«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
La formazione dell’ideale filosofico costituisce un momento di grande importanza nella storia dell’etica greca e forma il vincolo più intimo ed essenziale di continuità sia tra la riflessione morale più antica e l’indagine naturalistica che caratterizza fin da principio la filosofia presocratica, sia, più tardi, fra questo naturalismo e l’umanesimo di Socrate. Secondo l’idea tradizionale derivata da Cicerone, la filosofia, che fino allora avrebbe rivolto al cielo la sua contemplazione, con Socrate soprattutto, l’abbasserebbe verso la terra e l’uomo. In realtà, anche l’interesse conoscitivo verso la natura che appare al principio della filosofia greca ubbidiva a motivi essenzialmente umani, costituiti soprattutto da un’esigenza profondamente etica e religiosa, che sorgeva da un nuovo concetto dell’uomo e del suo fine. Per la tradizione anteriore l’uomo, mortale e limitato, doveva pensare unicamente cose umane, cioè limitate e mortali, rinunciando alle divine, che si dichiaravano privilegio degli dèi, difeso dalla loro gelosia. Nell’attribuire all’uomo la capacità di pensare alle cose divine, e nel farlo in tal modo partecipe del divino, convertiva in un’obbligazione sacra per lui quello che la saggezza anteriore gli vietava come insolenza (hybris) ed empietà. La filosofia pertanto diviene per i moralisti greci la forma più eccellente ed efficace di purificazione spirituale (catharsis); e l’attività del filosofo rappresenta – come ci mostra nella Repubblica platonica l’allegoria della caverna – una missione di illuminazione e liberazione. Socrate personificò questa missione, nella sua vita e nella sua morte.
I libri non hanno solo un proprio destino: talvolta possono essere destino.
Jean Améry
Come vive un intellettuale la propria condizione di uomo dello spirito nel luogo dell’anti-spirito per eccellenza che fu il Lager? Con uno stile a metà tra il saggio e la narrazione, Daniele Orlandi ripercorre la vicenda umana e culturale di Jean Améry, filosofo e scrittore, fra i più alti testimoni dello sterminio nazista, morto suicida nel 1978.
Daniele Orlandi è nato a Roma, dove vive, nel 1977. È dottore di ricerca in “Cultura e territorio”. Con Petite Plaisance ha pubblicato: Matricola 76613. Il Mauthausen dimenticato di Aldo Valcarenghi (2015). Ha curato i volumi La Farfalla, versi rubati a Sante Notarnicola (2015) e B. Guidetti Serra, Primo Levi, l’amico, (2016). Nel 2017 esce la sua prima opera narrativa: T. Lettera a una madre sul primo amore.
Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune.
Prefazione di M. Stella: La storia incantata. Diego Lanza narratore e antropologo dello ‘stolto’. Postfazione di G. Ugolini: Del ridere e del conoscere: la stultitia secondo Diego Lanza.
ISBN 978-88-7588-255-6, 2020, pp. 448, , Euro 35 – Collana “Il giogo” [118].
Socrate, Till Eulenspiegel, Pinocchio, ma anche Solone, Bruto, i profeti di Israele, Bertoldo, Giufà, i «santi folli» di Bisanzio … Sono innumerevoli i personaggi che trasgrediscono il senso comune; figure spesso ridicole, ma portatrici tutte di verità inquietanti di cui la ragione dominante diffida, delle quali tuttavia non può fare a meno. Ciò che si mantiene nella fiaba, nel romanzo, nella letteratura filosofica e religiosa non è tanto la fisionomia dell’insensatezza quanto il suo rapporto conflittuale di esclusione/complementarietà con la ragione, con il sistema dei valori etici e affettivi accettati come fondamentale norma di convivenza. Lo stolto e la stoltezza non costituiscono un elemento chiaramente definibile e persistente della tradizione culturale europea, un topos, ma piuttosto un’incognita alla quale ogni volta si attribuisce ciò che disturba il senso comune. È il senso comune, cioè la razionalità riconosciuta da ciascun assetto sociale come sua propria, che stabilisce quel che deve apparire ripugnante, ridicolo, riprovevole. La figura dello stolto e l’immagine della stoltezza mutano perciò a misura dei cambiamenti del senso comune e della razionalità che le definiscono, serbando tuttavia, di mutamento in mutamento, importanti tratti del passato. Il viaggio intrapreso alla riscoperta delle molte e molto differenti raffigurazioni dello stolto conduce a interrogarci sul difficile ma tenace equilibrio che governa il gioco tra verità e riso, scherzo e ragione.
La mia (vera) casa assomiglia sempre di più ad una “casa di carta”. Ilaria Rabatti
Carlos María Domínguez, La casa di carta, Sellerio, 2011
«…il lettore è un viaggiatore che si muove in un paesaggio già scritto. Un paesaggio infinito. L’albero è già stato scritto, e la pietra, e il vento fra i rami, e la nostalgia di quei rami e l’amore cui prestarono la loro ombra. E non conosco gioia più grande che percorrere, in poche ore, un tempo umano che altrimenti mi sarebbe estraneo… Non basta una vita… una biblioteca è una porta nel tempo». (C. M. Domínguez)
Nella mia vita di appassionata lettrice ho maturato la certezza che un buon libro lascia sempre al lettore l’impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale.
Sarà forse perché amo respirare l’aria dei libri, o perché, col passare degli anni, la mia (vera) casa assomiglia sempre di più ad una “casa di carta”, che ho trovato folgorante il racconto, a tratti surreale, a tratti amaramente ironico, dello scrittore argentino Carlos María Dominguez, La casa di carta, scritto nel 2002, ma tradotto e pubblicato in Italia da Sellerio solo dopo un decennio, nel 2011. Attraversa la storia – che è anche un viaggio intorno al leggere – una tensione in forma di domanda, comune, mi pare, a tanta parte della letteratura argentina più recente (da Borges, a Manguel, a Piglia) sulla natura e l’essenza misteriosa del lettore.
Il protagonista indiretto della narrazione, Carlos Brauer, è un personaggio indimenticabile, con una totale aspirazione all’intimità e all’isolamento creativo. Lettore “puro”, assoluto (qualcuno lo definirebbe, troppo facilmente, compulsivo), egli intende il leggere non solo come un’attività, ma come una forma di vita che è al contempo difesa dalla vita e rifugio di fronte all’ostilità del mondo.
Ma Carlos Brauer è anche un geniale costruttore di cataloghi. Arrivato a raccogliere nella sua casa più di ventimila volumi, egli si porrà il problema della gestione e della disposizione dei libri nella sua biblioteca, risolvendo la “spinosa” questione delle “affezioni” – ovvero, mai collocare vicine le opere di autori che non si sopportano, come Borges e García Lorca; Marlowe e Shakespeare; Martin Amis e Julian Barnes; Vargas Llosa e García Márquez – elaborando un sistema aperto, basato sui numeri frattali, con cui poter modificare in ogni momento la collocazione dei volumi secondo criteri dinamici, ma ipotetici, «perché in fin dei conti nulla è più volubile delle valutazioni letterarie».
Sarà la drammatica (e metaforica) perdita in un incendio del catalogo – efficace ed ordinata sintesi, per tutti noi bibliofili, della realtà, la mappa che ci guida nella confusione della vita – a modificare definitivamente le sue prospettive e ad indurlo a trasferirsi, con i suoi libri, in un luogo sperduto «senza mezze tinte, né anestesia, né distrazioni, né consolazione» ai confini del mondo, sulla spiaggia di Rocha (Uruguay), dove poi maturerà la scelta con cui riscatterà la sua esistenza…
Il racconto, di cui volutamente taccio l’epilogo per non togliere al lettore il gusto della sorpresa finale, è innescato da una breve storia d’amore vissuta dal protagonista, di cui resta traccia in una dedica sul frontespizio di una copia de La linea d’ombra di Joseph Conrad, romanzo che mi pare splendidamente evocare un altro tema centrale della storia di Domínguez: quello del passaggio alla maturità del protagonista che si configura con il superamento della “propria” linea d’ombra attraverso un atto di amore estremo e assoluto.
Il capitalismo in quanto nichilista è flessibile, si adatta ad ogni contesto pur di sopravvivere
di S. Bravo
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Il testo di Fabrizio Marchi, Contromano. Critica dell’ideologia politicamente corretta, scompagina stereotipi e dogmatismi del nostro tempo. Il progresso e l’illuminismo sono la religione non riconosciuta dell’Occidente. Lo scientismo laicista, epifenomeno dell’illuminismo, ha fondato la religione della merce, poiché ha eroso ogni fondamento veritativo fino al trionfo del capitalismo e della mercificazione assoluta. Affinché la merce possa capillarmente diffondersi è necessario rimuovere ogni limite, per cui dietro la retorica dei diritti civili non si cela che il cannoneggiamento del capitale che rimuove ogni comunità, ogni identità e tradizione. Il capitalismo laicistizzato[1] ha raggiunto l’apogeo della sua espansione e della colonizzazione delle menti. La mercificazione totale necessita di essere puntellata da miti (femminismo, teoria gender, laicismo, diritti civili senza diritti sociali) che risultano essere i dogmi della liturgia del capitale. Non vi è nel testo di Fabrizio Marchi nostalgia per il passato, ma la passione per la verità che necessita di sottoporre a critica costruttiva i dogmi di una società che proclama la libertà e l’emancipazione e nello stesso tempo impedisce la dialettica e la discussione su se stessa. Discutere dei miti dell’Occidente, oggi, è praticamente impossibile; l’Occidente proclama la morte delle ideologie per nascondere il trionfo dell’ideologia della merce: con tale operazione il capitale si ritrae da ogni confronto dialettico. Il progresso è tale se non si trasforma in mito fondativo, per cui tra le pieghe delle merci riemergono nuovi fascismi[2], in forme che bisogna imparare a riconoscere. Il fascismo non ha più la forma del ventennio e del franchismo, ma ricompare e si struttura nel dogma dell’emancipazione, nell’eliminazione e rimozione del maschile, in quanto archetipo del limite, nel disprezzo verso la famiglia tradizionale, la quale è realmente, malgrado i suoi umani limiti, un baluardo contro la mercificazione. Non si tratta di essere ostili alle “famiglie plurali”, ma se si concentra l’attenzione e si inneggia solo alle famiglie liquide o non tradizionali, è palese che le famiglie arcobaleno sono la testa d’ariete con cui il capitale attacca ogni spazio sociale ed affettivo liberato dai processi di mercificazione. Le relazioni liquide ed instabili educano al consumo[3], allo scambio veloce, ed oggi tali rapporti sono additati come esempio di massima ed indiscutibile libertà, perché confermano il valore di scambio. Il progresso deregolamentato giustifica l’utero in affitto come conquista rivoluzionaria, esso in realtà è l’espressione massima della mercificazione della vita e della negazione all’identità. Fabrizio Marchi porta il lettore a considerare il punto di vista del bambino: si immagini i sentimenti ed il dramma di un bimbo che sa di essere stato il prodotto di un contratto tra venditrice e compratore[4].
Un nuovo sguardo sul mondo Lo sguardo noetico e noematico sul mondo ci deve invece indurre a stimare positivamente le resistenze al capitale. Si può essere atei, come afferma di essere Fabrizio Marchi, e ciò malgrado avere stima della religione e della spiritualità, poiché ad esse Marchi riconosce il merito di porre al centro la comunità e specialmente ci si può ritrovare sulle domande profonde sulla vita, pur non condividendo le risposte. Non ci si può approcciare alla religione secondo schemi marxiani, in quanto è mutato il contesto, per cui bisogna imparare a giudicare in modo critico, non applicando formule stantie, ma valutando i mutamenti strutturali e sovrastrutturali. Anche la libertà erotica è un dogma dell’Occidente, le donne liberate dal giogo maschile in realtà, non vivono una sessualità liberata, ma mercificata, le donne appaiono libere e disinibite, ma in realtà usano il loro corpo per sedurre e fare carriera. E’ una sessualità legata all’utile, per cui anche dietro questo mito vi è l’azione alienante del capitale[5]. Il femminismo ha la sua genetica all’interno del capitale, esso prepara la liberazione colpevolizzando il maschio al fine di scardinare ogni limite alla circolazione della merce. La sessualità divenuta merce di scambio, simbolo della libertà, insegna il cinismo dell’utile e l’atomismo sociale. La sessualità liberata, invece, dev’essere emancipata da carrierismi, narcisismo e logoramento dell’utile. Per poter rifondare una nuova sinistra comunista è indispensabile passare attraverso dogmi e recinti ideologici, in cui la sinistra si è chiusa con l’effetto di essere diventata organica al sistema capitale. Quest’ultimo è colto da Fabrizio Marchi nella sua verità, ovvero il capitalismo in quanto nichilista è flessibile, si adatta ad ogni contesto pur di sopravvivere[6]:
“Se la storia ci ha dimostrato qualcosa, è che il capitalismo è un sistema (rapporto di produzione) e un’ideologia (accumulazione illimitata del capitale e forma merce elevata a feticcio e oggi “assolutizzata”, cioè capace di occupare ogni spazio non solo dell’agire umano ma dell’umano stesso) estremamente flessibile, in grado di coniugarsi, come dicevo, con qualsiasi contesto storico e culturale”.
Su queste parole dovremmo riflettere, per imparare a decodificare le metamorfosi del capitalismo. Si deve aumentare notevolmente la capacità qualitativa di filtraggio delle metamorfosi del capitale per congedarci da esso ed il testo di Marchi, in tal senso, è un valido ausilio critico.
[…] la lettura è una forma di amicizia. Ma almeno è un’amicizia sincera, e il fatto che si rivolga a un morto, a un assente, le dà qualcosa di disinteressato, quasi di toccante. Per di più è un’amicizia sgombra da tutto ciò che fa la bruttezza delle altre. Siccome tutti noi, noi vivi dico, non siamo altro che morti non ancora entrati in funzione, tutti i convenevoli, tutti i salamelecchi da anticamera che chiamiamo deferenza, gratitudine, dedizione, e in cui infiliamo tante menzogne, sono sterili e faticosi […]. Nella lettura, l’amicizia è subito riportata alla sua primitiva purezza. Verso i libri, nessuna cortesia. Con questo genere di amici, se passiamo la serata insieme, è perché ne abbiamo davvero voglia. Sul serio, il più delle volte, li lasciamo solo a malincuore […]. Tutte le inquietudini dell’amicizia vengono meno sulla soglia di quell’amicizia pura e serena che è la lettura. Nessuna forma di deferenza, tra l’altro. Ridiamo di ciò che dice Molière solo nell’esatta misura in cui lo troviamo buffo […] e quando ne abbiamo decisamente abbastanza di stare con lui, lo rimettiamo a posto senza tanti complimenti, come se non avesse né genio né celebrità.
Marcel Proust, Il piacere della lettura, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 77-83 .
Questi uomini rozzi si meravigliano ch’io osi disprezzare le delizie ch’essi considerano beni supremi, e non comprendono né la mia felicità né quel piacere che mi danno alcuni amici segreti, che da tutte le parti del mondo ogni età m’invia, amici illustri per lingua, ingegno, guerre, facondia; amici non difficili, che si contentano di un angolo della mia modesta casa, che nessuna mia domanda rifiutano, che premurosi mi assistono e non mai mi danno fastidio, che se ne vanno a un mio cenno e richiamati ritornano. Ora questi, ora quelli io interrogo, ed essi mi rispondono, e per me cantano e parlano; e chi mi dà ottimi consigli per la vita e per la morte, chi narra le sue e le altrui chiare imprese, richiamandomi alla mente le antiche età. E v’è chi con festose parole allontana da me la tristezza e scherzando riconduce il riso sulle mie labbra; altri m’insegnano a sopportar tutto, a non desiderar nulla, a conoscer me stesso, maestri di pace, di guerra, d’agricoltura, d’eloquenza, di navigazione; essi mi sollevano quando sono abbattuto dalla sventura, mi frenano quando insuperbisco nella felicità, e mi ricordano che tutto ha un fine, che i giorni corron veloci e che la vita fugge.
Francesco Petrarca, Rime. Trionfi e poesie latine, a cura di F. Neri, G. Martellotti, E. Bianchi e N. Sapegno, Ricciardi, Milano-Napoli 1951, traduzione e cura del testo di E . Bianchi.
José Ortega y Gasset ci aiuta a riscoprire la concentrazione, il «theoretikós bíos» dei greci, la theoría. Così l’uomo si sottrae alla pervasività dell’eccesso di stimoli, ritorna a vivere la pienezza del tempo del pensiero, ad immergersi nel mondo per agire in esso secondo un progetto
Differenza nell’unità Siamo ad un bivio nella storia dell’umanità: è in atto una mutazione antropologica. L’essere umano è creatura progettante, storicamente teleologica, la cui vita è segnata dal passaggio dalla potenza (dynamis) all’atto (enérgheia ed entelécheia), oggi è minacciata dall’inautenticità afasica. Ogni esistenza autentica si intreccia alla comunità, luogo in cui aristotelicamente «l’albero diviene fiorito», è possibile l’esplicarsi dell’umanità. L’umanità è condizione ontologicamente processuale. Si diventa umani se la comunità tutta accoglie la vita, partecipando alla sua libera realizzazione. Il bene del singolo è dunque speculare al bene della comunità. Sono due volti della stessa medaglia, olisticamente l’uno speculare all’altro. Ciascuno è portatore di un talento irripetibile, anche semplice, ma prezioso per lui/lei stesso/a e per la comunità vivente tutta. La vita è differenza nell’unità, e la comunità è l’epifenomeno e fondamento di tale condizione ontologica. Tale dimensione, sempre ideale ed in itinere, necessita del pensiero, della vita attiva, del tempo del pensiero. L’autenticità presuppone la comunità che ha posto l’attività del pensiero, quale suo fondamento. L’autenticità dell’esistenza ha una precondizione imprescindibile, la possibilità di sottrarsi ai cicli della produzione (i quali sono il mezzo e non il fine), per poter creare strutture di pensiero autonome attraverso le quali definire il progetto vitale personale e comunitario. La riflessione sottratta alla stimolazione perenne muove alla domanda, che è anche un imperativo etico ineludibile di ogni essere umano “Conosci te stesso”. Il detto iscritto sul tempio di Delfi, indicava agli uomini la ricerca di sé attraverso la consapevolezza del limite.
Pensiero ed umanità La concentrazione sottrae gli esseri umani alla pervasività dell’eccesso di stimoli, per riportarli a vivere la pienezza del tempo del pensiero. La contemporaneità invece ci mette dinanzi ad una mutazione inquietante: la concentrazione è ritenuta un limite negativo, positivo è solo l’uomo del fare fine a se stesso. Da ogni parte politica si fa appello all’uomo del fare, mai all’uomo che pensa. Il pensiero mette in una condizione di paura, lo si ostracizza. Le riforme nell’ambito dellascuola si abbattono sulla formazione curvandola al solo fare automatico. Risuonano – nella mistificazione della neolingua – gli inni al concreto inteso in senso meramente pragmatico. Tale mutazione antropologica si esplica nella logica dell’azienda estesa ad ogni settore: dalla scuola alla sanità. La comunità stessa dovrebbe avere come obiettivo il pareggio di bilancio, non l’accoglienza degli esseri umani, i quali fungono da mezzo per la parità di bilancio. In tale contesto di attivismo vitalistico-nichilistico, l’essere umano deve rinunciare alla rappresentazione mediata della dialettica, per essere corpo meccanico in attività perenne.
Ortega Y Gasset e la scimmia Ortega Y Gasset, ha ben colto la mutazione in atto. Il filosofo spagnolo riporta l’esempio della scimmia. Guarda in uno zoo le scimmie. Esse sono in perenne attenzione ad ogni stimolo, vivono in un fuori perenne, pronte a cogliere ogni messaggio, ma sono contenitori passivi; tra lo stimolo e la risposta è assente la mediazione del pensiero. La loro vita si esplica in un perenne atto meccanico, che non lascia loro tregua, sempre in difesa o in attacco a seconda dello stimolo. Ad Ortega Y Gasset sembra che l’umanità, sotto l’effetto del fare, della stimolazione tecnica, stia regredendo, poiché sta rinunciando a ciò che la distingue dalle scimmie, a ciò che con fatica ha acquisito durante l’evoluzione biologica: la concentrazione. Le scimmie vivono in uno stato di continua alterazione. L’umanità, all’epoca del prometeo scatenato, del turbocapitalismo sta diventando sempre più simile alle scimmie. La comunità intera invita, incita, spinge all’uso. La comunità – che non è più tale – è un immenso potentato economico, in cui l’essenziale è vendere per usare e consumare, in un eterno ciclo. Questa nuova forma di totalitarismo non riconosciuto, sta delineando un nuovo essere umano: la scimmia tecnologica, in perenne attività oculo-manuale. Si guardino le nostre strade. Ovunque giovani e non, anche in uno spazio pubblico, si esibiscono nell’uso delle tecnologie. Non si guarda veramente, non si fa attenzione allo sguardo dell’altro, alla povertà materiale ed alle miserie morali che sono sempre più palesi. Si vede senza guardare, l’attenzione percettiva è orientata su dettagli ed automatismi, e pertanto la verità si ritira dall’orizzonte cognitivo. Passeggiare è sempre stato il momento meditativo con se stessi e con gli altri. Si pensi al peripato, come alla scuola pitagorica. Ora invece, è il luogo dove il mondo scompare, al suo posto vi è lo schermo del desktop. L’attenzione è nella risposta immediata allo stimolo, in tal modo il logos è sostituito dall’automatismo. Naturalmente il “γνῶθι σαυτόν”(Conosci te stesso) è il vero nemico assoluto del turbocapitalismo. Esso spinge verso la “scimmia”. Occorre cominciare ad interrogarsi collettivamente, se si è per le tecnologie o esse per noi. L’animale è consegnato alla servitù delle cose, mentre l’essere umano – tramite la concentrazione – sospende la signoria delle cose per pensarsi e pensarle; è questa la sfida antropologica del nostro presente e che segnerà il futuro di tutti. Dobbiamo scegliere se essere “umani o nuove scimmie”:
«L’uomo si trova, non meno dell’animale, consegnato al mondo, alle cose intorno, alla circostanza. All’inizio la sua esistenza differisce appena da quella zoologica: anche lui vive governato da ciò che lo circonda, inserito fra le cose del mondo come una di esse. Senza dubbio non appena gli esseri intorno gli lasciano un po’ di respiro, l’uomo facendo uno sforzo gigantesco, ottiene un attimo di concentrazione, si mette dentro se stesso, vale a dire mantiene a fatica la sua attenzione fissa sulle idee che spuntano dentro di lui, idee che le cose hanno suscitato e che si riferiscono al loro comportamento, a ciò che poi il filosofo chiama “la sostanza delle cose”. Si tratta intanto di una idea molto grossolana sul mondo, che però permette di abbozzare un primo piano di difesa, una condotta prestabilita. Ma né le cose intorno gli consentono di rimanere a lungo in questo stato di concentrazione, né, anche se quelle lo consentissero, sarebbe capace quest’uomo primitivo di prolungare più di alcuni secondi o minuti quella torsione speculativa, questa attenzione fissa sugli impalpabili fantasmi che sono le idee. Questa attenzione verso l’interiorità, che è l’ensimismamiento, è il fatto più antinaturale ed extrabiologico. L’uomo ha tardato millenni e millenni nell’educare un po’ ‐ niente più che un po’ ‐ la sua capacità di concentrazione. Quello che gli riesce naturale è sviarsi, sviarsi verso ciò che è l’esterno, come la scimmia nella selva e nella gabbia dello zoo. Il Padre Chevesta, esploratore e missionario, che è stato il primo etnografo specializzato nello studio dei pigmei, probabilmente la varietà di uomini ‐ come si sa ‐ più antica che si conosca e che è andato a cercare nelle selve tropicali più nascoste, il Padre Chevesta, che ignora completamente la dottrina da me ora esposta e si limita a descrivere ciò che vede, dice nella sua ultima opera del 1932, riguardo ai nani del Congo: “Manca loro totalmente la facoltà di concentrarsi. Sono sempre assorbiti dalle impressioni esteriori, il cui continuo cambiamento, impedisce di raccogliersi in se stessi, che è la condizione inevitabile per ogni apprendistato. Metterli a sedere al banco di una scuola, sarebbe per questi ometti un tormento insopportabile, perciò il lavoro del missionario e del maestro si fa particolarmente complicato” [Bambutti, die Zwerge des Congo]. Però, sebbene istintivo e rozzo questo primitivo atto di concentrazione va a separare radicalmente la vita umana dalla vita animale, perché ora l’uomo, questo uomo primigenio, va ad immergersi di nuovo nelle cose del mondo contrastandole senza consegnarsi a loro completamente. Ha un piano contro di loro, un progetto di relazione con loro, di manipolazione delle loro forme, che produce una minima trasformazione intorno a lui, quanto basta perché lo opprimano un po’ meno e di conseguenza, gli permettano più frequenti e profondi aumenti di concentrazione… e così via. Sono dunque tre momenti differenti che ciclicamente si ripetono nel corso della storia umana in forme ogni volta più complesse e l’uomo con uno sforzo energico si ritira nella sua intimità, per formarsi idee riguardo le cose e il loro possibile dominio; è la concentrazione, la vita contemplativa, di cui parlavano i romani, il theoretikós bíos dei greci; la theoría; l’uomo torna ad immergersi nel mondo, per agire in esso secondo un piano prestabilito; è l’azione, la vita activa, la praxis».[1]
Un mondo di scimmie
Un mondo di “scimmie” perennemente in attività, estranee all’attività del pensiero è un mondo senza politica e senza speranza: solo attività senza concentrazione. La società della sorveglianza, con i suoi inesauribili meccanismi di condizionamento – dalla neuro-economia alle neuroscienze – cela il sogno distopico: eliminare dalla storia la variabile incontrollabile della coscienza, addomesticarla per renderla organica al sogno (incubo) di una società umana sempre più simile ad un mondo di insetti gerarchizzato per funzioni. La morte di dio, metaforicamente della verità, comporta il facile trionfo delle scimmie, poiché se non vi è verità, regnano i mezzi che vampirizzano l’essere umano. La sorveglianza digitale isola, atomizza, ed impedisce il pensiero, in quanto l’esperienza della solitudine, del ritirarsi dal chiasso del mondo per concettualizzare, è ostacolata dalla continua invasione mediatica:
«Le attività mentali e, come si vedrà in seguito, in primo luogo il pensare – il dialogo senza voce dell’Io con se stesso – possono essere comprese come l’attuazione di quella dualità o scissione originaria tra me e me stesso che è inerente alla coscienza».[2]
La coscienza pone la storia, la devia, la rende imprevedibile, e pertanto inquieta il totalitarismo del nuovo capitalismo che racchiude nel suo grembo la perversa religione del controllo. Solo mutando gli esseri umani in scimmie tecnologiche, il nuovo capitalismo può aspirare a realizzare il “suo sogno”. Pertanto più fortemente bisogna opporre alla barbarie tecnologica che avanza la trasgressione della coscienza. La resistenza civile contro il disumano che avanza è l’imperativo a cui non ci si può sottrarre.
Salvatore Bravo
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[1] Ortega Y Gasset, Ensimismamiento y alteración, Obras completas, Alianza, Madrid 1987, traduzione di Alessandra Costa .
[2] Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 2009, pag. 157.
Vorrei chiarire qualche aspetto del rapporto tra Bobbio e Costanzo Preve (1943-2013), con il quale ho avuto un legame di lunga data, che a tratti si è incrinato ma che si è sempre riannodato e mantenuto fino alla fine[1].
Preve, per molti decenni docente in un liceo torinese e filosofo marxiano autore di molti libri tradotti in varie lingue, fu impegnato politicamente nella sinistra, dal PCI a Lotta Continua a Democrazia proletaria. Negli ultimi decenni reagì alla cosiddetta “crisi del marxismo” con il programma di ricostruire una filosofia di ispirazione marxiana che si congedasse non solo dai marxismi – rimanendo però legato all’ontologia dell’essere sociale di Lukács e anche ad alcune nozioni di Althusser – ma anche dalla sinistra, nel senso che si sentiva del tutto alieno dagli schieramenti politico-ideologici tradizionali (dal 1992 non votava più alle elezioni politiche). Così – nonostante i riconoscimenti italiani e internazionali[2] – finì di trovarsi a Torino in un progressivo isolamento di cui spesso si lamentava, benché avesse un folto gruppo di giovani amici e di allievi affezionati, alcuni dei quali hanno raccolto saggi sul suo pensiero per riproporlo e svolgerne alcuni motivi dopo la sua scomparsa[3]. I suoi libri furono pubblicati da piccole case editrici (soprattutto, prima dall’editore Vangelista di Milano, poi dalla CRT di Pistoia, diventata in seguito Petite Plaisance), ma nel 2004 uno dei suoi libri più elaborati uscì presso Bollati Boringhieri: Marx inattuale. Eredità e prospettiva. Dopo la morte prematura del coordinatore editoriale Alfredo Salsano (1939-2004), che nel 2003 gli aveva anche affidato la introduzione della ristampa del saggio di Günther Anders L’uomo è antiquato, la casa editrice torinese non accettò le altre proposte di Preve. Negli ultimi anni Costanzo non perdeva occasione per ribadire la sua estraneità rispetto all’ambiente politico-culturale della sinistra torinese, sia quella di matrice operaista e movimentista, sia quella che si rifaceva al riformismo liberaldemocratico (ed è noto che a Torino tra i due filoni ci sono state varie mescolanze). Ma ce l’aveva più con gli allievi che con il maestro. Il suo rapporto con Bobbio era stato coinvolgente e profondo e ci fu una autentica amicizia tra i due, testimoniata anche dal fatto che Bobbio si faceva dare del tu da un interlocutore di oltre trent’anni più giovane. Preve racconta che conobbe Bobbio e ne fu affascinato nell’anno accademico 1962-63 quando seguì un suo seminario sulla pace e la guerra. Allora Preve era iscritto alla Facoltà di giurisprudenza; poi cambiò facoltà e andò a studiare all’estero, a Parigi, a Berlino, ad Atene. Tornato a Torino – a laurearsi in storia sotto la guida di Alessandro Galante Garrone per poi insegnare storia e filosofia nei licei – frequentò regolarmente Bobbio dalla metà degli anni Settanta e collaborò attivamente al Seminario Etica e politica iniziato nel 1980 presso il Centro studi Piero Gobetti, che fu per molti anni un luogo di discussione molto vivo con Bobbio, coordinato da Pietro Polito e Marco Revelli. Ebbe inoltre con il filosofo un importante scambio su Marx e il marxismo uscito su «Teoria politica» nel 1992-93, a proposito del libro Il filo di Arianna. Quindici lezioni di filosofia marxista (Vangelista editore, Milano 1990). La recensione di Bobbio e il carteggio che ne seguì furono poi riportati integralmente da Preve in Le contraddizioni di Norberto Bobbio (CRT, Pistoia 2004)[4], che però non mi pare tra i suoi libri migliori, sembrando spesso indeciso tra l’affetto e l’apprezzamento dei meriti di Bobbio, e la volontà di rimarcare la presa di distanza teorico-politica. Da notare il sottotitolo Per una critica del bobbianesimo cerimoniale. All’indomani della morte del filosofo, Preve era irritato per le celebrazioni che gli facevano temere una monumentalizzazione acritica. Quindi voleva esprimere francamente nel libro i punti di contatto e di dissenso. Bobbio stimava molto Preve, riconosceva la sua competenza su Marx e la sua padronanza della sterminata letteratura marxista in varie lingue (in effetti le appendici dei suoi libri che contengono bibliografie ragionate sono una miniera di informazioni e di giudizi spesso acuti). Gli piaceva anche il suo modo netto e chiaro di porre le questioni. Questo modo apparteneva anche a Bobbio, che però non approvava le intemperanze verbali di Preve, spesso condite da veri e propri improperi nei confronti degli avversari – e anche dei vicini – in cui il maestro torinese vedeva un vizio storico dei marxisti. C’era una profonda differenza di atteggiamento: Preve era portato alle esagerazioni “estremistiche”, ai paradossi, all’uso delle maiuscole; Bobbio all’accumulo delle distinzioni, delle domande e dei dubbi, alla comprensione delle ragioni dell’avversario, all’uso delle minuscole. Bobbio comunque non insisteva sugli eccessi polemici che appartengono allo stile di Preve, da cui pensava che non bisognasse lasciarsi distrarre, se si vuole venire in chiaro dei consensi e dei dissensi. Sul piano del metodo, Preve apprezzava di Bobbio quella che definiva «l’etica della comunicazione» rivolta non già alla persuasione retorica ma alla determinazione pubblica di antinomie e di problemi che in questo modo vengono chiariti, ciò che Preve chiamava il socratismo di Bobbio. Ma anche sulla chiarezza bobbiana Preve aveva delle riserve e sottolineava che questa ha un prezzo, perché il metodo dicotomico di Bobbio si basava, a suo avviso, su un approccio aprioristico-trascendentale di tipo kantiano e sulla costruzione di modelli idealtipici che con difficoltà si applicano poi alla realtà storico-sociale. Sul piano dei contenuti, Preve dichiarava di accettare pienamente la lezione di Bobbio sul nesso inscindibile tra libertà formali e sostanziali (anche se poi accumulava i se e i ma sulle “libertà formali” e diceva di preferire la Cuba castrista e la Cina autoritaria rispetto alle ipocrite liberaldemocrazie occidentali). Respingeva soprattutto quello che chiamava il «bobbianesimo forte», e in particolare tre tesi:
a) La dicotomia fra destra e sinistra. Secondo Preve, la dicotomia proposta da Bobbio nel fortunato libretto del 1994 ha un significato empirico-storico ma non un significato teorico. Marx, che era indubbiamente di sinistra, è il pensatore della libera individualità e non dell’eguaglianza, e dunque non rientra negli schemi di Bobbio; Heidegger, indubbiamente di destra, fa capire il capitalismo più di Engels, indubbiamente di sinistra, e via dicendo. Al di là dei paradossi, la dicotomia è inutilizzabile se quello che conta è l’anticapitalismo radicale. Questo in fondo è il metro che interessava Preve, il quale dava per defunta la sinistra ed era disposto anche a dialogare con i settori anticapitalistici della destra e a pubblicare alcuni libri presso case editrici di estrema destra, adducendo la ragione che lui era un libero filosofo e l’unica condizione che poneva era di non subire alcuna censura. Era inutile ricordargli che il contesto qualifica almeno in parte il discorso e che le convergenze con un certo anticapitalismo di destra sembrava giustificare la polemica di chi vedeva confluire gli “opposti estremismi”. Il comunitarismo di cui si faceva teorico era però lontano da quello dei gruppuscoli della destra anti-imperialista. In Verità e Relativismo. Religione, scienza, filosofia e politica nell’epoca della globalizzazione (Alpina, Torino 2006) e nell’Elogio del comunitarismo (Controcorrente, Napoli 2006) nel complesso Preve sosteneva un comunitarismo contrario all’individualismo liberal-liberistico ma anche alle alternative organicistiche e anti-universalistiche tipiche della destra[5].
b) Il contrasto tra laicismo e religione. Preve proclamava “la bancarotta” del pensiero laico e razionalistico di derivazione illuministica e dichiarava più religiosa la società capitalistica di quella medievale perché permeata dalla «credenza nella insuperabilità destinale del modo di produzione capitalistico e nella fatalità delle leggi della sua riproduzione» (p. 128). Difendeva il significato della religione come sentimento della dipendenza degli individui dalla natura e dalla cooperazione comunitaria, e in ultima analisi come espressione in forma simbolica del legame sociale, contro i laicismi, visti come portatori di individualismo nichilistico. Bobbio ribadiva le ragioni della laicità sul piano dello Stato laico, su quello etico e sul «contrasto mai spento tra ragione e fede» in filosofia: «Se c’è un’epoca in cui il dibattito fra una visione laica e una visione religiosa della vita non accenna a spegnersi, è, caro Costanzo, proprio la nostra» (p. 136).
c) Il pacifismo. Secondo Preve, il pacifismo istituzionale di Bobbio aveva mostrato la corda nella giustificazione nel 1991 della prima guerra del Golfo e nel 1999 di quella del Kosovo. Bobbio aveva sostenuto a più riprese che nella situazione atomica non possono più esserci guerre “giuste” perché è in gioco la distruzione dell’umanità, ma – dice Preve – «quando la guerra ridiventò possibile, perché diretta contro stati privi di armi atomiche (Irak nel 1991 e Jugoslavia nel 1999) la giudicò anche “giusta”» (p. 96). «Bobbio non è un pensatore pacifista» (p. 147), e se cerca teoricamente le vie della pace, in realtà interiorizza un punto di vista geopolitico imperialistico occidentale. Le argomentazioni più compiute e risentite sul tema sono espresse in un libro a cui Preve teneva molto e il cui titolo ossimorico già dice qualcosa sui contenuti: Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna evidente (CRT, Pistoia 2000).
Riassumendo, Preve sottolineava l’estraneità di Bobbio alla sostanza del pensiero di Marx (pur molto studiato e considerato un classico imprescindibile della modernità), e difendeva il proprio progetto di una filosofia ispirata a quello che riteneva il Marx più autentico e vivo: Se qualcuno mi chiedesse qual è a mio avviso, sulla base di quasi quarant’anni di studi marxiani, la filosofia di Marx – scriveva –, risponderei così: un’antropologia filosofica iscritta in una filosofia della storia. Più esattamente, un’antropologia filosofica della libera individualità sociale iscritta in una filosofia dialettica ed emancipativa della storia. Non un rovesciamento di Hegel, ma una concretizzazione comunista di Hegel[6]. Questa rifondazione filosofica doveva abbandonare come inutile e dannoso gran parte del bagaglio storico marxista, riconnettere Marx alla filosofia greca e all’idealismo tedesco, e mettere al centro la nozione dell’uomo come essere sociale, insieme al grande tema dell’alienazione. Quanto a Bobbio, il suo atteggiamento critico, analitico, empiristico, non gli impediva di salvare in Marx, contro le frettolose liquidazioni post-89, almeno due tesi fondamentali: il primato del potere economico su quello politico e ideologico, e la previsione della mercificazione sempre più pervasiva e universale. Di questo discusse a lungo con Sylos Labini tra il 1991 e il 1994. Fuori luogo mi appare l’accusa di Preve a Bobbio di avere trascurato la critica al capitalismo come riduzione di ogni aspetto della vita umana alla forma di merce. Anzi, questa critica – secondo Bobbio – è proprio uno degli aspetti da salvare della eredità teorica di Marx. Sylos Labini concedeva a Bobbio che la mercificazione era un punto decisivo e che già Adam Smith aveva detto cose profetiche sul consumismo, ma in una lettera del 7 gennaio 1994[7], Bobbio insisteva:
per me la riduzione di ogni cosa a merce, […] è l’inevitabile risvolto dell’esaltazione del mercato […] come unico rapporto buono, e quindi da incoraggiare tra gli uomini, per cui tutto si può comprare e vendere, e dunque il sesso, gli organi del corpo, i voti, la coscienza, purché ci sia un libero compratore e un libero venditore, è qualcosa di ben più grave del consumismo.
Tenendo presenti le obiezioni di Bobbio e rendendole pubbliche, Sylos modificava in bozze il libro uscito da Laterza nel 1994 Carlo Marx: è tempo di un bilancio. Bobbio volgeva ripetutamente ai marxisti due inviti: a) il richiamo alla realtà dei fatti e alle “repliche della storia”, contro il dottrinarismo e l’instancabile esegesi dei testi dei fondatori della dottrina; b) la richiesta di confrontarsi con i risultati e i metodi delle scienze economiche, giuridiche, politiche e sociali contemporanee. Bobbio non amava le dispute, spesso scolastiche, «che dilettano i filosofi e sono oscure ai profani» e chiedeva: «non sarebbe più saggio, come fanno del resto gli economisti e i sociologi che si richiamano al marxismo, utilizzare l’opera di Marx per quel che è ancora utilizzabile, allo scopo di ricavarne strumenti concettuali adatti all’analisi della società contemporanea?»[8]. In certo senso era quello che Preve cercava di fare: non si trincerava dietro alle citazioni filologiche e si domandava quali aspetti di Marx si erano dimostrati errati alla prova di un colossale fallimento storico (per esempio, respingeva l’idea marxiana della classe operaia come soggetto storico capace di effettuare la transizione verso un modo di produzione alternativo al capitalismo). Se andiamo al fondo del loro dissenso, in Bobbio e in Preve c’era una concezione diversa, prima ancora che del marxismo, della filosofia. Bobbio attribuiva alla filosofia «un compito critico, di revisione e di controllo, piuttosto che direttivo e di illuminazione globale»[9], compito che riteneva più modesto ma più utile. Invece, per Preve occorreva «una ispirazione metafisica della prassi politica» (p. 28), come c’era stata in Fichte, in Hegel, in Gentile. Proprio quella ispirazione idealistica che Bobbio pensava fosse da evitare come fonte di pericolose mistificazioni, o almeno di logomachie inconcludenti. Bobbio in una lettera a Preve della fine del 1992 trovava «eccentrico» il suo marxismo e il suo ritorno a un Marx tanto inedito quanto troppo liberamente interpretato come filosofo della libera individualità. Ma gli ricordava che nella traduzione inglese del Profilo ideologico del Novecento aveva citato Preve come prova che con la rovina del comunismo storico il marxismo critico non era morto e rimaneva «come una riflessione, amara ma non rassegnata, su una grande sconfitta e come una sfida ai vincitori»[10]. Una posizione a cui Bobbio, pur nella distanza, guardava con rispetto.
Cesare Pianciola
[1] Riprendo in parte un mio intervento all’incontro organizzato all’Università di Torino dal prof. Enrico Pasini, il 13 novembre 2014, a un anno dalla scomparsa di Preve.
[2] Ricordiamo l’introduzione di André Tosel a C. Preve, Storia critica del marxismo. Dalla nascita di Karl Marx alla dissoluzione del comunismo storico novecentesco (1818-1991), Edizioni Città del Sole, Napoli 2007, e l’ampio spazio dedicatogli da Cristina Corradi nella Storia dei marxismi in Italia, Manifestolibri, Roma 2005.
[3] Si vedano i saggi raccolti da A, Monchietto e G, Pezzano in Invito allo straniamento. Vol. 1: Costanzo Preve filosofo e, a cura del solo Monchietto: Invito allo straniamento. Vol. 2: Costanzo Preve marxiano, Pistoia, Petite Plaisance, 2014 e 2016. Numerose interviste a Costanzo Preve condotte da Diego Fusaro si trovano su YouTube.
[4] Le successive indicazioni di pagina tra parentesi si riferiscono a questo libro.
[5] Non voglio con ciò minimizzare il suo contributo perfettamente consapevole a un’area politica “nazionalitaria” che ci tenne a riaffermare anche negli ultimi anni, per esempio quando nel 2012 ribadì la sua stima per il teorico della destra sociale Alain de Benoist e dichiarò che se fosse stato in Francia avrebbe votato per Marine Le Pen, della quale lodava vari punti del libro Pour que vive la France, pur con la precisazione: «Sottolineo per chiarezza che la mia dichiarazione “scandalosa” […] non comporta in alcun modo la condivisione del razzismo e della xenofobia anti-immigrati, con le quali la Le Pen si deve e si dovrà inevitabilmente confrontare sul piano elettorale». Nello stesso articolo si congedava definitivamente dal proprio passato: « In Italia ho goduto della consuetudine con alcuni pensatori più anziani (Norberto Bobbio, Ludovico Geymonat, Cesare Cases, Franco Fortini, fra gli altri), ma essi sono stati per me un esempio umano, non certo filosofico» (C. Preve, Se fossi francese, 18/04/2012, in https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=43120%20Costanzo%20Preve). Su questa deriva della sua posizione “ni droite ni gauche” eravamo veramente molto distanti.
[6] C. Preve, Un secolo di marxismo. Idee e ideologie, CRT, Pistoia 2003, p. 101.
[7] Corrispondenza con Sylos Labini in Archivio Bobbio presso Centro studi Piero Gobetti di Torino.
[8] N. Bobbio, Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Einaudi, Torino 1976, p. 25.
[9] N. Bobbio, Né con Marx né contro Marx, a cura di C. Violi, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 202 (nel contesto di una critica alla confluenza di Marx e Husserl propugnata da Enzo Paci) .
[10] Ibidem, p. 240, e C, Preve, Le contraddizioni di Norberto Bobbio, cit., p. 137.
Un tuffo …
… tra alcune pubblicazioni di Cesare Pianciola …
Cesare Pianciola, Kosik e Sartre, «Quaderni piacentini», anno IV, n. 2, 1965dicembre-1965
Il pensiero di Karl Marx, Loescher, 1971
Filosofia e politica nel pensiero Francese del dopoguerra, Loescher, 1979
Piero Gobetti. Biografia per immagini, Gribaudo, 2001
Piero Gobetti. Opera critica, Edizioni di storia e letteratura, 2013
N. Bobbio, Scritti su Marx. Dialettica, stato, società civile. Testi inediti a cura e con una introduzione di Cesare Pianciola e Franco Sbarberi, Donzelli, 2014
Raniero Panzieri, Centro di Documentazione di Pistoia, 2014
Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970), Petite Plaisance, 2017 (con Giuseppe Cambiano)
Pietro Chiodi (1915-1970), filosofo esistenzialista che negli anni Sessanta insegnò Filosofia della storia all’Università di Torino, è ricordato soprattutto per la sua attività di studioso e traduttore di Heidegger che ha ricreato per i lettori italiani il vocabolario filosofico del pensatore tedesco. Non meno importanti i suoi saggi su Kant e le traduzioni della ‘Critica della ragion pura’ e degli ‘Scritti morali’. Questo libro, curato da due tra i suoi primi allievi, contiene contributi sull’opera filosofica e sui confronti teorici in cui si è impegnato (con Abbagnano e Paci, con Sartre, con i marxisti), ma anche saggi sulla drammatica vicenda resistenziale consegnata a ‘Banditi’ – il diario partigiano che Fortini considerò “quasi un capolavoro” -, sul rapporto di profonda amicizia e di influenze reciproche con B. Fenoglio, sul suo interesse poco noto per le arti figurative. In appendice un inedito su socialismo e libertà, a proposito di ‘Riforme e rivoluzione’ di A. Giolitti, e una testimonianza della sua compagna, Aida Ribero, sulla coerenza tra filosofia e vita. Chiude il volume una completa bibliografia degli scritti di e su Chiodi.
La guerra d’Algeria e il «manifesto dei 121», Edizioni dell’Asino, 2017
Nel 1960 un gruppo di intellettuali sottoscrive il “manifesto dei 121”, che denuncia la brutale repressione e l’uso sistematico della tortura praticata dall’esercito francese in Algeria, e solidarizza con l’insubordinazione alle gerarchie militari e con il sostegno alla causa della indipendenza algerina. È un episodio della storia politica e culturale del Novecento da rimeditare nella sua complessità. Chiude il libro la testimonianza di Louisette Ighilahriz, algerina militante all’epoca nel Fronte di liberazione nazionale.
Il critico e il pittore. Gobetti, Casorati e la sua scuola, Aras Edizioni, 2018
Felice Casorati (1883-1963) ci ha lasciato di Piero Gobetti (1901- 1926) un ritratto penetrante e idealizzato dipinto per la fondazione del Centro studi a lui intitolato. La critica d’arte, nella multiforme attività di Gobetti, fu seria e impegnativa. Tra i pittori contemporanei che apprezzò (Carrà, De Chirico, Soffici…), la figura centrale è Casorati, su cui scrisse e pubblicò nelle sue edizioni una monografia nel 1923. Il pittore era legato al suo critico da una «amicizia tenace completa perfetta», come la definì alla morte del giovane antifascista. Gobetti fu anche il primo a mettere in rilievo l’importanza della scuola di Casorati ai suoi inizi, vedendovi «una cosa completamente nuova, lontana da ogni sistematicità di accademia». Piero e Ada erano intimi delle sorelle Marchesini: Maria, Dadi e Nella, che fu la prima allieva del maestro. I saggi qui raccolti esplorano diversi aspetti di una vicenda che parte da Gobetti e si dipana in un tessuto culturale da cui è possibile trarre nuovi echi.
Marxismo. Tradizioni di pensiero, il Mulino, 2019
A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati. Indice del volume: Premessa. – I. Dal marxismo a Marx. – II. Dall’opposizione al potere. – III. Marxismi occidentali. – IV. Lavoro e valore tra economia, filosofia e sociologia. – V. Un’eredità politica contrastata. – VI. Complicazioni: nazione, genere, ambiente. – Bibliografia. – Indice dei nomi.
Ripubblico nel presente volume i miei articoli su Dialettica, Fisica, Antropologia e Metafisica di Aristotele, usciti dopo i primi due volumi dei miei Nuovi studi Aristotelici, che trattavano degli stessi temi, ma risalgono ormai a quasi vent’anni fa. A questo volume, che viene cosÌ a essere il V dell’intera serie, ne seguirà un VI, contenente gli articoli su Etica e politica, Poetica, Fortuna di Aristotele, Attualità di Aristotele, usciti anch’essi nell’ultimo ventennio.
Che dire di fronte a una simile quantità da carta, anche senza considerare i volumi monografici e le traduzioni? Il primo a esserne sbigottito sono io stesso. L’unica spiegazione che riesco a danni è la lunghezza ormai ragguardevole della mia vita. Sono 65 anni che scrivo! Alla lunghezza della vita si accompagnano però anche una grande passione per la filosofia e varie sollecitazioni da parte di colleghi, organizzatori di convegni, e case editrici, che continuano a chiedenni di scrivere e di pubblicare.
È utile tutto questo lavoro? Secondo alcuni, sÌ, perché pennette di ritrovare scritti altrimenti introvabili, sparsi nelle più svariate parti del mondo. Ovviamente questo interessa soltanto gli studiosi. È per loro, infatti, che ho scritto, come risulta dalle innumerevoli note in cui vengono citati, a testimonianza di un dibattito interno a una comunità scientifica, che continua a svilupparsi. Sembra tuttavia che anche altri si interessino al contenuto di questi volumi, come risulta dal fatto che l’intera serie è in corso di traduzione in lingua portoghese nel lontano Brasile (sono già usciti i primi tre volumi).
Ma in tutto questo ci sono anche degli inconvenienti, di cui mi rammarico e mi scuso con i lettori. Il primo sono alcune ripetizioni, che però considero inevitabili in scritti destinati alle occasioni più diverse. Il secondo inconveniente sono alcuni cambiamenti di opinione, da parte mia, sugli stessi argomenti trattati in precedenza, cambiamenti che pertanto rendono obsoleti alcuni miei scritti (non però quelli usciti nella serie dei Nuovi studi aristotelici). Quest’ultimo inconveniente è dovuto alla superficialità che avevo specialmente da giovane, la quale spesso mi ha indotto a seguire le interpretazioni tradizionali, senza accertarmi a sufficienza della loro tenuta.
Esso però è anche rivelatore di una profonda verità. I testi di Aristotele, anche riletti e rimeditati per anni e anni, anzi per decenni e decenni, in un certo senso risultano sempre nuovi, nel senso che svelano sempre nuove possibilità di interpretazione. Ebbene, questo è ciò che fa di Aristotele un “classico”, un grande classico, ricco di risorse inesauribili, che ciascuno può attingere in parte. Forse è per questo che le sue opere continuano a essere lette e discusse onllai da 2400 anni, e non abbiamo ancora finito di farlo.
Non ho parole per ringraziare la casa editrice Morcelliana, che si è sobbarcata il lavoro che il volume comporta, senza preoccupazioni di mercato o di altro genere. Se qualche ricordo dei miei studi resterà, sarà soprattutto merito suo.
Enrico Berti
Padova, febbraio 2020
Sommario
Prefazione
***
PARTE PRIMA Dialettica
CAPITOLO PRIMO Socrate e la scienza dei contrari secondo Aristotele.
CAPITOLO SECONDO Phainomena ed endoxa in Aristotele.
***
PARTE SECONDA Fisica
CAPITOLO PRIMO Primato della fisica?
CAPITOLO SECONDO La materia come soggetto in Aristotele e nei suoi epigoni moderni 1. Premessa, 49 – 2. Aristotele, 51 – 2.1. Il soggetto nelle Categorie, 51 – 2.2. Il soggetto e la materia nella Fisica e nella Metafisica, 54 – 3. I moderni critici di Hegel, 60 – 3.1. Feuerbach, 60 -3 .2. Marx, 66 – 3.3. Kierkegaard, 71
CAPITOLO TERZO Ýλη nei testi aristotelici 1Premessa, 79 – 2. Il quadro delineato da Bonilz, 80 – 3. Lo studio di Happ e la letteratura degli ultimi quarant’anni. 86 – 4. Conclusione, 90
CAPITOLO QUARTO Il luogo dei corpi secondo Aristotele. 1. Premessa, 93 – 2. 2. !I luogo nelle Categorie, 95 – 3. Esiste il luogo e che cos’è? (Phys. IV 1),97 – 4. Il luogo non è materia: la critica a Platone (PJrys. IV 2), 100 – 5. I diversi significati dell’«essere in» e l’aporia di Zenone (Phys. IV 3), \02 – 6. 1\ luogo è il primo limite immobile del contenente (Phys. IV 4), \03 – 7. L’universo e i luoghi propri degli elementi (Phys. IV 5), 106 – 8. I movimenti degli elementi e la «potenza» dei luoghi (De caelo), 107 – 9. Osservazioni conclusive. III
CAPITOLO QUINTO La cause du mouvemenl dans les etres vivants .
***
PARTE TERZA Antropologia
CAPITOLO PRIMO L‘origine dell ‘anima intellettiva secondo Aristotele 1. L’interpretazione tradizionale del De generatione animalium, 133 – 2. Difficoltà suscitate dalla lettura del De anima e della Metafisica, 149- 3. Tentativo di rilettura del De genera/ione animalium, 155
CAPITOLO SECONDO Un problema di Aristotele. La donna 1. Uguaglianza e differenza tra uomo e donna. 167 – 2. Il ruolo diverso svolto nella generazione, 170 – 3. Il problema delle somiglianze, 173
CAPITOLO TERZO Mente e anima. Due entità?
CAPITOLO QUARTO L’intelletto attivo. Una modesta proposta.
***
PARTE QUARTA Metafisica
CAPITOLO PRlMO Differenza tra la concezione platonica e la concezione aristotelica dell ‘essere 1. La concezione platonica dell’essere e la sua fortuna, 207 – 2. La critica di Aristotele alla concezione platonica dell’essere, 211 – 3. La concezione aristotelica dell’essere e le sue interpretazioni, 216
CAPITOLO SECONDO Il verbo “essere” in Aristotele. 1. De interpretatione 3, 16b 19-25,221 – 2. Metaph. – 7, 227
CAPITOLO TERZO Aristotele, Metaph. lota 1-2. Univocità o multivocità dell’uno? 1. Il problema, 235 – 2. L’uno come unità di misura, 237 – 3. L’uno come predicato trascendentale, 241 – 4. Conclusione, 244
CAPITOLO QUARTO Il dio di Aristotele. 1. C’è una «teologia» in Aristotele?, 249 – 2. Il libro Lambda della Metafisica non contiene una teologia, ma una teoria dei princìpi, 255 – 3. Il primo motore immobile è veramente un dio e di conseguenza è personale, 259
CAPITOLO QUINTO La métaphysique d’Aristote. 1. L’image actuelle de la métaphysique d’Aristote, 269 – 2. La métaphysique d’Aristote n’est pas une ontologie, 271 – 3. La métaphysique d’ Aristote n’est pas une théologie, 275
CAPITOLO SESTO Y a-t-il une théologie d’Aristote? 1. «Théologie» ou «science théologique»?, 281 – 2. Le Iivre Lambda de la Métaphysique n’est pas une théologie, mais une théorie des principes, 286 – 3. Le premier moteur immobile est vraiment un dieu et par conséquent il est personnel, 290
CAPITOLO SETTIMO Ontologia in Aristotele?
CAPITOLO OTTAVO Ancora sulla causalità del motore immobile 1. Introduzione, 309 – 2. Il dibattito negli anni 1997-2007, 310 – 3. Una nuova interpretazione di Metaph. XII 7, 1072a26-b4, 320 – 4. Il motore immobile è causa finale dell’uomo? 326 – 5. Conclusione, 331
CAPITOLO NONO Les passages dits “théologiques” du livre Gamma de la Métaphysique d’Aristote 1. Premier passage: réponse à Anaxagoras et à Démocrite, 337 – 2. Deuxième passage: réponse à Héraclite et à Cratyle, 341 – 3. Troisième passage: réponse aux affirmations unilatérales, 344 – 4. Conclusion, 348
CAPITOLO DECIMO La dunamis chez le jeune Aristote . 1. Introduction, 351 – 2. Les premiers rragments du Protreptique, 353 – 3. Les fragments des autres ceuvres perdues, 355 – 4. Le fragment 14 Ross du Prolreplique, 357 – 5. Les parti es les plus anciennes des traités conservés, 361
CAPITOLO UNDICESIMO Aristotle, Metaph. B 3: aporiai VI and VII. Is it the genera that should be taken as elements and principles? Introduction, 369 -I. Aporia VI, 370 – 1. The formulation ofthe aporia, 370- 2. The “thesis”: the principles-elements are not the genera, but the constituent parts of bodies, 372 – 3. The antithesis: the principles-elements are the “genera”, 377 – 4. Conclusion, 382 – Il. Aporia VII, 385 – I. The formulation of the aporia, 385 – 2. The “thesis”: the principles-elements are the supreme “genera”, 386 – 3. Arislolle’s argument against the thesis: Being and One are not “genera”, 386 – 4. Xenocrates’ arguments against the thesis: the principles are the lowest species, 393 – 5. The “antithesis”: the principles-elements are the lowest species, 398 – 6. Conclusion, 399
CAPITOLO DODICESIMO La critica di Aristotele alla scienza universale in Metaph. A 9
1. Il problema, 40 I – 2. Qual è la scienza universale oggetto della critica?, 403 – 3.1. Prima obiezione: non è possibile trovare gli elementi degli enti senza distinguere i molti sensi in cui questi si dicono, 404 – 3.2. Seconda obiezione: non è possibile apprendere una scienza di tutte le cose, che non presupponga nessuna conoscenza precedente, 407 – 3.3. Terza obiezione: non è possibile che la scienza più importante sia innata, 409 – 3.4. Quarta obiezione: come potremmo riconoscere gli elementi di tutte le cose?, 411 – 3.5. Quinta obiezione: non è possibile conoscere le cose sensibili se non per mezzo dei sensi, 412 – 4. Conclusione: la scienza universale ammessa da Aristotele, 413
CAPITOLO TREDICESIMO
Il rapporto tra causa motrice e causa finale nella Metafisica di Aristotele 1. Il problema, 419 – 2. La distinzione tra causa motrice e causa finale nei libri introduttivi (A-E), 419 – 3. La coincidenza tra causa motrice, formale e finale nei libri centrali (Z-0), 427 – 4. Il rapporto tra causa motrice e causa finale nei libri conclusivi (A-N), 432
CAPITOLO QUATTORDICESIMO La finalità del motore immobile di Aristotele tra Metafisica Λ 7 e Λ 1O 1. Lambda 7, 445 – 2. Lambda 10,449 – 3. Appendice, 454
CAPITOLO QUINDICESIMO La genesi della dottrina aristotelica dei princìpi 1. Premessa, 459 – 2. La critica alla dottrina dei due principi-elementi, 461 – 3. La dottrina dei tre princìpi-elementi, 465 – 4. La dottrina delle quattro cause, 469 – 5. Molteplicità dei princìpi e unità dell’essere, 472
CAPITOLO SEDICESIMO Continua il dibattito sulla causalità del motore immobile
CAPITOLO DICIASSETTESIMO The Program of the Metaphysics Lambda (chapter 1)
CAPITOLO DICIOTTESIMO Il duplice bene supremo di Aristotele
1. Il bene come fine ne li’ Etica Nicomachea, 509 – 2. Il bene come principio in Metaph. N, 512 – 3. Il bene come “il dio” in Metaph. A, 517 – 4. La distinzione tra i due beni neII’ Etica Eudemea e in altri scritti, 523 – 5. Un problema epistemologico, 528 – 6. Il rapporto tra i due beni supremi. 532
CAPITOLO DICIANNOVESIMO Socrate, Platon et l ‘Académie 1. Socrate, 537 – 2. Platon: la méthode et les Idées, 538 – 3. Platon: les Idées-nombres et leurs principes, 540 – 4. Platon: l‘ame, le bien, la cité, 542 – 5. L’Académie: Speusippe et Xénocrate, 545
CAPITOLO VENTESIMO Argomenti aristotelici contro l’esistenza di un Essere per essenza 1.L’argomento degli Analitici posteriori, 549 – 2. L’argomento del trattato sulle aporie (Metaph. 1Il), 551 – 3. L’argomento del libro Alpha elal/on, 556 – 4. Conclusione, 561
***
INDlCI
Indice dei nomi antichi e medievali.
Indice dei nomi moderni
Nota ai testi
Altri libri di Enrico Berti nel catalogo Morcelliana:
Nuovi studi aristotelici l – Epistemologia, logica e dialettica
Nuovi studi aristotelici” – Fisica, antropologia e metafisica
Nuovi studi aristotelici !II – Filosofia pratica
Nuovi studi aristotelici /V!I – L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo
e Rinascimento
Nuovi studi aristotelici IV!2 – L ‘influenza di Aristotele. Età moderna e contemporanea
Tradurre la Metafisica di Aristotele
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni
Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e ampliata
nel catalogo Scholé:
Aristotele
Invito alla filosofia
Anche chi non è platonico, come chi scrive qui, deve tuttavia riconoscere che il platonismo, pur interpretato nella maniera più cruda, meno accomodante, meno simpatica, cioè come affermazione che il vero mondo è un «altro mondo», ha il grande merito di mostrare, appunto, che ci può essere dell’altro, che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile. Questo è un messaggio che, forse, lascia indifferente chi in qualche modo se la spassa, ma non può lasciare indifferente chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.
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È possibile riconoscere l’attualità di Platone anche senza essere platonici? La domanda ha un senso, perché il mondo è ancora pieno di platonici, anzi lo è sempre stato, non solo tra i filosofi spiritualisti di ispirazione cristiana – meno tra gli ebrei e musulmani –, ma anche tra i “laici” (basti pensare ai neoplatonici). Questo è un fatto innegabile, sebbene alcuni aspetti del pensiero platonico sembrino francamente inaccettabili: la convinzione che il vero mondo non è quello in cui viviamo, ma un altro; l’assoluta indipendenza dell’anima dal corpo; la necessità che il governo politico sia in mano ai filosofi; l’abolizione della famiglia e della proprietà. Malgrado tutto ciò, anche chi non è platonico deve riconoscere che Platone è ancora attuale, non solo perché ha influenzato l’intera storia della filosofia, al punto che questa è stata considerata una serie di note al suo pensiero, e pare che ancora oggi sia il filosofo più citato di tutti, come sostiene chi si diverte con questo genere di calcoli, ma soprattutto perché ha determinato alcune svolte, dalle quali non si è più tornati indietro.
Indicare in che consiste l’attualità di Platone, però, non è facile, soprattutto perché non è facile stabilire esattamente qual è stato il suo pensiero. Non mi riferisco alla vexata quaestio – ormai, mi sembra, un po’ passata di moda – se il vero Platone sia quello dei dialoghi o quello delle «dottrine non scritte». Mi riferisco a un problema che nasce proprio dalla lettura dei dialoghi e del quale gli studiosi stanno prendendo coscienza in maniera sempre più acuta: dove sta il pensiero di Platone? In ciò che dice il Socrate della maggior parte dei dialoghi, o in ciò che dice, ad esempio, Parmenide nel dialogo omonimo, lo Straniero di Elea nel SoflSta, Timeo nel Timeo, insomma gli altri personaggi dei dialoghi? Questa relativa indeterminatezza sembra conferire al pensiero di Platone un fascino anche maggiore, perché non lo si può mai inchiodare su una posizione determinata, come ha tentato di fare per primo Aristotele, per poterlo meglio criticare.
Una prima svolta prodotta da Platone nella storia della filosofia è quella che Socrate chiama, nel Fedone, la «seconda navigazione». Il personaggio di Socrate, che qui è considerato portavoce di Platone, dopo avere raccontato che da giovane cercava di conoscere le cose con i sensi seguendo in ciò l’esempio di filosofi a lui precedenti come Anassagora – chiamati poi per questo «presocratici» –, afferma che a un certo punto gli parve necessario «rifugiarsi nei logoi e cercare in essi la verità degli enti». Che cosa sono questi logoi? Discorsi? Concetti? Idee? Ogni interpretazione è possibile. Ma certamente essi non sono più la realtà sensibile. Lo sono tra quelli che credono nella separatezza delle Idee platoniche – come Aristotele, ma anche come il «platonico» Cherniss –, tuttavia mi rendo conto che senza passare per le Idee, sia pure separate, non si sarebbe mai giunti al concetto astratto, e quindi alla dialettica, alla scienza, alla filosofia. Da allora, infatti, non si è più tornati indietro, fuorché in qualche filosofia rozza e primitiva che non merita nemmeno questo nome.
Un’altra svolta è stata la concezione del principio supremo non come Dio, o l’Essere, o l’Uno, ma anzitutto come il Bene. Ciò ha comportato tutta una serie di conseguenze a cascata. La filosofia non è più stata vista come pura conoscenza, metafisica astratta, ma come nuovo modo di vivere, come vera e propria conversione alla ricerca della giustizia, della virtù, del bene appunto, per se stessi e per gli altri: filosofia teoretica e insieme pratica, metafisica e insieme etica, ma anche politica, anzi soprattutto politica. È nata così la domanda «che cos’è la giustizia», per rispondere alla quale Platone nel suo capolavoro, la Repubblica, spiega addirittura come è fatta l’anima umana, mostrando quanto essa sia complessa, conflittuale, e come deve essere fatta la città, cioè la società politica, per essere “giusta”. Al di là degli aspetti paradossali di questa dottrina, di cui Platone stesso era perfettamente consapevole e che tuttavia hanno rivelato quale può essere l’efficacia anche storica dell’utopia, tutta la faccenda del governo dei filosofi e dell’abolizione della proprietà ha un significato profondo, imperituro. Essa significa che i governanti non devono avere interessi privati, per potersi dedicare interamente alla ricerca del bene comune. E che non devono essere solo onesti, ma anche intelligenti, cioè devono sapere qual è il vero bene e come lo si realizza. Anche gli aspetti secondari, se vogliamo chiamarli così, della Repubblica, hanno una loro grandezza, che permane immutata. Pensiamo alla grandiosa descrizione dei pericoli che corre la democrazia, quando nessuno obbedisce più ad alcuna legge, nessuno riconosce più alcuna autorità, e chi ne approfitta è solo il tiranno, che sta sempre in agguato e sa più di tutti persuadere, adulare, eccitare, sobillare, ingannare il demos. Ma pensiamo anche alla scandalosa condanna che Platone pronuncia dell’arte, della poesia in particolare, di Omero soprattutto, da lui considerato il più grande di tutti i poeti. Questa condanna dimostra che nessuno, meglio di Platone, ha capito la potenza straordinaria dell’arte e della poesia, la sua irresistibile capacità di incantare, la sua origine quasi divina, e per questo egli l’ha tanto temuta.
Allo stesso modo nessuno meglio di Platone, malgrado il suo rifugiarsi nei logoi, ha capito la potenza immane dell’eros che – come si legge nel Simposio – prima di sublimarsi nell’amore per la bellezza in sé e la bontà in sé, è amore per i bei corpi, desiderio di generare, e può diventare anche follia, tragica – ma in qualche misura anche demoniaca, che bisognerebbe tradurre con “soprannaturale”. Platone ha scandagliato per primo le profondità dell’anima umana, descrivendone i lati più oscuri, le voglie più ancestrali, ma al tempo stesso ha sentenziato che l’uomo è essenzialmente la sua anima e che questa deve cercare di liberarsi il più presto possibile del corpo, per essere felice tutta raccolta in sé stessa e assorta nella contemplazione delle Idee. Per Platone il bene, il vero Bene, non è «fragile», come ha sostenuto a proposito di Aristotele Martha Nussbaum, perché la filosofia è autosufficiente.
Nietzsche, seguito da Heidegger, ha visto nel platonismo l’emblema della metafisica intesa come nichilismo passivo, negazione della vita, evasione dalla realtà, e ha coinvolto nella sua condanna di questo platonismo anche il cristianesimo, da lui considerato una sorta di «platonismo per il popolo». Ma Nietzsche ha sempre ha avuto una grande ammirazione per Platone (come del resto per Gèsù Cristo), da lui intensamente studiato sin dalla giovinezza, mentre ha scritto invece parole crudeli all’indirizzo del povero Socrate. Anche chi non è platonico, come chi scrive qui, deve tuttavia riconoscere che il platonismo, pur interpretato nella maniera più cruda, meno accomodante, meno simpatica, cioè come affermazione che il vero mondo è un «altro mondo», ha il grande merito di mostrare, appunto, che ci può essere dell’altro, che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile. Questo è un messaggio che, forse, lascia indifferente chi in qualche modo se la spassa, ma non può lasciare indifferente chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.
Enrico Berti,Platone l’antiplatonico, articolo pubblicato in: “Il Sole-24 ore”, Domenicale del 30 dicembre 2006, p. 31.
Enrico Berti
Pensare con la propria testa?
Lezione tenuta nel Corso di Metodologia dell’insegnamento filosofico dell’Università di Padova il 31 maggio 2004. Il testo è stato pubblicato nel 2006 in: Enrico Berti, Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, pp. 281-294, cui si rimanda.
La filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.
Il titolo di questa conversazione riprende quello di un articolo di Franca D’Agostini, pubblicato nella rivista “Intersezioni” dell’agosto 2003,[1] aggiungendovi soltanto il punto interrogativo (di cui vedremo la ragione). Franca D’Agostini è la nota e intelligente autrice del fortunato libro Analitici e continentali (Milano 1997), che ha divulgato anche in Italia una contrapposizione del tutto impropria, perché costruita con due categorie tra loro eterogenee, una di tipo metodologico e l’altra di tipo geografico, ma tuttavia utile per classificare la maggior parte dei filosofi contemporanei. Tale contrapposizione è stata infatti coniata, non a caso, da un filosofo analitico, Kevin Mulligan, che l’ha lanciata, se non erro, nel Time’s Literary Supplement, contrapponendo per mezzo di essa i filosofi analitici a tutto il testo del mondo, e ha dato luogo a vari dibattiti, di cui in Italia è rimasto famoso quello sviluppato nel supplemento domenicale del “Sole-24 ore” del 1998. In quest’ultimo è intervenuto anche un altro filosofo analitico, Michael Dummett, con una perfetta illustrazione delle caratteristiche dei due tipi di filosofi, ovvero dei due stili, o modi, di fare filosofia.
Lo stesso Mulligan, in un recente saggio su John Searle, rivendica alla filosofia analitica il rifiuto del principio di autorità e il diritto a “pensare con la propria testa”, accusando i “continentali” di pensare con la testa dei filosofi del passato.[2] Egli così riprende la nota tesi di Kant, il quale nella Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, non solo indicò “il motto dell’illuminismo” nella nota esortazione “abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto!”, ma usò come equivalente a questa proprio l’espressione “pensare con la propria testa”. Dopo avere infatti osservato che pensare può essere faticoso, perché “io ho un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che per me decide quale debba essere la mia dieta, ecc., e quindi non ho bisogno di badare a me stesso. Purché solo possa pagare, non è necessario ch’io pensi; altri si assumeranno per me questa noiosa incombenza”, Kant aggiunge che tuttavia “si troveranno sempre […] delle persone che pensano con la propria testa, e che, scrollatesi di dosso il giogo della minorità, diffonderanno il sentimento d’un apprezzamento razionale del valore di ogni uomo e della sua vocazione a pensare da sé”.[3]
Kant, come è noto, faceva di questo concetto il nucleo della sua dottrina sul metodo dell’insegnamento della filosofia, secondo la quale non si deve insegnare la filosofia, ma si deve insegnare a filosofare. Già nello scritto “precritico” Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766 egli sostiene infatti che in generale “uno studente non deve imparare pensieri (Gedanken), ma deve imparare a pensare (denken)”. E, per quanto riguarda in particolare la filosofia, egli precisa: “il giovane licenziato crede che imparerà filosofia, ma questo è impossibile, perché ora deve imparare a filosofare (philosophiren)”.[4] Mentre, infatti, altre scienze, quali ad esempio la geometria, esistono già in una forma sistematica, sulla quale tutti convengono, per esempio gli Elementi di Euclide, ciò non accade assolutamente per la filosofia. “Per imparare la filosofia – scrive Kant – bisognerebbe, anzitutto, che ce ne fosse realmente una. Bisognerebbe poter mostrare un libro e dire: vedete, qui è la sapienza e la conoscenza sicura; imparate ad intenderlo e a capirlo, poi costruiteci su, e sarete filosofi. Finché non mi si mostrerà un tal libro di filosofia […], mi si permetta di dire che si abusa della capacità delle persone”. Per questo, conclude Kant, “il metodo peculiare dell’insegnamento della filosofia è zetetico, come lo chiamavano alcuni antichi (da zetein), cioè indagativo, e diventa in vari punti dommatico, cioè determinato, solo per la ragione alquanto esercitata”.[5]
La stessa posizione Kant mantiene nella Critica della ragion pura, dove scrive: “Tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia (salvo storicamente); ma, per ciò che concerne la ragione, tutt’al più si può imparare a filosofare”. E più avanti: “Non si può imparare alcuna filosofia; perché dove è essa, chi l’ha in possesso, e dove essa può conoscersi? Si può imparare soltanto a filosofare, cioè ad esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi principi generali a certi tentativi che ci sono, ma sempre con la riserva del diritto della ragione di cercare questi principi stessi alle loro sorgenti e di confermarli o rifiutarli”.[6] Qui sono interessanti la riserva circa la storia e l’accenno alle sorgenti, su cui ritorneremo, ma non c’è dubbio che viene ribadita la tesi già espressa nella Notizia, la quale rimarrà una tesi classica nel dibattito sull’insegnamento della filosofia.
Alla tesi di Kant si ispira esplicitamente l’insegnamento della filosofia nelle scuole francesi, cioè nelle scuole del Paese che, insieme con l’Italia, è certamente quello in cui la filosofia occupa lo spazio maggiore nella formazione dei giovani, collocandosi all’interno del liceo. È noto, infatti, che in Francia si insegna filosofia al liceo, anche se, a differenza che in Italia, solo nell’ultimo anno; ma in quest’anno la filosofia è sicuramente l’insegnamento più importante, che in certi indirizzi raggiunge anche le nove ore alla settimana, per cui l’ultimo anno del liceo è chiamato anche classe de philosophie. Ebbene, nei documenti ufficiali diffusi dal Ministère de l’Education nationale, si è sempre dichiarato che lo scopo dell’insegnamento della filosofia è di insegnare ai giovani à faire de la philosophie (in francese non esiste il verbo “filosofare”). A questo proposito un recente Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia parla della “dottrina ufficiosa” che ispira l’insegnamento della filosofia in Francia da più di un secolo e che si compendia nelle seguenti affermazioni: “L’insegnamento della filosofia è un insegnamento filosofico. La sua prima finalità non è che l’allievo sappia che cosa dice Platone o Cartesio, ma che apprenda a fare una riflessione filosofica con i propri mezzi e sviluppi così il suo spirito critico e la sua autonomia di giudizio”.[7] Anzi per molti anni negli ambienti scolastici francesi si è criticato il metodo italiano dell’insegnamento della filosofia, perché esso si limita esclusivamente alla storia della filosofia e non insegna minimamente a “fare della filosofia”.
Ma torniamo all’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa”. Su di essa non si può non essere d’accordo: non solo l’insegnamento della filosofia, ma l’intera educazione deve formare a pensare con la propria testa, se con questa espressione si intende l’esercizio del senso critico, lo spirito di osservazione personale, il rifiuto dei pregiudizi, la disponibilità al confronto con gli altri, e tutte le capacità di questo genere. Ma siamo sicuri che questo sia l’unico significato della suddetta espressione? A proposito di essa fa alcune interessanti considerazioni Franca D’Agostini nell’articolo sopra citato. Anzitutto ella precisa che, con tale esortazione, Kant non intendeva affermare il primato delle proprie idee e il disprezzo delle idee altrui, poiché in una lettera a Herder del maggio 1768 egli scrisse: “quanto a me, non mi afferro saldamente ad alcunché e con profonda imparzialità combatto tanto le mie opinioni quanto quelle altrui”.[8] Ma poi la stessa D’Agostini osserva molto acutamente: “il problema di fondo, nel tema del ‘pensare con la propria testa’, è che se c’è una testa, per così dire, essa difficilmente è propria o interamente propria”.[9]
Qui emerge tutta la consapevolezza critica, propria dei filosofi “continentali”, degli innumerevoli condizionamenti a cui ciascuno di noi è sottoposto: l’ambiente sociale in cui si è nati, l’educazione che si è ricevuta, la propria storia, la propria cultura, le tendenze, le aspettative, le speranze, ma anche i pregiudizi, le idiosincrasie e, soprattutto oggi, l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, della pubblicità, della moda. Una volta, al tempo di Kant, bisognava guardarsi dal principio di autorità, perché qualche autorità c’era. Oggi non si sono più autorità, quindi non c’è più alcun pericolo di essere vittime di tale principio, ma quanto più lo si rifiuta, tanto più si è vittima di altri condizionamenti. Anche i filosofi, che dovrebbero essere gli spiriti più critici, sono terribilmente vittime delle mode. Non parlo solo di abbigliamento, è evidente, anche se l’accettazione immediata e passiva della moda nell’abbigliamento è già un segno che dovrebbe suscitare qualche sospetto. Parlo delle mode culturali, intellettuali, filosofiche, quelle per cui “dopo il tale (che può essere Kant, o Marx, o Nietzsche, o Freud, o Heidegger, o Quine) non è più possibile dire che”, oppure “oggi è ormai assodato che”, o “la tal epoca è ormai finita”, per cui bisogna necessariamente essere “post” qualche cosa, “post-metafisici”, “post-cristiani”, “post-moderni”, ecc.
Ciò fu visto con grande chiarezza, come ricorda D’Agostini, da Hegel, al quale si deve un’altra tesi, non meno classica di quella di Kant, anche se non più illuministica, da far valere nel dibattito sull’insegnamento della filosofia. Hegel, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, dichiara: “La smania di pensare con la propria testa sta in ciò, che ognuno metta fuori una sciocchezza più grossa di un’altra”[10]. L’uso dell’espressione “pensare con la propria testa” può dare l’impressione che Hegel intenda polemizzare proprio con Kant, ma ciò non è vero, perché, come giustamente nota D’Agostini, la polemica è rivolta invece contro i filosofi romantici, cioè Eschenmayer e Jacobi. “Quest’oratoria profetica e scevra di concetto – scrive a proposito di essi Hegel – proclama dal tripode questo e quello circa l’essenza assoluta, ed esige che ognuno debba trovare immediatamente tutto questo nel proprio cuore. Il conoscer l’essenza assoluta diventa affare di cuore; è una folla d’inspirati a parlare, e ciascuno di essi dice un monologo, e capisce veramente l’altro solo nella stretta di mani e nel silenzio del sentimento. Quel che essi dicono, sono per lo più cose banali, se si prendon così come sono dette; il sentimento, l’atteggiamento, la pienezza del cuore son essi che debbono dare forza al discorso, – per sé non dicono nulla. Essi cercano di superarsi l’un l’altro con le trovate della fantasia, con la poesia nostalgica”. Certo, si tratta di un modo molto particolare di intendere il “pensare con la propria testa”, ma esso non è raro nemmeno tra i filosofi di oggi – non tra gli analitici, va detto, bensì proprio tra i continentali – che spesso hanno l’aria di ispirati, o di iniziati, che hanno scoperto da soli la verità e si decidono a rivelarla al volgo, evitando qualsiasi argomentazione e lasciandosi andare, nel migliore dei casi, a una serie di asserzioni del tutto ingiustificate, quando non oscure o addirittura incomprensibili.
“Per il filosofare – continua Hegel – non c’è speranza, l’onore è perduto; infatti esso presuppone un fondo comune di pensieri e di principi, esige che si proceda scientificamente o per lo meno esige opinioni. Ma ora tutto è stato riposto nella particolare soggettività; ognuno è diventato altezzoso e sprezzante verso gli altri. A questo si ricongiunge la rappresentazione del pensare con la propria testa, come se ci potesse esser pensiero che non sia tale”.[11] Evidentemente l’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa” aveva avuto successo, anche troppo, ed era stata distorta in un diritto ad esaltare la propria soggettività, la propria creatività, infischiandosi del “fondo comune di pensieri e di principi”. Le opinioni, che secondo Hegel il filosofare esige, sono quelle che devono essere messe in discussione, quelle che Kant voleva combattere, sia le proprie che le altrui, ma in un dibattito comune, in una dialogo con gli altri, il quale non sia il monologo di un ispirato, bensì la discussione di chi argomenta, di chi confuta o anche di chi dimostra.
È interessante, a questo proposito, richiamare anche le idee di Hegel sull’insegnamento della filosofia. Egli fu, come è noto, per alcuni anni rettore, cioè preside, del ginnasio di Norimberga (1808-1816), e questi furono gli anni in cui scrisse la Scienza della logica (1812-1816), cioè quelli in cui giunse ad elaborare in forma compiuta il suo sistema. Nel 1812 fu richiesto dal Regio consigliere scolastico superiore per la Baviera (una specie di ministro dell’istruzione), Immanuel Niethammer, di un parere riservato sull’insegnamento della filosofia del ginnasio. In questo parere Hegel scrisse, tra l’altro: “In generale, si distingue il sistema filosofico, con le sue scienze particolari, dal filosofare vero e proprio. Secondo la moda moderna, specialmente della pedagogia, non si deve tanto venire istruiti nel contenuto della filosofia quanto imparare a filosofare senza contenuto; ciò vuol dire, pressappoco: si deve viaggiare, viaggiare sempre, senza conoscere le città, i fiumi, i paesi, gli uomini, ecc.”.[12] Evidentemente la tesi di Kant aveva avuto successo anche in Baviera, specialmente tra i pedagogisti, anche allora nemici dei contenuti ed amici soprattutto dei metodi (nihil sub sole novum).
A questa tesi (dei pedagogisti bavaresi, più che di Kant) Hegel risponde con tre argomenti. “In primo luogo, nel conoscere una città, nel giungere poi ad un fiume, ad un’altra città, e così via, si impara senz’altro, in tal modo, a viaggiare, e non s’impara soltanto, ma si viaggia effettivamente. Così quando si viene a conoscenza del contenuto della filosofia, non si impara soltanto il filosofare, ma si filosofa anche già effettivamente”.[13] Evidentemente per Hegel, a differenza che per Kant, la filosofia da qualche parte esiste già ed è costituita, come vedremo tra poco, da un lato dal sistema delle scienze filosofiche, quello che lo stesso Hegel si accingeva ad esporre nella sua Enciclopedia, e dall’altro dalla storia della filosofia, la cui conoscenza, secondo Hegel, è già un modo per filosofare.
“In secondo luogo – continua Hegel – la filosofia comprende i più alti pensieri razionali intorno agli oggetti essenziali, comprende l’universale e il vero dei medesimi: è di grande importanza acquisire familiarità con questo contenuto, e accogliere nella propria testa questi pensieri. Il procedimento triste, meramente formale, il perenne cercare e vagare, senza contenuto, l’asistematico sofisticare e speculare, hanno come conseguenza la vacuità e la mancanza di pensieri in testa, il fatto che non si sappia nulla. La dottrina del diritto, la morale, la religione costituiscono un campo dotato di un importante contenuto; anche la logica è una scienza ricca di contenuto: quella oggettiva (Kant: trascendentale) comprende i pensieri fondamentali di essere, essenza, forza, sostanza, causa, ecc.; l’altra i concetti, i giudizi, i sillogismi, ecc., determinazioni fondamentali altrettanto importanti; la psicologia comprende il sentimento, l’intuizione, ecc.; l’enciclopedia filosofica, infine, in generale questo campo nella sua interezza”. Il riferimento al “pensare con la propria testa” continua ad essere presente, ma viene inteso come un “accogliere nella propria testa questi pensieri”, e non in polemica con Kant, il quale anzi viene citato come autore della logica oggettiva. Si noti inoltre come Hegel non proponga quale contenuto della filosofia soltanto il proprio sistema, ma anche le discipline filosofiche tradizionali, di origine addirittura aristotelica.
Una riflessione merita anche, a mio avviso, la polemica contro “il perenne cercare e vagare”, oggi tanto di moda in nome della problematicità, della criticità, dell’apertura. La filosofia deve certamente cercare, lo dice il suo stesso nome, e il suo metodo non può essere che quello “zetetico”, come diceva Kant. Questi lo chiamava anche “metodo scettico”, ma aggiungeva subito: “Esso è da distinguere del tutto dallo scetticismo, principio di una inscienza secondo arte e scienza, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza”.[14] Un cercare fine a se stesso è solo ipocrisia, perché chi cerca sinceramente, cerca per trovare, non per cercare. Chi cerca solo per cercare, non cerca, ma finge di cercare, perché non gli importa assolutamente nulla di ciò che cerca. Anche il mio maestro, Marino Gentile, diceva che la filosofia è “un domandare tutto che è tutto domandare”, ma con ciò intendeva dire che essa non contiene alcuna risposta già data, cioè presupposta, non che essa non aspira ad alcuna risposta. Anzi, a questo proposito paragonava il domandare alla potenza, ed affermava con Aristotele che più della potenza conta l’atto, e che una potenza incapace di passare all’atto non vale nulla.
Infine, ecco il terzo argomento di Hegel: “In terzo luogo, il procedere nella conoscenza di una filosofia ricca di contenuto non è altro che l’apprendere. La filosofia deve essere insegnata e appresa, al pari di ogni altra scienza. L’infelice prurito di insegnare a pensare da sé (Selbstdenken) ed a produrre autonomamente ha messo in ombra questa verità; come se, quando io imparo che cosa sia la sostanza, la causa o qualsiasi altra cosa, non pensassi io stesso, non producessi io stesso nel mio pensiero queste determinazioni, ma queste venissero invece gettate in esso come pietre”. In queste parole, forse discutibili nell’equiparazione della filosofia a tutte le altre scienze, io leggo la preoccupazione di salvaguardare il carattere professionale della filosofia, e quindi anche del suo insegnamento. Non ci si improvvisa filosofi, la filosofia non è un’attività spontanea, immediata, dilettantesca, ma è anche una professione, un sapere, che richiede una competenza, professionalità. E non è detto che questa competenza serva solo per fare filosofia: nella Facoltà di Medicina dell’Università di Padova, ad esempio, si ritiene utile da qualche anno impartire agli studenti di medicina, che non faranno mai i filosofi, alcune lezioni di filosofia: non di “filosofia della medicina”, ma di filosofia pura e semplice, in cui si spieghino, nella fattispecie, le nozioni di causa, effetto, fine, ecc.
Hegel continua la sua perorazione con un esempio che farà discutere: “Come se, quando ho imparato bene il teorema di Pitagora e le sue dimostrazioni, non fossi io stesso a conoscere questo teorema e a dimostrarne la verità; nella misura in cui lo studio filosofico è in sé e per sé un’attività autonoma (Selbsttun, un fare da sé), esso è un apprendere; l’apprendere una scienza già esistente, formata”. Questa sembra essere proprio una risposta a Kant, il quale osservava che la filosofia non esiste come una scienza già bell’e fatta, che si possa apprendere da un libro, e vedeva in questo la sua differenza dalla matematica, in cui rientra appunto il teorema di Pitagora. E non si può dargli torto, se per scienza si s’intende una scienza come la matematica. Ma non è alla matematica che pensa Hegel, malgrado il suo esempio. Egli infatti aggiunge: “Questa è un patrimonio costituito da un contenuto acquisito, elaborato, formato: questo bene ereditario disponibile dev’essere acquistato dall’individuo, ossia, venire appreso. L’insegnante lo possiede: egli lo pensa dapprincipio, e dopo di lui lo ripensano gli allievi. Le scienze filosofiche contengono dei propri oggetti, pensieri universali, veri; esse sono il prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi; questi pensieri veri superano ciò che un giovane non istruito produce col proprio pensiero di quanto quella massa di lavoro geniale supera la fatica di questo giovane”. Dunque è nel “prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi”, cioè nella storia della filosofia, che va ricercata la filosofia: in questo, come abbiamo visto, anche Kant era d’accordo, quando, dopo avere affermato che “tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia”, precisava “salvo storicamente”.
Certo, la storia della filosofia che contiene in sé la filosofia non è quella che lo stesso Hegel ha definito “la filastrocca di opinioni”, da Talete a giorni nostri, che ci raccontano i (cattivi) manuali o le storie della filosofia di impostazione dossografica. Queste non possono che produrre, nei giovani, il più completo disorientamento, e quindi lo scetticismo. La storia della filosofia che contiene in sé la filosofia è costituita dalle opere dei grandi filosofi, dalle quali anche i giovani che frequentano il liceo possono attingere qualche briciola di filosofia, leggendone qualche pagina, come leggono qualche pagina della grande poesia o della grande letteratura. In tal modo essi possono, almeno una volta nella vita, fare esperienza di che cosa significa affrontare un problema di senso, o di verità, in modo razionale, cioè senza fare ricorso ad una tradizione familiare, o ad una fede religiosa, o ad un’ideologia politica, ma con argomentazioni, con discussioni a favore e contro, con domande, risposte e confutazioni.
Ma vediamo anche che cosa pensava Hegel a proposito dell’insegnamento della filosofia nell’università. Sempre da Norimberga, nell’agosto del 1816, quando ormai stava per essere chiamato alla cattedra di filosofia dell’università di Heidelberg (ma già aveva insegnato, come Privat-dozent, all’università di Jena), Hegel scrisse al Regio consigliere, questa volta del governo di Prussia, Friedrich von Raumer, una lettera sull’insegnamento della filosofia nell’università, nella quale esordisce così: “Comincio subito come in generale si potrebbe cominciare questo discorso, poiché può apparire una cosa molto semplice, con l’osservazione che per l’insegnamento della filosofia dovrebbe valere soltanto quello che vale per l’insegnamento delle altre scienze”.[15] Per capire il senso di queste parole bisogna aver vissuto la situazione del professore di filosofia nell’università, continuamente tenuto a dover giustificare, presso i suoi colleghi delle facoltà scientifiche, la sua presenza, il suo diritto al riconoscimento di una dignità scientifica, e quindi a spazi adeguati, finanziamenti adeguati, posti di collaboratore adeguati. Se tutto ciò è invece incerto, o in discussione, è per colpa di quanti presentano la filosofia non come un sapere, ma come un “pensare con la propria testa”. Per fare questo, infatti, che bisogno c’è di spazi, di fondi, di posti? Basta avere una testa.
Forse anche al tempo di Hegel c’erano filosofi che giustificavano i sospetti dei propri colleghi scienziati, poiché nella citata lettera egli scrive: “Abbiamo visto dare una maggiore ampiezza alle idee generali con l’aiuto della fantasia, che mescolava alto e basso, vicino e lontano in un modo brillante ed oscuro (sottolineatura mia), spesso con profondità ed altrettanto spesso con superficialità assoluta, ed inoltre utilizzava quelle regioni della natura e dello spirito che sono per se stesse oscure ed arbitrarie. Un cammino opposto, diretto anch’esso ad una maggiore estensione, è quello critico e scettico, che ha nel materiale esistente una materia nella quale esso procede ma che d’altronde vanifica, traendone dispiacere e risultati negativi, fonti di noia. Se questo cammino serve pure in qualche modo ad esercitare l’acume, mentre il mezzo della fantasia vorrebbe invece sortire l’effetto di svegliare un effimero fermento dello spirito – ciò che si chiama anche edificazione – e di accendere di per sé nei pochi l’idea universale, nessuna di queste maniere fa tuttavia ciò che va fatto, e che è lo studio della scienza ”.[16]
L’insegnamento della filosofia nell’università (non stiamo più parlando del ginnasio o del liceo) dunque non deve né edificare, né semplicemente esercitare l’acume: altre discipline possono svolgere questo compito, forse meglio della stessa filosofia. Quanto al “modo brillante ed oscuro” con cui alcuni insegnano filosofia nell’università, Hegel coglie perfettamente la disonestà di questo atteggiamento, che per fare effetto si sottrae ad ogni possibilità di controllo, ed approfitta dell’inferiorità culturale degli studenti per épater. Piero Martinetti diceva, come è noto, che la chiarezza è l’onestà del filosofo, perché permette a tutti di valutare “con la propria testa” se ciò che il filosofo dice risponde a verità, o è minimamente convincente. Quando invece un filosofo è oscuro, chi può valutare ciò che egli afferma? La chiarezza è l’analogo, per il filosofo, di ciò che è il teatro anatomico per l’anatomista: in esso tutti possono constatare con i propri occhi, a distanza ravvicinata, se ciò che il docente afferma corrisponde a ciò che si vede.
Ma nell’università c’è un altro rischio che Hegel chiaramente denuncia, quello per cui ciascun professore vuole avere e insegnare il suo proprio sistema. “È diventato un pregiudizio – scrive Hegel sempre nella lettera a von Raumer – , e non solo nello studio filosofico, ma anche nella pedagogia – e in questa ancor più grave – che il pensare indipendente (Selbstdenken) debba essere esercitato e sviluppato, in primo luogo, nel senso che esso non dipenda dall’elemento materiale e, in secondo luogo, come se l’imparare fosse opposto al pensare indipendente […]. Secondo un errore comune, sembra che su un pensiero il sigillo dell’indipendentemente pensato (des Selbstgedachten) sia impresso solo quando esso si scosti dai pensieri degli altri uomini […]. In altre parole, è nata da qui la smania per cui ciascuno vuole avere un suo proprio sistema, e per cui un’idea è considerata tanto più originale ed eccellente quanto più è insulsa e folle, poiché essendo tale essa mostra al massimo la propria originalità e diversità dai pensieri degli altri”.[17]
L’errore a cui Hegel allude è quello di credere che “pensare con la propria testa” voglia dire avere un proprio sistema filosofico, necessariamente diverso da quelli già pensati da altri, e che il valore principale in filosofia non sia la verità, ma l’originalità. Naturalmente l’ammonizione a non cadere in questo errore vale sia per i docenti che per gli studenti. Ai docenti bisognerebbe inoltre ricordare quanto ebbe a scrivere Max Weber nella sua famosa conferenza su La scienza come professione, cioè che “la cattedra non è per i profeti e i demagoghi. Al profeta e al demagogo è stato detto: ‘Esci per le strade e parla pubblicamente’. Parla, cioè, dov’è possibile la critica. Nell’aula, ove si sta seduti di faccia a i propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza del senso di responsabilità approfittare di questa circostanza – per cui gli studenti sono obbligati dal programma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire a controbatterlo – per inculcare negli ascoltatori le proprie opinioni, invece di recar loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche”. E più oltre: “L’insegnante universitario deve desiderare e proporsi di giovare con le sue conoscenze e i suoi metodi”.[18]
Contro l’originalità a tutti i costi, che spesso si trasforma in oscurità e incapacità di comunicare, Hegel osserva: “La filosofia ottiene la possibilità di essere appresa, per mezzo della sua determinatezza, con tanto maggiore precisione quanto più essa diventa, in tal modo soltanto, comunicabile e capace di divenire un bene comune. Come essa, da una parte, vuole essere oggetto di uno studio particolare, e non è già per natura un bene comune per il solo fatto che ogni uomo in generale è dotato di ragione, così la sua universale comunicabilità le toglie anche l’apparenza – che, tra le altre, essa ha avuto negli ultimi tempi – di essere un’idiosincrasia di alcune menti trascendentali”.[19] Da un lato, insomma, non si deve credere che ogni uomo sia filosofo per il solo fatto di possedere la ragione, perché la filosofia, come abbiamo visto, è un sapere ed esige una precisa competenza, una professionalità; dall’altro lato, essa è un sapere comunicabile, non riservato soltanto a pochi iniziati, o a menti dotate di un quoziente intellettuale eccezionale, ma deve essere resa accessibile a tutti, tramite – ovviamente – un adeguato lavoro di studio e di apprendimento.
Infine contro la concezione della filosofia come edificazione Hegel scrive: “Come scienza propedeutica la filosofia ha in particolare da provvedere all’educazione (Bildung) e all’esercizio formale del pensiero; essa può far ciò solo per mezzo di un completo allontanamento dal fantastico, per mezzo della determinatezza dei concetti e di un procedimento conseguente e metodico; essa deve poter procurare quell’esercizio in una misura superiore alla matematica poiché non ha, come questa, un contenuto sensibile. Ho menzionato prima l’edificazione che spesso ci si attende dalla filosofia; a mio parere, anche quando viene presentata alla gioventù essa non deve mai essere edificante. Ma deve soddisfare ad un bisogno affine […]; compito della filosofia dev’essere giustificare ciò che ha valore per la conoscenza, coglierlo e comprenderlo in pensieri determinati e quindi proteggerlo da oscure deviazioni”[20].
Ebbene, l’unica conoscenza filosofica su cui esista l’accordo universale tra i filosofi è la conoscenza della storia della filosofia. Perciò anche in Francia, recentemente, si è messa in discussione la “dottrina ufficiosa”, cioè tradizionale, secondo la quale bisogna insegnare a fare della filosofia, come risulta dal già citato Manifesto. Tale discussione ha portato a proporre tutta una serie di nuovi “cantieri”, ovvero criteri, per l’insegnamento della filosofia. Tra i primi ce n’è subito uno che recita: “Riconoscere che l’imparare a filosofare implica un apprendimento e che insegnare la filosofia è un mestiere”[21]. Rimane dunque lo scopo della “dottrina ufficiosa”, ma si riconosce che, per attingerlo, è necessario apprendere prima qualche cosa, cioè un insieme di conoscenze. Di conseguenza l’insegnante di filosofia – si sta parlando del liceo – prima di essere un filosofo, deve essere un professionista che sa trasmettere tale insieme di conoscenze. Infatti il “cantiere” continua dicendo: “Non è privo di controindicazioni identificare puramente e semplicemente il professore di filosofia con un filosofo. Chi fa il filosofo davanti ai suoi allievi non dà loro una formazione, perché li tratta come i discepoli che non saranno mai”.
Un altro “cantiere” del nuovo manifesto recita: “Riconoscere che la filosofia non serve soltanto a filosofare”, e spiega: “ L’insegnamento della filosofia non potrebbe giustificare la posizione che occupa oggi – e ancor meno la sua presenza nei corsi scolastici e universitari – se non potesse mostrare la sua utilità nella formazione intellettuale e culturale di tutti gli allievi”.[22] E un altro ancora recita: “Formarsi alla filosofia significa apprendere a pensare attraverso l’appropriazione di conoscenze filosofiche e non-filosofiche. Si è usato ed abusato della formula kantiana secondo cui non si può apprendere la filosofia ma solo a filosofare”, e spiega: “Per esempio, se il corso di filosofia è organizzato per problemi, questi non possono in modo serio essere affrontati dagli allievi se non attraverso la conoscenza delle principali opzioni filosofiche da cui derivano e attraverso la padronanza progressiva delle distinzioni concettuali che consentono di dar loro un senso. Queste opzioni e queste distinzioni non hanno niente di naturale o di spontaneo. È nella storia della filosofia che esse sono state prodotte ed è solamente lì che possono essere ritrovate. Non si può sfuggire alla domanda: che cosa gli allievi che si accostano al filosofare devono conoscere della storia della filosofia?”.[23]
Nel leggere queste parole si ha l’impressione di trovarsi davanti ad una vera e propria ritrattazione di tutte le critiche che da parte francese sono state rivolte alla scuola italiana ed alla preminenza in essa data all’insegnamento della storia della filosofia. Certo, il metodo “italiano” di insegnare filosofia nei licei non è esente da critiche, specialmente a causa delle deformazioni che i programmi originari della riforma Gentile hanno subito ad opera dei decreti De Vecchi, della conseguente introduzione dei manuali di storia della filosofia e della progressiva sostituzione della lettura dei classici con la “filastrocca di opinioni” menzionata sopra. Contro queste deformazioni ha inteso andare la relazione della Commissione Brocca, quando ha indicato nella lettura dei testi il momento fondamentale e caratterizzante dell’insegnamento della filosofia, dove per “testi” ovviamente si intendono – purtroppo c’è bisogno di precisarlo – le opere dei filosofi, possibilmente dei “grandi” filosofi.
Qualcuno obietterà che non sta scritto da nessuna parte quali sono i “grandi” filosofi e che la loro identificazione dipende dal tipo di filosofia che si professa. Ciò non è vero: come in letteratura esistono i “grandi” poeti, e a scuola si fanno leggere questi, così in filosofia esistono i “grandi” filosofi, cioè i classici, quelli che ritornano continuamente, quelli di cui non si può fare a meno. La loro esistenza si tocca con mano proprio quando si insegna la filosofia contemporanea. Per esempio all’università la maggior parte degli studenti vogliono occuparsi di filosofi contemporanei. Heidegger, naturalmente, è uno di quelli che vanno per la maggiore. Ma quando gli studenti ne prendono in mano le opere, si accorgono che Heidegger non fa che parlare di Platone e di Aristotele, di Kant e di Hegel (per non dire dei presocratici e di Nietzsche), e che non si capisce nulla di Heidegger se non si conoscono questi altri filosofi. Per questo la Commissione Brocca aveva indicato come autori obbligatori Platone, Aristotele, Kant e Hegel, scatenando una ridda di proteste, specialmente da parte dei filosofi analitici, i quali rivendicavano l’importanza degli inglesi (Locke, Hume, Mill). Ebbene, aggiungiamo pure qualche inglese, per far contenti gli analitici, e qualche francese (Descartes, Pascal), per far contenti i francesi (ma allora anche Vico), e qualche santo (Agostino, Tommaso), per far contenti i cattolici. In ogni caso, restiamo ben lontani dalla “filastrocca di opinioni” del manuale.
Non mi addentro nel problema di come leggere i classici, su cui esiste tutta una letteratura. L’importante è anzitutto capirli, realizzando quella che Gadamer chiamava la “fusione di orizzonti”, e poi discuterli, cioè metterli in questione e, se necessario, criticarli. Mentre sulla prima operazione concordo con gli ermeneutici, che oggi sono la maggioranza dei “continentali”, sulla seconda concordo con gli “analitici”, che discutono con i classici come si fossero nostri contemporanei. Le due operazioni sono entrambe necessarie e si riassumono in quell’attività che Aristotele per primo, credo, definì con un verbo che è rarissimo incontrare nella letteratura greca, cioè sumphilosophein, “confilosofare”, fare filosofia insieme. Facendo rientrare anche l’amicizia (philia) tra gli ingredienti che costituiscono la felicità, Aristotele concluse infatti la sua grande trattazione di questa virtù (due interi libri dell’Etica Nicomachea) dichiarando che, per gli amici, cioè per le persone che si vogliono bene, la cosa più desiderabile è fare insieme le cose in cui ciascuno maggiormente identifica il proprio essere, ossia ciò per cui desidera vivere: per i bevitori bere insieme, per i giocatori giocare insieme, per i patiti di ginnastica o per i cacciatori fare ginnastica insieme o andare a caccia insieme, per i filosofi fare filosofia insieme[24]. E chi, per un filosofo, può essere più amico dei grandi filosofi? Quindi facciamo filosofia insieme a Platone o ad Aristotele, a Kant o a Hegel, a Hume, a Wittgentsein o a Heidegger, leggendo e discutendo insieme le loro opere.
Non si tratta, dunque, di apprendere la filosofia da un unico libro che la contenga tutta già bell’e fatta, come temeva Kant: la filosofia non è la geometria (per questo l’esempio del teorema di Pitagora, portato da Hegel, non è il più calzante), cioè non è un discorso dotato di propri principi, a partire dai quali si possano dimostrare dei teoremi. La filosofia, come diceva Hegel, non ha il vantaggio di poter presupporre il proprio oggetto e il proprio metodo, cioè non ha principi. Essa mette in questione tutto, è un “domandare tutto che è tutto domandare”, ma tuttavia non è stata inventata né oggi né ieri, né ciascuno può inventarla da sé. Essa esiste già da tempo e va quindi cercata. Ma bisogna cercarla là dove essa si può trovare, cioè nelle opere dei grandi filosofi, e bisogna imparare a filosofare insieme con loro, cioè partecipando alla loro ricerca. Anche questo è un metodo “zetetico”, come quello voluto da Kant.
Se posso tentare di riassumere l’intero discorso in poche parole, distinguerei ancora una volta l’insegnamento della filosofia nel liceo dall’insegnamento della filosofia nell’università. Nel liceo la filosofia viene insegnata a tutti, anzi molti di noi auspicano che venga insegnata anche negli ex istituti tecnici, in modo che tutti i ragazzi italiani possano fare esperienza, almeno una volta nella vita, di che cosa significa affrontare un problema di senso in modo razionale. Ma dove la filosofia viene insegnata a tutti, non si può pretendere che tutti diventino filosofi. Quindi la filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.
Enrico Berti
[1] F. D’Agostini, Pensare con la propria testa. Un problema metafilosofico e le sue implicazioni filosofiche, “Intersezioni”, 23, 2003, pp. 271-290.
[2] K. Mulligan, Searle, Derrida and the Ends of Phenomenology, in B. Smith (ed.), The Cambridge Companion to Searle, Cambridge 2003.
[3] I. Kant, Scritti sul criticismo, Roma-Bari 1991, pp. 5-6.
[4] E. Kant, Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766, in Vega Scalera, L’insegnamento della filosofia dall’unità alla riforma Gentile, Firenze 1990, doc. 9, sez. 52.
[6] E. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, riveduta da V. Mathieu, Bari 1959, pp. 649-650.
[7] Cf. ACIREPH (Association pour la création des Instituts de Recherche sur l’Enseignement de la Philosophie), Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia, per un possibile confronto con l’Italia, trad. di M. Trombino, in S. Martini (a cura), Per un laboratorio di didattica della filosofia, Roma 2004, pp. 89-114, spec. p. 101.
[8] I. Kant, Epistolario kantiano,Genova 1990, p. 54.
[12] G. W. F. Hegel, La scuola e l’educazione. Discorsi e relazioni (Norimberga 1808-1816), a cura di L. Sichirollo e A. Burgio, Milano 1985, p. 105 (corsivi nel testo).
Sembrava che la scienza moderna avesse confutato Aristotele per sempre. In realtà, oggi le sue idee sono tornate in auge in tanti modi: come l’irreversibilità del tempo di I. Prigogine, l’unità mente-corpo o il continuo matematico in R. Thom. Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni.
La fortuna di Aristotele nella storia della cultura si è sviluppata a periodi alterni rispetto alla fortuna di Platone. Mentre Platone fu amato soprattutto nella tarda antichità, dai filosofi cristiani e dai neoplatonici, e poi dagli umanisti del Rinascimento, Aristotele fu riscoperto dai musulmani nel Medioevo e, per influenza di questi, dai filosofi cristiani della Scolastica, che lo chiamarono «il Filosofo» per antonomasia o, con Dante, «il maestro di color che sanno». Il califfo al-Mamun, regnante a Baghdad nel IX secolo, dichiarò addirittura di aver visto Aristotele in sogno e di averlo sentito proclamare la verità fondamentale dell’Islam, cioè che c’è un solo Dio. I più grandi filosofi musulmani, come l’arabo al-Kindi, il turco al-Farabi, il persiano Ibn Sina (Avicenna) e l’andaluso Ibn Rushd (Averroè), furono tutti aristotelici. Altrettanto si può dire di filosofi cristiani come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, ma anche di Giovanni Duns Scoto e di Guglielmo di Occam. Indubbiamente musulmani e cristiani – ma anche ebrei come Mosè Maimonide – videro nel pensiero di Aristotele, interpretato attraverso il neoplatonismo, il sostegno più solido, cioè più “scientifico”, alle rispettive teologie. Così Aristotele divenne, senza sua colpa, il filosofo dei teologi. Nel Rinascimento gli umanisti riscoprirono Platone, di cui rifondarono a Firenze l’Accademia, ma Aristotele rimase nelle università, in tutte le università europee, di cui costituì il fondamento filosofico. Se Lutero insultò Aristotele, da lui visto come il filosofo della Scolastica, il suo allievo e continuatore Melantone ne fece il maestro delle università protestanti dell’intera Germania. La nascita della scienza moderna, con Galilei e Descartes, determinò nel Seicento l’eclissi della fisica e della cosmologia aristoteliche, ma la logica aristotelica continuò a dominare l’insegnamento universitario almeno fino a Kant, il quale dichiarò – anche se a torto – che dopo Aristotele la logica generale, cioè formale, non aveva fatto alcun progresso. Anche la metafisica di Aristotele riscosse nell’Ottocento l’ammirazione di Hegel, che vide in essa la vera logica della filosofia aristotelica, ma fu sfruttata anche dai critici di Hegel, cioè Feuerbach, Marx e Kierkegaard, che trovarono in essa gli argomenti con cui criticare Hegel. Non parliamo poi di Brentano, che insegnò Aristotele a Husserl, a Meinong, a Twardowski, a Freud e, da postumo, a Heidegger. Nell’Ottocento ebbe una breve eclissi l’etica di Aristotele, temporaneamente soppiantata dall’etica di Kant e poi dall’utilitarismo e dalle scienze umane (antropologia, psicologia, sociologia). Ma quando, a metà del Novecento, ci si rese conto dell’incapacità delle scienze umane di dare giudizi di valore e quindi di orientare la prassi, venne riscoperta l’etica aristotelica, anzi la «filosofia pratica» di Aristotele, intesa come forma di razionalità non scientifica e tuttavia autentica, capace di orientare la prassi. Di qui la valorizzazione della “saggezza” a opera di Gadamer e della sua scuola, delle virtù in generale da parte di McIntyre e dei comunitaristi, della nozione di eudaimonia come piena realizzazione delle capacità umane da parte di Martha Nussbaum e persino di un economista come Amartya Sen. Ma con la filosofia pratica di Aristotele è stata riscoperta anche la sua filosofia politica, che indica nella naturalità della polis la possibilità di un superamento dello Stato moderno ormai manifestamente in declino per la perdita dell’autosufficienza. Un’utilizzazione della politica aristotelica nella direzione di una società politica multinazionale si trova nel cosiddetto «gruppo di Chicago», formato dal cattolico J. Maritain, dal protestante R.M. Hutchins, dall’ebreo M.J. Adler e da altri, autori nel 1951 di un progetto di costituzione mondiale. La metafisica di Aristotele; oltre a rimanere alla base del tomismo, sia pure addomesticata secondo le esigenze della fede cattolica, continua a ispirare, con la sua dottrina delle categorie, della polisemia dell’essere, del cosiddetto focal meaning, gran parte della filosofia analitica anglo-americana, a cominciare dalla Scuola di Oxford. Ma ciò che è più sorprendente è la ripresa di alcuni aspetti della fisica aristotelica, quali la teoria del continuo a opera del matematico R. Thom e la teoria della irreversibilità del tempo a opera di Ilya Prigogine. Sempre in tema di scienza, la biologia di Aristotele non ha mai conosciuto alcuna eclissi, suscitando l’ammirazione di C. Darwin nell’Ottocento e di Max Delbrück, di Ernest Mayr, di François Jacob nel Novecento. E, sempre in tema di scienza, la psicologia di Aristotele, cioè la sua concezione dell’anima non come realtà a sé, ma come capacità del corpo di vivere e di funzionare a diversi livelli, è stata vista da molti come la soluzione più convincente del cosiddetto Mind-BodyProblem, per esempio da Hilary Putnam, che ha intitolato la prima parte del suo Words and Life (1994) «Aristotele dopo Wittgenstein».
Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni Di fronte a questa massiccia presenza nella filosofia contemporanea fanno sorridere le accuse, rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni, di avere concepito la metafisica come «onto-teologia», di avere dimenticato l’Essere e simili amenità. Del resto, uno dei più intelligenti filosofi post-moderni, Gianni Vattimo, malgrado le sue origini heideggeriane, nella sua autobiografia (Non Essere Dio, 2006) dichiara: «L’Essere non è altro che questo: il senso della parola “essere” nella storia della nostra lingua e nell’uso che ne facciamo» (pag. 133). Esattamente come sosteneva Aristotele.
Enrico Berti, La rinascita di Aristotele, pubblicato in «Il Sole-24 Ore», 10 dicembre 2006, p. 41.
Aristotele non era un teologo
Aristotele è senza dubbio il filosofo antico più utilizzato dai teologi cristiani e musulmani come base filosofica per la loro visione monoteistica della realtà. I cristiani dapprima privilegiarono Platone e il neoplatonismo – si veda il caso notissimo di Agostino –, ma poi, al seguito dei musulmani, che avevano fatto di Aristotele una specie di secondo Maometto, ne fecero anch’essi “il Filosofo” per eccellenza (per esempio Tommaso d’Aquino) e «il maestro di color che sanno» (Dante). È noto che, secondo una tradizione araba, Aristotele sarebbe apparso in sogno al califfo al-Mamun e gli avrebbe detto: «Il tuo dovere è dichiarare l’unicità di Dio», cioè precisamente la verità fondamentale dell’Islam. I musulmani videro infatti nel primo motore immobile, di cui Aristotele dimostra la necessità nel libro XII della Metafisica, l’unico Dio, creatore e signore del cielo e della terra, e quindi interpretarono questo libro come una specie di teologia, seguendo del resto in questo i commentatori greci tardo-antichi. A dire il vero essi dovettero trovare un po’ scarse le indicazioni teologiche fornite da Aristotele nel libro in questione, perché pensarono di confezionare un’opera intitolata Teologia di Aristotele, desumendone il contenuto dalle opere ben più ricche, in questo senso, di Plotino. E i cristiani furono tratti in inganno da questo falso, confermandosi nell’idea che Aristotele fosse il creatore della teologia naturale, o razionale. Dante, da sommo poeta qual era, riuscì a presentare il Motore immobile, che «muove in quanto amato», come «l’Amor che move il sole e l’altre stelle». Naturalmente le differenze tra il primo motore immobile di Aristotele e il Dio della Bibbia, concordemente adorato da cristiani e musulmani, erano sotto gli occhi di tutti: ma esse divennero un pretesto per attaccare Aristotele, accusato di avere professato un concetto di Dio troppo astratto, meccanico, impersonale, egoista (il mio professore di filosofia antica, Carlo Diano, parlava con scherno del Dio di Aristotele «che si guarda la pancia»). In tale opera di denigrazione si scatenò una nobile gara fra cristiani e musulmani, che toccò i suoi vertici in campo musulmano col teologo al-Gazali, nemico dei filosofi aristotelizzanti, e in campo cristiano con Lutero, noto per avere ricoperto il povero Aristotele degli insulti più feroci (ma già Petrarca si era lasciato un po’ andare). Ancora oggi i musulmani e i cristiani integralisti non possono soffrire il “Motore immoto” di Aristotele, dichiarando che tale espressione fa pensare a un autocarro in panne e opponendogli, con Pascal, «il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo». Solo da pochi anni studiosi benemeriti hanno ristabilito la verità storica, mostrando che Aristotele non voleva affatto essere un teologo, che per lui la “teologia” non era una disciplina filosofica, ma l’insieme dei miti sugli dèi narrati dai poeti, e che gli dèi per lui erano semplicemente dei «viventi immortali e felici», i quali si distinguono dagli uomini perché questi sono, al contrario, mortali e infelici. Esemplare è stato in questo senso il libro di Richard Bodéüs, Aristote et la théologie des vivants immortels (Montréal 1992). A risultati analoghi sono giunti i contributi pubblicati nel volume della rivista «Humanitas» (4/2005) sotto il titolo Dio e il divino nella filosofia greca, a cura di Maurizio Migliori e Arianna Fermani, ma soprattutto il bel libro di Barbara Botter, Dio e Divino in Aristotele, uscito nella collana “Intemalional Aristotle Studies”, diretta da Carlo Natali (Academia Verlag 2005). Quest’ultimo dimostra infatti con argomenti convincenti che in Aristotele e nei filosofi “pagani” in generale il termine “dio” è usato non come nome proprio, e nemmeno prevalentemente come sostantivo, bensì come attributo, o predicato, avente la funzione di indicare un grado di eccellenza in una scala ordinata di enti. Esso pertanto può essere attribuito agli dèi della religione tradizionale, ma anche agli astri, al mondo stesso nel suo insieme, all’intelletto umano, e anche al primo motore immobile. Ma in nessun caso dovrebbe essere scritto con l’iniziale maiuscola e senza articolo, come se fosse un nome proprio, bensì sempre con la minuscola e l’articolo, cioè “il dio”, come diciamo “l’uomo” o “il cavallo”. Ovviamente in un contesto monoteistico si scriverà “Dio” senza articolo. Se questa regola venisse seguita più in generale, si eviterebbe l’uso fastidioso di scrivere la parola con la maiuscola o la minuscola per mostrare che si crede o non si crede in Dio. Una conferma a queste ricerche viene anche dalla pubblicazione, per la prima volta in traduzione italiana, di un’opera nota solo agli specialisti, le Divisioni, tramandate come opera di Aristotele da alcuni manoscritti e, in versione un po’ diversa, da Diogene Laerzio, a cura di Cristina Rossitto, che ne ha fornito anche un’ampia introduzione e un accurato commento (Bompiani 2005). Quest’opera è emblematica dell’uso che la tarda antichità fece di Aristotele. È molto probabile, infatti, che essa risalga, nel suo nucleo fondamentale, proprio ad Aristotele, come hanno sostenuto anche W.D. Ross e O. Gigon, anzi all’Aristotele giovane, ancora membro dell’Accademia platonica, come ipotizza Rossitto. Ma non c’è dubbio che vi hanno messo le mani anche altri autori, cristiani o comunque teisti, come risulta inequivocabilmente da alcuni passi. In essa si parla infatti degli dèi come di viventi immortali, a cui sono dovuti onori e pratiche di culto e ai quali appartengono beni specifici, quali l’eternità, e beni comuni anche agli uomini, quali l’eccellenza e la bellezza, ma non altri beni puramente umani quali la temperanza, il coraggio e la giustizia. In un passo di essa, tuttavia, come esempio di viventi immortali vengono citati non gli dèi, bensì gli angeli, specie in tale veste del tutto sconosciuta ad Aristotele, ma ben nota ai seguaci della Bibbia, che non potevano ammettere l’esistenza di una molteplicità di dèi.
Enrico Berti, Nuovi studi dimostrano che Aristotele non era un teologo, pubblicato in: Domenicale de Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2006, p. 16.
Migliori e A. Fermani (a cura di), «Dio e il divino nella filosofla greca», “Humanitas”, LX (2005), n. 4. pp. 658-920.
B. Botter, «Dio e Divino in Aristotele», Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, pp. 306.
Aristotele ed altri autori, «Divisioni», a cura di C. Rossitto, Bompiani, Milano 2005, pp. 526.
«Platone – […] la ricchezza non ha nulla a che fare col bene della città. Mi sembra di avere portato argomenti abbastanza chiari a questo proposito nella Repubblica» (p. 20).
«Aristotele – Le elargizioni di denaro fatte per sedurre la moltitudine sono l’uso peggiore che si può fare della ricchezza. Esse producono infatti nei cittadini un piacere di breve durata e non portano alcun contributo permanente al bene comune […]» (p. 25).
«Aristotele – […] la sazietà, come dice il proverbio, genera prepotenza, mentre la mancanza di cultura, accompagnata da molti mezzi, genera stoltezza. In effetti, per coloro che sono di poco valore nelle cose che riguardano l’anima, né la ricchezza, né la forza, né la bellezza sono dei beni […]» (p. 55).
«Aristotele – Bisogna poi precisare che l’avarizia non consiste solo nello spendere troppo poco, ma anche nel desiderare troppo il denaro, nell’anteporre la ricchezza a qualunque altra cosa, nell’impegnare tutta la propria vita nell’unica attività del far soldi. Intesa in questo senso, l’avarizia, o meglio l’avidità di denaro, è oggi il vizio forse più diffuso» (p. 61).
«Aristotele – […] I bisogni umani, per natura, sono limitati, come risulta dal fatto che uno non può mangiare più di tanto, […] eccetera. Ora, l’arte di procurarsi i beni necessari a soddisfare questi bisogni è un’arte secondo natura, cioè giusta, buona, morale. Se invece uno vuole procurarsi una quantità di beni illimitata, va contro la stessa natura dell’uomo, e la sua arte sarà un’arte contro natura, cioè ingiusta, immorale. Teofrasto – Ma come è nata, Aristotele, quest’arte contro natura e immorale che chiamiamo crematistica? Aristotele – Essa è nata da un fatto del tutto naturale, cioè lo scambio dei beni. Poiché non tutti sono in grado di fare tutto, come spiega bene Platone nella Repubblica, gli uomini che abitano la città si distribuiscono i compiti, e l’uno fa il contadino, l’altro fa il calzolaio, il terzo fa il sarto, e così via. Ciascuno di questi produce un bene, o un servizio, in misura superiore a quella di cui ha bisogno per la sua famiglia, mentre non produce altri beni di cui pure ha bisogno. Nasce così la necessità di scambiarsi le merci: chi produce un certo bene in eccesso, ne dà una parte a chi non lo produce ma ne ha bisogno, per avere in cambio da lui ciò di cui ha bisogno lui e che l’altro produce in eccesso. Questo fa sì che ogni bene prodotto abbia, per così dire, due valori, un valore d’uso, che è quello per cui viene usato, e un valore di scambio, che è quello per cui viene scambiato. Un tale scambio è del tutto naturale, quindi è giusto e morale. Teofrasto – E come accade che da questo scambio naturale e giusto nasca la crematistica contro natura e immorale? Aristotele – Per comprenderlo, bisogna fare attenzione al mezzo di cui gli uomini si servono per facilitare lo scambio, cioè il denaro, la moneta. Questa infatti è un oggetto equivalente a qualunque possibile merce, perciò può essere usata al posto di qualsiasi merce, quando la merce non sia disponibile. Supponiamo che io abbia bisogno di un paio di scarpe, il cui valore è pari a quello di un sacco di grano, mentre il fabbricante di scarpe ha bisogno del grano. In luogo di questo io darò al fabbricante di scarpe una quantità di denaro pari al valore delle scarpe, e anche del sacco di grano, col quale egli potrà procurarsi il grano da chi lo produce. Questo è l’uso naturale, e quindi giusto, del denaro. Se io, invece, non ho bisogno di scarpe, ma le acquisto ugualmente pagando una certa quantità di denaro, allo scopo di rivenderle in cambio di una quantità di denaro maggiore, allora il fine dello scambio non sarà più quello di soddisfare un mio bisogno, ma sarà semplicemente quello di procurarmi una quantità maggiore di denaro. In questo caso lo scambio non sarà più naturale, ma sarà contro natura. La crematistica nasce quando, in luogo di scambiare merce con denaro, per ottenere altra merce, si scambia denaro con merce per ottenere altro denaro. Io mi sono spiegato con un esempio molto banale. Ma se tu moltiplichi questo tipo di scambi in quantità smisurata, vedi che nasce un’attività ugualmente smisurata, consistente nel cercare di procurarsi denaro all’infinito. In questo modo la ricchezza, costituita dal denaro, non è più il mezzo necessario a soddisfare i bisogni propri o della propria famiglia, ma diventa essa il fine, e questo è innaturale, quindi ingiusto e immorale. La cosa è ancora più evidente nella pratica dell’usura, dove non si scambia denaro con merce, ma denaro con denaro, cioè si presta denaro in una certa quantità per ottenerne, dopo qualche tempo, altro denaro in quantità maggiore. In tal caso il denaro serve a produrre altro denaro e quindi l’usura diventa l’emblema della crematistica smisurata» (pp. 64-67).
«Aristotele – […] Vorrei una città che conservi al suo interno […] l’uguaglianza tra i suoi cittadini, la libertà di discutere e decidere tutti insieme sulle cose da farsi, la divisione dei poteri, la giustizia, l’aspirazione alla pace. Una città […] in cui la preoccupazione più importante dei cittadini non sia quella di procurarsi le ricchezze, ma quella di vivere bene, cioè di essere felici, realizzando tutte le proprie capacità, non solo fisiche, ma anche spirituali, per mezzo dell’educazione, dell’arte, della scienza, della filosofia». Platone – È proprio bello questo che tu dici, Aristotele! Speriamo che un giorno si avveri. Vedo però che anche tu ti abbandoni alle utopie, come hai rimproverato me di fare. In realtà un po’ di utopismo è sempre necessario, altrimenti ci si rassegna alla realtà esistente e non si cerca più di migliorarla» (pp. 89-89).
***
Enrico Berti, Aristotele. Ebulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Falsi Originali [Collana diretta di Giovanni Casertano], Guida Editori, Napoli 20129.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [109]. In copertina: Statua in bronzo di Aristotele, ingresso della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, Germania. In quarta di copertina: Paul Klee, Die Zeit, 1933.
Questo volume raccoglie alcuni fra i principali studi di Enrico Berti su Martin Heidegger. Il filosofo tedesco è stato infatti una presenza costante negli studi composti in questi decenni dallo studioso padovano, sovente in rapporto al pensiero di Aristotele. Con il suo consueto approccio “classico”, in questi saggi Berti non si limita a descrivere, ma valuta, ossia prende posizione, anche critica, nei confronti di colui che pure definisce come il maggiore pensatore del XX secolo.
Indice
Introduzione
Il nichilismo dell’Occidente secondo Nietzsche, Heidegger e Severino
L’influenza di Heidegger sulla «riabilitazione della filosofia pratica» Gadamer, o della «phronesis» Ritter, ovvero dell’«ethos» Hannah Arendt, o della «praxis»
Heideggers Auseinandersetzung mit dem
Platonisch-Aristotelischen Wahrheitsverständnis Aristoteles Platon Abschluß
Heidegger and the Platonic Concept of Truth
Le passioni tra Heidegger e Aristotele Appendice
Heidegger e il libro Epsilon della Metafisica di Aristotele Prologo Prime citazioni di Aristotele (Friburgo, 1921-1923) Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): l’essere come verità Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): essere ed ente Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo (1929): di nuovo l’essere come vero Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo: la metafisica come «ontologia» Conclusione
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Qui di seguito sono riportati i riferimenti bibliografici relativi ai saggi raccolti nel presente volume.
I In tema di dialettica
Come argomentano gli ermeneutici? “Filosofia ‘91”, a cura di G. Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 13-32. La complessità della ragione “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 154, gennaio-aprile 1995, pp. 27-40. Logo e dialogo “Studia Patavina”, 42, 1995, pp. 31-42. La dialettica antica come modello di ragionevolezza “Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica”, 7, 2002, pp. 17-28. Il principio di non contraddizione: storia e significato P. Bria e F. Oneroso (a cura), Bilogica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 22-32.
II In tema di metafisica
Per una metafisica problematica e dialettica “Acta philosophica”, 1, 1992, pp. 176-190 (anche in “Per la filosofia”, 9, 1992, pp. 3-15). La via “dinamico-noologica” alla trascendenza divina in S. Biolo (a cura), Trascendenza divina. Itinerari filosofici, Contributi al XLVIII Convegno del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, aprile 1993, Torino, Rosenberg & Sellier, 1995, pp. 57-71. La prospettiva metafisica tra analitici ed ermeneutici “Seconda navigazione – Annuario di filosofia 2000”, Milano, Mondadori, 2000, pp. 45-62. Quale metafisica per il terzo millennio? in Proceedings of the Metaphysics for the Third Millennium Conference (Rome, September 5-8, 2000), Editorial de la Universidad Tecnica Particular de Loja (Equador), 2001, vol. I, pp. 29-44. Una metafisica (espistemologicamente) “debole” “Annuario Filosofico”, 16, 2000, Milano, Mursia, 2001, pp. 27-41. Metafisica debole? in Quale metafisica?, “Hermeneutica”, n. s., 2005, pp. 39-52. Dialogo su Aristotele in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi (a cura), Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 75-90.
III In tema di filosofia pratica Sostanza e individuazione in AA. VV., La tecnica, la vita, i dilemmi dell’azione (“Seconda navigazione – Annuario di filosofia 1998”), Milano, Mondadori, 1998, pp. 143-160. Dal personalismo all’identità personale in A. Bottani e N. Vassallo (a cura), Identità personale. Un dibattito aperto, Napoli, Loffredo, 2001, pp. 65-78). Persona, scienza e tecnica in G. Galeazzi e B. M. Ventura (a cura), Filosofia e scienza nella società tecnologica, Milano, F. Angeli , 2004, pp. 171-183. L’idea di bene comune tra “destra” e “sinistra” in E. Berti e S. Veca, La politica e l’amicizia, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, pp 35-62. Prudenza in “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. 159, settembre-dicembre 1966, pp. 15-24. Attualità dei diritti umani “Ars Interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 6, 2001, pp. 79-91. Pratiche filosofiche e filosofia pratica “Ars interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 10, 2005, pp. 313-328.
IV Appendice Autoritratto “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 176, maggio-agosto 2002, pp. 9-12. Pensare con la propria testa? “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 192, maggio agosto 2004, pp. 76-88. Aristotele nel Novecento “Scuola e Cultura”, 3, 2005, pp. 22-27
Luca Grecchi
Il pensiero filosofico di Enrico Berti
Petite Plaisance, 2013
ISBN 978-88-7588-110-8, 2013, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [51].
In questo libro è sintetizzata l’opera filosofica di uno dei maggiori pensatori italiani contemporanei, Enrico Berti. Teorizzatore della metafisica classica, studioso di Aristotele, storico della filosofia, Berti ha proposto, in oltre 50 anni di attività culturale ed accademica, soluzioni di grande originalità e valore non solo su temi filosofici, ma anche su temi etici, politici, educativi. La monografia, impreziosita da un saggio finale dello stesso Berti, si pone come una prima introduzione complessiva al suo pensiero.
Indice
Presentazione di Carmelo Vigna
Introduzione
I. Biografia II. L’interpretazione degli antichi e di Aristotele III. La storia della filosofia IV. L’etica e la filosofia pratica V. La politica VI. L’approccio classico alla educazione VII. Religione VIII. La metafisica IX. La critica
Postfazione Enrico Berti A proposito della critica
Principali pubblicazioni di Enrico Berti Volumi Curatele Principali articoli
La filosofia del primo Aristotele (Univ. di Padova. Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. XXXVIII), 1962.
La filosofia del primo Aristotele, Cedam, 1962.
Il “De re publica” di Cicerone e il pensiero politico classico, Padova, Cedam, 1963.
L’unità del sapere in Aristotele, Cedam, 1965.
Studi aristotelici, Japadre, 1975.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, 1977
Profilo di Aristotele, Studium, 1979.
I percorsi della filosofia, vol. I. Il pensiero antico e medioevale (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
I percorsi della filosofia. Il pensiero moderno e contemporaneo (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
Profilo di Aristotele, Nuova Universale Studium, 1985.
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, 1987.
Il pensiero d’Occidente. Pagine e testimonianze (con Sergio Moravi), Le Monnier, 1987.
Le vie della ragione, il Mulino, 1987.
Le ragioni di Aristotele, Laterza, 1989.
Storia della filosofia. Antichità e medioevo, Laterza, 1991.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 1992.
Persona e personalismo (con Georges Cottier e Giannino Piana), Gregoriana Editrice, 1992.
Etica, cultura e partecipazione politica (con Alberto Monticone), AVE, 1993
Il volume riflette l’esigenza di un approfondimento dei rapporti che intercorrono tra etica, cultura e partecipazione politica. Nel volume si delineano alcuni caratteri fondamentali della nostra vita civile: il sistema democratico, la concezione personalista e solidaristica quale fondamento della convivenza civile e dell’organizzazione sociale e politica del nostro Paese, la possibilità per le culture di ispirazione cristiana e per il movimento cattolico di dare un proprio contributo all’evoluzione della vita sociale e politica. L’impegno dell’Azione Cattolica resta quello per la formazione di un laicato adulto nella fede, capace di servizio e testimonianza in ogni ambito della propria vita ma anche quello di promuovere quotidianamente una cultura radicata nei valori del Regno e nei principi della centralità della persona umana e del bene comune.
Introduzione alla metafisica, Utet-Libreria, 1993.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Edizioni Diabasis, 1993.
Aristotele, Il libro primo della «Metafisica» (a cura di E. Berti e C. Rossiitto), Laterza, 1995.
Aristotele, Laterza, 1997.
Rifacendosi in particolare ad un’analisi diretta della Politica e dell’Etica Nicomachea, i cui testi sono ampiamente antologizzati, e confrontandosi con il dibattito critico più recente, Berti illustra tutti i temi fondamentali del pensiero politico aristotelico, come ad es. il concetto di polis, o la vagheggiata «città felice». Né manca un’analisi in parallelo con le teorie di Platone. A differenza di altri studi pubblicati in Italia sul pensiero politico di Aristotele, che hanno un carattere parziale o un’impronta ideologica, il saggio introduttivo di Berti si distingue anche per la capacità di stabilire un dialogo continuo tra esso e il pensiero politico moderno e soprattutto contemporaneo.
Aristóteles no século XX, trad. D. Davi Macedo, São Paulo, Brasil, Edi. Loyola, 1997.
La filosofia del “primo” Aristotele, Vita e Pensiero, 1997.
As razões de Aristóteles, Ed. Loyola, 1998.
Esta obra configura uma intervenção autorizada no atual debate sobre o pensamento débil e a crise da razão, por sua capacidade de relacionar aos temas da filosofia contemporânea a aguda análise de um momento culminante na história da filosofia: o pensamento de Aristóteles.
La politica e l’amicizia (con Salvatore Veca), Edizioni Lavoro, 1998.
La politica e l’amicizia sembrano essere distanti l’una dall’altra: mentre la politica si orienta verso una condivisione più ampia possibile, l’amicizia evoca prospettive più intime, private, e dunque escludenti. Enrico Berti e Salvatore Veca intendono guidare, da angolature differenti, una riflessione sulla possibilità di un incontro fra politica e amicizia.
Novos estudos aristotélicosI – Epistemologia, lógica e dialética, 1999.
Nesta obra, encontram-se ensaios sobre a contradição, a dialética e a argumentação na obra do Estagirita, além de estudos sobre a dialética em Zenão, em Górgias e em Platão, com o objetivo de evidenciar a contribuição que deram à formação do pensamento de Aristóteles.
La navicella della metafisica. Dibattito sul nichilismo e la “Terza navigazione” (con altri), Armando editore, 2000.
Marino Gentile nella filosofia del Novecento, EDS, 2003.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi, Bompiani, 2004.
Quest’opera, pubblicata originariamente nel 1977, è uno dei più importanti lavori di Berti. Essa si può considerare sia uno studio introduttivo ad Aristotele, di cui si passano in rassegna la vita, le opere, l’ambiente accademico e l’insegnamento, ma anche e soprattutto un saggio teoretico sulle costanti del pensiero metafisico: le idee, le categorie, i princìpi primi, le quattro cause, l’essere e il divenire. Il volume è arricchito da una serie di saggi dell’autore che completano il quadro della “filosofia prima” di Aristotele.
Aristotele. Eubulo o della richezza. Dialogo perduto contro i governanti ricchi, Guida, 2004.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Filosofia pratica, Guida, 2004.
L’espressione “filosofia pratica” compare per la prima volta in Aristotele e in contrapposizione a quella teoretica: mentre quest’ultima ha per fine la verità ossia la conoscenza di come e di perché le cose stanno in un certo modo, la filosofia pratica ha per fine l’opera, cioè mira a conoscere e a rendere possibile un certo tipo di azione, in particolare l’azione buona e quindi tende a rendere migliore colui che agisce. Quindi il fine, lo scopo della filosofia pratica è il tentativo di raggiungere la perfezione dell’uomo stesso.
Nuovi studi aristotelici, vol. 1: Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, 2004.
Il volume è il primo di un’opera che raccoglierà in quattro volumi l’insieme degli scritti di uno fra i maggiori specialisti della logica e della dialettica di Aristotele.
Aristotele. Il primo libro della «Metafisica» (con C. Rossitto), Laterza, 2005.
Nuovi studi aristotelici. 2 – Fisica, antropologia e metafisica, Morcelliana, 2005.
Il secondo volume degli studi aristotelici, dedicato a metafisica, fisica e antropologia, scritto dal maggior specialista italiano di Aristotele. Un libro che è una vera e propria introduzione alla “Metafisica” di Aristotele. L’Autore insegna storia della filosofia all’Università di Padova.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Diabasis, 2005.
Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, 2006.
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2006.
Aristotele e l’ontologia(con Bruno centrone e Paolo Fait), Alboversorio, 2007.
Le tesi di Aristotele rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di ontologia. Da lui, infatti, derivano gran parte dei termini ancora oggi utilizzati e dei problemi su cui non si è mai smesso di discutere. Questo libro permette, al lettore interessato, di avvicinarsi ad alcune prospettive contemporanee sull’argomento espresse da alcuni dei maggiori studiosi italiani.
Introduzione alla metafisica, Utet università, 2007.
Storia della filosofia. Dalla’antichità ad oggi. Con materiali per il docente. Ediz. compatta. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Franco Volpi), Laterza, 2007.
Antologia di filosofia. Dall’antichità ad oggi. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Cristina Rossitto e Franco Volpi), Laterza, 2008.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 2008.
La filosofia di Aristotele è un caso forse unico, nella storia, di “sistema aperto”, cioè di filosofia che è un vero sistema, dotato di una grande differenziazione interna, ma anche di una certa unità; ed è anche un sistema aperto, suscettibile di continue integrazioni, anzi di molteplici usi, data la sua grande versatilità, attestata da una fortuna tra le più longeve che mai si siano date e da una presenza massiccia nella stessa filosofia del Novecento. A essa si possono attingere concetti, categorie, distinzioni, dottrine, adoperabili per gli usi più svariati, nelle più diverse direzioni, sia filosofiche che scientifiche, sia teoretiche, cioè logico-metafisiche, che pratiche, cioè etico-politiche, per non parlare degli usi a fini poetici e retorici. Ma questi concetti, distinzioni, dottrine funzionano, cioè rispondono allo scopo per cui vengono impiegati, solo se sono utilizzati nel rispetto del loro significato originario. Si tratta di una coerenza non rigida, ma elastica, di una logica non monolitica, ma articolata e duttile, Dall’esistenzialismo di Heidegger alla filosofia pratica di Gadamer, dalla “nuova retorica” di Perelman e Toulmin alla nuova scienza di Prigogine e Jacob, alla nuova epistemologia di Kuhn e Feyerabend, Enrico Berti ritrova le tracce dell’inesauribile forza del pensiero aristotelico.
Dialectique, physique et métaphysique. Études sur Aristote, Éditions Peeters, 2008.
This volume contains around twenty articles, many of them already published elsewhere, but translated into French for the first time. They all deal with the dialectics, the physics and the metaphysics of Aristotle.
Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia (a cura di), Utet, 2008.
In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, 2008.
La meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza e desiderio di sottrarvisi, cioè di apprendere, di conoscere, dI sapere. Ecco perché proprio la meraviglia, secondo Aristotele, è l’origine della filosofia, ovvero della ricerca disinteressata di sapere. Stato d’animo raro e prezioso, la meraviglia è la sola espressione della vera libertà. Enrico Berti rilegge il pensiero dei grandi filosofi della classicità e costruisce un percorso attraverso le domande senza tempo che la filosofia occidentale ha continuato a porsi, formulate per la prima volta dai Greci.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 3 Filosofia pratica, Morcelliana, 2008.
Il presente volume, terzo della serie dei Nuovi studi aristotelici, raccoglie gli scritti concernenti la “filosofia pratica” di Aristotele, contenuta nelle due Etiche autentiche (Nicomachea e Eudemea), e la filosofia politica, contenuta nella Politica. Come è noto, per Aristotele queste ultime due discipline sono parti di un’unica scienza, da lui chiamata più volte “scienza politica” e, almeno una volta, “filosofia pratica”. Perciò non ho diviso il volume in sezioni, come invece ho fatto nei volumi precedenti. Ho scelto, come sottotitolo dell’intera raccolta, “filosofia pratica”, perché questa espressione è diventata attuale dopo la cosiddetta “riabilitazione (o rinascita) della filosofia pratica”, movimento sviluppatosi nel corso degli anni Settanta del Novecento e ancora non del tutto esaurito.(dalla Prefazione)
Ser y tiempo en Aristótele, Editorial Biblios, 2008.
Enrico Berti, uno de los más reconocidos especialistas de Aristóteles, introduce este libro con una reseña de la presencia de Aristóteles en la Contemporánea. Luego desarrolla una exposición clara y profunda de la postura aristotélica, que va desde el tiempo cósmico de la Física hasta el tiempo humano de la Poética y la Ética. En el recorrido que realiza también visita la Metafísica, pero también obras menos transitadas, como De la memoria y la reminiscencia. Además, confronta la postura de Aristóteles con uno de los trabajos más determinantes de la Contemporánea: Ser y tiempo de Martin Heidegger.
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2008.
La Metafisica è l’opera più famosa di Aristotele. Si tratta degli appunti che Aristotele preparava per le sue lezioni all’interno del Peripato. Lo Stagirita pone qui i problemi fondamentali sull’essere e sul perché del divenire ricercandone le cause e i principi primi.
En el principio era la maravilla. Las grandes preguntas de la filosofía antigua, traducción de Helena Aguilà, Madrid, Editorial Gredos, 2009.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4\1. L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento, Morcelliana, 2009.
Il libro vuole essere un contributo allo studio della cosiddetta tradizione aristotelica, dell’influenza esercitata da Aristotele sull’intera storia della cultura “occidentale” (termine nel quale va compresa anche la cultura islamica). Tale influenza è stata sia di tipo positivo, nel senso che le dottrine di Aristotele sono state accolte, interpretate e trasformate dai filosofi posteriori, sia di tipo negativo, nel senso che esse sono state oggetto di critiche e spesso di dure polemiche, ma anche in questo caso hanno condizionato le filosofie posteriori. Del primo tipo è l’influenza esercitata da Aristotele sugli aristotelici: su Teofrasto, Aspasio, Alessandro di Afrodisia, Porfirio, i filosofi arabi ed ebrei, Tommaso d’Aquino, Marsilio da Padova, Giacomo Zabarella, William Harvey. Del secondo tipo è invece l’influenza esercitata da Aristotele sui suoi “avversari”: l’epicureo Filodemo di Gadara, Plotino, Bonaventura da Bagnoregio, Niccolò Cusano, Galileo Galilei. Un caso particolare è costituito dal rapporto tra la filosofia di Aristotele e il primo cristianesimo, emblematicamente rappresentato dal discorso di san Paolo agli Ateniesi, dove l’influenza di Aristotele è ravvisabile nel contributo da lui dato alla formazione di quel concetto di “Dio dei filosofi” che Paolo ripropone consapevolmente agli Ateniesi, ma al fine di integrarlo e superarlo nella rivelazione cristiana.
A partire dai filosofi antichi(con Luca Grecchi), Il Prato, 2010.
I problemi filosofici esaminati vengono presentati nella forma di una discussione avvincente che rievoca l’andamento dei dialoghi platonici, in cui la verità emerge dal movimento del discorso che, nel suo correre incessantemente da un interlocutore all’altro, si fa «dia-logo» nel senso più alto. Del resto, i temi trattati dai due autori sono tra i più importanti tra quelli su cui si è andata formando la civiltà occidentale: il valore veritativo della filosofia, il rapporto tra fede e sapere, la morale, l’educazione, il ruolo dell’uomo, la libertà, la politica, la morte, l’ontologia, la metafisica, la critica, e moltissimi altri ancora. Ad accomunare, nel libro, questi temi così vasti ed eterogenei è il punto di partenza da cui ciascuno di essi viene sviluppato: il mondo dell’antica filosofia greca, concepita sia da Berti sia da Grecchi come fonte originaria delle «domande fondamentali» dell’uomo occidentale e come tentativo di elaborazione di alcune grandiose soluzioni che continuano a esercitare un fascino intramontabile. La filosofia greca fa da sfondo anche alle considerazioni svolte da Berti e da Grecchi intorno al pensiero di Kant, di Hegel e di Marx. A partire, appunto, dai «filosofi antichi», i due studiosi ripercorrono in maniera dialogica, anche attraverso la cinquantennale esperienza accademica di Enrico Berti, i nodi maggiori della tradizione filosofica e le problematiche fondamentali del nostro presente.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4/2. L’influenza di Aristotele. L’età moderna e contemporanea, Morcelliana, 2010.
l secondo tomo del volume dedicato all’influenza di Aristotele comprende saggi relativi all’età moderna e all’età contemporanea. Per l’età moderna è evidente la persistenza della filosofia pratica di Aristotele, la quale, dopo essersi eclissata nell’antichità ellenistica e nella tarda antichità, ed essere stata riscoperta nel medioevo, sia musulmano che ebraico e cristiano, sopravvive nel Seicento e nel Settecento, soprattutto in Germania.Per quanto riguarda l’Ottocento i saggi riguardano la critica di Hegel al principio di non contraddizione, e l’influenza di Aristotele sui critici di Hegel: Feuerbach, Trendelenburg, Marx e Kierkegaard. Per la Germania è anche massiccia l’influenza di Aristotele su Brentano e, attraverso di lui, su tutti i suoi discepoli, da Husserl a Meinong, a Twardowski, a Freud. Interessante è anche il rapporto intrattenuto con Aristotele da Paul Natorp, che ebbe ad influenzare, insieme con la dissertazione di Brentano, Martin Heidegger.I capitoli dedicati all’età contemporanea illustrano la presenza di Aristotele in Heidegger e nella filosofia analitica inglese, ovvero nell’analisi del linguaggio ordinario condotta da J. Austin, G. Ryle, P. Strawson, D. Wiggins e altri. Indi illustrano la cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, prima in Germania, ad opera di filosofi come H.-G. Gadamer e J. Ritter, e poi negli USA, ad opera di A. MacIntyre, H. Jonas, Martha C. Nussbaum.
Profilo di Aristotele, Studium, 2010.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2010.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Invito alla filosofia, La Scuola, 2011.
Un libro per chiunque voglia accostarsi ad un sapere che parte dal sentimento della meraviglia per arrivare ad esercitare un uso consapevole della ragione. Un invito per chiunque sia alla ricerca di motivazioni (esistenziali, religiose, etiche, scientifiche, politiche) e voglia porre domande per scoprire la verità partendo da opinioni consolidate. Perché la filosofia, nel suo stesso modo di procedere dialettico-confutatorio, esalta l’essenza umana che si fonda sul ragionamento.
Preguntas de la filosofía antigüa, Tapa blanda, 2001.
Muchas de las grandes preguntas que la filosofía occidental ha seguido planteándose las formularon por primera vez los griegos. No todas, claro está. Por ejemplo, los griegos no se preguntaron cuáles eran, a priori, las condiciones del conocimiento, o qué leyes rigen la historia, o cómo indagar en el subconsciente del hombre y otras cosas por el estilo. Pero las preguntas que plantearon, a excepción de unas pocas (por ejemplo: ¿quiénes son los dioses?), son las mismas con las que se ha seguido enfrentando la filosofía occidental a lo largo de los siglos. Enrico Berti recorre el pensamiento de los grandes filósofos clásicos y traza un sorprendente itinerario a través de las preguntas sin tiempo que la filosofía occidental ha seguido planteándose y que los griegos formularon por primera vez: ¿Qué es el hombre? ¿Qué es la felicidad? ¿Quiénes son los dioses? ¿Cuál es nuestro destino?
Profilo di Aristotele, Studium, 2012.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e corretta, Morcelliana, 2012.
Il dovere di introdurre, e con ciò di giustificare nella sua unità, la presente raccolta mi fornisce l’occasione più opportuna per riflettere sulle ricerche da me compiute in questi anni e anche per risalire alle origini del mio interesse per Aristotele, allo scopo di determinarne il più esattamente possibile il senso e l’orientamento generale. Uno dei fili conduttori dei miei lavori è la persuasione del valore classico, cioè perenne, e quindi anche attuale di certe istanze del pensiero aristotelico. Si tratta di una valutazione di ordine teoretico, o filosofico, che oggi, a causa dell’imperante storicismo e del conseguente relativismo, può sembrare, nel migliore dei casi, ingenua. Tuttavia è una persuasione a cui tengo particolarmente; non ho difficoltà infatti a confessare che, se non la possedessi, non riuscirei a dare alcun senso al lavoro fatto. Le ragioni del valore classico della metafisica antica si trovano nel rilevamento, da parte di Aristotele, di un’inadeguatezza tra il sistema platonico e il problema da cui ogni filosofo deve prendere le mosse, cioè la problematicità integrale e assoluta. Questa problematicità si esprime in un “domandare tutto”, che è insieme un “tutto domandare”, in una domanda che investe la totalità del reale e, per il fatto di escludere ogni precedente certezza, è integralmente domanda; e si identifica con la stessa esperienza intesa come conoscenza di tutto e insieme domanda della ragione di tutto.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2012.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Aristotele e la democrazia, in C. Rossitto, A. Coppola, F. Biasutti (a cura), Aristotele e la storia, Padova, CLEUP, 2013.
Aristotele, La Scuola, 2013.
«Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità e, più di tutte, amano la sensazione della vista. In effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose». Metafisica, libro I.
The Classical Notion of Person and Its Criticism by Modern Philosophy, in B. Babich and D. Ginev (eds.), The Multidimensionality of Hermeneutic Phenomenology, Heidelberg-New York-Dordrecht-London, Springer, 2013.
La phronêsis nella filosofia antica, in A. Fidora, A. Niederberger, M. Scattola (eds.), Phronêsis – prudentia – Klugheit. Das Wissen der Kluge in Mittelalter, Renaissance und Neuzeit, Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales, Porto, 2013.
Mente e anima: due entità?, in G. Erle (a cura), Il limite e l’infinito. Studi in onore di Antonio Moretto, Bologna, Archetipolibri, 2013.
La ricerca filosofica di Antonio Moretto segna una tappa fondamentale e innovativa all’interno della letteratura scientifica a proposito del rapporto tra filosofia e matematica. Questo vale in primo luogo, ma non solo, per una rinnovata comprensione della filosofia classica tedesca che rendeva necessario mostrare la rilevanza della conoscenza congiunta della storia e della teoria della matematica in autori come Kant e Hegel. Questi studi, assieme a quelli che egli ha dedicato a Descartes, Leibniz, Wolff, mostrano come i concetti matematici di finito e infinito racchiudano, nelle loro esigenze tecniche, un’urgenza profondamente umana, quella di dare senso, “mensurare” nell’accezione più ampia del termine. Sotto questo profilo, il passaggio per le scienze esatte nelle ricerche di Moretto non è affatto astratto, ma costituisce il necessario cammino verso quella che Kant avrebbe chiamato “la porta stretta”, varcata la quale meglio si comprendono anche le altre parti del sistema della filosofia, così come proprio Moretto ha dimostrato dedicandosi a discutere altresì questioni di etica, di filosofia della medicina, psicologia della percezione e, perché no?, della poesia di Albrecht von Haller. Coerentemente con questo percorso di ricerca, gli autori degli scritti che costituiscono questo volume si sono impegnati a mostrare la ricchezza di significati e valenze che i concetti di limite e di infinito possono assumere all’interno delle scienze filosofiche.
Una metafisica (epistemologicamente) «debole», n G. Riconda e C. Ciancio (a cura), Filosofi italiani contemporanei, Mursia, 2013.
Il volume presenta i risultati di un ciclo di seminari tenuti all’Università di Padova nel 2011 e 2012, all’interno del Progetto di Ateneo Filosofia e storia nel pensiero politico di Aristotele. Il tema generale è il ruolo della storia nel pensiero aristotelico, secondo le più ampie accezioni del termine. Innanzitutto che uso fa Aristotele dei dati storici, come e a qual fine li utilizza e qual è per lui il valore epistemologico della storia? Storia significa anche storiografia, cioè resoconto scritto dei fatti: possiamo capire il rapporto fra il filosofo e gli storici e tra la storiografia e la politica? I contributi qui raccolti aggiungono materia a queste riflessioni raccogliendo e confrontando punti di vista di storici dell’antichità e di storici della filosofia.
Aristotele, in U. Eco (a cura), L’Antichità, 5. Grecia, Filosofia, EM Publishers srl., 2014.
Neste volume, o leitor terá a oportunidade de conhecer o pensamento de Aristóteles, um dos maiores nomes da Filosofia na Antiguidade. A visão aristotélica é apresentada de modo sintetizado, por meio da análise das obras de Aristóteles, dos conceitos-chave de sua filosofia e seus desdobramentos na sociedade atual.
Il bene di chi? Bene pubblico e bene privato nella storia, Marietti, 2014.
Un affresco dell’intrecciarsi di bene pubblico e bene privato nella storia della civiltà occidentale. Enrico Berti fa comprendere le complesse radici culturali della situazione attuale e apre domande cruciali, da un lato sul destino e la sopravvivenza dello Stato e dall’altro sul fine dell’uomo e sulle condizioni di possibilità della vita sociale. Il libro è arricchito da un dialogo sul tema tra l’autore e i partecipanti alla “Lectio Magistralis” tenuta nel corso di una delle sessioni del 2013 della Winter School, centro di studi sociali, culturali e politici. Prefazione di Giovanni Maddalena.
Il luogo dei corpi secondo Aristotele, in Lessico Intellettuale Europeo, Locus-spatium. XIV Colloquio Internazionale, a cura di D. Giovannozzi e M. Veneziani, Olschki, 2014
La ricerca della verità in filosofia, Studium, 2014.
La verità è oggi temuta come una forma di violenza, specialmente da parte dei filosofi post-moderni. Questo timore spesso è dovuto a una concezione ideologica della verità come valore assoluto da imporre a tutti, mentre esso è del tutto ingiustificato rispetto alla concezione classica della verità, non riducibile alla teoria della verità come corrispondenza. In base alla teoria classica si danno diversi tipi di verità, verità di fatto e verità di ragione, verità storiche e verità scientifiche, verità di fede e verità poetiche: alcune facili da scoprire, altre implicanti complesse e faticose ricerche. In filosofia la ricerca della verità avviene in modi diversi, secondo il tipo di filosofia che si pratica, che può essere trascendentale, dialettico, fenomenologico, analitico-linguistico, ermeneutico, dialogico-confutativo. Un caso di ricerca della verità in filosofia è costituito dalla metafisica, intesa non nel senso tradizionale di ontologia o teologia razionale, bensì come metafisica problematica e dialettica, epistemologicamente debole ma logicamente forte. Esiste anche una verità pratica, che riguarda non la legge morale, ma il desiderio della felicità intesa come pieno sviluppo della persona umana, nel singolo individuo e nella polis.
Prologo a L. E. Varela, Filosofía práctica y prudencia. Lo universal y lo particular en la ética de Aristóteles, Editorial Biblos, 2014.
El trabajo se sostiene en un conocimiento completo y perfecto de toda la obra de Aristóteles concerniente a la ética, no sólo a la Ética nicomaquea y a la Ética eudemia, sino también a la Gran Ética y al Protréptico. Los textos de estas obras son analizadas de manera precisa y rigurosa, y el análisis de ellos es siempre acompañado por una discusión de las interpretaciones suministradas por la literatura crítica, con la cual Varela está constantemente en diálogo. De ello resulta una contribución de gran claridad, equilibrio, riqueza de información y de profundización, que lo hace extremadamente útil para una relectura y una valoración nueva, plenamente satisfactoria, de la ética aristotélica.
Luis Enrique Varela. Doctor en Filosofía (Universidad del Salvador). Es actualmente profesor de Ética y de Metafísica en la Universidad Nacional de Mar del Plata. Asimismo, dicta Historia de la Filosofía Antigua en la carrera del Doctorado en Filosofía, y Ética dentro de la enseñanza de grado en la Universidad Nacional de Lanús. Dirige proyectos de investigación en temas de filosofía práctica y de metafísica tanto en la UNMDP como en la UNLA. También se desempeña como profesor de Historia de la Filosofía Antigua y del Seminario de Filosofía Práctica I en la carrera de filosofía de la Universidad de Ciencias Empresariales y Sociales (UCES). Además dicta materias de filosofía en la carrera de Filosofía del Instituto Superior del Profesorado “Joaquín V. González”.Como director del Círculo de Actualización en Filosofía de la Fundación Descartes, organizó junto con Germán García el “Encuentro Internacional Descartes 400” (1996) y “Lacan y la cultura filosófica” (2001).Es autor de numerosos
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today?, in C. Baracchi (ed.), The Bloomsbury Companion to Aristotle, Bloomsbury, 2014.
Aristotle is one of the most crucial figures in the history of Western thought, and his name and ideas continue to be invoked in a wide range of contemporary philosophical discussions. The Bloomsbury Companion to Aristotle brings together leading scholars from across the world and from a variety of philosophical traditions to survey the recent research on Aristotle’s thought and its contributions to the full spectrum of philosophical enquiry, from logic to the natural sciences and psychology, from metaphysics to ethics, politics, and aesthetics. Further essays address aspects of the transmission, preservation, and elaboration of Aristotle’s thought in subsequent phases of the history of philosophy (from the Judeo-Arabic reception to debates in Europe and North America), and look forward to potential future directions for the study of his thought. In addition, The Bloomsbury Companion to Aristotle includes an extensive range of essential reference tools offering assistance to researchers working in the field, including a chronology of recent research, a glossary of key Aristotelian terms with Latin concordances and textual references, and a guide to further reading.
List of Contributors \ Acknowledgments \ Corpus Aristotelicum \ “Introduction: Paths of Inquiry” Claudia Baracchi \ Part I: Questions \ 1. Logos \ Saying What One Sees, Letting See What One Says: Aristotle’s Rhetoric and the Rhetoric of the Sophists Barbara Cassin \ Aristotelian Definition: On the Discovery of Archai Russell Winslow \ 2. Phusis \ Aristotle on Sensible Objects: Natural Things and Body Helen Lang \ On Aristotle’s Formula: Physics IV. 11, 14 Rémi Brague \ 3. Psuchê \ Phantasia in De Anima Eric Sanday \ Mind in Body in Aristotle Erick Raphael Jiménez \ The Hermeneutic Slumber: Aristotle’s Reflections on Sleep Marcia Sá Cavalcante Schuback \ 4. Philosophia Prôtê \ First Philosophy Alejandro Vigo \ First Philosophy and the History of Being in Aristotle’s Metaphysics Spyridon Rangos \ 5. Êthos \ Aristotle on Human Nature and the Foundations of Ethics, with an “Addendum” Martha C. Nussbaum \ The Visibility of Goodness Pavlos Kontos \ To Kakon Pollachôs Legetai: The Poly-vocity of the Notion of Evil in Aristotelian Ethics Arianna Fermani \ 6. Polis \ Education: The Ethico-Political Energeia Michael Weinman \ 7. Poiêsis \ Toward the Sublime Calculus of Aristotle’s Poetics Kalliopi Nikolopoulou \ Part II: Disseminations \ Aristotle on the Natural Dwelling of Intellect Idit Dobbs-Weinstein \ The Peripatetic Method: Walking with Woodbridge, Thinking with Aristotle Christopher Long \ What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today? Enrico Berti \ Would Aristotle Be a Communitarian? Pierre Aubenque \ Glossary (Erick Raphael Jiménez) \ Chronology of Recent Research (Benjamin J. Grazzini) \ Bibliography (Erick Raphael Jiménez) \ Resources (Benjamin J. Grazzini and Erick Raphael Jiménez) \ Sources of Translated/Reprinted Essays \ General Index
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Morcelliana, 2015.
“Contraddizione” e “dialettica” sono due delle categorie costitutive della filosofia, fin dalla sua nascita nella Grecia del V secolo. Nei capitoli che sono idealmente una storia del pensiero occidentale – il lettore trova la chiara e puntuale ricostruzione dei tanti significati assunti da “contraddizione”, “non contraddizione”, “dialettica” tra Parmenide, Eraclito, Socrate, Platone e Aristotele, tra Kant e Hegel, tra Marx, Popper e la logica contemporanea. Sono categorie in cui è in gioco non solo il rigore della ragione: nella possibilità o no di superare il principio di non contraddizione è in questione la cosa stessa del pensiero. Considerando che lo stesso principio di non contraddizione si dice in più modi. Temi cui Enrico Berti ha dedicato più di cinquant’anni di studi, e che trovano qui un compendio.
È bene definire il bene?, Orthotes, 2015.
Il punto di partenza assunto nel saggio è la definibilità del bene, una volta che ci si occupi di esso non in quanto assoluto e irraggiungibile, ma piuttosto vedendolo come bene umano, praticabile e realizzabile. Come tale, esso è l’oggetto delle aspirazioni umane e concretamente indicato nei diritti fondamentali, nelle varie libertà e nei diritti politici, che documenti ufficiali hanno ormai sancito. Da Aristotele fino alla sua ripresa da parte di Martha Nussbaum, la felicità, per quanto fragile, si sostanzia proprio di questi beni, che possono essere presentati come vere e proprie “capacità”. Completa il testo un intervento di Berti sull’Etica nicomachea di Aristotele, da cui emerge il carattere pratico di una filosofia che punti a definire che cos’è il bene, ossia aristotelicamente la felicità, per l’uomo.
Aristotelismo, il Mulino, 2017.
A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati.
Un manuale in cui i maggiori studiosi di Aristotele analizzano e descrivono in modo sistematico e completo il pensiero del filosofo, attraverso le singole opere, seguendo un metodo rigorosamente storico, senza interpretazioni ideologiche o di parte.
Introduzione alla metafisica, seconda edizione, UTET, 2017.
La nuova edizione dell’Introduzione alla metafisica di Enrico Berti ripropone la concezione originale della metafisica che l’Autore va presentando da anni, la quale ha suscitato l’interesse degli studiosi di filosofia, come dimostrano le traduzioni dell’opera in altre lingue. Essa contiene alcune correzioni rispetto all’edizione precedente, dovute a ulteriori studi, e soprattutto è corredata da cinque appendici, costituite da altrettanti articoli sul tema, pubblicati dall’Autore negli anni più recenti. L’opera comprende una parte storica, che illustra le diverse forme di metafisica elaborate nella filosofia occidentale, e una parte teoretica, che difende le ragioni di un certo tipo di metafisica, caratterizzata come «metafisica dell’esperienza», sviluppando gli spunti forniti in questa direzione dalla «scuola padovana» facente capo a Marino Gentile. Nel complesso si tratta di una delle rare proposte italiane di una filosofia autenticamente metafisica, in linea con la grande tradizione della «metafisica classica» di ispirazione aristotelica, ma al tempo stesso essenzializzata e aggiornata in modo da tenere conto delle critiche e delle esigenze del pensiero contemporaneo. Il rifiorire di interesse per la metafisica, manifestatosi soprattutto nell’ambito della filosofia analitica, conferma l’attualità dell’opera.
Tradurre la “Metafisica” di Aristotele, Morcelliana, 2017.
«Essendomi recentemente cimentato con l’arduo compito di tradurre la Metafisica di Aristotele, il libro forse più difficile dell’intera storia della filosofia, mi sono imbattuto in una serie di problemi, alcuni dei quali previsti e altri invece imprevisti, che hanno reso l’impresa, oltre che ardua, anche affascinante». Affrontando problemi inerenti alla trasmissione del testo, alla traduzione e alla interpretazione, Berti mostra – contro una lettura teologizzante, di origine neoplatonica – il tratto problematico della filosofia aristotelica: la metafisica non è né teologia, né ontologia, ma scienza delle cause prime.
Aristotele Eubulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Guida, 2019.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Storia della Metafisica (a cura di), Morcelliana, 2019.
Sulla base del presupposto unanimemente riconosciuto che la metafisica, quale che sia il suo valore, ha avuto una storia, il volume individua i momenti salienti di quest’ultima in alcuni grandi filosofie correnti di pensiero: Platone, Aristotele, il platonismo antico, la metafisica arabo-islamica, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Suárez, Cartesio, Kant, Hegel, Rosmini, Heidegger, il neotomismo, la filosofia analitica. Ne risulta una storia equilibrata, ricca e coinvolgente, forse unica nel suo genere, di indubbio interesse per chiunque si occupi di filosofia.
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