«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Più passa il tempo e più mi convinco che sarebbe utile abbandonare questa presunta coppia dialettica, Oeriente/Occidente, a favore di una definizione di ovest/est, qualcosa che si limiti a parlare soltanto di coordinate geografiche e non di altro. Questo perché si tratta di termini così profondamente segnati dall’eco di una visione orientalista, propria dell’età coloniale, che porta con sé la fascinazione per l’esotico ma anche l’idea di dominio. In realtà, quando si mettono in contrapposizione questi elementi si rompe in modo artificiale una linea di continuità che esiste da sempre, pur se tra rotture e passaggi. Un esempio? Quando Antoine Galland tradusse per la prima volta dall’arabo nel 1704 l’opera di origine persiana Le mille e una notte, aggiunse la figura del marinaio Sinbad alla raccolta di racconti che possedeva e che sarebbe stata usata nelle edizioni arabe del Cairo negli anni Ottanta del XIX secolo. Le prime versioni turche saranno poi tradotte dal francese, riprendendo questa versione che era stata scritta a Parigi.
La frontiera può rappresentare qualcosa di molto violento, quando si chiude di fronte al desiderio e al bisogno di attraversarla – pensiamo alle politiche dell’Unione europea che provocano decine di morti in mare ogni giorno – ma, al tempo stesso, può incarnare una possibilità, un’occasione offerta al cambiamento, al passaggio, all’incontro. C’è una sorta di contraddizione in termini nell’idea stessa di frontiera come limite, perché è un luogo che separa e che unisce allo stesso tempo. Per questo la nozione di frontiera non si limita soltanto ad una linea tracciata su una carta geografica, ma può essere più o meno profonda, iscritta in un orizzonte più largo di confronto, più essere la condizione formale di una scoperta. Del resto, nel momento in cui la frontiera definisce un’idea di limite, contribuisce a costruire la figura del contrabbandiere. E sul piano letterario un contrabbandiere è colui che fa passare dei testi da una parte all’altra, dall’uno all’altro. La frontiera crea la necessità della traduzione. In lingua basca c’è una bella espressione per definire il contrabbando, lo chiamano «il lavoro della notte». E il mestiere dello scrittore assomiglia un po’ a questo: non solo il lavorare la notte, come diceva Marcel Proust, ma il trasportare da un luogo all’altro, da un contesto all’altro dei racconti, delle storie, delle narrazioni.
Mathias Énard, “Letteratura e poesia come strumenti diviaggio che intrecciano le culture e interrogano le memorie”, il manifesto, 6-12-2020, p. 10.
«Se uno vende del ferro al prezzo dell’oro oppure fa un discorso colonialista facendolo passare per pacifista, è un buon venditore. Non a caso, infatti, le parole e gli oggetti venduti dal sistema ci offrono sempre due significati: uno vero, che per vanità non vogliamo leggere, e uno falso, indolore, che accettiamo con voluta complicità per sentirci storicamente validi e buoni venditori».
Vincenzo Agnetti
Citato in Vincenzo Agnetti, a cura di Achille Bonito Oliva e Giorgio Verzotti, catalogo della mostra del Mart, Skira, Ginevra-Milano, 2008, p. 14.
Malamente, dico, potranno approvar questa filosofia color che o non hanno buona felicità d’ingegno naturale, o pur non sono esperti, almeno mediocremente, in diverse facultadi, e non son potenti sì fattamente nell’atto reflesso de l’intelletto che sappiano far differenza da quello ch’è fondato su la fede, a ciò che è stabilito su l’evidenza di veri principii; perché tal cosa comunmente s’ha per principio che, ben considerata, si trovarà conclusione impossibile e contra natura. Lascio quelli sordidi e mercenarii ingegni che, poco e niente solleciti circa la verità, si contentano saper secondo che comunemente è stimato il sapere; amici poco di vera sapienza, bramosi di fama e riputazion di quella; vaghi d’apparire, poco curiosi d’essere. Malamente, dico, potrà eligere tra diverse opinioni e talvolta contradittorie sentenze chi non ha sodo e retto giudizio circa quelle. Difficilmente varrà giudicare chi non è potente a far comparazione tra queste e quelle, l’una e l’altra. A gran pena potrà comparar le diverse insieme chi non capisce la differenza che le distingue. Assai malagevole è comprendere in che differiscano e come siano altre queste da quelle, essendo occolta la sustanza di ciascuna e l’essere. Questo non potrà giamai essere evidente, se non è aperto per le sue cause e principii ne gli quali ha fondamento. Dopo, dunque, che arrete mirato con l’occhio de l’intelletto e considerato col regolato senso gli fondamenti, principii e cause, dove son piantate queste diverse e contrarie filosofie, veduto qual sia la natura, sustanza e proprietà di ciascuna, contrapesato con la lance intellettuale e visto qual differenza sia tra l’une e l’altre, fatta comparazion tra queste e quelle e rettamente giudicato, senza esitar punto farete elezion di consentire al vero.
Giordano Bruno, De l’Infinito, Universo e Mondi, Dialogo quinto, Harmakis Edizioni, 2018.
«Un gioco di destrezza tra i saperi di varie discipline, che incoraggia il lettore a cambiare prospettiva sulla storia del mondo. Un saggio non potrebbe offrire di più» Günther Wessel
«Culture dimenticate è un libro di grande valore che ci affascina e insegna a vedere la storia con occhi diversi» Theodor Kissel, Spektrum der Wissenschaft
«L’autore prende in esame le scoperte più recenti dell’archeologia, della linguistica e della genetica umana, riassumendo in modo chiaro e conciso lo stato della nostra conoscenza ma, soprattutto, lo stato della nostra ignoranza» Kathrin Meier-Rust, Neue Zürcher Zeitung
«Una panoramica molto intrigante sulle scoperte archeologiche più sensazionali al mondo» Niklot Krohn, Archäologie in Deutschland
Quarta di copertina
Molte culture del passato sono rimaste avvolte dall’oblio, altre invece hanno lasciato tracce che, se percorse, dischiudono mondi inimmaginabili. Grazie a recenti ritrovamenti archeologici e a nuovi studi genetici e linguistici, Harald Haarmann ci fa scoprire venticinque culture dimenticate o trascurate dalla storiografia tradizionale. L’autore va alla ricerca di insediamenti preistorici sul Lago Bajkal, getta nuova luce sulle popolazioni pelasgiche e svela il mistero delle guerriere del Mar Nero. Dalle mummie bionde ritrovate a Xinjiang, nel deserto cinese, alla sofisticata civiltà della valle del Danubio, dotata di una scrittura fra le più antiche al mondo, fino agli abitanti dell’Isola di Pasqua, decimati da una crisi ecologica che essi stessi avevano provocato. Questa esplorazione alternativa nella storia dell’uomo ci introduce anche a sensazionali scoperte, come quella di antichi insediamenti urbani in una regione dell’Amazzonia da sempre creduta semi-spopolata. Percorrendo i possibili sviluppi dell’umanità e le sue strade scartate, Haarmann non solo restituisce voce a chi l’aveva persa, ma esorta anche a riflettere sulla nostra civiltà, perché soltanto il riconoscimento del diverso ne dispiega il vero potenziale
Harald Haarmann(nato nel 1946) è un linguista e scienziato culturale tedesco che vive e lavora in Finlandia . Haarmann ha studiato linguistica generale, varie discipline filologiche e preistoria presso le università di Amburgo , Bonn , Coimbra e Bangor . Ha conseguito il dottorato di ricerca a Bonn (1970) e l’ abilitazione (qualifica a livello di cattedra ) a Treviri (1979). Ha insegnato e condotto ricerche in numerose università tedesche e giapponesi ed è membro delCentro di ricerca sul multilinguismo a Bruxelles . È vicepresidente dell’Istituto di archeomitologia (con sede a Sebastopol, California ) e direttore della sua filiale europea (con sede a Luumäki , Finlandia).
«Giacché quando ci poniamo di fronte all’antichità
e la contemppliamo con serietà nell’intento di formarci su di essa,
abbiamo il senso come di essere solo allora diventati veramente uomini».
***
Johann Wolfgang von Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, traduzione di Anita Rho ed Emilio Castellani, con un saggio di Hermann Hesse, Adelphi, Milano 1976.
Il titolo di questo saggio – ad un tempo storico, politico e filosofico – contiene quattro ossimori, espressamente concepiti per provocare intenzionalmente nel lettore quello “spaesamento” necessario per mettere in moto il suo autonomo processo di riflessione critica. I primi tre sono il Bombardamento Etico, l’Interventismo Umanitario e l’Embargo Terapeutico. Il quarto ossimoro rappresenta una sorta di denominatore unificante, il più corrotto e malvagio che esista, quello della Menzogna Evidente. Questo spaesamento è necessario per affrontare con animo libero gli enigmi dell’ideologia di legittimazione di questa inedita società capitalistica fondata sulla globalizzazione geografica coattivamente prescritta e sull’incessante innovazione culturale capillarmente imposta. Nel primo capitolo vengono richiamati i casi delle due scandalose guerre prevalentemente aeree e super-tecnologizzate contro l’Irak nel 1991 e contro la Jugoslavia nel 1999. In entrambi i casi i pretesti addotti dalle potenze imperiali, pretesti amplificati dal sistema giornalistico e culturale dominante, erano privi sia della legittimazione giuridica sia della plausibilità storica. In entrambi i casi però, come avviene nella favola del lupo e dell’agnello, la forza ha sostituito la ragione rispettiva. Nel secondo capitolo, che è a tutti gli effetti centrale, si ricerca il fondamento metafisico segreto di questo comportamento, che è il trattamento differenziato di Auschwitz e di Hiroshima ed il conseguente pentimento diseguale e manipolato che ne è seguito. In questo caso, la metafisica laica del Giudeocentrismo è servita per imporre una nuova lettura storico-religiosa del Novecento, non per contribuire ad una corretta comprensione delle cause che hanno portato al genocidio ebraico, una comprensione che dovrebbe impedire nel futuro il ripetersi di simili catastrofici eventi. Nel terzo ed ultimo capitolo, infine, si individua in una cultura di resistenza il presupposto necessario per una futura costituzione di forze politiche e sociali, per il momento non ancora esistenti, in grado di sostenere il confronto che certamente verrà, e non soltanto di ripetere in modo esasperante le mosse politiche, sociali e culturali di confronti ormai esauriti e tramontati con il venir meno del Novecento.
L’invidia è dunque un tale mostro? Sebbene molti uomini sotto accusa si siano dichiarati colpevoli di orribili azioni nella speranza di vedersi mitigare la pena, è mai accaduto che qualcuno confessasse seriamente di essere invidioso? Vi è in essa qualcosa che, a giudizio universale, viene percepito come più vergognoso perfino di un crimine efferato. E non soltanto tutti la sconfessano, ma le persone migliori sono inclini all’incredulità, quando viene imputata sul serio a un uomo intelligente. Ma siccome l’invidia alberga nel cuore, non nel cervello, nessun grado di intelligenza offre garanzia contro di essa. Ma l’invidia di Claggart non era una forma volgare di tale passione. E neppure, investendo Billy Budd, aveva quella vena di gelosia apprensiva che sconvolgeva il volto di Saul intento a rimuginare turbato sul bel giovane David. L’invidia di Claggart colpiva più a fondo. Se con occhio torvo guardava il bell’aspetto, la gioiosa salute, la schietta esuberanza della giovinezza di Billy Budd, era perché tali qualità si accompagnavano a una natura che, come percepiva magneticamente Claggart, nella sua semplicità non aveva mai voluto il male, né sperimentato il morso reattivo di quel serpente.
Herman Melville, Billy Budd, Einaudi, Torino 1965.
Al popolo della pace, la poesia incipitale di questa raccolta, letta da Maura Del Serra nel 2009 in occasione dell’iniziativa 25 TV per 25 guerre, realizzata dall’artista Gerardo Paoletti per “World March” Associazione Mondiale per la Pace, era finora l’unica traccia esistente di interpretazione autoriale dei suoi testi. Adesso, con la selezione di altre 54 poesie, l’autrice offre ai suoi lettori/ascoltatori, un articolato ventaglio della sua produzione poetica, dei temi, luoghi, voci e ritratti in cui l’esperienza personale si fa corale e universale.
Nutrita con intensità empatica e dialogica dalle radici culturali e sapienziali dell’Occidente nel loro intersecarsi con le vene più feconde delle tradizioni orientali, la poesia della Del Serra è percorsa dal costante agonismo tra assolutezza metatemporale della rivelazione e tenebre della violenza storica, solitudine identitaria e unanimismo creaturale, con un ethos appassionato e rigoroso e con una finezza ed originalità stilistica scandita con vibrante emozione anche dalla sua viva voce.
Maura Del Serra, poetessa, drammaturga, traduttrice e critico letterario, già comparatista nell’Università di Firenze, ha riunito le sue poesie nei volumi: L’opera del vento e Tentativi di certezza, Venezia, Marsilio, 2006 e 2010; Scala dei giuramenti, Roma, Newton Compton, 2016; Bios, Firenze, Le Lettere, 2020. Tutti i suoi testi teatrali sono pubblicati nei volumi: Teatro e Altro teatro, Pistoia, petite plaisance, 2015 e 2019.
Fra gli autori da lei tradotti dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo: Cicerone, Shakespeare, Woolf, Mansfield, Tagore, Proust, Weil, Lasker-Schüler, Sor Juana Inès de la Cruz. (www.mauradelserra.com)
La rete è simbolo effettuale di una pervasiva madre matrigna anaffettiva che ingloba l’umanità, la omogeneizza, privandola di ogni determinazione sino a renderla un immenso indistinto nel quale le identità si assottigliano fino ad evaporare, inibibendo vera crescita e umanistica formazione
Tecnologie e regressione Il panopticon è la cifra dello sviluppo delle tecnologie, le quali nella propaganda sono presentate come servizio al cittadino, ma nella concretezza quotidiana sono i mezzi attraverso cui si attua il controllo globale. È da porsi il problema della motivazione del loro enorme successo, dell’accettazione fatale e dogmatica di esse. Ad una osservazione più attenta le tecnologie rispondono ad un bisogno profondo dell’umanità: la necessità di protezione. Le tecnologie divengono e sono il grande occhio che segue adolescenti ed adulti in ogni loro gesto: ogni ansia è calmierata dalla loro presenza, poiché difficoltà improvvise possono essere risolte mediante comunicazioni veloci. Il raggio d’azione di esperienze estreme si allarga, in quanto esse promettono contatti veloci in situazione di pericolo. Si pensi agli sport estremi per giovani alla ricerca di forti emozioni in mancanza di un senso etico profondo. Oppure il raggio d’azione si restringe, si vive in casa, in ambienti minimi, ma con un click si può comunicare e comprare merci al riparo dal mondo. Le tecnologie divengono, in quest’ultimo caso, delle feritoie virtuali da cui osservare il mondo. Contingenze opposte svelano in modo più immediato e chiaro il fine delle nuove tecnologie: rispondono ad un bisogno di sicurezza, sono paragonabili ad un cordone ombelicale invisibile, ciascuno reca con sé “una piacevole ed inconsapevole” regressione ad uno stato fetale.
La pancia globale Ci si sente nella pancia del mondo globale. Nessuno osa smentire i magnifici successi dell’avanzare della grande madre virtuale e globale. La rete diviene il simbolo effettuale di un’infinita madre tecnologica razionale ed anaffettiva che ingloba l’umanità: madre matrigna che mentre protegge omogeneizza, priva l’esserci di ogni determinazione sino a renderlo “nulla”, ovvero un immenso indistinto nel quale le identità si assottigliano fino ad evaporare, poiché inibisce la crescita e la formazione. La dipendenza dalla grande madre rete forma creature che dietro la soglia delle tecnologie non hanno avuto la possibilità di porre ordine al caos delle loro emozioni, non hanno potuto conoscere il loro carattere e la loro resistenza alle frustrazioni. Le tecnologie sono donative: mentre offrono servizi e controllo, ben distribuiti per censo, riducono la conoscenza di sé e la scoperta del telos comunitario dell’umanità. Sostituiscono la relazione con l’offerta di siti da cui scegliere – dal catalogo virtuale – la momentanea compagnia. Agiscono per impedire ogni ricerca reale, ogni dolore con il quale saggiare la propria forza ed autonomia. La loro presenza è simile ad una madre invadente che continuamente controlla il proprio pargolo, ne invade lo spazio pubblico e privato fino a renderlo dipendente e fragile. La grande madre è matrigna, poiché non vuole l’autonomia dei suoi sudditi, ma li vuole tenere al guinzaglio. Apparentemente li lascia liberi, ma ne estrae informazioni con cui irrobustire il suo intervento sulla psiche di ciascuno. Vuole conoscere ogni capello dei suoi clienti-figli, in quanto la loro dipendenza è la sua forza. È la nuova divinità nella forma antropomorfa del femminile proiettato nelle tecnologie e specialmente nel loro utilizzo collettivo. La rete si nutre della destabilizzazione emotiva e psichica dei suoi sudditi. La rete è la gran madre matrigna usata da multinazionali, finanzieri e capitalisti per dominare il mondo con l’indebolimento emotivo e razionale dei nuovi sudditi globali. Si usa l’archetipo della madre che scorre come acqua carsica nella rete per abbattere ogni resistenza e consolidare un imperium tragico. Gli adulti (genitori, docenti, educatori) ne favoriscono il puntellamento in nome del mito della sicurezza, rinchiudono le nuove generazioni in spazi virtuali nei quali sono “vetrinizzati”, esposti e già in vendita. Nelle istituzioni si tace sugli effetti e sugli usi nefasti, le voci dissenzienti sono tacitate gettando su di loro ombre di ridicolo. Si occultano gli aspetti perniciosi dell’uso massivo delle tecnologie in nome del “ progresso” acefalo.
Prometeo scatenato Prometeo scatenato è tra di noi, ha l’aspetto della rete, di un immenso grembo in cui ricacciare l’umanità, che diviene la nuova caverna della contemporaneità: la più insidiosa di tutte, perché offre libertà di movimento, pulsioni in libertà, ma nel contempo sottrae autonomia, autodisciplina e consapevolezza, tutto avviene in modo automatico e lineare. La DAD è un esempio di questa logica dell’ipercontrollo che cresce, si dirama, invade ogni spazio: le comunicazioni tra docenti ed alunni sono continue, anche fuori l’orario di lezione, in questo modo agli alunni è sottratto il tempo per confrontarsi con le difficoltà didattiche, la soluzione è nel docente-mamma pronto a soccorrerlo. I genitori comunicano con i docenti quotidianamente; la rete si estende e si stringe intorno a tutti, è il “cappio” che tutto dissolve. Il flusso di informazioni non crea comunità, ma monadi parlanti che utilizzano le informazioni in funzione della competizione e della divisione mondiale. Gli spazi reali, gli unici nei quali si possono costruire luoghi di comunicazione comunitaria, sono sostituiti da incontri veloci e virtuali: la chiacchiera prende il posto del concetto. La rete è la madre infinita costituita da una miriade di punti materni-controllo. Il panopticon virtuale cela la sua verità: con il discredito mediatico e culturale sul maschile simbolico-valoriale e sul limite, il femminile si riproduce nelle tecnologie, la rete si estende e promette eterna protezione, il risultato ultimo è la dipendenza assoluta. Come si è arrivati a questo?
Senza padri Ogni cultura è viva nel conflitto dialettico tra principi apparentemente opposti, ma in realtà l’uno equilibra l’altro, si pensi al polemos eracliteo. Il maschile ha il suo senso se si relaziona al femminile e viceversa. La distruzione del maschile, la perenne propaganda che lo rappresenta come omicida e pericoloso, inevitabilmente favorisce il trionfo del femminile, nel modello anglosassone, oggi massima espressione dell’asservimento alla società liquida. In assenza del limite, le tecnologie possono non solo essere usate e consumate senza che vi sia educazione al loro uso contestuale, ma specialmente il trionfo del femminile è l’affermarsi della cultura del controllo e dell’avversione ad ogni pericolo e frustrazione. Le tecnologie divengono l’estensione del femminile e l’espressione della sconfitta del maschile. Ovunque vi dev’essere omogeneità tra maschile e femminile, al maschile è concessa parola solo se ammette “la naturale superiorità e sensibilità del femminile”. Il maschile deve cedere il positivo e proficuo senso del limite in nome del principio femminile del controllo e del “dono” senza regole e razionalità. La violenza della maternità matrigna non è riconosciuta, per cui si plaude anche a sperimentazioni di nuove famiglie monosessuali che usano il grembo materno altrui per affermare il loro desiderio di paternità-maternità. Il centro deve tornare ad essere il concetto e non la rete, l’educazione deve avere come fine la formazione della persona e non l’uso meccanico delle tecnologie, l’antiumanesimo è la grande vittoria del Prometeo scatenato del capitale.
Nuovi pregiudizi Una società sana vive della preziosa dialettica tra femminile e maschile, la diade è manifestazione di principi capaci di autolimitarsi per permettere la vita al plurale. Da abbattere sono i pregiudizi positivi e negativi: non esistono generi assolutamente negativi o positivi, ma bisogna imparare, in primis, che le persone in quanto unità complesse non possono essere ridotte all’unica variabile del genere. La diversità è la possibilità della convivenza fra prospettive diverse che si completano, e specialmente, palesano aspetti differenti della realtà, i quali colgono aspetti essenziali da relazionare. L’identità è possibile solo nella relazione con altre identità. Se prevale l’incultura del modello unico, maschile o femminile, non importa quale prevale, non può che esservi una regressione generale, le cui colpe cadranno sulle future generazioni che attraverseranno la storia nella cecità del pensiero unico e dei suoi perniciosi ed inaspettati effetti. Dovremmo avere il coraggio di rallentare o fermarci per capire cosa stiamo dando-donando e specialmente cosa stiamo togliendo alle nuove generazioni, ma anche a noi adulti. Non si tratta di rifiutare la contemporaneità per la conservazione, ma di disporci in modo critico ed intellettualmente onesto. I figli della rete non possono che essere il prologo per tempi inauditi. Dobbiamo armarci di coraggio civile per fermare l’inverno dello Spirito che avanza.
La colpevolizzazione delle condotte individuali non conformi ai corretti stili di vita è assurta a dispositivo ideologico tanto semplice quanto efficace, perfetto per tempi come i nostri, allergici al ragionamento complesso e al pensiero dialettico. Permette di istituire facili equivalenze immediatamente consumabili sul piano comunicativo: l’incauto camminatore che si è allontanato dalla propria casa oltre i metri stabiliti nei giorni proscritti (casomai per fare una salubre passeggiata solitaria in campagna) è additato alla pubblica riprovazione come novello untore, chi mette sbadatamente un contenitore in Tetra Pak nel bidone sbagliato della differenziata diventa un devastatore ambientale, il lavoratore che non segue l’ennesimo, ripetitivo e generico corso sulla sicurezza si configura come responsabile degli incidenti sul lavoro. Il biasimo verso i trasgressori si abbevera alla retorica del piccolo gesto che fa la differenza. Tuttavia, la traiettoria del discorso piccola non è affatto, in quanto coglie con successo due bersagli che stanno al centro di un dominio che non si racconta più come tale. Il primo è la rimozione del politico e del sociale, spazi per eccellenza della complessità, al fine di rigettare ogni responsabilità sul singolo: la peste del nuovo millennio corre veloce fra un aperitivo serale e un bacio ai nonni e non tra le programmate rovine della medicina territoriale, sacrificata sull’altare della progressiva privatizzazione del sistema sanitario; il saccheggio dell’ambiente non è la risultante necessaria ed inevitabile del modo di produzione capitalistico, ma la conseguenza dell’incuria del consumatore poco attento al riciclo dei materiali; gli infortuni che ogni anno mietono vittime nei cantieri e nelle fabbriche nascono dall’ignoranza e dalla distrazione dell’operaio piuttosto che dalla mancanza di adeguati dispositivi di protezione forniti dalle aziende. Il secondo bersaglio è l’inclusione dell’ex-cittadino, ora imprenditore di se stesso, in uno spettacolo proiettato su scala globale, in cui è chiamato a giocare, in un copione scritto da altri, il ruolo di consumatore responsabile di merci ad alto contenuto simbolico ed emozionale dalla corretta fruizione delle quali dipenderebbe il buon andamento del pianeta. In un periodo storico in cui la maggior parte della popolazione mondiale è totalmente esclusa dalle vere decisioni – al punto da ignorare spesso persino da dove provengano e in cui è preponderante il peso di organismi sovranazionali che nascondono dietro il volto algido di una tecnocrazia sorretta dall’oggettività di dati ed algoritmi, il viluppo bruciante di enormi interessi che a partire dall’economia si diramano in tutti i settori della vita associata –, non v’è politico, industriale, manager o amministratore che non agiti la bandiera dell’inclusione, divenuta il fulcro delle buone pratiche di goveranance. Lungi dall’essere una semplice mistificazione costruita attorno ad un artificio linguistico, l’inclusione si declina piuttosto come la nuova virtù civica dell’attuale fase capitalistica, la forma ideologico-culturale in cui si traduce l’adattamento sociale. Diversamente dal passato, questa virtù civica non si elabora nel corso di un processo di cittadinanza attiva in cui il soggetto si costruisce come soggetto politico e sociale, innanzitutto attraverso il conflitto e la messa in discussione collettiva di assetti istituzionali e di costellazioni culturali dominanti. Anzi, essa ne rappresenta la negazione, perché ignora, quando non esecra, il conflitto e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di una costruzione abbozzata nei piani alti dei centri decisionali e da lì calata per una più puntuale mesa a punto nei livelli sottostanti del sistema mediatico onnipervasivo e del ceto accademico generalmente compiacente. I destinatari del progetto inclusivo sono tenuti a collaborare, o perlomeno a non sottrarsi all’ecumenico abbraccio, e ad avanzare di tempo in tempo qualche educata riserva che attesti il loro grado di coinvolgimento e rafforzi il progetto stesso. Chi, per svariati e anche contrastanti motivi, non prende il posto assegnato tra le fila dei soldatini del nuovo ordine mondiale confezionato con i ritagli del solidale, del sostenibile e del salutare o ne diserta provvisoriamente i ranghi, è il candidato ideale al ruolo di colpevole su cui scaricare i costi delle falle del sistema in fase di giudizioso riposizionamento dopo quarant’anni di predazione selvaggia all’insegna del neoliberismo.
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