Fernanda Mazzoli – Storia negata memoria mutilata. Con un semplice sgarbo all’etichetta il museo polacco di Auschwitz, per celebrare la liberazione del campo cancella i liberatori, da sempre presenza ingombrante, anzi indigeribile per il corpo tronfio, autoreferenziale e dal tentacolare appetito delle democrazie sedicenti liberali.


Fernanda Mazzoli

 

Storia negata memoria mutilata

 

Oggi, con un semplice sgarbo all’etichetta il museo polacco, per celebrare la liberazione del campo cancella i liberatori, da sempre presenza ingombrante, anzi indigeribile per il corpo tronfio, autoreferenziale e dal tentacolare appetito delle democrazie sedicenti liberali.

L’operazione, tanto rozza quanto dirompente, esprime al massimo grado quella tendenza piuttosto diffusa a piegare la storia alle convenienze e alle direttive politiche del momento che finisce per annullare la storia stessa e, con essa, ogni preoccupazione di verità e di decenza.

 

 

Come è noto, la memoria tende a privilegiare la modalità selettiva, vuoi per l’ampiezza di quanto costituisce il suo oggetto di cui non è semplice registrazione, vuoi per la tendenza a rimuovere o sfocare quanto ha causato sofferenza. E così, proprio nella sua giornata ufficiale – il 27 gennaio – ha fatto i conti con un evento oltremodo fastidioso, per non dire scandaloso che ormai da anni turbava la celebrazione di una giornata altrimenti memorabile che vede l’Europa tutta ribadire il proprio rifiuto di ogni forma di persecuzione. Infatti, la Russia è stata esclusa dalla cerimonia di commemorazione organizzata dalla direzione del museo di Auschwitz, in ricordo dell’anniversario della liberazione del campo di sterminio ad opera dell’Armata Rossa. Sulle spalle dell’U.E. al traino americano pesava da tempo questo vergognoso vizio d’origine, questo incidente di percorso che offuscava il medagliere democratico ed antifascista orgogliosamente esibito, al punto che lo stesso Parlamento europeo era dovuto intervenire nel 2019 con una dichiarazione in cui nazismo e comunismo venivano equiparati, liquidando con un sol tratto di penna e qualsiasi serio dibattito storiografico e 20 milioni di Russi morti nella guerra contro il nazismo. Oggi, con un semplice sgarbo all’etichetta il museo polacco, per celebrare la liberazione del campo cancella i liberatori, da sempre presenza ingombrante, anzi indigeribile per il corpo tronfio, autoreferenziale e dal tentacolare appetito delle democrazie sedicenti liberali.

L’operazione, tanto rozza quanto dirompente, esprime al massimo grado quella tendenza piuttosto diffusa a piegare la storia alle convenienze e alle direttive politiche del momento che finisce per annullare la storia stessa e, con essa, ogni preoccupazione di verità e di decenza. E la leva su cui si appoggia la destoricizzazione sta proprio nel rapporto squilibrato tra memoria e storia, tutto spostato attualmente sull’asse della prima.[1] La Giornata della memoria che si svolge ogni anno a scuola intorno al 27 gennaio è, a tale proposito, esemplare, combinando insieme spettacolarizzazione del dolore e destoricizzazione della Shoah. Evento ormai rituale del calendario scolastico tra l’assemblea di Natale (leggi: tornei di giochi di carte e palla e consumo di cibarie) e l’assemblea di Carnevale (leggi: tornei di giochi di carte e palla e consumo di cibarie con eventuali travestimenti) cade la visione di un film giocato sul doppio registro dello straziante e del macabro, o la lettura di brani commoventi, o – sempre più raramente, vista l’età dei sopravvissuti – l’ascolto di qualche testimonianza che, per quanto significativa, resta interna per sua natura al perimetro dell’esperienza individuale. In definitiva, sempre più emozioni e sempre meno logos nell’ambito del quale anche l’emozione potrebbe trovare una indispensabile disciplina, se vuole trasformarsi in forza morale.

La crescente valorizzazione della memoria impostasi a partire dalla fine del secolo scorso sembra, per diversi storici, costituire in realtà un arretramento della storia stessa, un suo surrogato laddove è divenuto difficile servirsi di una prospettiva meramente storiografica. Ciò che risulta evidente in ambito formativo e sembra cristallizzarsi nelle due ricorrenze della Giornata della Memoria e in quella più recente del Ricordo, rappresenta in effetti la punta dell’iceberg di una tendenza ben più generale che si fonda sulla destoricizzazione sia delle vite individuali, sia delle società, ancorate su un eterno presente dove galleggiano segmenti di memorie che faticano a trovare quelle coordinate all’interno delle quali acquisire un senso compiuto.

I limiti di un approccio prevalentemente giocato sulla memoria – soggettività e frammentarietà innanzitutto – quando non risolti entro una cornice rigorosa di contestualizzazione storica, si prestano ad ogni manipolazione, di cui rimozione e negazionismo rappresentano gli esiti estremi. La ventata di cancel culture (non casualmente un vento di provenienza atlantica) che mira a fare tabula rasa del passato per minare ogni consapevolezza culturale e azzerare la storia dell’essere umano come una miserevole sequela di errori, colpe, follie, violenze con il suo nichilismo assoluto e il suo patologico rifiuto della realtà, autorizza le più fantasiose ed arbitrarie ricostruzioni, lasciando di fatto il campo aperto ad ogni strumentalizzazione ideologica e politica, sostituendo alla conoscenza storica o i pii desideri delle anime belle o il brutale colpo di spugna a mano di compiaciuti e compiacenti servitori di questa o quella istituzione, naturalmente sempre depositaria indiscussa ed autoproclamatasi dell’ultimo residuo di verità permesso. Dopo le teorie negazioniste dello sterminio nazista, ecco profilarsi, nel seno stesso di quel mondo che ama presentarsi come misura universale di libertà, democrazia e diritti umani, la rimozione del contributo fondamentale dato dall’Unione Sovietica alla liberazione dal nazifascismo, attraverso l’esclusione della Russia dalla cerimonia tenutasi il 27 gennaio ad Auschwitz.

Il quadro geopolitico in cui è maturata una tale decisione è fin troppo chiaro, meno forse le sue conseguenze. Oltre l’aspetto più generale che è quello, come si è appena accennato nei limiti del presente lavoro, di una progressiva e quasi ultimata destoricizzazione, va osservato, nello specifico, che amputare dall’Europa la Russia – la sua straordinaria cultura, la sua presenza vitale nella storia del continente – significa innanzitutto colpire a fondo l’Europa (che è poi uno degli obiettivi del conflitto in corso, per interposta Ucraina), legandola irrevocabilmente al padrone americano, in affanno un po’ ovunque.

Questa presenza, così come si manifestò nel 1945, vorrei ricordarla con le parole di Primo Levi per il quale la fine dell’inferno e la speranza della libertà presero, in quel gennaio, il volto di quattro soldati dell’Armata Rossa che, dopo la fuga dei Tedeschi da essa incalzati, entrarono nel campo dove era stato spedito in quanto ebreo e partigiano. Se memoria deve essere, che almeno non sia mutilata, a sfregio della verità storica.

Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.

A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.

Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: i quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.[2]

 

[1] È quanto sostiene lo storico Davide Bidussa, citato da Francesco Germinario nel suo Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della poststoria, Asterios, Trieste 2017, che sviluppa una lunga riflessione sul rapporto storia- memoria cui faccio qui un rapido riferimento e su quello tra destoricizzazione delle vite individuali e destoricizzazione del Passato.

[2] P. Levi, La tregua, Einaudi, Torino 1989.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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Carmine Fiorillo – Il carro armato di Benigni e i bambini di Terezín. Considerazioni inattuali a margine del film «La vita è bella». Benigni e Cerami antesignani dei falsi storici, così da vincere l’Oscar. Furono i soldati dell’Armata Rossa ad entrare nel campo di sterminio nazista di Auschwitz e non i carri armati americani.

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VILLACHIARA –  I DISEGNI DI TEREZIN
Mostra tenutasi dal 27 gennaio al 1 febbraio 2009

Fotogramma tratto da "La vita è bella": Giosuè sul Carro armato USAFotogramma tratto da “La vita è bella”: Giosuè sul Carro armato USA

«Affetto e rispetto per un amico di Roberto Benigni, l’italiano più amato negli Stati Uniti» (La Repubblica, 27/4/99). Con queste parole Bill Clinton accoglieva Massimo D’Alema al Summit della NATO, rievocando lo show del comico alla cerimonia di conferimento dei tre Oscar a La vita è bella (e, guarda caso, nessuno a The Truman show): i mass-media americani e i servizi di intelligence USA coglievano nel film una straordinaria occasione per rendere funzionali agli interessi imperiali i messaggi subliminali incuneati nella tessitura narrativa del soggetto firmato da Cerami e Benigni. Si ricordi la chiusa del film: il giovane soldato americano apre la torretta del carro armato americano e saluta Giosuè – nel silenzio del campo di sterminio deserto – con un «Hi Boy! … vieni ti diamo un passaggio». E Giosuè alla madre ritrovata grazie alla posizione “alta” sulla torretta: «Mamma, si torna a casa col carro armato [americano] … abbiamo vinto!».

Sembra proprio che Benigni abbia vinto i tre Oscar piroettando su quello stesso carro armato che nel suo film è equivoco emblema e improbabile – certamente oggi – metafora della “liberazione” e della “vita”. L’italiano «più amato negli Stati Uniti» (ma si sa che Clinton non eccelle in sincerità), ha piegato – forse non cogliendone le implicazioni – alla scena finale del carro armato americano liberatore molte scene del film, a partire dalla scena 38 del Soggetto, che introduce per la prima volta il carro armato come immagine subliminale: un primo stimolo forse troppo debole per essere percepito e immediatamente riconosciuto nel suo tragico significato, ma non tanto debole da non riuscire ad esercitare una qualche influenza sui processi psichici del recettore-spettatore.

Alla scena 38 siamo già in piena guerra, e non è indifferente che un genitore regali al figlioletto «un piccolo carro armato di latta». Per chi scrive La vita è bella è davvero stridente non aver scelto un altro gioco per Giosuè: poteva essere un “piccolo camion”, un “piccolo trattore”, una “macchinina”, ecc. Ma è evidente che il «piccolo carro armato di latta» della scena 38, che ancora nella scena 41 Guido indica al figlioletto come «finto», deve diventare nella scena 53 il «primo premio», un «carro armato vero, nuovo nuovo», e nella scena 82 il «carro armato verde, con la stella bianca degli americani», il carro armato americano con cui «si torna a casa» (scena 83). L’immagine insistita del carro armato è del tutto strumentale ai fini della chiusa, ed è questa la sottile violenza fatta dagli autori al bambino, perché il gioco costruito dal padre Guido-Benigni sull’immagine del carro armato non è il vero gioco di Giosuè (il suo gioco di bambino); e dunque spesso non è contento del “gioco” paterno e chiede, invece del «primo premio», di «andare dalla mamma» accontentandosi della «merenda» al posto del carro armato (scena 53). Il “gioco” paterno è per lui a volte insopportabile e violento: «E poi sono cattivi cattivi, urlano» (scena 53). Ma Guido deve legittimare la durezza e la severità: «Per forza, il premio è grosso, devono essere severi, duri… Il carro armato vero fa gola a tutti».

Sull’analisi psicologica della funzione del gioco nell’infanzia Cerami avrebbe potuto studiarsi almeno i testi di Bruno Bettellheim, uno psicanalista ebreo viennese che fu rinchiuso per un anno nei campi di concentramento di Dachau e di Buchenwald e che poi si dedicò completamente alla psicoterapia dei bambini (cfr. Il prezzo della vita. La psicoanalisi e i campi di concentramento nazisti, Bompiani 1976; Il mondo incantato, Feltrinelli, 1978; ecc.).

A coloro che hanno visto La vita è bella e che vogliano davvero riflettere consigliamo l’attenta lettura del Soggetto edito da Einaudi. Potranno cogliervi, specie nella seconda parte, oltre ad un’equivoca operazione culturale, anche sciatteria di linguaggio e miseria espressiva (si pensi alle ultime battute messe in bocca a Giosuè) appena mascherate dall’indubbia capacità istrionesca del Benigni non a caso dichiarato amico del D’Alema interventista e osannato dallo spergiuro Clinton come «l’italiano più amato negli Stati Uniti», con il suo «carro armato americano»,vessillifero della «guerra umanitaria»: si premi dunque Benigni e La vita è bella, a febbraio. Ad aprile dello stesso anno le bombe “intelligenti” con la stella bianca americana giungono sul territorio della Federazione Jugoslava. A Benigni, considerata la sua enfasi sul «carro armato americano», consigliamo di leggere il romanzo Amatissima, della scrittrice nera americana Toni Morrison (Premio Nobel 1993): sulla prima pagina del volume campeggia la seguente dedica: «Agli oltre sessanta milioni» (il riferimento è alle vittime della schiavitù in America).

Per quanto ci riguarda preferiamo far volare la Colomba della Libertà di Picasso per ricordare altri bambini vittime dell’olocausto: i bambini di Terezín. Terezín: una città fortezza e di frontiera costruita nel 1780 dall’imperatore Giuseppe II e dedicata alla madre Maria Teresa, da cui appunto il nome. Diventò tra il 1942-1944 il «ghetto dell’infanzia». Vi furono rinchiusi circa 15.000 bambini, tra i 7 e i 13 anni. A gruppi furono trasportati ad Auschwitz e qui avvelenati o bruciati nei forni crematori, le loro ceneri disperse. Dei quindicimila ragazzi soltanto un centinaio erano ancora vivi al momento della liberazione da parte delle truppe sovietiche.

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Uomini e donne di straordinaria sensibilità, anch’essi deportati, destinati alla sorveglianza dei ragazzi, in quella allucinante situazione riuscirono a mantenere vivo in essi il senso della vita e della speranza facendoli lavorare e studiare, distribuendo a tutti quel calore umano e affettivo tanto necessari nell’età infantile. È merito loro se oggi possiamo porre alla riflessione di tutti noi le testimonianze di questa incredibile vicenda della storia moderna. 4.000 disegni e 66 poesie ci sono così pervenute, e sono oggi custodite nel Museo Ebraico di Praga. Renzo Vespignani, il grande artista italiano, nel donare un suo dipinto dedicato ai bambini di Terezín, scriveva nel 1982: «Che io dovessi aggiungere qualcosa alla visione di questi martiri-bambini mi sembrò impossibile. Del resto come rinunciare all’onore di legare il mio nome ai loro nomi dimenticati? Ho cercato di ingombrare il foglio il meno possibile; il resto dello spazio l’ho lasciato ai loro dolcissimi, strazianti addii».

La lezione dei bambini, 1942.

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Leggiamo insieme quanto scrivono Cerami-Benigni nel Soggetto.

Scena 38. Giosuè «si tira dietro, con lo spago, un piccolo carro armato di latta» (Benigni-Cerami, La vita è bella, Einaudi, 1998, p. 100). Il suo gioco è interrotto dal richiamo della madre («Lascia il carro armato!», ibidem) che lo aiuta a sedersi sul manubrio della bicicletta. Il bambino dice al padre: «Vai forte, babbo!» e, così dicendo, «lascia cadere il carroarmato» (ibidem).

Scena 41. Guido, davanti alla pasticceria Ghezzi, dice a Giosuè: «Lascia fare … quella torta è finta, è come il tuo carro armato!» (ibidem, p. 103).

Scena 53. Nel Lager Guido cerca di spiegare a Giosuè i termini del gioco che si è inventato per lui: «E chi vince prende il primo premio». «Che si vince babbo?». «… Un carro armato!». «Ce l’ho già il carro armato!», dice Giosuè. E Guido: «Un carro armato vero, nuovo nuovo!». Giosuè si ferma con la bocca aperta: «Vero? … E come si fa ad arrivare primi?» (ibidem, pp. 126-127). Ma Giosuè non è contento di questo gioco e invoca: «Voglio andare dalla mamma! […] E poi sono cattivi cattivi, urlano». E Guido: «Per forza, il premio è grosso, devono essere severi, duri … Il carro armato vero fa gola a tutti». Giosuè: «Non ci credo che si vince un carro armato vero!». Guido: «Ti dico di sì!». Giosuè: «E che bisogna fare? La posso vedere la mamma?». Guido: «Quando finisce il gioco». Giosuè: «E quando finisce?». Guido: «Bisogna arrivare a … mille punti. Chi ci arriva vince il carro armato». Giosuè: «Il carro armato? Non ci credo. (piagnucola) Ce la danno la merenda?» (ibidem, pp. 128-129).

Scena 56. Giosuè è ancora perplesso. Guido: «Che c’è Giosuè, hai giocato con i bambini oggi?». Giosuè: «Sì, ma i bambini non sanno proprio le regole. Hanno detto che non è vero che si vince il carro armato». Guido: «Lo sanno lo sanno. Sono furbi come volpi, non ci cascare. Il carro armato

fa gola a tutti. Non c’è il carro armato, ma scherzi?» (ibidem, p. 141).

Scena 82. «Non c’è più nessuno. […] improvvisamente qualcosa rompe il silenzio. È il rumore sordo di un motore […]: da una strada tra due costruzioni sbuca imponente un enorme carro armato verde, con la stella bianca degli americani. […] I cingoli si bloccano a pochi passi dal bambino […]. La torretta del carro armato si apre e compare un giovane soldato americano, che vede il bambino e sorride. […] Giosuè fissa l’enorme carro armato, che è in moto. Fa un passo avanti: “È vero!”. È pazzo di felicità. […] Carrista: “Sei solo bambino? […] Ti diamo un passaggio …vieni … sali …» (ibidem, pp. 187-188).

Scena 83. «I sopravvissuti del campo stanno camminando verso la strada […] Tra loro si fanno largo i mezzi motorizzati dell’armata americana. Il panorama è visto da sopra il carro armato, che scende giù lentamente… Sul carro, accanto alla torretta, attaccato al carrista americano, c’è Giosuè, eccitato, incantato, che mette in bocca l’ultimo pezzetto di cioccolata. Il carro sorpassa i poveretti […]. D’improvviso il bambino si volta: il carro armato è passato vicino a qualcuno che lui conosce: “Mamma!” […] “Abbiamo vinto! Mille punti! Da schiantare da ridere. Primi! Si torna a casa col carro armato … abbiamo vinto» (ibidem, pp. 188-189).

Tanto per ricordare:

Furono i soldati dell’Armata Rossa ad entrare nel campo nazista di Auschwitz e non i carri armati americani.