«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti E-Books gratuiti N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it,e saranno immediatamente rimossi.
Lo scopo è celare l’antiumanesimo imperante: nessuna cura per le persone, ma solo il profitto deve guidare il mondo.
Luca Grecchi con il suo impegno decennale ci è di ausilio per comprendere le ragioni strutturali della cultura della cancellazione: si deve nascondere ai “sussunti” che il migliore dei mondi possibili condanna alla cattiva vita le generazioni del nostro presente e priva le future generazioni della possibilità ontologica di progettare e vivere una vita degna di essere vissuta.
Il testo di Luca Grecchi Perché non possiamo non dirci Greci fu scritto più di un decennio fa, ma oggi è più vero e autentico che mai, ci pone dinanzi alla verità del nostro tempo storico, ci conduce a pensarlo. Ciò potrebbe essere terapeutico, in quanto ci aiuta a capire le ragioni dell’infelicità che attanaglia innumerevoli vite malgrado le promesse della crematistica. I Greci sono trasgressivi, in quanto ci insegnano ad essere autenticamente trasgressivi, e questo non può essere tollerato da un sistema che prolifera nel culto clericale della crematistica
Le buone letture sono silenziose, ma consentono di fuoriuscire dalla accidia in cui quotidianamente ci si vorrebbe imprigionare e dalla immateriale violenza di quella weberiana «gabbia d’acciaio» dagli opachi splendori che con ritmo serrato si rovesciano in funambolici ed interminabili supplizi, pubblici e privati.
Cancel culture
La Howard University ha ridimensionato gli studi classici. Inoltre, largo spazio è stato dato dai media alle tesi del prof. Dan-el Padilla Peralta, docente a Princeton, originario della Repubblica Dominicana, il quale ha individuato nella cultura dell’antichità il fondamento del suprematismo bianco. La cancel culture procede spedita, si inneggia alla libertà e alla difesa dei diritti delle minoranze, la causa di ogni male è individuato nelle civiltà passate. Il presente è l’incipit di un nuovo mondo nel quale ogni discriminazione è destinata a scomparire. L’analisi ossessiva del passato, sempre negativa, il giudizio esemplificato teso a cancellare ogni possibile comparazione contrastiva tra il modello economico contemporaneo e modelli di altre civiltà, ha lo scopo di ipostatizzare il presente, di renderlo immacolato e scevro da ogni macchia e critica. Il sistema opera per cancellazione, utilizza nobili ragioni per fini ideologici. Lo scopo è celare l’antiumanesimo imperante: nessuna cura per le persone, ma solo il profitto deve guidare il mondo. Libertà e benessere sono proporzionali al censo, chi non ce la fa è lasciato indietro, è colpevole di diserzione o semplicemente non è all’altezza del migliore dei mondi possibili. In questo clima di conservazione e limitazione del pensiero teoretico e divergente vi sono eccezioni che aiutano a comprendere il tempo presente. Luca Grecchi con il suo impegno decennale ci è di ausilio per comprendere le ragioni strutturali della cultura della cancellazione: si deve nascondere ai “sussunti” che il migliore dei mondi possibili condanna alla cattiva vita le generazioni del nostro presente e priva le future generazioni della possibilità ontologica di progettare e vivere una vita degna di essere vissuta:
«Il cosiddetto “progresso economico” sta infatti costando molto caro all’Occidente in termini di qualità spirituale della vita per le generazioni attuali, e di speranza di vita per le generazioni future, così come sta costando caro da parecchio tempo alle centinaia di milioni di poveri del mondo non occidentale».1
Luca Grecchi e lo storicismo crociano
Luca Grecchi nuota in senso contrario. Gli antichi Greci sono il paradigma con cui pensare il presente e comprenderlo. La cultura occidentale è cristiana e greca, oggi entrambe sono rimosse dall’orizzonte etico e culturale. Per valorizzare il pensiero greco bisogna uscire dalla trappola dello storicismo crociano per il quale ciò che viene dopo è più vero di ciò che viene prima.
La verità sfugge alle maglie della successione temporale, essa “appare” in epoche differenti, può scompare nelle vicissitudini storiche, ma la verità attraversa lo storicismo, lo fende per mostrare che il dopo può essere meno vero del prima.
Il mondo greco ci insegna che una civiltà è eccellente, se è curvata sulla cura dell’essere umano e del ben vivere, se si confronta con le spinte distruttrici presenti in essa.
Nel mondo prefilosofico i Greci non si occupavano ingenuamente del cosmo e degli dèi, ma in essi proiettavano le dinamiche umane. In tal mondo oggettivavano l’umano con il suo caos per armonizzare la comunità e fondarla su solide fondamenta veritative. Il centro del pensiero e della prassi era l’essere umano nella comunità. Le forze cosmiche e divine erano interpretate in modo olistico e dinamico: in esse si rifletteva la vita della comunità; il sapere era finalizzato alla buona prassi politica:
«Nella letteratura prefilosofca era infatti presente non tanto la contemplazione disinteressata del cosmo, quanto un tentativo di unificazione del molteplice e di armonizzazione del caos, operato proprio dall’uomo. L’uomo richiedeva infatti di conoscere l’ordine del cosmo per potervi poi vivere in modo più conforme alla propria essenza razionale, morale e simbolica. È errata pertanto la tesi di chi sostiene che l’uomo avrebbe ricercato la contemplazione del cosmo, nella Grecia, solo per poter poi vivere in modo più conforme a tale ordine. La natura, il cosmo, segnarono indubbiamente, con le loro strutture, i limiti dell’azione umana. All’interno di questi limiti, però, l’uomo operò sempre per comprendere e realizzare nel modo più compiuto la propria essenza».2
Non fu filosofia ontocentrica
Non fu la filosofia greca ontocentrica, in quanto la riflessione sull’essere è stata funzionale a codificare la buona vita. L’essere è sempre stato inserito all’interno della concretezza della buona vita. L’essere, metafora della comunità stabile e delle buone leggi rispettose della natura, è stato un tema non secondario dei grandi filosofi classici, i quali hanno utilizzato un nuovo linguaggio per l’umanesimo greco, lo hanno categorizzato e concettualizzato per affinarlo e per criticare la crematistica che minacciava la comunità. L’essere umano, dunque, è sempre stata la priorità del mondo greco:
«La riflessione dell’essere fu molto importante nel pensiero classico. Essa infatti occupa un posto rilevante non solo nel pensiero di Parmenide, ma anche nel pensiero di Platone ed Aristotele (sebbene si sia poi sempre più diradata nell’ellenismo). Tuttavia l’essere costituì, per utilizzare una metafora, la semplice cornice del quadro, infatti, rimase sempre l’uomo».3
Ha ben detto Luca Grecchi: la grecità fu umanesimo, per cui da ciò comprendiamo le ragioni strutturali dell’attacco alla cultura classica. Essa, con la sua semplice esistenza, già denuncia le derive nichilistiche e crematistiche della globalizzazione neoliberista. Il mondo classico è divergente rispetto ai nostri malinconici tempi, per cui la globalizzazione che vorrebbe eternizzarsi eliminando ogni dialettica vorrebbe ridurre al silenzio una civiltà che smentisce la presunta superiorità del neoliberismo con il suo feticismo delle merci. Una civiltà è viva, se le tendenze crematistiche incontrano il limite positivo del logos, altrimenti è condannata al dissolvimento. La nostra realtà sociale è adialettica, pertanto rischia l’abisso:
«Ora: non vogliamo affatto negare che Marx avesse ragione nel sottolineare la specificità del modo di produzione capitalistico rispetto ai modi di produzione precedenti. Ciò nonostante, non ci pare che la discontinuità fra il modo di produzione antico ed il modo di produzione capitalistico sia tale da invalidare tout court le proposte teoretiche, ad esempio, di Platone ed Aristotele. Infatti, come i due grandi filosofi hanno mostrato, la società greca era certo gerarchica, elitaria ed aristocratica, ma solo per la presenza centrale in essa della crematistica, presenza che costituisce il nesso di continuità fra pressoché tutti i principali modi di produzione storicamente sviluppatisi. Non a caso Platone ed Aristotele – ma anche prima di loro, Solone ed altri – attribuirono proprio alla crematistica, ossia alla ricerca del massimo arricchimento privato, le cause dei mali della società greca, le quali sono nella sostanza differenti rispetto a quelle della società capitalistica, anch’essa infatti gerarchica, elitaria ed aristocratica».4
La dimostrazione della generale codificazione umanistica della civiltà greca e in particolare della filosofia è la presenza di pochi pensatori relativisti e sostanzialmente nichilisti:
«Altrettanto tranquillamente si può affermare che l’unica eccezione in tal senso, nel pensiero greco, fu costituita da alcuni esponenti della sofistica e della eristica. Una eccezione, però, conferma la regola, e la regola, in questo caso, conferma proprio la tesi qui esposta. Tale tesi sostiene, in pratica, che la Grecità si costituì essenzialmente come opera di resistenza culturale e politica all’antiumanesimo del denaro, dannoso per gli uomini e per la natura».5
L’eccezione è una conferma della regola, non la smentisce, è una prova evidente della ricostruzione e dell’interpretazione svolta da Luca Grecchi e sostenuta, anche, da grandi studiosi come Rodolfo Mondolfo, Costanzo Preve, Enrico Berti ecc.
Solo se si decodifica chiaramente il pensiero greco nella sua postura umanistica, si può ben comprendere la necessità di rileggere e studiare gli antichi Greci, non per una vuota idolatria, ma per capire il presente nel solco di un’identità europea e occidentale da trasformare in prassi e non certo in erudizione filologica e ritrovare, così, il sentiero interrotto che conduce alla felicità:
«In questa situazione, perché dovrebbe avere ancora senso dirci Greci? Ciò ha ancora senso proprio perché gli antichi Greci, come dicevamo in precedenza, furono coloro che per primi – o maggiormente – posero l’uomo al centro dell’essere, ossia posero la massima cura alla felicità dell’uomo nel proprio contesto sociale, pur nel rispetto dei limiti imposti dalla natura. Seguendo gli antichi Greci, potremmo esercitare la sola possibilità che ci resta di arrestare il fiume antiumanistico prodotto dalla crematistica, la cui hybris rischia di distruggere l’uomo e il cosmo».6
Felicità
La ricerca della felicità, la valorizzazione dei talenti sul comune sostrato della natura umana razionale e comunitaria è negata in modo quotidiano nel sistema capitalistico. Gli effetti sono palesi, non necessitano di particolari capacità critiche per riconoscerli. Nel tempo in cui trasgredire è solo edonismo acquisitivo, gli antichi Greci ci riportano alla necessità della felicità quale esperienza comunitaria e razionale senza di essa nessuna vita è degna di essere vissuta, ma si consuma nel vespaio della violenza competitiva. In tale cornice l’identità si disperde, diviene liquida fino ad evaporare, alla fine non resta che il niente. Studiare i Greci nel tempo ordinario della distruzione dell’umano ha un senso più profondo che mai, in quanto nessun farmaco può restituirci i fondamenti senza i quali non siamo che fuscelli nella tempesta del capitale destinati a scomparire tra i flutti del PIL senza speranza.
Il testo di Luca Grecchi Perché non possiamo non dirci Greci fu scritto più di un decennio fa, ma oggi è più vero e autentico che mai, ci pone dinanzi alla verità del nostro tempo storico, ci conduce a pensarlo. Ciò potrebbe essere terapeutico, in quanto ci aiuta a capire le ragioni dell’infelicità che attanaglia innumerevoli vite malgrado le promesse della crematistica. I Greci sono trasgressivi, in quanto ci insegnano ad essere autenticamente trasgressivi, e questo non può essere tollerato da un sistema che prolifera nel culto clericale della crematistica:
«L’umanesimo, inteso, come cura dell’uomo rispettosa del cosmo, è a nostro avviso il primo pilastro della Grecità. Questo pilastro è però strutturalmente connesso ad un secondo pilastro, costituito da quella che potremmo definire “anticramatistica” greca. I due pilastri sono connessi in quanto la crematistica, intesa come “arte di far denaro”, è criticata da pressoché tutto il pensiero greco proprio in quanto “innaturale”, ossia contraria alla “natura umana”».7
Le buone letture sono silenziose, ma consentono di fuoriuscire dalla accidia in cui quotidianamente ci si vorrebbe imprigionare e dalla immateriale violenza di quella weberiana «gabbia d’acciaio» dagli opachi splendori che con ritmo serrato si rovesciano in funambolici ed interminabili supplizi, pubblici e privati.
Salvatore Bravo
1 Luca Grecchi, Perché non possiamo non dirci Greci, Petite Plaisance, Pistoia, 2010, pag. 66.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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La meritocrazia è il nichilismo nella forma della competizione
Non vi sono più valori universali, per cui non resta che la forza del censo a guidare l’atomistica delle solitudini. La tirannia del merito sta uccidendo la democrazia. Già nel 1958 Michael Young inventava questa parola nel suo romanzo distopico Rise of the Meritocracy [L’avvento della meritocrazia] in opposizione all’’esaltazione ideologica del principio del merito.
Meritocrazia
La parola “meritocrazia” è una delle parole più abusate e meno pensate nel sistema attuale. Il neoliberismo usa le parole come feticci, divengono dei catalizzatori di consenso non mediati dalla pubblica discussione. Il nuovo dogmatismo con le sue “prescrizioni religiose” è intessuto di parole che parlano attraverso gli ignari sudditi. Le parole disegnano mondi, organizzano le geometrie degli incontri e, specialmente, inscrivono confini tra inclusi ed esclusi o tra vincenti e perdenti. L’ordine del discorso costruisce gabbie invisibili nelle quali i soggetti sono gerarchizzati. Il loro consenso è strappato mediante la ripetizione continua delle parole-mantra e con l’oscuramento del pensiero critico. Le parole sono gli anelli che costruiscono e forgiano un’invisibile catena.
Il termine “meritocrazia” è uno dei termini più antidemocratici che il sistema liberista utilizza. Il merito (dal latino mereor: guadagnare) è associato al potere (crazia: kratos). Il singolo che raggiunge taluni risultati socialmente riconosciuti con la sua volontà e con il suo impegno è premiato col potere.
L’individualismo più spinto e astratto occulta che il merito dell’individuo è sempre legato alle istituzioni, al gruppo sociale di appartenenza e alla famiglia di provenienza. Il successo del singolo è il risultato di una cornice di relazioni positive, la meritocrazia è il mezzo con cui eliminare la società in nome del solo atomismo sociale. Il soggetto si autocrea al punto da meritare il potere.
La meritocrazia giustifica la gerarchia sociale, i più meritevoli ricevono l’investitura feudale, possono gestire personalmente il potere, sono i dirigenti del sistema indiscussi e indiscutibili, poiché nel campo di battaglia della competizione sono stati duri e competenti al punto da sbaragliare i contendenti.
La meritocrazia è negazione della democrazia sociale e reale.
La democrazia è potere collettivo e comunitario. Il potere, stile leader, invece, consegnato al singolo diviene antidemocratico, poiché è riposto in un singolo dal quale tutto dipende, i sudditi devono obbedire ed eseguire. Si esclude, quindi, dalla condivisione e dal controllo l’esercizio del potere che diviene dominio e gerarchia.
La linea è tracciata: nell’Empireo vi sono i nuovi signori e padroni, in basso i servi della gleba colpevoli di non essere resilienti. La gerarchizzazione si struttura con un processo linguistico non mediato dall’uso della pubblica ragione. In una democrazia un singolo non ha potere, si mette al servizio della comunità nel pubblico e nel privato come prevede la nostra Costituzione. La democrazia è una sinfonia a più voci, in cui il merito non interrompe la sinfonia, ma affina la corale musicalità, la meritorietà lavora per innalzare il livello medio della consapevolezza e della partecipazione, la meritocrazia introduce il razzismo senza razza, consegna i perdenti nel limbo della passività. La meritocrazia è cacofonica, è rottura dell’armonia, l’individuo canta a voce sola, silenzia le altre voci, è violenza legalizzata. Essa i principi costituzionali per diffondere il disprezzo e la paura per i perdenti-poveri. L’aporofobia, la paura dei poveri, e la violenza che ne consegue è il risultato della meritocrazia: potere ai meritocratici, l’abisso della precarietà ai perdenti.
L’astratto non consente di comprendere che la povertà è l’effetto della cattiva distribuzione della ricchezza, quest’ultima non è da intendersi solo in senso materiale, ma come opportunità formative sempre più legate al censo e meno al merito reale.
Meritorietà
La meritorietà è altro rispetto alla meritocrazia, è il premio senza il potere-dominio. È il riconoscimento sociale di una differenza, ma all’interno della cultura del servizio. I meriti personali non devono assediare le istituzioni democratiche e l’uguaglianza giuridica. Meritorietà è cultura dell’opportunità, è libertà di mettere in discussione il sistema. La meritocrazia è investitura con concorsi e selezione del personale nel quale chi vince la selezione è organicamente orientato a riprodurre il potere e il sistema sociale. Dinanzi a coloro che per “merito” sono i selezionatori sono vocati a dimostrare le loro competenze e a rassicurare di riprodurre il dominio.
La meritorietà spogliata del potere consente la libertà e l’uso pubblico della ragione: coloro che occupano posizioni di vertice, se detengono un potere minimo non possono impedire la ragione critica che innova il sistema, svela le contraddizioni e orienta verso il nuovo. L’uomo e la donna soli al comando sono l’immagine e la verità di un sistema che ha scelto il dominio e ha rinunciato alla democrazia.
Alla parola meritocrazia dobbiamo sostituire la parola meritorietà, in quanto in una democrazia il potere spetta non ai singoli, ma alle istituzioni etiche governate, vissute e pensate dalla comunità.
Il Ministero dell’istruzione ribattezzato Ministero dell’istruzione e del merito dovrebbe preoccupare tutta la comunità democratica. La meritocrazia nella scuola può tradursi, nel clima presente, in esclusione degli alunni socialmente deboli, e un’ulteriore spinta verso la verticalizzazione della scuola, la quale da istituzione etica e comunitaria rischia di diventare luogo anonimo in cui si sperimenta il neofeudalesimo e si abituano alunni e personale alla normalità del dominio dei dirigenti.
La meritocrazia è il nichilismo nella forma della competizione. Non vi sono più valori universali, per cui non resta che la forza del censo a guidare l’atomistica delle solitudini. Il potere come dominio è ciò che resta dopo l’abbattimento violento di ogni metafisica e di ogni verità.
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[…] noi non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva, dell’Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l’educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento. […]
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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