Maura Del Serra – Ma come ricambiare alla stella la sua luce danzante, all’albero il suo slancio fra due mondi, … alle stagioni i loro ritmici doni …? … Distruggiamo fuori o dentro di noi solamente per scrollare questo debito immenso da portare come Atlante il suo globo terrestre …

Maura Del Serra, Debito
Vincent van Gogh, Notte stellata, 1889,

Debito

Ma come ricambiare
alla stella la sua luce danzante,
all’albero il suo slancio fra due mondi,
all’uccello il suo frullio d’angelo minimale,
alle stagioni i loro ritmici doni, al mare
il suo canto d’oscura conoscenza,
ai venti lievi o indocili il sapore del moto?
Quale nastro legarci in croce al cuore
per farne dono inedito a un creato
di senso traboccante? Distruggiamo
fuori o dentro di noi solamente per scrollare
questo debito immenso da portare
come Atlante il suo globo terrestre sulle spalle:
quel globo che ne faceva un gigante.

Maura Del Serra, Debito, da L’opera del vento, Venezia, Marsilio 2006.

Vincent van Gogh, Ramo di mandorlo fiorito, 1890

Maura Del Serra

LETTERA AGLI AMICI

  

ἀποκάλυψις, «rivelazione»:

 

La situazione per più versi estrema in cui ci troviamo, e che ho evocato nella mia ultima poesia, Limbo virale, è stata favorita da un’apocalissi – anche nel senso etimologico di “rivelazione” – di una civiltà ingiusta, predatoria, pervasa dalla ybris materialista ed ipertecnologica, e perciò intimamente infelice, assetata di significato ultimo ed ontologico.
La natura, sangue e veste di bellezza del nostro pianeta violentato, ha “rinviato” alla specie umana, come un boomerang (forse con la complicità di una scienza non illuminata) un inquinamento subdolo, in apparenza più invisibile del nostro nelle sue cause quanto quasi ugualmente devastante nei suoi effetti globali, che colpisce la radice stessa della vita umana (gli organi del respiro) così come noi abbiamo da secoli colpito, fin dalla rivoluzione industriale e poi in progressione geometrica, il respiro della Terra e i suoi doni cosmici e materni.
Sarà insieme doloroso e salutare, quanto mi auguro inevitabile e consapevole, un mutamento di rotta, una presa di coscienza, un “conosci te stesso” personale e collettivo che dia appunto un senso, una direzione catartica a questo tempo oscuro e malato che è, dantescamente, come un Limbo chiuso e sospeso (non popolato da “spiriti magni”, ma certo da generosi soccorritori e da “pianto” più che da “sospiri”); un tempo che dovrà apparirci, oltre l’emergenza, come un Purgatorio interreligioso e metareligioso, teso a rivedere e ad orientarci verso le “stelle” polari di una sacralità micro e macroscopica, la cui consapevolezza è oggi oscurata dalla nostra sete “specista” e da quello che Pasolini definiva “sviluppo senza progresso”: progresso interiore e quindi sociale, armoniosamente comunitario, equilibrato in giustizia.

In questo lungo momento, che ci ha trasformati in ossimorici “monaci di gregge” reclusi nelle nostre celle domestiche, spesso tragicamente bisognose e solitarie, dobbiamo, come diceva Walter Benjamin sulla scorta profetica di Kafka, “aprire la porta che non abbiamo visto”, affinché l’Angelo della Storia immortalato da Klee non ci condanni ed abbia il viso rivolto ad un futuro possibile perché illuminato da un passato autoconsapevole.

In questo cammino intimo e corale sono molte le figure creative che, con le loro opere, possono costituire un sostegno etico-spirituale ed intellettuale autentico ed orientante: dai Presocratici ad Eschilo e Sofocle a Platone, da Dante a Shakespeare ai poeti elisabettiani, da Lao Tse a Bruno, dal Sapienziale Hölderlin alla Dickinson, e tra i moderni Pasternak, l’Eliot della Weste land e dei Four Quartets, la Woolf di The Waves, a Proust, Katherine Masfield, Tagore e, last but not least, i films di Andrej Tarkowskij (specialmente l’ultimo, Sacrificio), gli alti scritti di Simone Weil ed i versi dell’ironica e sapiente Wislawa Szymborska. Li ho citati in questo ordine sparso, secondo la mia “mente del cuore”: la vostra, amici, saprà variare e completare queste voci in un’aurea catena ideale, ora più che mai concreta.

Maura Del Serra

31 marzo 2020      

 

Limbo virale

 
Non angelico o ascetico ma livido
di sospettoso tremore il silenzio
che ha inghiottito in paralisi città e continenti
intanando i viventi
nella bolla di un limbo assordato soltanto
dal tamburo mediatico che bussa incessante
alle anime serrate, alle confuse menti.
È marzo, in questo secolo, il mese più crudele
che mischia turbinando memoria e desiderio
in una primavera non più umana;
fragili uccelli ci rigano i giorni
con note inascoltate di diamante;
fragili fiori spandono
il trionfo di un non raccolto miele
di là dal mondo sapiens divenuto
per minaccia invisibile
un’intangibile voce virtuale
dove il cuore comune in petto danza
a un metro di distanza.

Maura Del Serra


Maura Del Serra

Atro Teatro

Introduzione di Marco Beck

ISBN 978-88-7588-243-3, 2019, pp. 208, Euro 18, Collana di Teatro “Antigone”.

indicepresentazioneautoresintesi

In questo volume, complementare del precedente (Teatro, 2015) la dimensione del sacro, propria di Maura Del Serra […] ha preferito, senza dissimularsi, assumere il colore e il calore di una «pietas civile e culturale». Mescolarsi in modo ancora più fraterno e solidale con le ansie, le sofferenze, le paure, i sogni e le speranze di donne e uomini […] che attraverso la finzione del teatro tutti ci rappresentano nella realtà della nostra esistenza. Ma non ha affatto rinunciato a scandagliare, sulle orme di Pascal, con le ragioni della ragione e le ragioni del cuore, il mistero della vita e della morte. A perseguire l’ideale di una bellezza assoluta […]. Non dall’alto ma dall’orizzontalità cordiale della sua cattedra di “drammaturgia d’idee”, Maura Del Serra ci induce a pensare. Ci costringe, anzi, a pensare, meditare, introiettare. Ci insegna, mediante la sua parola affidata a personaggi fatti di carne e ossa e anima, a «contare i nostri giorni» […] per «arrivare alla sapienza del cuore». Traccia, per sé e per noi, un arduo eppure affascinante itinerarium mentis ad sapientiam cordis.

Dalla Introduzione di Marco Beck


 

Indice

Introduzione di Marco Beck

Tecnostar

Zelda pazza di gloria

Baci scritti per Milena

Voci dei Nessuno
da foto segnaletiche di prigionieri ignoti

Torquato Tasso
Libretto d’opera liberamente ispirato all’omonimo dramma in versi di J. W. Goethe


 

Vedi pagine di Maura del Serra

Vedi i suoi libri ed altro

Vedi Maura Del Serra in Wikipedia

Vedi pubblicazioni di Maura Del Serra


 

Maura Del Serra.
Maura Del Serra – Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano
Maura Del Serra, Franca Nuti – Voce di Voci. Franca Nuti legge Maura Del Serra.
Intervista a Maura Del Serra. A cura di Nuria Kanzian. «Mantenersi fedeli alla propria vocazione e all’onestà intellettuale, senza cedere alle lusinghe di un facile successo massmediatico»
Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole
Maura Del Serra – La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa”
Maura Del Serra, «Teatro», 2015, pp. 864
Maura Del Serra – Quadrifoglio in onore di Dino Campana
Maura Del Serra – I LIBRI ed altro
Maura Del Serra – Miklós Szentkuthy, il manierista enciclopedico della Weltliteratur: verso l’unica e sola metafora
Maura Del Serra – Al popolo della pace.
Maura Del Serra – «L’albero delle parole». La mia vita è stata un ponte per centinaia di vite, che mi hanno consumato e rinnovato, per loro libera necessità.



 
Maura Del Serra

Teatro

Introduzione di Antonio Calenda

ISBN 978-88-7588-138-2, 2015, pp. 864, Euro 35. Collana di Teatro “Antigone”.

indicepresentazioneautoresintesi

I 23 testi inclusi nel volume – scritti dal 1985 al 2015 – sono preceduti dall’Introduzione di Antonio Calenda e accompagnati da un’Appendice contenente le Introduzioni che comparivano nelle singole edizioni. Il prezzo di copertina del libro (864 pagine) è di Euro 35,00.
I primi 100 lettori che faranno richiesta del volume direttamente all’editrice  (info@petiteplaisance.it) al momento dell’uscita del libro lo riceveranno al loro recapito al prezzo speciale di Euro 28,00.

Il teatro di Maura Del Serra, qui riunito nella molteplice complessità del suo arco cronologico trentennale, abbraccia una pluralità di forme sceniche, ora corali ora dialogiche ora monologanti, che spaziano con incisiva e vivace profondità dall’“affresco” epocale alla fulminea microcellula drammatica e a forme singolari di teatro-danza sempre sorrette da un inventivo simbolismo di luci, colori, voci fuoriscena e suggestioni scenografiche. L’organon di questa scrittura – in versi e in prosa – fonde il nitore visionario con un senso vivace e concreto del phatos quotidiano, spesso nutrito da uno humour tipicamente affidato a personaggi “terrestri” fino al farsesco, secondo la tradizione della commedia antica. Il teatro decisamente anti-minimalista della Del Serra mostra infatti il suo grato debito creativo verso i classici della tradizione drammaturgica e poetico-letteraria europea, dai tragici e lirici greci al barocco inglese e ispanico, al decandentismo e alle avanguardie artistiche del Novecento.
I suoi personaggi, a vario titolo esemplari fino all’archetipo, sono scolpiti e dominati da una solitudine “eroica” non astratta bensì coerentemente testimoniale, tormentati e salvati dalla grandezza antistorica e metastorica del loro dono “eretico” che si oppone geneticamente alla forza oppressiva del potere nelle sue varie espressioni, da quelle canoniche politico-sociali a quelle suasive dell’intelletto, fino a quelle della “sapienza senza nome” della vita. Ed è perciò sempre agonico il rapporto fra la certezza di una verità ultima e inattingibile e l’illusione soggettiva, mediante l’utopia salvifica affidata all’ardore dei protagonisti. Motore e forma privilegiata di queste compresenze è l’eros generatore e multiforme, espresso in tutte le sue pulsioni, dall’amicizia alle polarità maschili e femminili, fino ad una complessa androginia psicologica e spirituale.
In questa straordinaria galleria evocativa di presenze, che spaziano dall’ellenismo alla contemporaneità al futuro, le voci interiori dell’autrice si incarnano di volta in volta, come la poesia ed ogni arte, per “sognare la verità del mondo”.

Maura Del Serra, poetessa, drammaturga, traduttrice e critico letterario, ha riunito la sua opera poetica nei volumi: L’opera del vento e Tentativi di certezza, Venezia, Marsilio, 2006 e 2010. Ha tradotto dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo e ha dedicato monografie e saggi critici a numerosi scrittori italiani ed europei.


 

Indice

Introduzione di Antonio Calenda
Nota cronologica ragionata

La fonte ardente. Due atti per Simone Weil
L’albero delle parole
La Fenice
La Minima
Andrej Rubljòv
Il figlio
Lo Spettro della Rosa
Specchio doppio. Favola drammatica
Agnodice. Commedia drammatica
Guerra di sogni. Mito futuribile
Stanze. Versi per la danza
Trasparenze. Versi per la danza
Sensi. Versi per la danza
Kass
Dialogo di Natura e Anima
Trasumanar. L’atto di Pasolini
Isole. Poema scenico
Eraclito
Scintilla d’Africa
Specchi. Cellula drammatica
La vita accanto
Isadora
La Torre di Iperione. Hölderlin e gli altri

Appendice

Mario Luzi: Introduzione a La fonte ardente
Daniela Belliti: Introduzione a La fonte ardente
Nino Sammarco: Introduzione a L’albero delle parole
Mario Luzi: Introduzione a La Fenice
Daniela Marcheschi: Introduzione a La Minima
Ugo Ronfani: Introduzione a Andrej Rubljòv
Giovanni Antonucci: Introduzione a Agnodice
Giovanni Antonucci: Introduzione a Guerra di sogni
Misha Van Hoecke: Nota a Stanze
Ugo Ronfani: Introduzione a Isole
Jacopo Manna: Introduzione a Eraclito
Marco Beck: Introduzione a Scintilla d’Africa
Cristina Pezzoli: Nota di regia a La vita accanto



 

Galleria di copertine

e … passeggiando tra i suoi libri …

Ladder of Oaths

Ladder of Oaths

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Scala dei giuramenti

Scala dei giuramenti

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Tentativi di certezza

Tentativi di certezza

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Voce di voci

Voce di voci

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Canti e pietre

Canti e pietre

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Scintille

Scintille

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Infinito presente

Infinito presente

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Infinite Present

Infinite Present

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L'opera del vento

L’opera del vento

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Adagio con fuoco

Adagio con fuoco

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Congiunzioni

Congiunzioni

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L'età che non dà ombra

L’età che non dà ombra

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Za solecem i nociju vosled

Za solecem i nociju vosled

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Aforismi

Aforismi

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Elementi

Elementi

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Dietro-il-sole-e-la-notte_b

Dietro il sole e la notte

 

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Corale

Corale

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Sostanze

Sostanze

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senza niente

senza niente

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Concordanze

Concordanze

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Meridiana

Meridiana

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La gloria oscura

La gloria oscura

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L'arco

L’arco


Teatro

 

Teatro

Teatro

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La vita accanto

La vita accanto

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Guerra di sogni

Guerra di sogni

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La fonte ardente

La fonte ardente

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Andrej Rubliòv

Andrej Rubliòv

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Eraclito. Due risvegli

Eraclito. Due risvegli

***

Isole. Poema scenico

Isole. Poema scenico

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Scintilla d'Africa

Scintilla d’Africa

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Agnodice

Agnodice

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Dialogo Natura e Anima

Dialogo Natura e Anima

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Rosens ande

Rosens ande

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Lo spettro della rosa

Lo spettro della rosa

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La fenice

La fenice

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La Minima

La Minima

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L'albero delle parole

L’albero delle parole


Critica

 

Una rara pietà

Una rara pietà

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Simone Weil. 'intelligenza della santità

Simone Weil: l’intelligenza della santità

***

Di poesia e d'altro, III

Di poesia e d’altro, III

***

Di poesia e d'altro, II

Di poesia e d’altro, II

***

Di poesia e d'altro, I

Di poesia e d’altro, I

***

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

***

Le foglie della sibilla

Le foglie della sibilla. Scritti su Margherita Guidacci

***

L'uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

L’uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

***

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

***

Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli

***

Ungaretti

Ungaretti

***

Dino Campana

Campana

***

L'immagine aperta

L’immagine aperta

***

Mostra bio.bibliografica su Dino Campana

Mostra bio-bibliografica su Dino Campana


Traduzioni

 

 

R. Ughetto, Poesie

R. Ughetto, Poesie

 

R. Tagore-V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

R. Tagore –  V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

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Tagore, Ricordi di vita

Tagore, Ricordi di vita

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Cicerone, Manualetto elettorale

Cicerone, Manualetto elettorale

***

K. Mansfield, Poesie e prose liriche

K. Mansfield, Poesie e prose liriche

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Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

***

D. Barnes, Disincanto

D. Barnes, Disincanto

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Victor Segalen, Odi

Victor Segalen, Odi

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Le poesie di Simone Weil

Le poesie di Simone Weil

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F. Thompson, Il Segugio del Cielo

F. Thompson, Il Segugio del Cielo

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Orlando n

V. Woolf, Orlando

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V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

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V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

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tutti-i-racconti-10_4349_

K. Mansfield, Tutti i racconti

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K. Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

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K. Mansfield. Tutti i racconti

K. Mansfield. Tutti i racconti

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Una stanza

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

***

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

***

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

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Molto rumor per nulla

W. Shakespeare, Molto rumor per nulla

 

***

Shakespeare molto-rumore-per-nulla_1479_

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

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W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

***

M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

***

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

***

Vi. Woolf, Le onde

Vi. Woolf, Le onde

***

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

***

G. Herbert, Corona di lode

G. Herbert, Corona di lode

***

E. Lasker-Sculer, Ballate ebraiche e altre poesie

E. Lasker-Schuler, Ballate ebraiche e altre poesie

 

 

Curatele

 

 

Kore. Iniziazioni femminili

Kore. Iniziazioni femminili

***

M. Guidacci, Le poesie

M. Guidacci, Le poesie

***

Poesia e lavoro

Poesia e lavoro

***

Egle Marini, La parola scolpita

E. Marini, La parola scolpita

***

G. Boine, La città

G. Boine, La città

***

Gianna Manzini, Bestiario

Gianna Manzini, Bestiario

***

P. Parigi, Noi lenti e le stelle

P. Parigi, Noi lenti e le stelle

***



 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Anna Bravo (1938-2019) – Non dobbiamo smembrare e sminuzzare l’interezza dell’esperienza partigiana. Le donne erano contemporaneamente partigiane in armi o gappiste e membri di gruppi di difesa delle donne. Domina l’immagine di nonviolenza come assenza di conflitto, ma non è così, poiché la nonviolenza riconosce che vi è in atto un conflitto terribile.

Anna Bravo

Intervento di

Anna Bravo

Storica, Università di Torino

Movimenti di liberazione e riduzione del danno

(Cerimonia di consegna del Premio “Diana Sabbi”, Provincia di Bologna, Bologna, 12 maggio 2006)

Grazie per questo invito che per me è un onore ed una gioia. Ovviamente non solo per me, perché è come se ci fosse un filo di continuità, tra la grande donna che ha fatto così tante cose nella sua vita, e alcune rappresentanti delle nostre istituzioni elettive, storiche, ricercatrici giovani, filo che lascia pensare ad una tradizione che corre attraverso persone diverse. Una tradizione in cui sono benvenuti gli uomini, quelli che sono interessati a questo tema e portano un contributo nuovo.
Ho pensato di presentare alcune riflessioni su un concetto a me molto caro in questo periodo: quello della riduzione del danno. Negli anni c’è stata una campagna mediatica e di molti libri completamente centrata sull’aspetto cruento della resistenza (non credo assolutamente che bisogna sacralizzare la resistenza) che ha favorito un’immagine non rispondente al vero. Parlerò di riduzione del danno non per contrapporre dei pro a dei contro, per fare la conta del bene e del male che c’è stato (non penso sia un tema interessante), tratterò invece questo concetto, perché, insisterere tanto sull’aspetto cruento della resistenza ha causato un effetto deleterio: quello di smembrare, di sminuzzare l’interezza dell’esperienza partigiana. Il secondo pericolo che vedo è che si crei un solco tra resistenza armata e resistenza non armata: due fenomeni diversi ma con punti in comune importanti da rintracciare per evitare contrapposizioni inutili che non fanno procedere nella ricerca storica. Quindi si tratta di prendere lo spunto da una campagna mediatica ‘brutta’ per capire se ci sono delle cose da ricavare per andare avanti.
Vorrei, preliminarmente dire due cose: primo, quando si parla di riduzione del danno, non si parla del cosiddetto male minore che significa contemplare una situazione e scegliere il male meno grave. Parlare di riduzione del danno, in particolare in una situazione di guerra, significa, invece, agire perché un danno diventi più piccolo, si tratta di una posizione molto attiva e forte in cui le donne sono state particolarmente protagoniste. Secondo, il concetto di riduzione del danno non appartiene solo ai movimenti di resistenza; nella corrente giuridica del pacifismo, che nasce già nella seconda metà dell’800, vi è un grande lavoro di riduzione del danno affidata ad accordi bilaterali, a trattati internazionali che fissano divieti ed obblighi sia per i prigionieri di guerra sia per i civili (la massima esponente di questa corrente pacifista è una donna che si chiamava Berte von Suttner, che ha avuto il premio Nobel nel 1905), vi è il tentativo di creare una struttura giuridica che ponga dei limiti oltre i quali erano previste ritorsioni più gravi. (Purtroppo tutto questo è sempre accaduto solo dopo una guerra, basti pensare alla dichiarazione dei diritti dell’uomo).
L’aspetto interessante delle pratiche di riduzione del danno nella resistenza, intesa nel suo senso più ampio, è che avvengono dentro la guerra, in piena guerra. Parlerò della resistenza in Italia per squarci, poiché il tempo è poco. Comunque, lo sforzo di ridurre il danno è un punto tipico, per certi versi ovvio. Il partigiano combatte nel suo territorio, a che fare con i suoi connazionali, concittadini, compaesani, è interessato a proteggere il paese pertanto è quanto mai scontata questa caratteristica dell’azione. Ma il movimento partigiano, il movimento armato, ha anche una priorità, quella di contribuire alla sconfitta di fascisti e tedeschi. Far saltare un treno mette in difficoltà il nemico, ma c’e la consapevolezza che tale ponte nel dopoguerra non ci sarà più. Qui emerge l’aspetto drammatico che il partigiano in armi spesso vive.
Vi è un’insieme di ricerche italiane molto belle, parlo di Pezzino, Contini, Portelli, Paggi, che hanno analizzato tale dilemma nelle conseguenze della memoria di cittadini vittime di stragi naziste, registrando contraddizioni, come è normale che sia. Il partigiano, perciò, si trova di fronte questo dilemma, che non si può risolvere in modo indolore, mentre la resistenza disarmata, civile, ha come sua priorità quella di diminuire al massimo il dominio e lo sfruttamento che il nazismo esercita sulle popolazioni occupate. Ossia, limitare la razzia di beni, di persone, le deportazioni degli ebrei e quelle politiche. La resistenza civile si muove molto all’interno di questa logica attiva di diminuzione del danno.
Pensando alla contrapposizione che poteva nascere dalla campagna mediatica in cui da un lato c’è la resistenza armata uguale sangue e violenza, la resistenza civile uguale salvezza ed angelismo, il concetto di riduzione del danno è interessante, poiché presenta punti di contatto tra questi due settori della resistenza, che noi donne non abbiamo mai contrapposto l’uno all’altro, ma che spesso sono stati tenuti divisi. Durante le pratiche armate c’era infatti la possibilità di ridurre il danno.

Nelia Benissone
Anna Maria Bruzzone
Rachele Farina

Partirò portando l’esempio di alcune donne che erano contemporaneamente partigiane in armi o gappiste e membri di gruppi di difesa delle donne che come noto sono l’organizzazione più attenta a salvaguardare la comunità, la sua sopravvivenza ed i suoi valori. (Un esempio vicino a noi, dall’altra parte dell’Italia, è quello dei gruppi di Carrara, che riescono a bloccare gli sfollamenti forzati vanificando il piano tedesco di ritirarsi attraverso territori sgombri. Essi impediscono questa manovra e la distruzione completa della città di Carrara). Una donna che lavora nei due settori è Nelia Benissone, una delle partigiane intervistate da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina per La resistenza taciuta.
Nelia aveva come specializzazione il sequestro di fascisti e tedeschi da scambiare con partigiani o con ostaggi, una classica azione che si fa con le armi, prendendo una persona per strada e portandola ai comandi per dare avvio alla trattativa. Nello stesso tempo era molto impegnata nel soccorso rosso, nei gruppi di difesa della donna, contribuiva a creare ambulatori per i giorni della liberazione, essendo così, parte di una cosa e dell’altra. Sentendola raccontare dopo tanti anni, non si capisce la cosa che più le dava soddisfazione, gioia di sé, l’unica cosa che si comprende è che le mancava la politica, perché i casi della vita hanno fatto sì che lei non potesse più avere un impegno politico. Comunque, come si è potuto vedere, anche il partigiano in armi, in questo caso la partigiana, può muoversi nell’ottica della diminuzione del danno, insieme ad altre donne, determinando un punto di convergenza.

Un secondo terreno, che stranamente non è emerso durante la polemica di due o tre anni fa intorno al libro di Pansa, è costituito dalle pratiche armate che nascono proprio per ridurre il danno. Uno degli aspetti meno citati è il fatto che, se l’Italia nel dopoguerra ha avuto danni limitati all’apparato industriale, è perché i partigiani hanno difeso le fabbriche. Militarmente, con le armi in pugno, hanno salvaguardato gli impianti industriali. Infatti, gli indici di distruzione sono più alti per quanto concerne l’agricoltura rispetto all’industria, proprio per questa azione difensiva dei partigiani. Nelle campagne vi era l’abitudine dei fascisti di bandire gli ammassi e di requisire gli animali, mucche, cavalli ecc. I partigiani spesso arrivavano disturbando e facendo fallire la requisizione, sapendo bene che requisire una mucca, significava togliere ad una famiglia il modo di tirare avanti ancora per un anno di guerra o di quanto sarebbe stato. Tali sono casi di grande interesse, ma poco valorizzati.
Un altro caso in cui bisognerebbe far partire delle ricerche è il problema delle tregue, visto finora in maniera molto limitativa. Spesso le tregue venivano fatte per motivi politici, per isolare una certa parte politica rispetto ad altre, ma in alcuni casi, come nel biellese, sono state fatte per dare un po’ di respiro alle popolazioni, per consentire di fare uscire dalle valli i tessuti e far entrare denaro per la sopravvivenza. In tal caso, concordare una tregua è proprio un atto di riduzione del danno, abbandonando l’idea di bellicosità come valore da perseguire sempre e comunque, vuol dire aver capito quando è più importante che si possano esportare tessuti e dar da mangiare alle persone piuttosto di fare uno scontro a fuoco.
Sempre nel biellese, nella primavera del ’45, viene firmato un contratto molto avanzato nell’industria tessile, con ridistribuzione del potere e ridistribuzione economica. Esso è stato “incoraggiato” dai partigiani dimostrando un altro modo di intervenire nella società civile: essi mostrano le armi ma non le utilizzano.
E’ possibile così individuare il valore di riduzione del danno connaturato a certe pratiche armate. Infine l’aspetto, di cui si è discusso poco, ossia la riparazione del danno sul piano simbolico. E’ vero che c’e stato un dibattito molto forte intorno all’idea di morte della patria (penso da un lato a Ernesto Galli della Loggia e Elena Aga Rossi, dall’altro a Claudio Pavone, Vittorio Foa e molti altri). Alcuni sostengono che l’8 settembre con il disfacimento dell’esercito vi è la fine della patria, altri come Vittorio Foa pensano, diversamente, alla rinascita della patria perché quella che muore è la patria fascista. Si tratta di due posizioni inconciliabili se viste a livello dei vertici, come questione di apparati, crollo dell’esercito e degli alti comandi, disfacimento degli uffici ecc. In ogni caso, pensando ad alcune ricerche che ho fatto tanti anni fa, mi rendo conto che il concetto di morte della patria non colpisce solo i fascisti, i monarchici o chi pensa che la sfera pubblica delle istituzioni debba mantenere il suo potere, per essere rispettabile e rispettata. Ci sono anche borghesi ‘piccoli-piccoli’ che non sono particolarmente legati a queste tesi, ma che si sentono, in qualche modo, vicini al destino dell’esercito e delle istituzioni e che, trovandosi occupati, vivono l’umiliazione di un popolo che non osa agire perché occupato e sfruttato dai nazisti.
E’ chiaro che il riscatto dall’occupazione fascista e dalla sua primogenitura, nonché la riduzione del danno, sono rappresentati dalla resistenza, come movimento. Guardando la storia ad un livello micrologico, si vede l’esistenza del disagio, della sofferenza, dello smarrimento, in persone che non sono legate ad ideali militaristi, patriottici o monarchici. E si vedono situazioni in cui le armi possono funzionare come riscatto sul piano simbolico. Avevo un amico, un giovane operaio di famiglia contadina, Giovanni Rocca, nome di battaglia Primo, che aveva combattuto con i partigiani in Jugoslavia e poi era tornato al suo paese nel Monferrato. Era molto combattivo e in poco tempo aveva tirato su un gruppo di amici e fatto molti colpi rifornendosi ampiamente di armi nemiche. Nel giro di poco più di un anno era diventato capo di una divisione garibaldina grande e combattiva. La sua inclinazione “anarcoide”, “ribellistica” aveva causato in parte screzi con la dirigenza garibaldina composta da persone molto più adulte e con una storia molto diversa.
Prima ancora di conoscere questa persona, di diventare sua amica, ho sentito parlarne proprio da questi borghesi ‘piccoli piccoli’ che ho nominato. Come sapete le trattative tra partigiani e tedeschi esistevano per lo scambio di ostaggi di prigionieri, trattative per stabilire una tregua momentanea, per non fare rappresaglie in un certo paese. Nel momento della trattativa ad un lato del fiume vi erano gli ufficiali e dall’altro questo mio amico (vestito in maniera spettacolare: con i pantaloni corti, gli stivali, un berretto con una enorme stella rossa, giubbotto di pelle e carico dalla testa ai piedi di armi tedesche) che pianissimo senza scorta attraversava questo ponte. Questi borghesi piccoli piccoli avevano paura della durezza leggendaria di questo comandante partigiano, paura dei grandi rivolgimenti che la resistenza prometteva all’Italia.
Avrebbero forse preferito restare come erano, ma vivendo quella situazione di umiliazione, di non osare di ribellarsi, di sentirsi nessuno, come si sente chi è occupato, si identificavano moltissimo con questo ragazzo, utilizzando la frase “andava a trattare da pari a pari”. Tale può definirsi una forma di riduzione del danno simbolico, attuata paradossalmente, attraverso l’ostensione di un corpo maschile ricoperto completamente di armi. Si tratta di una forma di riduzione del danno molto vicina ad una cosa che forse può sembrare il suo contrario.

Parlando dei gruppi di difesa della donna ho dimenticato di dire una cosa molto importante. Essi cercavano di dare sepoltura ai morti partigiani. (Qualcuno ricorderà le ragazze dei gruppi che nei funerali portavano un garofano rosso e alle quali i fascisti giravano intorno) ed alle vittime dei tedeschi anche non partigiani. Il tentativo era di rendere giusto onore alle vittime e di sanare quella ferita enorme che prova una comunità quando i morti non vengono sepolti. Le esequie rappresentavano un’alta strategia politica simbolica che paradossalmente rientrava nello stesso piano di ricostituzione della fiducia in sé, del senso dell’onore che aveva questo mio caro amico.
Partendo dal fastidio di vedere questa campagna che ha smembrato l’interezza di un’esperienza molto complicata, in cui nessuno ha parlato del fatto che si stabilivano tregue che consentivano alla gente di sopravvivere, di questi funerali ancora molto vivi nella memoria delle persone anziane, credo, per concludere, che gli storici uomini, per lo meno alcuni, sono stati troppo legati a quest’immagine della lotta armata come sola vera forma di lotta antifascista, mentre è acclarato che ci sono forme di lotta altrettanto importanti come ad esempio la protezione degli ebrei che significa sottrarre prede ad Hitler, fatti che hanno lo stesso valore. Nel dibattito di due-tre anni fa, non sono venuti fuori questi temi, impoverendolo molto, ma aprendo per alcuni un altro punto di vista, con uno sguardo di riflessione di genere maschile e femminile, libero da questo primato delle armi e dalla falsa idea che non usarle costituisca un atto di codardia, di rinuncia al conflitto.
Chiudo dicendo che sono di fede atea e nonviolenta. In giro domina l’immagine di nonviolenza come assenza di conflitto, ma non è così, poiché la nonviolenza riconosce che vi è in atto un conflitto terribile e cerca di gestirlo riducendo al massimo il danno, quindi è la forma più alta a cui noi possiamo rifarci e che esisteva già nella resistenza.

Anna Bravo


“Ma, insomma, se sapessero solo cos’han fatto le donne!”. A vibrare così è la voce di una delle dodici partigiane piemontesi le cui testimonianze sono state trascritte e raccolte qui da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina. Erano gli anni settanta del secolo scorso e, nonostante fossero passati decenni dalla fine della guerra, ancora “non si sapeva”. O meglio, il prevalente “manierismo resistenziale” conveniva, nell’ufficialità degli anniversari, sul “prezioso” contributo delle donne alla lotta di Liberazione, ma non si spingeva ad accreditarne l’indispensabilità. Concentrata sulle vicende politico-militari, la storiografia continuava a ignorare una parte essenziale dell’accaduto. Grazie al libro di Bruzzone e Farina, oggi riproposto in una nuova edizione, la soggettività femminile ha invece preso la parola, determinando una svolta nella percezione collettiva della Resistenza. Si è abbandonata la logica subalterna del puro affiancamento – supporto logistico, ruoli di staffette, vivandiere, infermiere, infine custodi memoriali delle imprese maschili – per restituire piena dignità di azione, lungimiranza, caratura morale e civile a chi aveva esposto la propria giovinezza a ogni rischio, quanto e talora più dei compagni in armi, e nel dopoguerra non aveva preteso medaglie o riconoscimenti. La Resistenza troppo a lungo taciuta di queste donne, in gran parte di origini proletarie, è stata risarcita solo dal loro tardivo racconto.


Le pubblicazioni di Anna Bravo

La Repubblica partigiana dell’Alto Monferrato, Torino, 1964
Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, 1991 (curatela)
In guerra senza armi, Laterza, 1995 (con Anna Maria Bruzzone)
Donne del ‘900, Liberal, 1999 (con Lucetta Scaraffia)
Storia sociale delle donne, Laterza, 2001 (con Lucetta Scaraffia)
Il fotoromanzo, Il Mulino, 2003
I Nuovi fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, 2003 (manuale per le scuole superiori,
La vita offesa, FrancoAngeli, 2004
Sopravvissuti, Alinari, 2004 (con Liliana Picciotto Fargion)
Comune di donna. Sindache in provincia di Bologna, Clueb, 2004
La prima volta che ho votato, Scritture, 2006 (con Caterina Caravaggi e Teresa Mattei)
A colpi di cuore. Il Sessantotto, Laterza, 2008
Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, 2011 (curatela, con Federico Cereja)
La conta dei salvati, Laterza, 2013
Raccontare per la storia, Einaudi, 2014


Emanuela Minucci, Addio ad Anna Bravo, studiosa delle donne e dei movimenti politici del novecento, in La Stampa, 8 dicembre 2019.

Federico Cravero, Addio ad Anna Bravo, una vita dalla parte delle donne, in Repubblica, 8 dicembre 2019.

Alberto Leiss, Anna Bravo, storica, su donneierioggiedomani.it


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Leggendo «Padrone e servo» di L. N. Tolstoj. Un’altra storia è possibile. Lo stordimento dell’economicismo conduce l’anima verso la dispersione di sé. Il potere cerca di impedirci di vivere il momento qualitativo, in cui il mondo con i suoi incanti appare nella sua verità. La vera emancipazione è la liberazione dai pesi grevi che celano allo sguardo la fratellanza.

Lev Nikolaevič Tolstoj- Padrone e servo

Salvatore Bravo

Le storie contro la storia

Un’altra storia è possibile.
Il paradigma neoliberale non è l’unico periodare possibile.

Lo stordimento dell’economicismo conduce l’anima verso la dispersione di sé.

Il potere cerca di impedirci di vivere il momento qualitativo,
in cui il mondo con i suoi incanti appare nella sua verità.

La vera emancipazione è la liberazione
dai pesi grevi che celano allo sguardo la fratellanza.



Il mondo neoliberale non è la verità dell’essere umano.
Il neoliberismo – in continuità con le strutture di potere che separano, escludono e strumentalizzano – è l’effetto finale di logiche di potere che hanno attraversato il “secolo breve”. Accanto alla storia ufficiale vi è la storia parallela e carsica di un’altra umanità che non compare nei libri di storia, perché devono confermare il paradigma della divisione e dello sfruttamento. «La storia inizierà», affermava Marx «quando terminerà la legge della giungla».
Lungo la storia ci sono state esperienze di fratellanza che normalmente sono escluse dalla storia ufficiale e talvolta sono oggetto non solo di rimozione, ma anche di irrisione. Non solo la storia non è conclusa, ma è invece esperienza collettiva plurale. Vi sono testimonianze che dimostrano che un’altra storia è possibile e che il paradigma neoliberale non è l’unico periodare possibile e da scrivere.
La vita di Lev Nikolaevič Tolstoj (1828-1910), testimonia un’altra storia. La sua opera come la sua vita sono il dono di uno scrittore, di un uomo che ha vissuto per la comunità, ed ha dato dimostrazione che un’altra vita non è solo potenzialmente ipotizzabile, ma la si può mettere in atto. In un suo breve racconto, Padrone e iservo, descrive il percorso di due anime che escono dall’oscurità delle gerarchie, delle sovrastrutture, per ritrovarsi nella comune umanità. La vita è ritrovata quando è ormai persa per il padrone, la fine segna l’uscita dallo stordimento dell’economicismo, che conduce l’anima verso la dispersione di sé, verso «la sua notte oscura». L’ossessione per il denaro, per l’accumulo, il martello dell’economia che tutto annichilisce in nome del plusvalore, è la dannazione del padrone: la sua solitudine è attraversata dall’ossessione del calcolo. Quest’ultimo segna la sua tragica distanza dal mondo e la sua solitudine:

 

«Non aveva sonno. Stava disteso lì e pensava: pensava sempre a quell’unica cosa che costituiva l’unico scopo, senso, gioia e orgoglio della sua vita, – a quanto denaro avesse già messo da parte e a quanto ancora avrebbe potuto guadagnarne; e a quanto denaro avessero accumulato e possedessero ora altre persone di sua conoscenza, e a come costoro avessero accumulato e continuassero ad accumulare denaro, e a come lui, proprio come loro, potesse accumulare ancora molto, molto denaro. L’acquisto del bosco di Gorjàtchkino era per lui un affare di enorme importanza. Sperava di trarre da quel bosco un guadagno di diecimila rubli, tutti d’un colpo. E cominciò nei suoi pensieri a far la stima del bosco, che aveva veduto in autunno, e in cui aveva contato tutti quanti gli alberi per un tratto di due “desjàtine”. “Le querce daranno legno per pattini. Per i tagli non c’è problema. E di legna si farà un 30 ‘sàgieni’ ogni ‘desjàtina’” diceva a se stesso. “E ogni ‘desjàtina’, mal che vada, verranno almeno 200 rubli. Con i più magari anche un biglietto da 25, perché no. Per cui 56 ‘desjàtine’, 56 centinaia, con in più 56 decine, più un’altra volta 56 decine, e più 56 cinquine… “. Vide che il risultato doveva superare i dodicimila rubli, ma senza il pallottoliere non riusciva a capir bene di quanto precisamente li superasse. “Diecimila comunque non gliene do, gliene darò ottomila, e non metteremo in conto le radure. L’agrimensore me lo lavorerò un po’ io, potrei dargli un cento rubli, o magari anche cinquecento; e lui mi segnerà cinque ‘desjàtine’ di radure. Cosi quello là me lo darà per ottomila. Adesso ne ho qui 3000, pronti sull’unghia. Si raddolcirà di sicuro a vederli” pensava, tastando con l’avambraccio il portafogli che aveva in tasca. “E come abbiamo fatto a perderci dopo la svolta Dio solo lo sa! Qua dovrebbe esserci il bosco, con il casotto del guardiacaccia. Si sentissero almeno i cani. Ma ti dico io, mai che abbaino quando serve”. Scostò il bavero dall’orecchio e si mise in ascolto; si udiva sempre il medesimo fischiare del vento, e in cima alle stanghe lo sventolio e gli schiocchi del fazzoletto, e le frustate della neve sul tiglio delle stanghe. Si nascose di nuovo sotto il bavero».[1]

 

Ossessione
L’ossessione per i suoi affari, il sospetto che qualcuno gli potesse soffiare l’acquisto per il quale era in trattative, lo inducono a sfidare le intemperie, ad affrontare il negativo, in questo caso simbolizzato dalla tempesta furiosa di neve, dai lupi che ululano, dal vento che non smette di tormentare cose e persone: nella notte buia trova rifugio, ma ancora il pensiero ossessivo riprende vigore e lo costringe a lasciare l’ospitalità che lo protegge. Eppure in questa notte, mentre il mondo sfuma con le sue certezze, dall’anima senza fondo comincia ad emergere la paura, si incrina la sicurezza del padrone, il suo sentirsi “altro” rispetto ai comuni mortali, mentre perde il controllo emerge la sua umanità, e la sua verità:

«”Oh, che notte lunga!” pensò Vasilij Andreitch, sentendo il gelo corrergli lungo la schiena, e, riabbottonatosi e riavvoltosi nella pelliccia, si strinse contro l’angolo della slitta, preparandosi alla paziente attesa. A un tratto, in mezzo al rumore sempre uguale del vento udì distintamente un suono nuovo, vivo. Il suono si rafforzava via via, giunse a una perfetta nitidezza, e poi cominciò via via a indebolirsi. Non vi era alcun dubbio che si trattasse di un lupo. E questo lupo era così poco lontano, che lo si udiva, nel vento, mutare i suoni della voce, rigirando le mascelle. Vasilij Andreitch scostò il bavero e ascoltò attentamente. Anche Baio ascoltava, tendendosi tutto, muovendo le orecchie ora in una direzione ora in un’altra, e quando il lupo ebbe terminato d’eseguire la sua cadenza, cambiò la posizione delle gambe e sbuffò, per avvertire gli uomini. Dopo di ciò Vasilij Andreitch non riuscì più non soltanto ad addormentarsi, ma nemmeno a calmarsi. Per quanto si sforzasse di pensare ai suoi conti, ai suoi affari e alla sua gloria e dignità e ricchezza, la paura si impadroniva di lui sempre più, e sopra a tutti i suoi pensieri dominava e a tutti i suoi pensieri si mescolava il pensiero del perché egli non fosse rimasto a Grischkino per la notte. “Dio se lo prenda, quel bosco, ne avevo di affari anche senza quel bosco, grazie a Dio».[2]

L’anima, tormentata dall’ossessione dell’affare riprende vigore, il suo flusso di coscienza è inarrestabile, ipotizza di lasciare il servo per proseguire da solo. Ma il percorso è praticamente impossibile, il muro di neve e buio gli fanno perdere l’orientamento, non si arresta, ma ormai ha perso ogni punto di riferimento. Ora che la vita sembra essere minacciata, l’ossessione lo abbandona, pochi passi nella neve e involontariamente ritorna dal suo servo. Lo ha abbandonato al suo destino, lo ha tradito per il denaro, ma ora che il mondo con le sue lusinghe tace, dinanzi al servo che rischia la morte, si ritrova, vede nel servo il fratello che vive il suo stesso destino. Si stende su di lui per proteggerlo, per riscaldarlo, prova una triste gioia nel gesto di sentirsi al contatto con il servo, è per lui la prima volta che le gerarchie tacciono, semplicemente è dinanzi ad un altro essere umano che soffre come lui, non è più solo per la prima volta nella sua vita:

«”Ah, vedi, e dicevi che morivi. Sta’ disteso, scaldati, ecco come facciamo noialtri… ” cominciò a dire Vasilij Andreitch. Ma con suo grande stupore non riuscì a dire altro, perché le lacrime gli spuntarono negli occhi e la mascella cominciò a tremargli forte. Smise di parlare e si limitò a inghiottire quel che gli stava salendo in gola. “Mi devo essere proprio spaventato tanto, da esser così debole adesso” pensò di sé. Ma questa debolezza non soltanto non gli riusciva sgradita, ma gli procurava una gioia particolare, che non aveva ancora mai provato. “Ecco come siamo noi” diceva a se stesso, provando una commozione particolare, trionfante. E per un tempo piuttosto lungo rimase disteso così, asciugandosi gli occhi sul pelo della pelliccia e infilandosi sotto il ginocchio il lembo destro della pelliccia, che il vento continuava a rivoltargli. Ma aveva una voglia appassionata di parlare a qualcuno di quella gioia che si sentiva dentro. “Nikita!” disse. “Sto bene, sto caldo” si sentì rispondere da sotto. “E così, fratello, io ancora un po’ ed ero perduto, sai. E tu ti saresti congelato, e anch’io… ” Ma di nuovo cominciarono a tremolargli i pomelli, e di nuovo gli occhi gli si riempirono di lacrime, e non riuscì a dire nient’altro. “Be’, non importa” pensò. “Quel che so, lo so io per conto mio”. E tacque. Cosi rimase a lungo. Sentiva caldo da sotto, perché c’era Nikita, e sentiva caldo anche da sopra, perché sopra c’era la pelliccia; soltanto le mani, con cui egli teneva le falde della pelliccia sui fianchi di Nikita, e le gambe, da cui il vento continuava a rovesciargli via la pelliccia, cominciavano a gelarglisi. Gli si stava gelando in particolar modo la mano destra, che era senza guanto. Ma lui non pensava né alle sue gambe, né alle mani, ma pensava soltanto a scaldare il meglio possibile il “mugik” che gli giaceva sotto».[3]

 

Alla fine la vita è persa, ma ha ritrovato il suo senso. Il gesto del dono gratuito lo trasfigura, l’uomo che muore per salvare il servo e l’uomo ossessionato dal capitale sono due uomini diversi. Nella vita del padrone, ormai solo un uomo che cerca il fratello è entrato il tempo cairologico,[4] il tempo della qualità che muta e trasfigura la vita nell’unità della fratellanza.
Il potere, sembra dirci Tolstoj, cerca di impedirci di vivere il momento qualitativo, in cui il mondo con i suoi incanti appare nella sua verità, nelle sue etiche tragedie. La liberazione dai pesi grevi che celano allo sguardo la fratellanza è la vera emancipazione. Ma, per ritrovarsi, spesso si deve attraversare la notte oscura, con i suoi dubbi dolorosi.

Così Tolstoj narra gli ultimi pensieri di Vasilij prima della morte:
«E si rammenta che Nikita è lì disteso sotto di lui e che si è scaldato ed è vivo, e gli sembra di esser lui Nikita e che Nikita sia lui, e che la sua vita non sia in lui stesso ma in Nikita. Si mette in ascolto, e sente il respiro, e persino il leggero russare di Nikita. “È vivo, Nikita, e dunque anch’io sono vivo” dice a se stesso con aria di trionfo. E si ricorda dei soldi, della bottega, della casa, degli acquisti, delle vendite e dei milioni dei Mironov; fa fatica a capire perché quest’uomo che chiamavano Vasilij Brechunòv si occupasse di tutte le cose di cui si occupava. “Be’, è perché non sapeva qual era il punto” pensa di Vasilij Brechunòv. “Non lo sapeva così come io lo so adesso. E adesso non mi sbaglio. Adesso so”. E sente di essere libero, e non c’è più nulla che lo trattiene. E null’altro vide e udì e sentì in questo mondo Vasilij Andreevic. Intorno tutto era ancora avvolto dal nevischio».

Salvatore Bravo

[1] Lev Tolstoj, Padrone e servo, Freedbookss 2012, pp. 40-41.

[2] Ibidem, pag. 45.

[3] Ibidem, pp. 53-54.

[4] Cairologico dal greco καιρός “momento opportuno o speciale”.

«Poiché la vita è essenziale quanto la libertà, la lotta termina innanzitutto, come negazione unilaterale, con la seguente disuguaglianza. Uno dei due combattenti preferisce la vita, si conserva come autocoscienza singolare, ma rinuncia al suo essere riconosciuto; l’Altro, invece, si mantiene saldo alla sua autorelazione, e viene riconosciuto dal primo come da un assoggettato. Si ha così il rapporto tra signoria e servitù».

G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Leggendo «Il Monaco nero» di A. P. Čechov. La vera gioia è nell’ascolto della creatività. La creatività massimamente espressa è l’atto di sentire e cogliere la profonda forza germinatrice della vita che lega l’essere umano all’unità dell’universo.

Čechov Anton Pavlovič , Il monaco nero
Salvatore Bravo

La vera gioia è nell’ascolto della creatività



Il capitalismo assoluto è sistema senza alterità, quest’ultima è possibile dove vige la creatività. La pluralità implica un lavoro di traduzione, ovvero di avvicinamento senza possibilità di sovrapposizione all’altro. L’attività creativa umana pone ponti, ma non sono mai percorribili in toto, le identità restano inafferabili, perché creatrici e germinatrici di vita. Senza tale processo la comunità è solo “luogo computazionale”, in cui regna l’intelletto unico, prospettiva eguale, che rende le attività automatiche e sincrone. Il grande sogno del capitalismo assoluto è la realizzazione di questo immenso intelletto comune mediante il quale ridurre l’alterità, il pericolo della creatività a semplice “attività organica al sistema”. Si tratta di realizzare compiutamente l’atomismo per impedire lo scambio creativo e politico.
La divisione facilita l’installarsi dell’intelletto computazionale comune, l’anomia diventa la legge del capitale. Se ognuno è come gli altri il sistema è protetto da critiche e prassi e può in tal modo eternizzarsi e diventare globale. Si tratta di utilizzare il senso comunitario nel suo negativo, ovvero da “essenza della relazione per creare” a sterile contatto trasmissivo di informazioni, a uso del capitale umano ai soli fini produttivi. Alla vita, che con i suoi processi semina altra vita, si sostituisce la violenza della sola produzione, dell’accumulo divenuto mezzo e fine del sistema. È il nuovo imperativo categorico che i popoli debbono prima omaggiare e poi trasformare nell’unico modello da realizzare. È il regno dell’ultimo uomo descritto da Nietzsche, la mediocrità sterile che diviene legge della vita.

Il regno dell’ultimo uomo è stato profetizzato anche nella letteratura russa. La mediocrità divenuta legge è descritta come parametro medico, a cui ci si deve conformare. La medicalizzazione dell’alterità, di coloro che vivono lo spirito dionisiaco e dunque creativo, è ben descritto da A. Čechov in un breve racconto Il monaco nero, con il quale descrive la medicalizzazione del diverso, dello spirito creativo. Nel racconto vi è il montare di una scienza minacciosa che tutto vuole assimilare a paradigmi ritenuti “oggettivi”. Scienza medica incapace di metalettura, e dunque al servizio dei poteri di normalizzazione. Nel racconto dello scrittore russo emerge dunque, il problema della creatività e specialmente la domanda su che cosa sia la creatività e quale sia la sua genealogia. Anton Pavlovič Čechov (Taganrog, 29 gennaio 1860 – Badenweiler, 15 luglio 1904) per poter denunciare la minaccia del potere di normalizzazione che avanza chiarisce che la creatività massimamente espressa nel genio è l’atto di sentire e cogliere la profonda forza germinatrice della vita che lega l’essere umano all’unità dell’universo. La creatività è un dentro ed è contemporaneamente un fuori, è dunque relazione nella profondità di sé che apre varchi verso il mondo, verso la comunità, è attività che forma ed informa le relazioni. Il monaco che il protagonista scambia per allucinazione, in realtà è l’io profondo nel quale ciascuno intuisce la presenza della vita non sclerotizzata in forme precostituite, ma che necessita di essere tradotta in forme sempre vive:

«”Devi essere un miraggio”, disse Kovrin.Perché poi te ne stai qui fermo seduto? La leggenda e diversa. E lo stesso rispose il monaco non subito, piano, girando la faccia verso di lui. La leggenda, il miraggio e io, tutto questo e un prodotto della tua immaginazione eccitata. Sono un fantasma.Quindi, non esisti? chiese Kovrin. Pensala come ti pare rispose il monaco e fece un lieve sorriso. Esisto nella tua immaginazione, e la tua immaginazione fa parte della natura, quindi esisto anche in natura. Hai una faccia molto vecchia, intelligente e moltissimo espressiva, proprio come se vivessi davvero da più di mille anni disse Kovrin. Non sapevo che la mia immaginazione fosse in grado di creare fenomeni del genere. Ma perchè mi guardi con tanto entusiasmo? Ti piaccio? Sì. Sei uno dei pochi che si possono giustamente chiamare eletti da Dio. Sei al servizio della verità eterna. I tuoi pensieri, le tue intenzioni, i tuoi studi sorprendenti e tutta la tua vita portano un’impronta divina, celeste, poiché sono dedicati al razionale e al bello, ossia a ciò che e eterno. Hai detto: verità eterna… Ma e accessibile e necessaria, agli uomini, la verità eterna, se la vita eterna non esiste? La vita eterna esiste disse il monaco. Tu credi nell’immortalità degli uomini? Sì, certo. Un grandioso, brillante futuro aspetta voi uomini. E più sulla terra ci sono uomini come te, prima si realizzerà questo futuro. Senza associazione culturale Larici di voi, al servizio del principio supremo, che vivete con coscienza e liberta, l’umanità sarebbe insignificante; sviluppandosi in modo naturale, aspetterebbe ancora a lungo la fine della propria storia terrestre. Voi invece la fate entrare con qualche migliaio d’anni di anticipo nel regno della verità eterna – e in questo sta il vostro grande merito. Voi incarnate la benedizione divina che riposa negli uomini. E qual e il fine della vita eterna? chiese Kovrin. Come di tutte le vite: il piacere. Il piacere autentico sta nella conoscenza, e la vita eterna offre innumerevoli e inesauribili fonti di conoscenza, in questo senso e scritto: nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se tu sapessi com’e piacevole starti a sentire! disse Kovrin sfregandosi le mani dalla soddisfazione. Sono molto contento. Ma lo so: quando te ne andrai, la questione della tua essenza non mi dara pace. Sei un fantasma, un’allucinazione. Quindi sono malato di mente, anormale?». [1]

 

Vera gioia è nell’ascolto della creatività
La vera gioia è nell’ascolto della creatività fine a se stessa che rompe i limiti dello spazio e del tempo per armonizzare il soggetto con il cosmo, il quale è un organismo sempre vivo, l’anima mundi è la legge che “passa” e “vive” nell’atto creativo donando gioie non estemporanee, ma che si radicano in emozioni e formano strutture caratteriali positive. Il creativo non è invidioso, perché ha in sé più vita. La creatività insegna che per “essere diversi” non c’è bisogno di essere fenomeni da baraccone da vendere nel mercato dell’immagine. La diversità è l’ascolto del proprio “demone” come Socrate ci ha già insegnato. Se non si ascolta la propria voce interiore, la creatività è solo un volgare succedaneo di se stessi, pertanto diviene esibizionismo egocentrico, visivo e logorroico. La creatività autentica è nell’atto di coltivare il proprio sé profondo nel quale reincontrare se stessi e l’umanità intera. La mediocrità da sistema vuole avvelenare la fonte della libertà per imporre la normalità statistica come legge scientifica, e dunque si arroga il diritto di normalizzare e sanare chiunque rompa il protocollo del sistema gregge:

«E se fosse. Non c’è da essere imbarazzati. Sei malato perché hai lavorato al di là delle tue forze e ti sei esaurito, e quindi hai sacrificato la tua salute all’idea ed e vicino il tempo in cui le darai la vita stessa. Cosa c’è di meglio? E l’aspirazione di tutte le nature nobili che hanno doti celesti. Se so di essere malato di mente, posso credere in me stesso? Ma come fai a sapere che le persone geniali a cui crede tutto il mondo non abbiano visto fantasmi anche loro? Ora gli scienziati dicono che il genio sia affine alla follia. Amico mio, sani e normali sono solo i mediocri, che stanno in mezzo al branco. Le riflessioni sull’epoca delle malattie nervose, del sovraffaticamento, della degenerazione e cosi via possono mettere in seria agitazione solo chi vede lo scopo della vita nel presente, cioè quelli che stanno nel branco. I romani dicevano: mens sana in corpore sano. Non tutto quello che dicevano i romani o i greci e vero. L’animazione, l’eccitazione, l’estasi: tutto quello che distingue i profeti, i poeti, chi soffre per un’idea, dagli uomini normali e l’opposto dell’aspetto animalesco dell’uomo, cioè della sua salute fisica. Ripeto: se vuoi essere sano e normale, entra nel branco. E strano, ripeti quello che spesso viene in mente a me disse Kovrin. Sembra che abbia spiato, origliato i miei pensieri reconditi. Ma non parliamo di me. Cosa intendi per verità eterna?”». [2]

 

Nel regno del dicitur
L’attività creatrice è oggi osannata solo se funzionale al sistema produttivo, ma la creazione per sua natura risponde solo a se stessa, la creatività è anarchica. Il creativo oggi è perennemente minacciato, la pletora di messaggi che gli giungono, le pressioni istituzionali e la logica dell’utile inquinano il contatto con “il monaco nero”. Ognuno gioca la sua partita esistenziale nel coraggio di dire “sì” a se stesso, in un mondo che osanna i “dicitur”. Solitudine del genio e solitudine dell’umanità intera suddita di valori che necrotizzano la gioia e la fiducia nel proprio io profondo. Il potere si installa fin nelle viscere della persona, svuotandola e riducendola a semplice copia perfettamente sostituibile. La violenza diventa, così, legge, perché colui che è stato defraudato di sé diventa portatore di rabbia ed aggressività. Dobbiamo imparare dagli uomini che vissero la gioia:

«Nell’antichità un uomo felice fini per aver paura della propria felicita tanto era grande! – e, per propiziarsi gli dei, porto loro in sacrificio il suo anello preferito. Lo sai, anche me, come Policrate, comincia un po’ a inquietare la mia felicita. Mi sembra strano di provare dal mattino alla notte solo gioia, mi riempie tutto e ottunde tutti gli altri sentimenti. Non so cosa sia la malinconia, la tristezza o l’angoscia. Come ora che non dormo, ho l’insonnia, ma non mi angoscio. Dico sul serio: comincio a non capacitarmene. Ma perché? si stupì il monaco. La gioia e forse un sentimento sovrannaturale? Non deve essere la condizione normale dell’uomo? Più è elevato lo sviluppo intellettuale e morale di un uomo, più è libero, più piacere gli dà la vita. Socrate, Diogene e Marco Aurelio provavano gioia, non tristezza. Anche l’apostolo dice: Rallegratevi sempre. Quindi rallegrati e sii felice”».[3]

Il protagonista muore, perché è stato oggetto di un’operazione di normalizzazione, la morte fisica è il completamento della sua morte psichica avvenuta con la sua normalizzazione, con la scissione da se stesso con la quale ritrovare la acclamata normalità che il sistema vuole:

«Un’ altra colonna nera simile a un vortice o a una tromba d’acqua apparve sull’ altra riva della baia. Attraversava la baia a velocita spaventosa in direzione dell’ albergo, diventando sempre più piccola e scura, e Kovrin fece appena in tempo a scansarsi per lasciarla passare… Un monaco con la testa canuta scoperta e le sopracciglia nere, a piedi nudi, le braccia incrociate sul petto, gli sfreccio accanto e si fermo in mezzo alla stanza. Perché non mi hai creduto?” domando con aria di rimprovero, guardando tenero Kovrin. Se allora avessi creduto che sei un genio, questi due anni non li avresti passati in modo cosi triste e misero.” Kovrin credeva già di essere un eletto da Dio e un genio, gli vennero in mente nitide tutte le conversazioni precedenti col monaco nero e voleva parlare, ma il sangue gli usci dalla gola dritto sul petto e lui, non sapendo che fare, si passava le mani sul petto e i polsini gli si intrisero di sangue. Voleva chiamare Varvara Nikolaevna che dormiva dietro il paravento, fece uno sforzo e disse: Tanja!” Cadde a terra e, sollevandosi sulle braccia, chiamo di nuovo: Tanja!”».[4]

La morte del genio è la morte dell’occidente culturale che in nome dell’utile e della sicurezza ha rinunciato all’essenziale per il superfluo, in questo scambio vi è la verità del capitalismo assoluto che abbaglia per favorire “la cecità di massa”.

Salvatore Bravo

 

[1] Anton Pavlovič Čechov, Il monaco nero, associazione culturale Larici http://www.larici.it pagg. 12-13.

[2] Ibidem, pag. 13.

[3] Ibidem, pag. 17.

[4] Ibidem, pag. 24.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Alessandro Dignös

Uno Spinoza diverso. L’Ethica di Spinoza e dei suoi amici

di Piero Di Vona

Un possibile nuovo punto di partenza
per una reinterpretazione della filosofia di Spinoza

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Lo scopo principale del presente studio di Piero Di Vona (1928-2018), insigne conoscitore e interprete della filosofia di Spinoza, è quello di «sollevare qualche dubbio sul modo in cui l’Ethica», il capolavoro del pensatore olandese, «si è formata» (p. 5). Tali dubbi non comportano il rifiuto del testo dell’opera in nostro possesso, giacché, come osserva lo studioso, esso appartiene alla storia del pensiero e, come tale, deve essere accettato. L’obiettivo del saggio di Di Vona è invece quello di chiarire se, e in che misura, «l’Ethica che possediamo uscì per intero dalla penna di Spinoza» (p. 9).
Secondo lo studioso, l’opera a noi giunta non riflette interamente il pensiero dell’autore, poiché «fu corretta dagli amici cristiani di Spinoza» (p. 10), cioè da quegli amici che, alla morte del filosofo, lavorarono all’edizione degli Opera Posthuma, di cui l’Ethica è parte integrante. Essi, per Di Vona, non si limitarono a correggere il latino dell’autore, ma intervennero sull’Ethica e sull’Epistolario, «stabilendo quali lettere si potessero pubblicare e quali no» (Ibidem). Dati gli interventi degli editori sul testo dell’opera, più che di Ethica di Spinoza, sarebbe corretto parlare di Ethica “di Spinoza e dei suoi amici”. Il presente lavoro di Di Vona è volto a fare luce sulle ragioni a supporto di questa tesi.

Ora, per capire quale sia l’intento degli amici di Spinoza, è opportuno rivolgersi al sottotitolo che compare nella traduzione nederlandese (dal latino) del Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità. In tale sottotitolo, scritto non da Spinoza ma dal traduttore, un suo amico, si sostiene che il trattato è stato tradotto «a beneficio degli amanti della verità e della virtù, […] affinché i malati nell’intelletto siano guariti con lo spirito di mitezza e tolleranza, secondo l’esempio di Cristo, nostro miglior maestro» (Sottotitolo). In verità, nell’opera di Spinoza non si fa riferimento a Cristo; l’accostamento tra la dottrina del filosofo e la morale cristiana si deve unicamente al traduttore. Da qui, sottolinea Di Vona, risulta evidente «il tentativo di fare di Spinoza un cristiano, o di presentarlo come un cristiano» agli occhi della comunità intellettuale – un intento che «è dunque antico tra gli amici di Spinoza e risale alla sua giovinezza» (p. 10), vale a dire al tempo dei suoi esordi filosofici.

L’obiettivo degli amici-editori degli Opera Posthuma di Spinoza è anzitutto quello di «difendere la filosofia di Spinoza dalle principali obiezioni filosofiche che circolavano su di essa già a quei tempi» e «assolvono questo compito cercando di dimostrare che non c’è nessuna discrepanza tra le idee di Spinoza e la dottrina di Cristo e degli apostoli» (p. 11). Che l’intento degli amici di Spinoza fosse proprio questo, rileva lo studioso, emerge con chiarezza nella Prefazione a tali scritti. Costoro, tuttavia, non riconducono a sé l’idea che si dia una concordanza tra la filosofia spinoziana e gli insegnamenti di Cristo, ma asseriscono che tutto ciò appare evidente nella parte IV dell’Ethica.

Ed è qui che, per Di Vona, vi sarebbero alcune “anomalie” che portano a pensare ad un intervento sul testo spinoziano. In particolare, nello scolio della proposizione 68, si fa riferimento alla vicenda di Adamo ed Eva e si sostiene che l’uomo cessò di essere libero allorché cominciò ad agire come gli animali, ritenendo che fossero suoi simili; subito dopo, si afferma che la sua libertà fu recuperata dai Patriarchi «guidati dallo Spirito di Cristo, ossia dall’idea di Dio, dalla quale sola dipende che l’uomo sia libero e che desideri per gli altri uomini il bene che desidera per sé» (Prop. 68, Scolio).

Questo passo dell’Ethica di Spinoza risulta problematico per diverse ragioni. Innanzitutto, si deve osservare come esso sia il solo luogo del capolavoro spinoziano in cui si fa riferimento a Cristo – un fatto che «deve renderci molto vigili nel giudicarne il valore conoscitivo e l’attribuzione a Spinoza stesso» (p. 20). In secondo luogo, l’idea che lo Spirito di Cristo si sia, in un certo senso, manifestato ai Patriarchi contrasta con ciò che Spinoza afferma in altri luoghi della sua opera, nonché con ciò che scrive nel Tractatus Theologico-Politicus – un’opera pubblicata mentre costui era vivo, dunque impossibile da “correggere” per gli editori cristiani. Come mette in luce Di Vona, Spinoza, quando si riferisce a Cristo, allude sempre a «come visse e si manifestò in un dato tempo e in una certa regione della terra e non asserisce mai, né suppone mai, che prima che Abramo fosse Egli era (Giovanni, VIII, 58) […]. Cristo non parla, né si manifesta mai a uomini di un tempo passato, né Spinoza fa mai la supposizione ch’egli si fosse mai manifestato ad uomini del passato» (p. 36). Stando così le cose, «sembra evidente che», nella prospettiva spinoziana, «non si potesse avere lo Spirito di Cristo prima che Gesù Cristo fosse» (p. 37). L’identificazione dello «Spirito di Cristo» con l’«idea di Dio» presuppone la dottrina trinitaria cristiana, che fa coincidere Cristo col Verbo di Dio, e dunque con Dio stesso; in questa prospettiva, lo Spirito di Cristo è chiaramente precedente l’esistenza dell’uomo Gesù. Tuttavia, si tratta di un’idea inconciliabile con la concezione spinoziana del Dio-Natura, la quale, rigettando l’idea che Dio possa «diventare una res finita come Gesù» (p. 39), implica ovviamente la ferma negazione dei dogmi cristiani dell’incarnazione e dell’eucaristia.

La seconda ragione per cui il passo in questione appare estremamente dubbio emerge, secondo Di Vona, se lo si confronta con ciò che Spinoza scrive nel Tractatus Theologico-Politicus a proposito di Adamo e dei Patriarchi. Qui il filosofo «rigetta interamente la caduta di Lucifero, la caduta di Adamo e la sua conseguente riduzione allo stato di natura lapsa» (p. 43), ossia di natura decaduta; in generale, se è vero che il nome di Adamo compare in più luoghi dell’opera, è altresì vero che non si dice mai che in seguito alla sua caduta gli uomini si snaturarono e divennero animali. Per Spinoza «non c’è mai stata una natura lapsa, e tanto meno una riduzione di Adamo e dei suoi discendenti allo stato animale»: infatti, «l’intelletto di Adamo e dei suoi discendenti è rimasto integro e capace di condurre l’uomo alla libertà della mente ed a riconoscere l’eternità della mente, sebbene come noi fosse soggetto agli affetti e alle passioni» (p. 47). Per quanto concerne i Patriarchi, lo studioso osserva come dalla lettura del Tractatus risulti evidente che «per Spinoza […] ebbero, come tutti gli altri Ebrei, una conoscenza del Dio delle narrazioni sacre, non la conoscenza chiara e distinta dovuta al lume naturale» (p. 42). Essi non compresero dunque l’«idea di Dio» grazie allo Spiritus Christi, ma ebbero una concezione antropomorfica del divino identica a quella di ogni altro Ebreo.

Dato quanto emerge, secondo Di Vona è lecito concludere che la parte dell’Ethica in cui si allude alla caduta di Adamo e alla restituzione della libertà da parte dei Patriarchi «guidati dallo Spirito di Cristo, ossia dall’idea di Dio», sia «una aggiunta estranea di cristiani troppo zelanti nel vano intento di difendere Spinoza dall’accusa di empietà e di ateismo» (p. 47). Questo obiettivo è perseguito dai suoi amici per mostrare che le sue idee sono in linea con i racconti delle Sacre Scritture e per suggerire che la libertà umana, per costui, coincide con la libertà cristiana. Si spiega in questo modo la totale discordanza tra ciò che si afferma in quel luogo dell’Ethica e ciò che Spinoza sostiene nel Tractatus Theologico-Politicus. Poiché, come emerge in quest’opera, «non c’è mai stata una natura lapsa» a causa di Adamo, «non c’era nessun bisogno per il nostro filosofo che i Patriarchi, ignoranti e capaci solo di avere un’idea antropomorfica di Dio, grazie allo Spirito di Cristo identico alla “idea di Dio”, non si sa come ottenuti, venissero a restituire non si sa come la libertà della mente a uomini ridotti allo stato animale» (Ibidem). In conclusione, lungi dall’essere dovuta ad “errori” o “sviste” dello stesso Spinoza, questa discrepanza è dovuta ad un vero e proprio intervento esterno da parte degli editori.

A questo punto, è forse possibile chiedersi se vi fosse una “ragione profonda” dietro tale tentativo di “cristianizzazione” della filosofia di Spinoza compiuto dai suoi amici. Di Vona mette in luce come quest’implicita “apologia di Spinoza” non fosse soltanto volta a scagionarlo dalle accuse succitate, poiché mirava a dimostrare che «Spinoza aveva insegnato che gli ignoranti che avessero creduto e praticato l’insegnamento degli articoli della fede universale del capitolo XIV del Tractatus Theologico-Politicus, e li avessero seguiti nella loro vita, in morte per le promesse, il perdono e la grazia di Gesù Cristo avrebbero conseguito anch’essi l’eternità della mente» (Ibidem). Sembra dunque questa la “ragione profonda” alla base dell’interpretazione cristianeggiante degli amici: dimostrare che, secondo Spinoza, tutti gli uomini possono conseguire l’eternità della mente attraverso la fede.

L’idea che, per Spinoza, l’eternità della mente sia conseguibile da ogni uomo per mezzo della fede sembra, in effetti, sostenersi su ciò che si legge in alcuni luoghi della parte V dell’Ethica. Di Vona ricorda che al termine dello scolio della proposizione 20 il filosofo afferma di aver concluso la trattazione di ciò che ha a che fare con la vita presente, e che è giunto il momento di trattare ciò che riguarda la durata della mente, senza relazione con il corpo, mentre nello scolio alla proposizione 40 sostiene di aver esposto ciò che intendeva mostrare sulla mente «senza relazione all’esistenza del Corpo». Anche Spinoza, dunque, come i cristiani, pare ammettere l’idea di una durata della mente indipendente dal corpo. Non solo: nella proposizione 30 si afferma che la mente conosce «il Corpo sotto la specie dell’eternità», cioè il corpo come un elemento eterno. Si tratta di un’idea che sembra conciliarsi con quella della «resurrezione della carne» affermata dal Cristianesimo. Ma Spinoza – è giusto chiedersi – ha davvero sostenuto idee così affini a quelle su cui si fonda la religione cristiana?

Secondo Di Vona, anche in questo caso ci sono buoni motivi per pensare a delle aggiunte apocrife nel testo dell’opera. Se, ad esempio, si considera la proposizione 39, si può notare come Spinoza, in contrasto con quanto si legge negli scoli delle proposizioni 20 e 40, dichiari che il conseguimento dell’eternità della mente è possibile solo con un «Corpo atto a moltissime cose» (Prop. 39, Scolio). Non solo dunque non si parla di “durata della mente senza relazione con il corpo”, ma addirittura si sostiene che soltanto il possesso del corpo consente di conseguire l’eternità della mente. Inoltre, se è vero che nella proposizione 30 si parla di «Corpo sotto la specie dell’eternità», è altrettanto vero che in alcune proposizioni precedenti si parla invece di «idea che esprime l’essenza di questo e di quel Corpo umano sotto la specie dell’eternità» (Prop. 22), di «idea che esprime l’essenza del Corpo sotto la specie dell’eternità» (Prop. 23, Scolio) o di «essenza del corpo sotto la specie dell’eternità» (Prop. 29). Si passa così, in maniera graduale, dall’idea che la mente conosca “l’idea dell’essenza del corpo sotto la specie dell’eternità” a quella secondo cui la mente conosce l’“essenza del corpo sotto la specie dell’eternità” e, infine, all’idea che la mente conosca il “corpo” stesso come eterno.

Dinanzi a tali incongruenze, per lo studioso non è illecito supporre che gli editori fossero intervenuti su questi punti dell’Ethica proprio allo scopo di «difendere, per quanto era possibile e in accordo con la Prefazione delle Opere Postume, le idee cristiane dell’immortalità dell’anima e della resurrezione della carne» (p. 52). In questo modo, essi «misero il lettore di Spinoza nella necessità di ritenere che, se per avere l’idea di corpo nella durata occorre un corpo esistente in atto nella durata, come afferma Spinoza nel corollario della proposizione 8 della parte II dell’Ethica e nello scolio della proposizione 23 della parte V, allora per avere una idea di noi stessi nella eternità, occorre avere un corpo sub specie aeternitatis, e perciò lo premisero nella proposizione 30 alla proposizione 31 della parte V che afferma che la mente stessa è eterna» (Ibidem). Non fu dunque Spinoza a sostenere e insegnare tesi e idee che richiamano alcuni dogmi del Cristianesimo ma, al contrario, furono i suoi amici cristiani a “modificare” il suo capolavoro e ad “adattare”, per quanto possibile, il suo pensiero filosofico alla concezione cristiana del mondo. Intervenendo sull’Ethica e “avvicinando” Spinoza a tali dogmi, gli editori delle Opere Postume cercarono di attribuirgli l’idea che tutti gli uomini, compresi gli ignoranti, possono conseguire l’eternità della mente se aderiscono alla fede cristiana. Per effetto del loro intervento, Spinoza non appare solo come un autore cristiano, ma addirittura come un filosofo che chiarisce e insegna come il Cristianesimo rappresenti il “grande veicolo” in virtù del quale ciascun uomo viene condotto al conseguimento dell’eternità della mente.

Alla luce di quanto è emerso, è possibile comprendere che cosa abbia veramente detto Spinoza? Se l’idea che la religione cristiana costituisca il medium per conseguire l’eternità della mente non può essere ascritta a costui, com’è possibile che ciò avvenga? Chi, per Spinoza, può conoscere l’eternità della mente? Nel Tractatus Theologico-Politicus, com’è noto, egli sostiene che agli ignoranti che rispettano le regole e i dogmi della fede si aprono le porte della salvezza; tuttavia, ben altra cosa è il conseguimento dell’eternità della mente, come si evince da alcuni passi fondamentali dell’Ethica. Ciò è possibile soltanto a quei «pochissimi» che dispongono della «conoscenza intuitiva» (scientia intuitiva), cioè ai «sapienti», «cui Spinoza ha rivolto la dottrina della parte V dell’Ethica» (p. 105). Ad essi si contrappone la stragrande maggioranza del «volgo», cui appartiene chiunque sia schiavo dell’immaginazione, delle memoria e delle passioni. Stando così le cose, come potrebbero i cristiani conoscere l’eternità della mente? Essi compongono il «volgo» al pari di tutti coloro che ignorano la verità dell’essere – siano essi reggitori, nobili, dotti, filosofi o uomini comuni. Di Vona suggerisce, in conclusione, che la “difficilissima” conoscenza dell’eternità della mente abbia, nella prospettiva spinoziana, un carattere “esoterico”: essa, infatti, «intendere non la può chi non la trova. […] Spinoza ha potuto parlarne da filosofo, ma non può comunicarcela ed essa non è comunicabile. La consapevolezza dell’eternità non s’insegna e non si partecipa: “può tuttavia essere trovata”. Questo è tutto» (Ibidem).

L’analisi di Di Vona, condotta sulla base di una profonda conoscenza del pensiero di Spinoza, ha il merito di sollevare alcuni dubbi sulla formazione del suo capolavoro filosofico, arrivando a mettere in discussione l’autenticità di alcuni suoi punti e le interpretazioni della filosofia spinoziana che su di esso si reggono. In ogni caso, l’obiettivo del presente saggio non è quello di negare l’importanza storica della lettura data dagli amici del filosofo: «con la Prefazione» agli Opera Posthuma, infatti, «comincia lo Spinozismo e l’interpretazione cristiana di Spinoza, destinata a un lungo avvenire» (p. 14); né – è bene ripeterlo – è quello di «infirmare il testo che ci è pervenuto» (p. 5): come ammette lo stesso studioso, «bisogna saper distinguere il testo definitivo che ci è pervenuto, dalla sua formazione, perché esso appartiene ormai da secoli alla storia della cultura filosofica moderna» (p. 48). Nondimeno, l’immagine di Spinoza che emerge dalla sua analisi è diversa da quella tramandata da una lunga tradizione di studi, ed è per questa ragione che non sembra scorretto considerare il presente studio un possibile nuovo punto di partenza per una reinterpretazione della sua filosofia.

Alessandro Dignös
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Alessandro Dignös – Il libro di Luciano Canfora «Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci». Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia.
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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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