel, Rosmini, Heidegger, il neotomismo, la filosofia analitica. Ne risulta una storia equilibrata, ricca e coinvolgente, forse unica nel suo genere, di indubbio interesse per chiunque si occupi di filosofia.


Carrellata di copertine


Costanzo Preve (1943-2013) – Il Kant della fondazione individualistica della morale ed il rifiuto dell’etica comunitaria come eteronomia.

Costanzo Preve versus Immanuel Kant
Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia.
indicepresentazioneautoresintesi
Immanuel Kant in un ritratto del pittore tedesco Adolf von Heydeck (inizio del IXI secolo).

Costanzo Preve

Il Kant della fondazione individualistica della morale

ed il rifiuto dell’etica comunitaria come eteronomia

La teoria kantiana della morale è ampiamente nota, ed ha avuto anche una grande fortuna all’interno del movimento operaio di ispirazione marxista (professori universitari di ispirazione neokantiana nella socialdemocrazia tedesca fra il 1890 e il 1914, ecc.). E tuttavia una sua interpretazione storico-genetica ed ontologico-sociale può essere di una certa utilità. Solo attraverso di essa, infatti, è possibile comprendere le ragioni di fondo del suo indiscutibile successo negli ultimi duecento anni, che rileverò subito per comodità del lettore, anche se sarebbe stato meglio “svelare” il loro segreto solo alla fine della mia trattazione. In primo luogo, la morale kantiana ha avuto successo non tanto nonostante sia inapplicabile, ma proprio perché è del tutto inapplicabile, e questo svela la sua natura profondamente religiosa. Le morali religiose, infatti, devono essere inapplicabili, in quanto la loro funzione non consiste nel poter essere applicate, ma al contrario nell’offrire uno sfondo compensatorio ideale al modo concreto e quotidiano peccaminoso ed immorale in cui si vive necessariamente in una società classista di qualunque tipo (asiatico, schiavistica, feudale, capitalistica, socialistico-burocratica, ecc.). In secondo luogo (e questo punto è altrettanto importante del primo), la morale kantiana ha avuto successo perché rompe decisamente con qualunque posizione comunitaristico-solidale della fondazione della morale, fondando la morale stessa nella coscienza individuale, e soltanto in essa. Come è noto, questo passaggio dalla fondazione comunitaristico-solidale della morale alla fondazione individualistico-coscienziale di essa è stato realizzato da Kant sotto lo schermo della preferenza per la cosiddetta “autonomia” rispetto alla cosiddetta “eteronomia”.

Fissiamo dunque bene i due punti essenziali, quello della impossibilità della sua concreta applicazione come ragione essenziale del suo successo, quello del passaggio dalla fondazione comunitaristico-solidale, definita negativamente in termini di eteronomia, allo fondazione individualistico-coscienziale (morale dell’intenzione), definita positivamente in termini di autonomia. In questo modo, la metafisica morale di Kant è diventata a tutti gli effetti una religione laica, ed ha così pienamente incorporato il principio di ogni religione, quello di essere ritualizzato la domenica (o il sabato, o il venerdì, poco importa), e di non essere ovviamente per nulla pratica negli altri giorni “feriali” della settimana.

La teoria morale di Kant si basa sulla distinzione preliminare fra massime ed imperativi. Le massime sono soggettive, per cui qualcuno ha come massima l’andare al mare e qualcun altro l’andare in montagna, c’è chi è vegetariano e chi non lo è, ecc. C’è chi di vendica di ogni offesa che riceve (è l’esempio scelto da Kant), e chi invece ha come massima il perdonare chi lo ha offeso. Ma per Kant evidentemente è impossibile fondare una morale universale sulle massime soggettive. Ci sono poi gli imperativi, che sono oggettivi in quanto rivolti a tutti, e che Kant distingue ulteriormente in ipotetici e categorici. Gli imperativi ipotetici si distinguono a loro volta in “regole dell’abilità” (se vuoi essere promosso, devi studiare”) e “consigli della prudenza (“se vuoi avere una vecchiaia sicura, devi risparmiare, se vuoi farti ben volere, sii cortese e generoso con gli altri). Ma Kant, ovviamente, così come ha respinto la morale arbitraria e soggettiva fondata sulle massime, nello stesso modo respinge la morale utilitaristica fondata sulle regole dell’abilità e sui consigli della prudenza. Non accetta infatti il principio ipotetico del nesso “se … allora”. Il nesso “se … allora” non può dar luogo ad una morale universalistica, o più esattamente con pretese universalistiche.

Kant dà tre formulazioni distinte e convergenti del suo imperativo categorico: agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre, al tempo stesso, come principio di una legislazione universale; agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche come scopo, e mai come semplice mezzo; agisci in modo che la volontà, con la sua massima, possa considerarsi come universalmente legislatrice rispetto a se medesima. Le tre formulazioni sono largamente complementari, ma la prima insiste soprattutto sulla legge (oggettiva), mentre la terza insiste invece sulla volontà (soggettiva). La seconda, invece, appare come una sostanziale secolarizzazione del vecchio motto evangelico «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te».

Per poter mettere in atto un comportamento stabilmente ispirato all’imperativo categorico, è necessario che si possa presupporre la libertà del volere umano. Kant sa bene che la cosiddetta «libertà del volere» è altrettanto indimostrabile dell’esistenza di Dio, e non cerca neppure di farlo, avendo anche escluso questa possibilità nell’esame delle antinomie dell’idea di mondo nella terza parte della Critica della Ragion Pura. Egli la definisce quindi curiosamente come un fatto della ragione, l’uni­co giudizio sintetico a priori non fenomenico. Kant esclude che la libertà sia conoscibile, in quanto per conoscerla dovremmo avere un’intuizione intellettiva, cosa impossibile perché a sua volta la libertà non è un fenomeno, ma anzi è il solo modo di sfuggire alla catena di nessi causali che caratterizza il mondo dei fenomeni stessi. È evidente che questa concezione filosofica kantiana di libertà è interessante, ed è meritevole di uno studio particolare.

L’elemento paradossale sta in ciò, che non appena la libertà come fatto della ragione che non richiede alcun tipo di “dimostrazione logica” è evocato, immediatamente essa viene identificata con l’asservimento volontario. La libertà, quindi, coincide con la servitù volontaria. Qui sta la specifica secolarizzazione kantiana del cristianesimo, perché ciò che in Paolo di Tarso era l’asservimento volontario di tutte e tre le classi della società schiavistica romana all’unico salvatore (cfr. Lettera ai Corinzi, 7, 20-4), in è Kant l’asservimento volontario di tutti i membri unificati idealmente del genere umano alla Legge Morale. La legge morale, quindi, è la secolarizzazione del salvatore cristiano. Ma il salvatore cristiano (almeno in Paolo) era ancora il portatore di una speranza escatologica di tipo egualitario e di una soluzione “redentrice” dei conflitti sociali sanguinosi evocati nella Apocalisse di Giovanni. Qui invece la realizzazione della legge morale esclude esplicitamente ogni redenzione meccanica della società. Ed infatti la libertà astratta a priori come “fatto della ragione” della filosofia politica liberale deve escludere in ogni forma la sua concretizzazione egualitaria. Si tratta di una libertà di individui che partecipano alla comune “società civile” borghese. La loro “formalità” a priori ha come a posteriori il mondo del mercato capitalistico regolato dalle leggi. Per questa ragione Kant resta il massimo filosofo politico liberale, anche se non si è mai “speso” per una irrilevante classificazione scolastica delle forme di stato e di governo. I condottieri lasciano questi particolari poco importanti ai furieri.

L’idea secondo la quale la libertà del volere umano non abbia bisogno di essere “dimostrata”, essendo un fatto intuitivo della ragione (Faktum der Vernunft) non deriva in Kant da una concezione ottimistica preliminare, in quanto Kant dice apertamente che l’uomo è un “legno storto”, che non si può pensare realisticamente di raddrizzare. E tuttavia, legno storto o meno, bisogna presupporre la libertà del volere umano come un fatto intuitivo della ragione. Non si cerca di sciogliere il nodo gordiano degli innumerevoli argomenti pro o contro la libertà del volere umano, ma li si taglia con l’intuizione immediata del fatto della ragione. Michel Foucault ha introdotto l’ipotesi che alle spalle di questa decisione kantiana ci sia stato l’”entusiasmo” per la rivoluzione francese del 1789. E nonostante il fatto che la teoria kantiana della libertà del volere come fatto della ragione sia stata enun­ciata prima dell’anno 1789, è possibile dire che nell’essenziale Foucault ha ragione, perché l’atmosfera di “attesa” della possibilità della rivoluzione precedeva il 1789 nella coscienza della parte migliore degli intellettuali di quel periodo.

Poca gente oggi dichiara che la libertà del volere dell’uomo è un fatto ovvio ed indiscutibile della ragione, e questo per un insieme di ragioni che qui sarà ne­cessario compendiare. In primo luogo, mentre Kant esprimeva il suo entusiasmo per la rivoluzione del 1789 (salvo ovviamente esprimere il suo “orrore” per l’esecuzione di Luigi XVI e per l’”estremismo” dei giacobini – ma questo è un classico del pensiero moderato, che vorrebbe sorvegliare il decorso rivoluzionario come si sorveglia la bollitura dell’acqua per la colazione), tutta la generazione intellettuale di oggi al potere negli apparati giornalistici, editoriali ed universitari, scottata dalla sua riconversione dal gesticolare sessantottino alla depressione sociologica posteriore, ha trasformato il 1917 russo in modello demonologico dell’utopia che si trasforma inevitabilmente in terrore, ed ha ripiegato come “male minore” nel dominio imperiale USA sul mondo, che ci difende con le sue armi nucleari contro barbuti fondamentalisti islamici e contro baffuti dittatori “populisti”.

L’entusiasmo si è dialetticamente rovesciato nel sorrisino di scherno dell’«ultimo uomo» nicciano, che sa bene che ormai «Dio è morto», e per questo appunto tutto diventa possibile. In secondo luogo, la psicoanalisi di Freud ha interamente secolarizzato la vecchia teoria luterana della predestinazione divina, attribuendo la predestinazione dei comportamenti umani che si vorrebbero soggettivamente liberi alla fatalità dello svolgimento degli stadi psicologici dell’infanzia e dell’adolescenza, per cui le varie fissazioni di origine orale ed anale ed i vari complessi di Edipo non risolti rendono del tutto illusoria l’idea che l’adulto possa autodeterminarsi liberamente nelle sue scelte consapevoli. Come è noto, l’infantilizzazione che inevitabilmente ne deriva, con i complessi di colpa che accompagnano questa infantilizzazione generalizzata, rappresenta il principale argomento per la medicalizzazione psicologica dell’intera società, per l’indebolimento del potere paterno (e come può pretendere di comandare il padre, se il suo Super-Io è il frutto di fissazioni sadico-anali, di regressioni orali e di elaborazioni sublimate dell’odio verso il padre, la madre, o il cugino Filippo?), e per la totale espropriazione del prestigio degli insegnanti, sostituiti da ridicole bande invasive di pedagogisti pazzi, di psicologi maniaci, di assistenti sociali soffocanti e di sindacalisti assatanati. In questa società medicalizzata, ovviamente, della libertà del volere non ne è più nulla. Il lettino dello psicoanalista ha sostituito qualunque progettualità rivoluzionaria. Marx era certamente figlio di un complesso di Edipo non risolto, e del fatto che voleva distruggere la società capitalistica perché ci vedeva in essa l’ombra ingombrante del padre. In quanto a Lenin, la sua violenza era certamente dovuta ad una sua fis­sazione sadico-anale. Più tempo sul vasino, e probabilmente non avremmo avuto il 1917?

In terzo luogo, infine, la teoria di Heidegger sul perfezionamento anonimo ed impersonale del Dispositivo (Gestell) tecnico del mondo non è certamente soltanto una sofisticata ipotesi filosofica sul destino della società occidentale, ma è ormai un dato psicologico che si è addirittura “travasato” nelle riviste femminili della “donna moderna” (Umberto Galimberti). E quando una concezione filosofica arriva fino alle riviste femminili del ceto medio, insieme a consigli sulle creme, i profumi, l’arredamento, i viaggi “intelligenti” ed i consigli erotici, possiamo pro­prio concluderne che la metafisica si è ormai ridotta in tecnica di riproduzione sociale anonima ed impersonale del KapitalGestell. In questa situazione epocalmente nuova nella storia universale dell’umanità non c’è più ovviamente spazio per il programma dell’Io di superamento del Non-Io (Fichte), per il programma di Hegel di adeguamento del reale (wirklich) e del razionale, ed infine per il programma di Marx di superamento sociale consapevole del nesso alienazione/sfruttamento.

L’incrocio fra Popper, Freud e Heidegger ha certamente dato un colpo (provvisorio, comunque) all’intuizione autoevidente di Kant sulla libertà del volere come Faktum der Vernunft. E tuttavia Kant non ne è certamente responsabile, se oggi il meccanismo culturale universitario-giornalistico-editoriale diffonde l’idea che la libertà consista nel riuscire a vincere la concorrenza imprenditoriale dell’India e della Cina (nonostante il fatto che i nostri lavoratori purtroppo sono ancora troppo pagati rispetto ai cinesi e agli indiani), ed infine nello scegliere un luogo per “vacanze intelligenti” in cui non incontrare la solita marmaglia dirottata alle Maldive o a Sharm el-Sheikh. Vorrei però insistere sul fatto che il grande successo della morale kantiana risiede proprio nel fatto di essere inapplicabile, così come il grande successo della religione cristiana, superata l’imbarazzante fase estremistica di tipo messianico, è consistito nel rinvio in un innocuo (e francamente incredibile) consesso di suonatori d’arpa assisi sulle nuvolette. Il concetto di dovere (Pflicht) è certamente un «nome sublime e grande», che però «esige la sottomissione», in quanto «presenta semplicemente una legge che penetra da se sola nell’animo e si procura venerazione». Questa dichiarazione apodittica è stata a suo tempo “smontata” da molti pensatori, da Schopenhauer e Nietzsche, che hanno mostrato come questo imperativo categorico nascondeva in realtà un imperativo ipotetico sottostante, perché il vero movente psicologico del trattare gli altri come fine e non come mezzo non poteva che essere la paura della reciprocità, del fatto cioè che essendo gli altri più forti di noi avrebbero potuto cominciare loro a trattarci come mezzo e non come fine. Ma questo per me non è un argomento contro Kant, in quanto Kant è del tutto disinteressato alla “credibilità pratica” di quanto dice. Egli ha infatti voltato talmente le spalle alla phronesis di Aristotele da non essere più accessibile a ragionamenti di tipo aristotelico (o hegelo-marxiano). Il dovere (kathekon, Pflicht), infatti, esiste veramente, ma può esistere soltanto come dimensione comunitario-solidale, non certamente come “nome sublime e grande che esige la sottomissione”.

Il totale disinteresse di Kant per l’argomentazione pratica ispirata alla phronesis aristotelica è rivelato da un curioso episodio che generalmente i manuali non riportano, ma che è ovviamente noto agli studiosi. Kant riteneva la veridicità, e cioè il dire sempre sinceramene la verità, un presupposto formale a priori dell’agire morale, in quanto ovviamente se mento non posso più agire moralmente (su questo, le regole dell’abilità ed i consigli della prudenza del medico portano peraltro il medico stesso ad agire spesso diversamente). Fu chiesto a Kant come avrebbe dovuto agire l’uomo giusto se un fuggiasco inseguito da un feroce assassino avesse cercato rifugio nella sua casa e se l’assassino, giunto alla sua porta, gli avesse chiesto se colui che inseguiva si trovava nella sua casa. Dalle sei scuole filosofiche greche principali al cristianesimo, da Spinoza all’empirismo inglese fino allo scettico Hume, comprendendo tutte le persone ispirate dal buon senso (che poi Lukács ha definito in termini di «rispecchiamento quotidiano»), chiunque risponderebbe: «Non ho mai visto quello che lei cerca. Anzi, l’ho visto mezz’ora fa che stava scappando in quella direzione» (indicando ovviamente la direzione della più vicina stazione dei carabinieri). Ma Kant afferma che persino in quel caso non è consentito mentire, in quanto la formalità della veridicità come precondizione universale della morale non tollera eccezioni. E tuttavia, sostiene Kant, posso sempre “sperare” che l’inseguito riesca a scappare per i tetti (sic!), ed in ogni caso non potrei mai essere ritenuto penalmente responsabile (!).

Mostrare la pedantesca e filistea idiozia di Kant sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. E tuttavia abbiamo qui il cuore del tentativo titanico di Kant di creare una morale che escluda ogni componente psicologica e sociale di tipo eteronomo. Egli fa l’esempio del deposito di denaro che ci è stato affidato da un padrone che nel frattempo è morto e non ha lasciato nessun scritto a questo riguardo. Secondo Kant, soltanto il senso del dovere ci potrebbe spingere a restituire il deposito, visto che nessuno ne saprebbe mai niente. In realtà, ci sarebbero certamente dei furbacchioni (o più probabilmente, dei poveracci) che si terrebbero il deposito, ma ci sarebbe probabilmente anche una (esigua) maggioranza che lo restituirebbe agli eredi legittimi, per un insieme differenziato di ragioni psicologiche (introiezione fin dall’infanzia del senso di colpa, introiezione dei sentimenti comunitari di giustizia, paura del giudizio di Dio dopo la morte, sentimenti di simpatia verso gli eredi del lascito, ecc.). Ma sono appunto questi motivi che Kant vuole escludere. Deve restare soltanto il «dovere per il dovere», senza altre componenti. Ora, di fatto nessuno agisce così, ed (aggiungo io), è un bene che nessuno agisca così. Atomi insensibili, privi di motivazioni psicologiche, che agiscano solo in base alla formalità astratta del dovere, formerebbero una società da incubo. E del resto, Kant ha teorizzato con maniacale argomentazione teutonica che la masturbazione è una buona alternativa alle noie di una famiglia, che possono distogliere dall’attività di pensiero. Attenzione, non ha detto che la masturbazione è un piacere solitario, un frutto della solitudine, oppure che fa diventare ciechi (minacciosa teoria della mia nonna materna). No, ha detto che è una ragionevole alternativa alle noie di famiglia.

Non intendo affatto “accanirmi” con Kant. Intendo soltanto sottolineare con pittoresca insistenza che non solo tutte le morali del mondo sono eteronome, e non potrebbero essere diversamente, ma che è anche bene che siano eteronome, e bene ha fatto Hegel non solo a distinguere fra la moralità e l’eticità (distinzione impossibile in Kant, in quanto tutte le forme di eticità devono necessariamente essere “sciolte” e ricomposte in un unico modello formale di moralità categorico-trascendentale), ma anche a rimettere al loro posto le motivazioni soggettive del comportamento. C’è infatti una fortissima omogeneità fra il modo con cui Kant aveva ricostruito in modo gnoseologico l’intera storia della filosofia precedente (lo scontro fra razionalisti ed empiristi e la sua soluzione alternativa, ecc.), ed il modo in cui riscrive la storia dell’etica.

Dal momento che il criterio metodologico di Kant è quello di “purificare la forma” del comportamento isolandone ed in questo modo eliminandone progressivamente le motivazioni “materiali”, egli distingue nella sua tavola delle “distruzioni” quattro tipi di motivazioni “eteronome”, i motivi soggettivi interni ed esterni, ed i motivo oggettivi interni ed esterni. Rimandando alla (necessaria) lettura diretta di Kant, si ha qui il rifiuto delle motivazioni in base all’educazione (Montaigne, ma anche Cartesio, che sostenevano che ci si dovesse conformare agli usi ed ai costumi del proprio paese), alla costituzione civile (Mandeville nella Favola delle Api, per cui i fini individuali, soggettivamente cattivi, si trasformano per conto loro in fini sociali, oggettivamente buoni), al sentimento fisico (Epicuro, che fondava la sua etica sul sentimento del piacere), al sentimento morale (Hutcheson, ed il suo sentimento della giustizia e della simpatia insito nella natura umana, da cui poi anche Hume e Smith), alla perfezione (stoici antichi e Wolff), ed infine alla volontà di Dio (la morale fondata in modo teologico). È interessante notare (in quanto in questi casi le assenze sono ancora più significative delle presenze) che in questa tipologia in sei parti manchi del tutto la motivazione principale che uno si aspetterebbe, e cioè la ricerca dell’approvazione degli altri membri della comunità. E tuttavia, questa assenza è la chiave interpretativa principale di tutta questa elaborata tassonomia kantiana.

Sospendiamo provvisoriamente queste considerazioni su Kant e torniamo ad esaminare le origini del processo di costituzione del pensiero umano (capitolo secondo). Ricostruendo questo processo storico-genetico di costituzione (processo storico-genetico che per definizione è assente nell’approccio formalistico, destori­cizzato e desocializzato di Kant), appare evidente che non nasce prima la religione, e poi l’etica da cui viene “dedotta”, ma l’etica e la religione nascono storicamente insieme intrecciate strettamente, in quanto l’etica si basa sulle regole solidali-comunitarie che permettono la sopravvivenza fisica del gruppo nelle condizioni “naturali” date (il che può implicare ovviamente in caso di penuria di risorse l’abbandono dei vecchi e l’eliminazione dei bambini malformati), regole tribali-comunitarie in cui l’individuo cerca naturalmente l’approvazione e la simpatia dei suoi simili, e la religione “assicura” simbolicamente la permanenza “eterna” di queste regole etiche dandone una garanzia divina.

E quindi, anche se storicamente l’etica e la religione nascono insieme, “logicamente” nasce prima l’etica (la funzione della sopravvivenza comunitario-solidale del gruppo) e poi la religione (la garanzia simbolica del fondamento divino di queste regole sociali riproduttive). Quanto dico qui sommariamente è stato “dimostrato” da innumerevoli studi etnologici comparati, ed è comprensibile a tutti coloro che vogliano rifletterci sopra (al di fuori, ovviamente, dei sostenitori del “ritorno a Kant”).

Come si spiega, allora, il fatto che nonostante queste solari evidenze di tipo comunitario-solidale, storico-genetico ed ontologico-sociale si continui a predicare l’impossibile ed inapplicabile “morale kantiana”, e non la si storicizzi come prodotto teorico “superato” di un’epoca ormai del tutto trascorsa? L’ho già detto in precedenza, ma repetita juvant. In primo luogo, lo scopo segreto di questa formulazione kantiana della morale non è quello di fornire un insieme applicabile di norme etiche, ma al contrario di fornire un ideale “asintotico” di morale programmaticamente inapplicabile, che funga da compensazione “festiva” per lo scatenamento “feriale” degli animal spirits dell’accumulazione capitalistica. In secondo luogo, è evidente che l’uomo borghese non può pensarsi ed autorappresentarsi come membro solidale di una comunità, ma deve pensarsi come individuo sovrano ed originario.

Questo individuo è titolare di una assoluta sovranità politica nella società civile liberale, da cui sono escluse tutte le “classi pericolose” il cui accesso al suffragio universale (cfr. Costituzione giacobina del 1793, mai entrata in vigore) avrebbe messo sicuramente in pericolo la proprietà privata (siamo infatti in una fase storica precedente alla economizzazione del conflitto salariale, alla nazionalizzazione imperialistica e razzistica delle masse ed alla loro integrazione consumistica nella società manipolata dello spettacolo mediatico).

Questo individuo ha diritto alla proprietà privata originaria fondata sul suo lavoro robinsoniamente inteso (Locke), ed agisce in base a costanti antropologiche comportamentali della natura umana (Hume). Kant non fa altro che portare a termine sul piano teorico-astratto il processo di costituzione formalistica del soggetto iniziato con Cartesio e la rappresentazione destoricizzata e desocializzata del suo comportamento. La “formalizzazione”, tanto amata dai neokantiani, coincide infatti con la destoricizzazione e con la desocializzazione, e nello stesso tempo offre un’alternativa individualistica radicale a qualunque riproposizione dell’agire comunitario, spacciato per autoritarismo organicistico “eteronomo”. Che poi questo neokantismo individualistico si presenti in vesti di “destra” o di “sinistra”, questo è irrilevante per ogni severo esame filosofico, e può interessare solo i lettori di rivistine di gossip politico-parlamentare (amanti del premier, Sarkò insieme a Karlà, ristoranti gratuiti per parlamentari mangioni, ed altre perle di ciò che a suo tempo Heidegger ha chiamato chiacchiera, Gerede, curiosità, Neugier, ed equivoco, Zweideutigkeit).

E tuttavia non posso finire in questo modo con Kant. Kant è stato ovviamente un pensatore strategico per la visione borghese del mondo, ma è anche stato un “donatore” di alcune fra le concezioni più geniali della storia della filosofia. La sua teoria estetica, consegnata nella mirabile Critica del Giudizio, (si sarà già capito che per chi scrive si tratta della migliore fra le tre Critiche di Kant), resta oggi attualissima, e non ne parlo solo perché il suo contenuto è estraneo alla linea principale delle mie analisi. Ma è soprattutto l’interpretazione del giudizio teleologico che merita un’analisi particolare. Quando scrisse della natura del giudizio teleologico, Kant non poteva ancora sapere che nel secolo successivo si sarebbe formata una metafisica teleologica della storia, quella del marxismo. Kant non lo sapeva, ma noi invece lo sappiamo, ed abbiamo quindi il permesso di rifletterci sopra spregiu­dicatamente.

Spinoza aveva già rilevato che l’essenza del cerchio sta nella sua produzione, e cioè nella mano che lo disegna. E sulla sua scia Kant rileva che il cerchio è il princi­pio della soluzione geometrica di una grande quantità di problemi, ma questo non significa affatto che il cerchio sia l’unità finalistica dei problemi che grazie ad esso vengono risolti. La finalità del fiume Nilo non è quella di consentire l’agricoltura agli antichi egizi, anche se noi possiamo spiegarci perché sulle rive di quel fiume sono sorti grandi insediamenti umani. La ragione per cui viene prodotto un orologio non sta nella natura meccanica dell’orologio, ma sta al di fuori dell’orologio stesso, nella finalità per cui l’orologiaio lo ha costruito e per cui i suoi acquirenti lo compreranno.

Kant ha ragione. Quando visse, la scienza che dettava il modello per tutte le altre era la fisica, non la biologia, ed era evidente che la finalità interna degli organismi naturali non potesse essere conoscitivamente determinata, ma solo “riflessa” dal pensiero (giudizio detto riflettente). Il massimo che si poteva raggiungere era una spiegazione meccanicistica. E la stessa filosofia della storia di Kant era costituita in questo modo: nel corso storico possiamo soltanto “sperare” che si vada verso il meglio, non possiamo pretendere di determinare con sicurezza che “certamente sta andando verso il meglio”. Che dire? In breve, che Kant su questo punto ha perfettamente ragione, ed il successivo marxismo deterministico e necessitaristico ha avuto invece completamente torto. È bene che non lasci dubbi su questo punto, perché su quasi tutte le questioni fondamentali della filosofia sono un allievo di Hegel e di Marx ed un avversario di Kant (e gli ultimi due capitoli lo dimostrano ampiamente). Ma su questo punto la mia opinione è invertita: su questo punto Kant ha avuto ragione, e se qualcuno su questo punto (e solo su questo punto) mi propone “un ritorno a Kant”, ebbene, gli andrei volontariamente dietro. E tuttavia, la questione è di tale importanza da meritare una discussione ulteriore. Dovrò anticipare così temi che tratterò nei prossimi capitoli, e tuttavia – data la crucialità della questione – sono sicuro di fare cosa gradita al lettore.

Il rifiuto kantiano di determinare il corso storico del futuro, e di limitarsi di “speranze” di un giudizio riflettente di tipo teleologico tratto dalla considerazione della natura, cui Kant non applicava consapevolmente le categorie del determinismo fisico e della precisione matematica, non era soltanto qualcosa di saggio e di razionale da rivendicare ancora oggi, dopo la consumazione e la smentita delle “previsioni scientifiche” del marxismo storico novecentesco e del suo codice ideologico staliniano. Questo rifiuto era comune a quasi tutte le filosofie della storia illuministiche di quel periodo, inglesi, francesi, tedesche, ecc. E questo non è un caso, perché le filosofie settecentesche della storia ignoravano la nozione positivi­stica di “legge scientifica”, intesa come insieme di regolarità accertabili del corso storico che avrebbero permesso la “previsione certa” del futuro storico dell’umanità. Certo, esisteva l’ideologia del progresso, che in precedenza ho interpretato in termini di necessaria unificazione trascendentale-riflessiva della temporalità ideologica borghese. Ma questa robustissima ideologia del progresso (che soltanto Rousseau ed alcuni pochi altri osarono rifiutare esplicitamente, ben prima di Walter Benjamin e di Georges Sorel) non si fondava sulla concezione di “legge storica” come previsione scientifica del corso storico. Questa concezione deterministico-necessitaristica, adottata da Engels nel suo scritto fondativo sul passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza, era assente sia nel pensiero illuministico che nel posteriore pensiero idealistico.

In Fichte c’è certamente una filosofia della storia, ed anzi la sua teoria sulla cosiddetta “epoca della compiuta peccaminosità” è addirittura fondante per intenderne il pensiero. E tuttavia la stessa accusa di Hegel, di proseguire cioè il “cattivo infinto” indeterminato di Kant, ci mostra indirettamente quello che comunque ri­sulta dai testi fichtiani, e cioè che in Fichte non c’è nessun determinismo e nessun necessitarismo storico. Per Fichte la storia, come per Kant, continua ad essere il luogo ideale di un giudizio riflettente, anche se ovviamente sono sempre determinabili i passaggi in cui l’Io (e cioè l’unità concettuale e metaforizzata dell’intera umanità intesa come soggettività attiva e trasformatrice) modifica il Non-Io (e cioè l’insieme degli “ostacoli” che il mondo del pregiudizio e della corruzione ci mette invariabilmente davanti). Il passato è razionalmente ricostruibile, il presente è logicamente determinabile, ma il futuro resta privo di qualunque determinazione teleologico-necessitaristica.

Si dirà che Hegel, con la sua critica al “cattivo infinito” indeterminato di Kant e Fichte, ha invece messo un tassello per la costruzione di una filosofia della storia necessitaristico-deterministica. Non è così. In un suo mirabile e dettagliato studio sulla Scienza della Logica di Hegel, letta in controluce con le concezioni di Engels sulle presunte “leggi dialettiche” della natura e della società, lo studioso svedese Eric Liedman ha accertato che il concetto di “legge dialettica” non esiste in Hegel, mentre invece (ahimè) è presente nel primo libro del Capitale di Marx pubblicato nel 1867. Ed il fatto che questo concetto sia assente nello Hegel del 1812 e sia invece presente nel Marx del 1867 non si può spiegare che in un modo, e cioè che nel frattempo era intervenuto il positivismo (ed anche il darwinismo), che invece si nutriva del concetto di legge scientifica intesa come previsione certa dell’esito di processi di temporalità future che ci concepivano come il proseguimento lineare omogeneo delle temporalità passate e presenti. Liedman (ma non solo lui) dimostra così che Hegel avrà magari avuto tutti i difetti del mondo, ma non ha mai difeso una concezione della filosofia della storia come previsione scientifica del futuro sulla base estrapolazione logica delle regolarità storiche e sociali del presente. Il fatto è – detto in breve – che Marx si è fatto “intrappolare” dalla concezione positivistica delle leggi scientifiche, e di lì è poi sorta l’applicazione ideologica sviluppata dalla coppia Engels-Kautsky fra il 1875 ed il 1895.

Althusser ha quindi ragione nell’auspicare una “scienza marxista” della struttura del modo di produzione capitalistico depurata dalle tre nozioni “ideologiche” di Origine, Soggetto e Fine. Ha invece torto nel credere che il “marxismo” possa essere questo, laddove il “marxismo” realmente esistito al di fuori di alcuni cenacoli catacombali è proprio stato questo e non poteva che essere questo (e cioè una grande narrazione deterministico-teleologica dell’origine, del soggetto e del fine). E non poteva che essere questo, ovviamente, per gli scopi funzionali per cui era stato creato, la rassicurazione metafisica di un soggetto subalterno, e quindi religioso per sua profonda essenza sociale. Ha anche torto nel rifiutare l’eredità idealista, perché questa eredità idealista non coincide in alcun modo con la metafisica deterministico-teleologica della grande narrazione dell’origine, del soggetto e del fine, ma ne è anzi a tutti gli effetti il più sicuro antidoto teorico e filosofico.

 

Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia, 2013, pp. 235-244.

Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013
Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.
Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.
Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.
Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez
Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.
Costanzo Preve – Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante
Costanzo Preve – Religione Politica Dualista Destra/Sinistra. Considerazioni preliminari sulla genesi storica passata, sulla funzionalità sistemica presente e sulle prospettive future di questa moderna Religione
Costanzo Preve – Invito allo Straniamento 2° • Costanzo Preve marxiano ci invita ad un riorientamento, ad uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo.
Costanzo Preve (1943-2013) – Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca (luglio 2012) de “Il Bombardamento Etico”. Un libro che è ancora più attuale di quando fu scritto, sedici anni or sono.
Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica
Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.
Costanzo Preve (1943-2013) – Il Sessantotto è una costellazione di eventi eterogenei impropriamente unificati. Il mettere in comune questi eventi eterogenei è un falso storiografico.
Costanzo Preve (1943-2013) – «Il convitato di pietra». Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza, senza la fatica del concettualizzare
Costanzo Preve (1943-2013) – Teniamo la barra del timone diritta in una prospettiva di lunga durata. La “passione durevole” per il comunismo coincide certo con il percorso della nostra vita concreta fatalmente breve, ma essa è anche ideale, nel senso che va al di là della nostra stessa vita.
Costanzo Preve (1943-2013) – Telling the truth about capitalism and about communism. The dialectic of limitlessness and the dialectic of corruption. Dire la verità sul capitalismo e sul comunismo. Dialettica dell’ illimitatezza, dialettica della corruzione.
Costanzo Preve (1943-2013) – Su laicismo, verità, relativismo e nichilismo
Costanzo Preve (1943-2013) – Gesù tra i dottori. Esperienza religiosa e pensiero filosofico nella costituzione del legame sociale capitalistico.

Da bambini ci viene insegnato che bisogna dire sempre la verità. Ma quando diventiamo adulti, se continuiamo a dire la verità sempre e in ogni caso, la nostra vita diventa un inferno. Nel 1796, Benjamin Constant scrive che il dovere morale di dire la verità, inteso incondizionatamente, rende impossibile ogni tipo di società. Risponde Kant con “Sul presunto diritto di mentire per amore dell’umanità” e sostiene che la menzogna resta un crimine anche se detta a un assassino che ci chiedesse se nascondiamo un amico da lui perseguitato. Ma il tema della veridicità assoluta, come documentano i testi raccolti qui, attraversa tutta l’opera di Kant, alla ricerca di quella trasparenza in cui vita e verità sfumano l’una nell’altra, senza zone d’ombra: il sogno della filosofia. Oppure il suo più terribile incubo?


 IL CURATORE 

Andrea Tagliapietra insegna Storia della filosofia, Storia delle idee e Filosofia della cultura all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Nelle nostre edizioni ha pubblicato Sincerità (2012) e Esperienza. Filosofia e storia di un’idea (2017).

 

Rassegna stampa per Bisogna sempre dire la verità?

È giusto dire sempre la verità?
Bisogna sempre dire la verità?
Verità: è saggio dirla sempre?
Se Woody ha ragione e Kant no.
Critica della trasparenza pura.
Kant: bisogna sempre dire la verità?
Siamo sicuri che sia meglio dirla?

Anna Beer – Note dal silenzio. Le grandi compositrici dimenticate della musica classica.

Anna Beer 01
Francesca Caccini (1587-1640)
Barbara Strozzi (1619-1677)
Élisabeth Jacquet de la Guerre (1665-1729)
Marianna Martines (1744-1812)
Fanny Mendelssohn Hensel (1805-1847)
Clara Schumann (1819-1896)
Lili Boulanger (1893-1918)
Elizabeth “Betty” Maconchy (1907-1994)

Fin da quando il nome del compositore di una melodia o di un brano musicale ha cominciato a essere tramandato, le donne che hanno osato presentarsi come creatrici e non come esecutrici o interpreti virtuose hanno dovuto affrontare una battaglia violentissima per affermare la propria voce. Questo libro raccoglie la storia di otto donne meravigliose che hanno scelto questa sfida. Una dopo l’altra, in periodi storici e contesti culturali diversi, dalla Firenze del Rinascimento alla Londra del Novecento, ciascuna di esse ha fronteggiato le ideologie e le consuetudini che cercavano di escluderle dal mondo della creazione musicale. Una dopo l’altra, hanno fatto la propria scelta, hanno giocato le proprie carte nel privato – la sfera femminile – e nel pubblico – la sfera maschile. Molte lo hanno fatto pur in accordo con la società del tempo su ciò che le donne erano capaci di fare, su come dovevano vivere e, punto cruciale, su che cosa potevano o non potevano comporre. Ma se essere compositrice significa, a quel tempo come ora, sfidare ogni avversità, allora è giusto raccontare in che modo tutte loro seppero dominarle e perseverare. Le otto compositrici qui presentate operavano in un contesto che riduceva al silenzio la maggioranza delle donne: le loro vite raccontano invece una storia di impegno e successi artistici che attraversa i secoli, una storia che dovrebbe essere fonte d’ispirazione per tutti e che ha i titoli per essere parte integrante del nostro patrimonio culturale, ma ancora non lo è. E siamo i primi a perderci.

«Né angeli né streghe, ma solo esseri umani dal talento portentoso, queste compositrici hanno dimostrato a più riprese di possedere gli “alti doni dell’intelletto”, hanno dato ogni volta voce “a un intenso sentire attinto da un convincimento profondo”».

Qual è la condizione essenziale per diventare grandi compositori? La risposta che per secoli ha dominato il mondo della musica è: nascere uomini. Sin dalle origini della tradizione occidentale, le donne che hanno avuto il coraggio di percorrere la strada della composizione hanno dovuto affrontare pesanti difficoltà e pregiudizi. A loro era naturalmente consentita l’esibizione, il virtuosismo canoro o strumentale, il palcoscenico e la luce della ribalta, ma non quel processo di pensiero da cui la musica scaturisce. Anna Beer, storica della cultura e scrittrice, racconta invece un’altra storia, dimostrando come sotto la superficie della narrazione storiografica generalmente accettata, non sono affatto poche le donne che ce l’hanno fatta. Ma la loro voce è stata in qualche modo circondata e soffocata da una cortina di silenzio. In otto appassionanti racconti biografici, Anna Beer illustra la vita e la ricerca artistica di otto grandi compositrici in qualche modo dimenticate della musica classica, dalla Firenze dei Medici alla Londra del Novecento: Francesca Caccini (1587-1640), Barbara Strozzi (1619-1677), Élisabeth Jacquet de la Guerre (1665-1729), Marianna Martines (1744-1812), Fanny Mendelssohn Hensel (1805-1847), Clara Schumann (1819-1896), Lili Boulanger (1893-1918) e Elizabeth “Betty” Maconchy (1907-1994). Otto vite piene di determinazione e passione musicale che hanno sfidato i pregiudizi di un mondo artistico soprattutto maschile. Otto bellissime storie di libertà e vitalità.

«Le loro vite raccontano una storia di impegno e successi in campo artistico che attraversa i secoli, una storia articolata e fonte di ispirazione che ha tutti i titoli per essere parte integrante del nostro patrimonio culturale ma ancora non lo è. E siamo i primi a perderci».

Anna Beer, Note dal silenzio. Le grandi compositrici dimenticate della musica classica, trad. di Leonardo Marcello Pignataro, EDT, 2019.



Un estratto: Clara Schumann

Il suo ruolo in quella che è stata definita «la più grande storia d’amore musicale dell’Ottocento», il suo essere considerata tra le maggiori interpreti di quel secolo, oltre che una bambina prodigio che per sessant’anni sarebbe stata pianista e insegnante, fanno di Clara Schumann il nome più noto del volume.
Quella che segue, però, è la sua storia più tormentata, quella di una compositrice che, come per Francesca Caccini e Barbara Strozzi, inizia con le ambizioni di un padre. Friedrich Wieck, mercante di pianoforti e maestro di musica a Lipsia, trasformò la figlia Clara in un fenomeno da palcoscenico con grande determinazione, e senza l’aiuto di nessuno: Marianne, la madre di Clara, lo aveva lasciato per un altro uomo quando la figlia aveva appena quattro anni e mezzo. Per la legge sassone in vigore a Lipsia, Marianne sapeva di poter tenere con sé Clara solo fino al compimento dei cinque anni, perché il padre, scrive la stessa Clara, «aveva il diritto legale di prendere possesso di me all’inizio del mio quinto anno». Sono parole scritte con la voce di Clara bambina e si leggono nel suo diario, ma ad averle scritte è il padre, segno ulteriore del controllo che costui esercitava sulla vita della figlia.
Friedrich prese «possesso» di una bambina che per i primi quattro anni di vita era stata apparentemente sorda e sicuramente muta, e fece di lei il prodigio dei prodigi. Una lettera indirizzata all’ex moglie e scritta durante un breve periodo in cui Clara, a sei anni, era andata a stare con lei, mette a nudo quella potente combinazione di dedizione paterna e ferocia: Friedrich si preoccupa che Marianne mantenga il riserbo su quello che è successo tra loro due e inoltre intima di dare «alla bambina pochi dolci» e «di non lasciare impunita alcuna birbonata […]. Quando si esercita, non permetterle di andare di fretta. Mi attendo il più rigoroso rispetto dei miei desideri, altrimenti si incorrerà nella mia ira». Friedrich considerava Clara la «sua opera» e, per quanto fosse stato tentato di gettare la spugna durante l’adolescenza a volte turbolenta della figlia – era «pigra, negligente, disordinata, cocciuta e disobbediente» (ancora una volta parole tratte dal diario “di lei”, ma scritte da lui) –, aveva tutte le intenzioni di portare a termine quell’opera. Sul finire degli anni Venti dell’Ottocento, Friedrich si dimostrò un fine psicologo, determinato ai limiti dell’ossessione nel portare avanti la «sua opera», in un clima che ricordava una campagna militare, con tanto di nemici, battaglie e, cosa più importante, di «trionfo, trionfo» da riportare. Questa sua abilità era entrata in azione il giorno del primo concerto ufficiale di Clara, che aveva allora nove anni, al Gewandhaus di Lipsia: la bambina non sapeva che sarebbe passata a prenderla una carrozza di lusso, e la vettura di piazza su cui era salita davanti a casa del padre l’aveva portata da tutt’altra parte; quando arrivò al Gewandhaus Clara era in lacrime, ma Friedrich capì al volo come salvare la situazione: «Mi sono proprio dimenticato di dirti, Clarchen, che solitamente si viene portati nel posto sbagliato quando si suona in pubblico la prima volta». E Clara aveva suonato.
Fu Friedrich a insegnarle tutto ciò che sapeva (non pago, fece lo stesso anche con Marie, la sorellastra di Clara), istruendola fin da piccola su come funzionavano la vita da musicista professionista e il mondo della musica. Clara vide Friedrich insistere con la seconda moglie affinché sui quotidiani di Lipsia si parlasse della figlia, e lo vide chiedere a Robert Schumann, allora uno studentello che scriveva su riviste e giornali, di fare tutto il possibile per pubblicizzarla. Fu sempre Friedrich a introdurre Clara ai rigori delle tournée, e lei impara ad adattarsi senza problemi alle sfide della vita in viaggio, compresi i ragni della «locanda porcile» di Weimar che le rovinano il costoso vestito di seta che era stato «appeso nel modo sbagliato». E il giorno dopo la morte improvvisa di Clemenz, fratellastro di Clara e suo «adorato tesoro», a soli tre anni, Friedrich la porta via, a Dresda. Aveva annullato due concerti in programma a Lipsia, ma aveva poi costretto la figlia a esibirsi in pubblico in una città nuova, e assai diversa. E Clara aveva suonato.



Johanna Mockel Kinkel (1810-1858) – «Freiheit, Liebe und Dichtung». Libertà, Amore e Poesia.

Kinkel Johanna 01
“Demokratenlied” , composto da Johanna Kinkel, eseguito per la prima volta il 5 dicembre 1848
Johanna Mockel Kinkel

Compositrice, pianista, direttore corale, poeta, giornalista, romanziere, insegnante di musica e storica, rivoluzionaria, Johanna Kinkel (Mockel), nacque l’8 luglio 1810 a Bonn. Nel 1832 sposò il mercante di musica di Colonia Johann Paul Mathieux, ma in meno di sei mesi il rapporto era finito. Dopo un lungo periodo di depressione debilitante, Johanna fu in grado di riprendere la sua carriera artistica. Dorothea Schlegel fece in modo che incontrasse Felix Mendelssohn nel 1836. La incoraggiò fortemente a intraprendere una carriera musicale. Seguendo il suo consiglio, si trasferì a Berlino e studiò con Karl Böhmer e Wilhelm Taubert. Frequenta i circoli letterari e si esibisce nei Sunday Musical di Fanny Hensel. Critici importanti, tra cui Ludwig Rellstab e Robert Schumann, scrissero brillantemente sulle sue composizioni. È direttore d’orchestra, esecutore e compositore con vari gruppi musicali da camera e complessi vocali. Il Gesangverein di Johanna fu uno dei primi gruppi corali in Germania ad essere diretto da una donna. Nel 1842, divorziata cattolica, sposò il teologo protestante, poeta e docente universitario Gottfried Kinkel. Insieme hanno fondato un gruppo letterario, il Maikäferbund. I circoli letterari e musicali di Johanna Kinkel si dissolsero nel 1848, anno dello sconvolgimento rivoluzionario in Germania. Gottfried Kinkel fu scelto dall’elettorato democratico per rappresentare Bonn nell’Assemblea nazionale di Berlino. Lì fu arrestato e condannato a morte per le sue attività politiche. Johanna, con l’aiuto di Bettina von Arnim e altri, riuscì a far trasformare la sua condanna a morte e cambiarla in ergastolo. Karl Schurz, organizzò la fuga di Gottfried dalla prigione di Spandau e lo aiutò fuggire in esilio a Londra. Johanna e i loro quattro figli si unirono a lui nel 1851.

I Kinkel divennero presto  il riferimento politico e culturale della comunità tedesca espatriata. Per guadagnarsi da vivere Johanna, il cui inglese era molto buono, teneva lezioni di piano, insegnava canto a bambini piccoli e pubblicò due libri sull’educazione musicale. Diresse un coro e scrisse musica, libretti, poesie e un romanzo di due volumi. Scrisse un articolo su Frédéric Chopin come compositore e un altro sulle opere di Felix Mendelssohn pubblicati dopo la sua morte.

Le parole Freiheit, Liebe und Dichtung (Libertà, Amore e Poesia) sono state incise sulla sua lapide.

La tomba della Kinkel nel cimitero di Brookwood. Sula sua lapide era incisala frase Freiheit, Liebe und Dichtung (che significa libertà, amore e poesia)
Frontespizio della storia di Johanna Kinkel. Dä Hond su Dat Eechhohn

Jean-Paul Sartre (1905-1980) – Penso che la speranza faccia parte dell’uomo. Non è un’illusione lirica. Appartenendo alla natura stessa dell’azione non può essere di principio destinata a uno scacco assoluto e inevitabile.

J.-P. Sartre_o4

«Date al disperato una possibilità e il disperato riprende lena, si rianima,
perché l’uomo senza possibilità è come se gli mancasse l’aria».
                                S. Kierkegaard, La malattia mortale, Sansoni, Milano 1993.

«Se senti una voce dentro di te che dice “non puoi dipingere”,
allora a tutti i costi dipingi e quella voce verrà messa a tacere»
.
                                   Vincent van Gogh

«Ho sempre pensato che ognuno viva con la speranza, cioè creda che qualsiasi cosa intraprenda, o che lo riguarda, o che concerne il gruppo sociale al quale appartiene, sia in corso di realizzazione, si realizzerà, e sarà positiva per lui come per coloro che costituiscono la sua comunità. Io penso che la speranza faccia parte dell’uomo; l’azione umana è trascendente, cioè mira sempre a un oggetto futuro a partire dal presente, nel quale noi progettiamo l’azione e tentiamo di realizzarla. Essa pone il suo fine, la sua realizzazione nel futuro. E, nella modalità dell’agire c’è la speranza, ossia il fatto stesso di porre un fine come se dovesse essere realizzato. […] ogni uomo, al di là che i suoi fini siano in ogni istante teorici o pratici e che riguardino per esempio questioni politiche o di educazione, ecc., al di là di tutto questo, ogni uomo ha un fine, un fine che chiamerei, se vuoi, trascendente o assoluto, e tutti i fini pratici non hanno senso che in rapporto a questo fine. Il senso dell’azione di un uomo è dunque quel fine, che è del resto variabile a seconda degli uomini, ma che ha questo di particolare: che è assoluto. […] E poi, dall’altro lato, dal 1945, ho pensato sempre di più – e oggi lo penso assolutamente – che una caratteristica essenziale dell’azione che si intraprende, come ti dicevo poco fa, è la speranza. E la speranza significa che non posso intraprendere un’azione senza fare affidamento al fatto che riuscirò a realizzarla. E non penso, come ti ho detto, che questa speranza sia un’illusione lirica, ma che appartenga alla natura stessa dell’azione. Vale a dire, che l’azione, essendo allo stesso tempo speranza, non può essere di principio destinata a uno scacco assoluto e inevitabile. Ciò non vuol dire che l’azione debba realizzare necessariamente il suo fine, ma che debba presentarsi come una realizzazione del fine, posto nel futuro. E c’è anche una sorta di necessità nella speranza. L’idea di scacco non ha in questo momento un fondamento profondo in me: invece, la speranza, in quanto è situata nel rapporto dell’uomo con il suo fine, rapporto che esiste anche se il fine non viene raggiunto, è ciò che è sempre più presente nei miei pensieri».

Jean-Paul Sartre, La speranza oggi. Le interviste del 1980,  Mimesis, 2019. A cura di Maria Russo, un libro che raccoglie le ultime interviste concesse da Sartre a Benny Lévy prima di morire, rilette e validate dal filosofo francese.

Jean-Paul Sartre (1905-1980) – Il desiderio si esprime con la carezza come il pensiero col linguaggio. Il desiderio è coscienza. Nel desiderio e nella carezza che l’esprime, mi incarno per realizzare l’incarnazione dell’altro. Così, nel desiderio, c’è il tentativo di incarnazione della coscienza.
Jean-Paul Sartre (1905-1980) – L’essere umano non è nulla al di là del suo proprio progetto. Egli esiste solo nella misura in cui realizza se stesso.
Vincent van Gogh, Sulla soglia dell’eternità (Vecchio che soffre), 1890, Museo Kröller-Müller di Otterlo, dipinto realizzato utilizzando come modello un veterano di guerra, Adrianus Jacobus Zuyderland

Vincent van Gogh realizza Sulla soglia dell’eternità nel maggio 1890, mentre si trovava all’ospedale di Saint-Rémy-de-Provence per delle cure psichiatriche. Un uomo ormai anziano e privo di forze, sul punto di non essere più capace di reagire ai propri stati d’animo, un peso interiore che lo schiaccia . Nel dipinto vi sono pennellate dalla grande varietà di colori, con tonalità sgargianti e accese, ma allo stesso tempo fredde. Il freddo di questi colori trasmettono le sensazioni di un malessere costante, implacabile. Le tonalità emanano una percezione di distacco glaciale, come il blu, l’azzurro e gli sprazzi di bianco sui vestiti e il grigio dei capelli. È unriflesso della vita dell’artista, una reazione allo stato di salute mentale da cui non riesce a scappare, non riesce ad evadere, a trovare una via d’uscita. La sua via d’uscita  la trova nell’arte.

KAHLIL GIBRAN (1883-1931) – Ragione e passione sono il timone e le vele della vostra anima navigante. Che la vostra anima esalti la ragione fino al culmine della passione e con la ragione dirigete la passione.

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«Ragione e passione sono il timone e le vele della vostra anima navigante. Se le vele o il timone si spezzano, non potrete che beccheggiare e andare alla deriva o restar fermi in mezzo al mare. Poiché se la ragione governa da sola è una forza che imprigiona, e la passione, incustodita, è una fiamma che brucia fino a distruggersi. Perciò la vostra anima esalti la ragione fino al culmine della passione, di modo che essa possa cantare; e con la ragione diriga la passione, di modo che la vostra passione possa vivere e rivivere attraverso le sue quotidiane resurrezioni, e come la fenice risorgere dalle proprie ceneri».

KAHLIL GIBRAN, The Prophet [1923], Il profeta, Feltrinelli Milano 2013.

***

Khalil Gibran (1883-1931) – La bellezza risplende nel cuore di colui che ad essa aspira più che negli occhi di colui che la vede.

Luigi Nono (1924-1990) – La musica, una partitura, è in grado, esattamente come un quadro, una poesia o un libro, di fondare una coscienza. Con aperture, studi, rinunciando alla sicurezza e alle garanzie, sapendo di poter precipitare in ogni momento, ma cercare, comunque, cercare, sempre, l’ignoto.

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«Una partitura può dare vita a una rivoluzione tanto poco quanto un quadro, una poesia o un libro, [… ma] è in grado, esattamente come un quadro, una poesia o un libro, di fornire informazioni sullo stato di desolazione della società, può contribuire, può fondare una coscienza se le sue qualità tecniche si mantengono allo stesso livello di quelle ideologiche» (p. 337).

«Penso che la trasformazione che sta avvenendo nel tempo nostro ponga come nuova necessità di vita l’intuizione, l’intelligenza, la capacità di esprimere quella trasformazione: aperture, studi, esperimenti estremamente rischiosi, rinuncia alla sicurezza e alle garanzie, rinuncia alle “finalità”. Dobbiamo sapere di poter precipitare in ogni momento, ma cercare, comunque, cercare, sempre, l’ignoto» (p. 453).

«Esistono suoni percettibili per l’immaginazione attiva senza che siano condizionati da vibrazioni dell’aria […]. Il suono  esiste allo stato puro nel mundus imaginalis […]» (p. 492).

Luigi Nono, La nostalgia del futuro. Scritti e colloqui scelti 1948-1989, a cura di Angela Ida De Benedictis e Veniero Rizzardi, Prefazione di Nuria Schoenberg Nono, Feltrinelli, Milano 2019.


DELLO STESSO AUTORE

Nulla di oscuro tra noi, carteggio con Massimo Mila
Per un sospeso fuoco, carteggio con Giuseppe Ungaretti


«Qual è il tratto principale del Suo carattere?» «La nostalgia del futuro.» Una battuta, detta con la rapidità di un lampo, che descrive alla perfezione il temperamento di Luigi Nono, forse il compositore che più ha vissuto il suo tempo e che del suo tempo è stato guida. L’arco creativo di Nono abbraccia la quasi totalità del secondo Novecento, dall’esordio del 1950 alle soglie degli anni novanta. A circa tre decenni dalla sua morte, nuovi strumenti e conoscenze permettono di comprendere meglio le sfumature del pensiero compositivo multiforme e irrequieto sotteso a questo itinerario artistico. Un cammino che va dall’apprendistato assieme a Bruno Maderna a “Il canto sospeso”, modulato su frammenti di lettere di condannati a morte della Resistenza europea; da “Intolleranza 1960”, esordio di un nuovo teatro musicale in cui impegno politico e denuncia sociale si fondono con la musica, a Prometeo, che si muove verso un orizzonte in cui la visione lascia gradualmente il campo al puro ascolto. Fino ad arrivare alla ricerca di realtà sonore inaudite e al «suono mobile» che sono alla base della sua ultima produzione, caratterizzata dalla consapevolezza della caducità insita in una ricerca (artistica e umana) sempre proiettata verso un infinito «oltre». “La nostalgia del futuro”, ora presentato in una nuova edizione aggiornata e ampliata, è lo specchio di tutti i frammenti della personalità di Nono; una raccolta degli scritti e delle maggiori interviste che hanno accompagnato la sua produzione musicale, che con essa hanno interagito e «collaborato». Sono testi che invadono ogni spazio di un’esistenza in musica – analisi di teoria della composizione, discussioni sul ruolo sociale del compositore, interventi polemici o direttamente politici – e che negli ultimi anni si aprono a riflessioni di carattere intimistico e utopistico. In ogni parola vibra l’intensità dei pensieri di Nono, in ogni riga risuona la sua voce, restituitaci da due tra i massimi esperti della sua musica, intensa quanto i segni rossi che tracciava come fulmini sulle sue partiture.

Prefazione di Nuria Schoenberg Nono

Carissima Nuria:
lo stile può essere solamente esteriore
l’idea deve essere interiore.
Spero che quando dovrai affrontare simili
problemi sarai guidata
da questa distinzione, che
era importante per tuo padre.

                       Arnold Schönberg, giugno 1950

Dedica di mio padre sulla copia di Style and Idea,
regalatami quando gli arrivarono le prime copie dall’editore (Philosophical Library, New York).

Questa nuova edizione di La nostalgia del futuro, ampliata con l’aggiunta di testi e interviste, presenta molti e vari aspetti della vita e del pensiero di Luigi Nono.
Parlando delle proprie esperienze – personali e/o musicali – mio marito si esprimeva usando un linguaggio semplice e comprensibile, anche quando l’argomento era complesso. Non gli interessava scrivere una prosa “elegante” o ricercata. L’importante per lui era comunicare. Anche per questa ragione le parole sono disposte sulla carta in diverse grandezze, sottolineate o seguite da numerosi «!!!».
Spesso le sue lettere, indirizzate a persone di cultura, musicisti, o politici, erano quasi telegrafiche, dicevano ciò che era necessario. Nelle interviste qualche volta era polemico e lo stato d’animo che emergeva era legato a un particolare momento della sua vita. Alcuni testi erano scritti per essere pubblicati, altri erano personali. Qualche volta i suoi testi nascevano in risposta a situazioni sociali o politiche o a dichiarazioni di altre persone, e testimoniano della vastità dei suoi interessi che andavano ben oltre il mondo musicale.
Ringrazio Angela Ida De Benedictis e Veniero Rizzardi per il lavoro scientifico e approfondito nella selezione dei testi e nelle note che contestualizzano e spiegano i vari documenti. I due musicologi sono stati tra i primi che hanno svolto delle ricerche presso l’Archivio Luigi Nono, fondato a Venezia, alla Giudecca, nel 1993, tre anni dopo la sua morte.
Spero che questo libro dia al lettore non solo delle informazioni su Luigi Nono, ma che contribuisca a fare luce su un periodo del passato recente, forse un po’ dimenticato.
Con l’auspicio che la conoscenza del “pensare” e dell’agire di Luigi Nono susciti curiosità e il desiderio di ascoltare le sue opere, nelle quali tutto questo è espresso nel linguaggio della musica.

Buona lettura!

Sommario

Prefazione
Introduzione
Sigle e abbreviazioni
Prae-ludium
Precisazioni
Excursus I
Intervista con Renato Garavaglia
PARTE PRIMA
Luigi Dallapiccola e i Sex Carmina Alcæi
Sullo sviluppo della tecnica seriale
Lo sviluppo della tecnica seriale
Testo – musica – canto
Su Fase seconda di Mario Bortolotto
Excursus II
Verso Prometeo Conversazione tra Luigi Nono e Massimo Cacciari raccolta da Michele Bertaggia
PARTE SECONDA
Alcune precisazioni su Intolleranza 1960
Possibilità e necessità di un nuovo teatro musicale (1962)
Gioco e verità nel nuovo teatro musicale
Die Ermittlung: un’esperienza musicale teatrale con Weiss e Piscator [Musica e teatro]
Verso Prometeo. Frammenti di diari
Excursus III
Colloquio con Luigi Nono su musica e impegno politico di Michele L. Straniero [e Gianni Bosio]
PARTE TERZA
Presenza storica nella musica d’oggiI
Luigi Nono candidato del pci con i lavoratori
Musica e Resistenza
Risposte a sette domande di Martine Cadieu
Il potere musicale
Nella Sierra e in parlamento
Excursus IV
Colloquio con Hansjörg Pauli
PARTE QUARTA
Lettera da Los Angeles
Ricordo di due musicisti
Una testimonianza di Luigi Nono [Su Il canto sospeso]
Prefazione alla Harmonielehre di Arnold Schönberg
Bartók compositore
Per Marino Zuccheri
Excursus v
Intervista di Walter Prati e Roberto Masotti
PARTE QUINTA
Josef Svoboda
Il canto di Victor Jara
Per Helmut
[Per Enrico Berlinguer]
Excursus VI
Colloquio con Luigi Nono di Michelangelo Zurletti
PARTE SESTA
L’errore come necessità
Altre possibilità di ascolto
Conferenza alla Chartreuse di Villeneuve-lès-Avignon
Post-ludium
Questionario «Proust»
Ritratto in retrospettiva
Un’autobiografia dell’autore raccontata da Enzo Restagno
Note bibliografiche e commento ai testi
Cronologia delle opere di Luigi Nono

Antonio Fiocco – Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente

Antonio Fiocco 02
Antonio Fiocco

Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente

Petite Plaisance, 2019, pp. 80



Il problema in discussione, la quistione, consiste se concepire una progettualità in quanto tale. Sembra non ci siano problemi nell’accettarla in linea di principio, ma permane l’idea che occorra indirizzare le forze su obbiettivi pratici immediati. Questo punto di vista, in apparenza ragionevole, vanifica lo scopo principale di migliorare realmente il mondo in cui viviamo e, invece di una reale progettualità comunitaria, si preferisce l’immediatezza della contingenza. Dunque, a quel se, di fatto, si oppone un no. La post-modernità (cioè la fase flessibile a tutti i livelli della modernità) per l’Autore non elabora spontaneamente una sua idea di comunismo, perciò si rende imprescindibile la progettualità. Per essere scoperte, utilizzate e verificate, le possibilità devono essere prima di tutto inventate. In questo senso, ogni uomo è progetto, creatore, poiché inventa ciò che è già a partire da ciò che non è ancora.



Indice

Incipit contingente-empirico

Gesù di Nazareth

Paolo di Tarso e la figura teologica del Cristo risorto

Giovanni l’evangelista e la nascita del Cristo-Dio

L’anti-pensiero di Max Weber

Hegel: il legame fra elaborazione del pensiero e prassi materiale

Lettori di Hege

Lenin non era un vero hegeliano

Pensando a Lenin, in cammino con György Lukàcs

Sartre e la sua svalutazione dell’essenza

L’uomo è essenzialmente progetto


Antonio Fiocco, nella più profonda indignazione per le ingiustizie e le falsità geo-politiche che devastano il mondo, e di cui sono piene le cronache e la storia del Novecento, con spirito dialogico-socratico si è impegnato fin dagli anni giovanili in studi filosofici e politici. Ma, proprio per non fare dello studio della filosofia una normale, ordinaria e rituale professione, a suo tempo si risolse a scegliere una facoltà scientifica. L’amore per le scienze dello spirito ha continuato ad animare la sua ricerca accre­scendo l’interesse anche per le discipline estetiche, la musica, la letteratura (le sue passioni: Shakespeare e Proust) e l’arte figurativa.



Incipit contingente-empirico

Il problema in discussione, la quistione, consiste se concepire una progettualità in quanto tale. Sembra non ci siano problemi nell’accettarla in linea di principio, ma permane l’idea che occorra indirizzare le forze su obbiettivi pratici immediati. Ci si sforzerà di indicare che questo punto di vista, in apparenza ragionevole, vanifica lo scopo principale di migliorare realmente il mondo in cui viviamo e a quel se, di fatto oppone un no, sia chiamando in aiuto esempi materiali che ricorrendo alle elaborazioni di alcuni grandi pensatori che hanno fatto la storia della religione e della filosofia. Impiegando concetti hegeliani, ci si propone di operare una contrapposizione fra sapere immediato e ragione filosofica.

In sintesi, indipendentemente dalle condizioni strutturali, una elaborazione teorica carente o incompleta porta comunque a risultati materiali insufficienti o controproducenti. Certo si tratta di una tesi non nuova,1 ma che è sempre utile corroborare. Si sono scelti alcuni nomi e argomenti, ma l’intendimento qui svolto è estensibile all’intera storia della filosofia, e con la convinzione che occorre non essere innovativi (chi ha cercato di esserlo in epoca recente, secondo chi scrive, ha fallito), bensì sia necessario cercare di ben interpretare quanto in essa filosofia è stato già elaborato.

Cominciamo da esempi concreti. Il giornalista e scrittore Giulietto Chiesa da una parte chiede il rispetto della Costituzione del 1948, ma poi propone improbabili soluzioni economiche compatibili con il sistema, senza porsi la questione del capitalismo e vorrebbe non uscire dall’Europa dell’euro, ma “cambiarne le regole”, ignorando che questa “Europa” è nata proprio per la volontà di imporre le sue regole iugulatorie. In altre parole, si vuole conciliare l’inconciliabile: indipendenza e subordinazione al tempo stesso. Per inciso ciò è plasticamente e schizofrenicamente espresso nella moneta da 2 euro coniata per commemorare la nostra Costituzione, che ne è la negazione assoluta! Comunque, non c’è niente da negoziare, niente da ridiscutere e non deve importare nulla di competere “capitalisticamente” con Cina o Giappone, quando il problema è il capitalismo in quanto tale. Anche se le proposte di Chiesa venissero praticate, si perpetuerebbero l’estrazione di plus-valore e il “sovrasensibile” balletto fra le merci nel mentre si usano gli esseri umani come strumenti per il loro spettrale dialogo. Qui comincia già a lampeggiare una carenza filosofica di fondo, una trascuratezza degli scomodi principi comunitari di Platone, Aristotele, Hegel. Del resto, è sufficiente leggere i libri di autori come Roberto Flamigni, Stefania Limiti, Paolo Cucchiarelli, e altri, per rendersi conto che l’infernale governo-ombra di “questi” U.S.A., con tutte le sue ragnatele mondiali, se si rimane all’interno dell’attuale sistema geo-strategico, non permetterà mai alcuna reale politica contraria ai propri interessi di preteso centro dominante e coordinatore del capitalismo globale. Nobili personalità che hanno cercato di fare gli interessi della nazione ne abbiamo avute, da Enrico Mattei ad Aldo Moro, e sappiamo quale destino sia stato loro riservato. Non è un paradosso pensare sia meno utopica una rottura radicale con l’intero attuale modo di produzione. Illusione? Ma qui ci viene in aiuto il precedente storico incancellabile della Rivoluzione d’Ottobre, ovviamente e sapientemente vittima di una damnatio memoriae.

Abbiamo un pullulare di movimenti, associazioni, piccoli partiti (dal destino “ultra-minoritario”, direbbe Costanzo Preve), che si prefiggono l’uscita dal sistema-euro e il ripristino delle prerogative dello stato nazionale, nonché, concetto inespresso, ma sottinteso, il ritorno, dunque, a un capitalismo “regolato”, con le zanne limate. Ma questa fase economica, con il welfare, ecc., è storicamente esaurita, come spiega Massimo Bontempelli nei suoi testi,2 e questi minimalisti anti-euro ricordano quanti, in altra epoca, all’alba tragica della “dittatura della borghesia”, ebbero nostalgia del vecchio ordine feudale, certamente meno disumano. Atteggiamento che Karl Marx si guardò bene dal con­dividere, poiché egli guardava avanti, alle prospettive future di socializzazione aperte dal nuovo modo di produzione, per quanto non iscritte necessariamente nella storia. Per cui, forzando l’estensione di una categoria temporale heideggeriana dalla analitica dell’esserci agli eventi storici, non sono da considerare “ad-venienti” le leggi e gli ordinamenti sociali, pur venerabili e mai abbastanza rimpianti, dei “trent’anni gloriosi 1945-1975”, bensì, più in profondo, il senso della comunità, ora estinto, che, sia pure in forme parziali, organicistiche, spesso coercitive, caratterizzò le epoche trascorse, prima del trionfo del modo di produzione capitalistico. Finalmente un senso comunitario da realizzare integralmente, secondo l’indicazione hegeliana, come frutto di libera scelta della libera individualità.

D’altra parte, quei movimenti e associazioni di cui sopra, anche quando non sono in aperto contrasto fra di loro, sembra non riescano comunque a coagularsi in una forza unica, tale da riunire le scarse disponibilità. Ciò ricorda irresistibilmente la frammentazione rivaleggiante dei gruppi extra-parlamentari di sinistra figli del Sessantotto, che pure, in linea di principio, sembravano tutti rifarsi agli stessi intendimenti generali. A questo proposito Costanzo Preve ci ricorda come questo fenomeno fosse dovuto (oltre che al narcisismo già individualistico-capitalistico di capi e capetti) alla debolezza della teoria di fondo, cioè il “marxismo” comune sia a ortodossi che a eretici, il quale, oltre alla inconsistenza degenerativa della fondazione kautskyano-engelsiana, pativa, ancora più a monte, anche una mancata elaborazione filosofica esplicita nel pensiero di Karl Marx. Per inciso, come ben sanno i lettori del compianto Costanzo Preve, egli ha evidenziato in Marx una matrice idealistica implicita, con argomenti difficilmente contestabili e che va ben oltre il semplice impiego del cosidetto metodo dialettico da parte dell’estensore del Capitale.

Ma permettiamoci una digressione. Martin Heidegger, nelle lezioni universitarie del 1925-1926,3 studiando Aristotele, dice (enigmaticamente?): “Il mettere insieme che fa vedere quel che è sempre separato deve allora necessariamente coprire; esso fa vedere qualcosa […] che non può mai essere in quel modo. Qui la simulazione è fondata necessariamente […] nel senso dell’impossibilità della composizione di quel che è sempre separato”. A cosa potremmo tranquillamente riferire questo criptico concetto, apparentemente banale? Per es., nella pubblicità abbiamo l’accostamento stridente (e offensivo per l’intelligenza) fra Amore, Amicizia, Libertà, Tradizione, Natura, Rivoluzione e … la forma merce. Ma, per rimanere nel nostro tema, abbiamo dei rimedi riformistici da sempre e per sempre separati dalla vera soluzione. Basterebbe questo per comprendere come la filosofia sia negletta e disprezzata, in quanto, se presa sul serio costituisce un tribunale inesorabile per il mondo capitalista e la debordiana società della spettacolo. Un altro esempio di cose che non possono stare insieme è costituito da una parte dalla dichiarata intenzione di pensare altrimenti e dall’altra dalla esposizione alla pubblicità mediatica e pseudo-politica, benevolmente e astutamente consentita dal sistema.

La televisione abbonda infatti di spot pubblicitari che invitano a finanziare la lotta contro le malattie rare, a contribuire economicamente a favore dei figli dei poveri e dei disoccupati, o per combattere la povertà in Africa, ecc., colpevolizzando l’uomo della strada e deresponsabilizzando le potenze sociali autrici dei mali in questione, facendone così un problema di beneficenza e generosità in­dividuale e proponendo iniziative “aventi le apparenze della pietà, ma prive di quanto ne forma l’essenza”.4 Oltretutto c’è il fondato sospetto che il Capitale osservi l’entità di queste contribuzioni, al fine di studiare l’eventualità di ulteriori riduzioni al salario globale della classe lavoratrice. E questo si può considerare anche un interessante esempio di quel “dono omeopatico”, a piccolissime dosi, emerso in una bella trasmissione radiofonica,5 quale antidoto del capitalismo per esorcizzare l’autentico Dono Gratuito, il quale, se appunto generalizzato, distruggerebbe l’intero sistema. In particolare, per quanto riguarda la disoccupazione – a parte la questione primaria, strutturale, dell’esercito industriale di riserva, necessario per concetto al modo di produzione capitalistico –, basti pensare alla partecipazione italiana alle sanzioni economiche contro la Russia per via della crisi ucraina, la quale, per chi voglia davvero informarsi, risulta di totale responsabilità occidentale. Queste sanzioni, imposte dagli U.S.A. ai Quisling nostrani, hanno comportato un danno enorme all’economia italiana con proporzionale perdita di posti di lavoro. Ma, e rientro nel tema, c’è la certez­za che qualunque forma di capitalismo, anche se “sovrano” e “indipendente”, porti a queste storture e sia inemendabile rimanendo al suo interno.

Scorrendo le immagini de Il trionfo della volontà – film documentario della grande cineasta tedesca Leni Riefenstahl sul congresso del partito nazista a Norimberga del settembre 1934 –, si osserva che ormai tali immagini hanno fortunatamente perso la loro immediata attualità. Infatti il nazismo storico si estingue nel 1945 (per quanto ne pensino in contrario i ragazzi dei centri sociali e altri meno ingenui, ma interessati a una legittimazione ideologica per la linea e l’esistenza stessa di partiti e sindacati che ormai hanno perso il loro originario ruolo storico), e non solo perché sconfitto militarmente, bensì perché non sussistono più le condizioni che lo fecero sorgere e prosperare. Ebbene …, la televisione italiana (più precisamente RAI 4), domenica 30 luglio 2017 manda in onda tale Tomorrowland (e già l’uso di un termine inglese la dice lunga), trasmissione diretta di un concerto rock di molte ore, con folla oceanica di giovani dall’entusiasmo fanatico simile a quello dei giovani in uniforme di Norimber­ga, con l’immagine di migliaia di volti stereotipati in una ininterrotta estasi, sublimata nell’adorazione di una personificazione-individuazione musicale della forma-merce, con annessa ideologia consumistica nell’illusorio individualismo di massa. Nel 1934 la Germania era reduce dalla faida interna al partito nazista della Notte dei lunghi coltelli e nel campo di Dachau erano imprigionati migliaia di comunisti dopo l’incendio del Reichstag: l’uniformità di massa era conseguente a una coercizione diretta. Invece il conformismo del falso anticonformismo “rock” è frutto di catene interiori e dunque infinitamente più efficace e pericoloso: è l’immagine-simbolo di un nuovo nazismo che non si lascia sconfiggere militarmente. In questo contesto, come la guerra di posizione politico-culturale dei decenni scorsi è paragonata da Costanzo Preve alla linea Maginot crollata in pochi giorni, non resta che pensare, quale principio gramsciano sempre valido, l’ottimismo della volontà, sebbene non abbia nulla di teorico. Ma se si pensa che la bruttezza e pericolosità sociale della musica rock siano qui esagerate, vale la pena riportare qualche parola del grande G. Anders a proposito della musica jazz, ma estensibile perfettamente al rock, anche se si dovrebbe leggere l’intero capitolo: “L’estasi è genuina, i ballerini, invece di essere se stessi, sono realmente ‘fuori di sé’, ma non già per sentirsi tutt’uno con le potenze ctonie, bensì con il dio della macchina: culto del Dioniso industriale […] ciò che il ballerino balla è una pantomima entusiasta della propria totale sconfitta […] che questo rito abbia l’effetto di ‘liquidare ‘realmente i ballerini e di far loro smarrire del tutto il loro ‘io’ è documentato da un fenomeno impressionante: cioè dal fatto che durante l’orgia perdono la loro faccia […] già più o meno stereotipa […] e non ci sarebbe nemmeno da meravigliarsi se durante l’orgia nascesse una nuova varietà di vergogna: la vergogna della faccia, la vergogna del ballerino di possedere una faccia in sé e per sé: di essere ancora sempre condannato a portare in giro con sé questo stigma della egoità quale dotazione coatta (corsivi di Anders)”.6

In queste tristi condizioni, lo scopo minimo immediato è l’assumere un ruolo storico simile a quello degli antichi conventi benedettini, quali isole di preziosa e futuribile civiltà in un contesto di circostante barbarie e tenendo presente, parafrasando Hegel, che nella situazione attuale la pianticella della filosofia (a dettare la prassi) si può innestare solo su singoli individui. A scanso di fraintendimenti, Domenico Losurdo ci ricorda che “l’atteggiamento del filosofo (Hegel) non si può certo dire elitario; è costante la sua tendenza a misurare la validità delle idee, non sulla base della loro astratta eccellenza interna, ma sulla base della loro capacità di informare di sé il reale, quindi anche di penetrare nella massa del popolo; ciò caratterizza Hegel in tutto l’arco della sua evoluzione”.7 Per inciso, ciò funge da risposta anche a quanti pensano che il grande filosofo abbia sostituito un mondo immaginario alla realtà, in linea con la distruzione della ragione idealistica imperversante dopo la morte di Hegel.

Conclusa questa parte introduttiva di critica “contingente-empirica” si inizia a corroborare la tesi centrale di queste pagine. Ogni evoluzione o frattura nella storia è stata preceduta o accompagnata da una giustificazione teorica. Ogni progetto di pensiero non cade dal cielo, ma è necessariamente calato nella realtà. Del resto, è facile trovare immediatamente un elemento d’aiuto per questa tesi nella imponente bibliografia del grande storico delle idee Domenico Losurdo, recentemente scomparso. Ci si propone di indicare alcuni esempi di questa apparente ovvietà, che tuttavia, a quanto pare, non è tenuta nel debito conto.

 

Antonio Fiocco

 

1 Basti pensare a C. Preve, Il convitato di pietra, Vangelista, 1991.

2 M. Badiale – M. Bontempelli, Il mistero della sinistra, Graphos, 2005; M. Badiale – M. Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari, 2007; M. Bontempelli – F. Bentivoglio, Capitalismo globalizzato e scuola, ed. Labonia-Indipendenza, 2016.

3 M. Heidegger, Logica, il problema della verità, Mursia, 2015, p. 124.

4 IIa Lettera a Timoteo.

5 Oikonomia. Meditazioni sul capitalismo e il sacro, uomini e profeti, di Luigino Bruni, 17 marzo 2019.

6 G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, 2006, pp. 84-86.

7 D. Losurdo, Hegel e la Germania, Guerini e Associati, 1997, pp. 365-366.



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