Ilaria Rabatti – «Ricrescite», il libro di Sergio Nelli. Prezioso, straordinario incontro con una voce poetica che ha la forza – “contro le fiatate del vuoto” – di far respirare i muri e di muovere desideri.

Sergio Nelli 001
Ricrescite01

Ricrescite

Sergio Nelli, Ricrescite, tunué, 2018.

 

 

«Fumo al buio, di notte. Non so che tempo faccia. Ho a un passo una stella cometa brillantata, sbilenca, in vetta all’alberello natalizio. Quando tiro, il tizzone della sigaretta risplende […]. Credo si possa dire: ormai ce la faremo».

 Sergio Nelli, Ricrescite, tunué, 2018.

 

 

Torna in libreria per le edizioni tunué, nella collana Romanzi diretta da Vanni Santoni, il bel libro di Sergio Nelli, Ricrescite, scritto nel 2000 e pubblicato per la prima volta nel 2004 da Bollati e Boringhieri. Più che la riscoperta di “una perla sepolta”, per me che non conoscevo Sergio Nelli e, credo, anche per altri lettori, la preziosa occasione di un incontro straordinario con un libro (ed una voce poetica) che ha il merito e la forza – “contro le fiatate del vuoto” – di far respirare i muri e di muovere ancora, disperatamente, desideri (“Nel giardino della casa di Fucecchio, i miei zii hanno segato fin quasi all’attaccatura del tronco coi rami: un cachi, un nespolo (sano), due oleandri e due piante d’alloro. Soprattutto guardando il nespolo, con le sue ricrescite e i suoi ributti, ho fantasticato che potesse avere qualcosa in comune con questo diario”).

Come conferma Antonio Moresco nella breve, empatica, prefazione, Ricrescite è un “libro magico”, “eccentrico”, “sotterraneo”, sempre in bilico con la sua “disperata grazia” tra narrazione e pensiero, tra ricordi recuperati e sguardo allargato sul mondo, tra somatizzazione e autobiografia. Già dopo poche pagine, come in un dormiveglia vigile, seguendo il flusso di pensieri (sensazioni, frasi prese qua e là, tracce di sogni, sferragliare di treni, voci di bambini, boati di traffico) ci scopriamo nel vivo tremante di una vita, “che dà del tu alle pietre” e che tra sole e vento, nella “attesa di un sereno non contrastato” è ingoiata dal tempo. La scrittura solo sembra un argine, forse … e allora il racconto di Nelli cerca di pacificarsi con il tempo dando alla narrazione la forma di diario; i capitoli hanno il nome dei mesi che passano scandendo le stagioni inquiete dell’esistere, scavando sempre, talvolta in modo impietoso, intorno a sé e dentro di sé, nei dettagli delle giornate passate (o perdute) tra il lavoro come insegnante, il rapporto con il figlio di quattro anni Federico, l’impegno umano e intellettuale in una comunità di recupero per alcolisti, l’attrazione per i vulcani ed i lori misteriosi crateri, che sembrano freddi ed indifferenti e che all’improvviso esplodono… È sullo scampato pericolo (forse), contro gli spettri dell’autolesionismo e la stanchezza dei “giorni inerti” che Nelli ragiona con pazienti (infantili) elenchi di cose (“sole, marmo, comignoli che fumano, montagne, giardinetti ventosi, sassi, acqua increspata, file di tegole, piccioni, anziani guardinghi”). Con pensieri semplici ma affilati (Nei loro simposi i greci chiamavano le coppe per il vino crateri), sigaretta dopo sigaretta, in modo asciutto ma sempre emozionale, l’autore procede inserendo “nel dialogo delle voci che lo assedia” nomenclature da trattato di vulcanologia, ingenue epifanie (Fuori stagione, una lucertola sulla strada, di fronte a un portone. E siamo dentro una favola) e ricordi (Il caffè scaldato in un pentolino: odore di tovaglie, di ferri da stiro, di menù inernali, di antiche fiere d’uccelli, di cioccolato…)

Colpisce anche la lingua usata da Nelli, familiare, fortemente comunicativa, intrisa di una fisicità umorale che tende alla propria liberazione (“Al giardinetto tutto il pathos bilioso che si era addensato al chiuso, dopo un litigio, si è svuotato come una gonfia vescica da un’urina fumante”) E il racconto tra scarti umorali, “illuminazioni e affondi”, si muove, si alza, si abbassa, respira forte, facendosi sempre, come i libri che contano davvero, ascoltare e rileggere (“Mentre il giorno ci lascia, la bassura è nella nebbia. Striscio, salto, cammino, guido. Postazioni diverse, trincee improvvisate, giacigli. Al buio, tasto, annuso, mando avanti la bocca, le mani, la lingua. Inn discesa arretro, in salita mi incurvo. Nei corpo a corpo c’è sempre un po’ di luce che si accende, che brilla. Poi, resta uno scintillio, nell’assenza”).

Ilaria Rabatti


Alcuni libri di Sergio Nelli

Rcrescite, Einaudi 2000

Ricrescite, Einaudi 2000

Dopopasqua, Castelvecchi 2000

Dopopasqua, Castelvecchi 2000

Prima dell'estinzione, Effigie 2008,

Prima dell’estinzione, Effigie 2008

Segnavento Pontormo, Titivillus 2008

Segnavento Pontormo, Titivillus 2008

Orbita clandestina, Einaudi 2011

Orbita clandestina, Einaudi 2011

Il primo mondo, Gaffi editore 2014

Il primo mondo, Gaffi  2014

Albedo, Castelvecchi 2017

Albedo, Castelvecchi 2017

 

 


 

 

4066

un “giornale di sconfinamento” per guardare il mondo con occhi diversi

 

Il primo amore

Sergio Nelli, Più del tuo mancarmi

 

 


Ilaria Rabatti – «La casa di carta», di Carlos María Domínguez

Ilaria Rabatti – Un libro di John Berger: «Da A a X. Lettere di una storia»

Ilaria Rabatti – Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore, l’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci

Ilaria Rabatti – «Al fuoco della carità». Introduzione al libro di Margherita Guidacci, «Il fuoco e la rosa. I “Quattro Quartetti” di Eliot e Studi su Eliot»

 


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Marcel Proust (1871-1922) – La saggezza non si riceve, bisogna scoprirla da sé dopo un percorso che nessuno può fare per noi, né può risparmiarci.

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ALL'OMBRA DELLE FANCIULLE IN FIORE

ALL’OMBRA DELLE FANCIULLE IN FIORE

La saggezza non si riceve,

bisogna scoprirla da sé

dopo un percorso che nessuno può fare per noi,

né può risparmiarci.

 

 

MARCEL PROUST

ALL’OMBRA DELLE FANCIULLE IN FIORE. ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO

Edizione italiana a cura di P.Pinto e G.Grasso, prefazione e traduzione di Maura Del Serra, NEWTON COMPTON, Roma, 1997, p. 325


Marcel Proust – La lettura ci insegna ad accrescere il valore della vita
Marcel Proust – «Ogni lettore, quando legge, legge se stesso»
Marcel Proust (1871-1922) – Il libro essenziale esiste già in ciascuno di noi
Marcel Proust (1871-1922) – Leggere è comunicare

 


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Plutarco (46/48 d.C. – 125/127 d.C.) – Occorre un’educazione seria e un’istruzione corretta. La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma di una scintilla, che la accenda, che vi infonda l’impulso alla ricerca e il desiderio della verità. Bisogna assegnare un ruolo preminente alla filosofia.

Plutarco 001

Plutarco, Moralia

Nel De liberis educandis, Plutarco sottolinea che
 il fine dell’educazione
è quello di formare l’individuo nel pieno delle sue capacità
Per fare questo, l’educazione dovrebbe condurre l’uomo alla virtù,
e quindi alla felicità.

 

«Riassumendo, io ribadisco che nella vita il punto unico, primo, centrale e ultimo, è costituito da un’educazione seria e un’istruzione corretta, e sostengo che il concorso di questi due fattori è efficace per acquisire la virtù e la felicità».

«Gli altri non sono che beni umani, insignificanti e indegni di considerazione. La nobiltà è una bella cosa, ma è un bene proprio degli antenati; la ricchezza è preziosa, ma appartiene alla sorte, che spesso la toglie a chi ce l’ha e la dona a chi non lo sperava. La gloria è meravigliosa, ma instabile; la bellezza ambita, ma caduca; la salute preziosa, ma fragile. La forza fisica è invidiabile, ma comoda preda della malattia e della vecchiaia. L’educazione è l’unico nostro bene immortale e divino».

 

 

«La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma, come un fuoco da ardere, ha bisogno solo di una scintilla, che la accenda, che vi infonda l’impulso alla ricerca e il desiderio della verità».

 

 

«Rivestono grande importanza i principi educativi, gli insegnamenti e gli orientamenti di vita, e ve lo dimostrerò subito con assoluta chiarezza»

.

 

 

«Bisogna assegnare un ruolo preminente alla filosofia. Posso esemplificare la mia idea con un’immagine: è bello, viaggiando per mare, scendere a visitare molte città, ma utile è andare a risiedere in quella migliore. Perciò la filosofia deve costituire il coronamento dell’intero processo educativo».

***

Ecco alcuni brani del libro di Plutarco

***

«Passiamo ora ad occuparci dell’educazione. In generale, anche per la virtù si devono ribadire i concetti che abitualmente enunciamo a proposito delle arti e delle scienze, e cioè che per pervenire a una condotta impeccabile si richiede il concorso di tre fattori: natura, parola e abitudine. Per parola intendo l’istruzione, per abitudine l’esercizio. Le basi sono offerte dalla natura, i progressi dall’istruzione, le acquisizioni dall’applicazione, la perfetta riuscita dalla concomitanza di tutte queste condizioni. Se ne viene a mancare una, la virtù risulta inevitabilmente zoppa da quella parte: la natura senza l’istruzione è cieca, l’istruzione senza la natura è insufficiente, e l’esercizio, se difettano le altre due, è inconcludente. […] Tutte queste condizioni, posso affermarlo decisamente, si incontrarono e cospirarono per dar vita alle anime, universalmente celebrate, di Pitagora, Socrate, Platone e di quanti hanno conseguito una gloria che non tramonterà mai. Segno dunque di felicità e di predilezione celeste è ricevere da un Dio tutti questi doni. Se qualcuno invece pensa che chi è scarsamente dotato, nonostante un’istruzione e un’applicazione correttamente indirizzate alla virtù, non possa compensare, nei limiti del possibile, la propria naturale pochezza, sappia che si sta sbagliando di molto, anzi del tutto. Se l’indolenza guasta le buone qualità naturali, l’insegnamento ne corregge i difetti; le mete facili sfuggono ai negligenti, ma con l’impegno si conquistano quelle difficili. Si può comprendere quanto efficaci e determinanti siano impegno e fatica osservando molti fenomeni. Le gocce d’acqua incavano le pietrei; il ferro e il bronzo si consumano al continuo contatto delle mani; le ruote dei carri, una volta curvate dal tornio, non potrebbero mai, in nessun caso, riacquistare la forma rettilinea d’un tempo; è impossibile raddrizzare i bastoni ricurvi degli attori, ma ciò che è contro natura diventa con la fatica migliore di ciò che è secondo natura. Sono forse questi i soli esempi che dimostrano l’efficacia del l’impegno? No, ce ne sono infiniti altri. Un terreno è di per sé fertile, ma se lo si trascura isterilisce e anzi, quanto migliore è per natura, tanto più incuria ed abbandono lo traggono a rovina. Un altro, invece, è duro e accidentato più del dovuto, ma se lo si coltiva produce subito messi rigogliose. Quali piante, se poco curate, non crescono storte e non diventano infruttifere, mentre con un’adeguata coltivazione danno frutti e riescono a portarli a maturazione? Quale robusta costituzione non s’infiacchisce e consuma per trascuratezza, mollezza e cattiva condizione fisica? Quale natura fiacca non ha compiuto, invece, decisi progressi in robustezza, sottoponendosi a duri e faticosi allenamenti? […]

L’educazione è l’unico nostro bene immortale e divino. Nella natura umana due sono in assoluto gli elementi più importanti: intelletto e parola.
L’intelletto è signore della parola e la parola è al servizio dell’intelletto: è inespugnabile dalla sorte, inattaccabile dalla calunnia, indenne dalla malattia, al riparo dai guasti della vecchiaia, perché solo l’intelletto invecchiando ringiovanisce e il tempo, che porta via ogni altra cosa, alla vecchiaia aggiunge invece la saggezza. […] È bene non dire né fare niente a caso e, come dice il proverbio, «il bello è difficile». I discorsi improvvisati sono pieni di molta sciatteria e superficialità, e tipici di chi non sa da dove cominciare né dove finire. Senza contare le altre stonature, è fatale che chi parla improvvisando cada in una tremenda dismisura e verbosità. La riflessione, invece, non consente al discorso di eccedere la giusta simmetria. […] Con questo, però, non intendo sostenere la condanna assoluta dell’improvvisazione o proibirne l’impiego anche nei casi che la richiedono, ma piuttosto la necessità di adoperarla come si fa con una medicina. Fino all’età adulta ritengo che non si debba mai parlare improvvisando, ma una volta radicate le proprie capacità, allora è bene, se le circostanze lo esigono, godere di piena libertà nell’esprimersi. Perché uno rimasto a lungo in ceppi, anche se riacquista la libertà, per la lunga abitudine alle catene non riesce a camminare spedito ma zoppica, e così pure chi per molto tempo ha avuto sotto chiave la parola, anche se un giorno si trova a dover improvvisare un discorso, fatalmente conserva nel modo d’esprimersi lo stesso sigillo. Comunque, consentire ai ragazzi di parlare improvvisando diventa causa del peggiore vaniloquio. […]

Ma desidero, finché ancora tratto di questo aspetto dell’educazione, esprimere la mia idea al riguardo: un discorso monocorde è anzitutto, a mio modo di vedere, un non trascurabile indizio di povertà culturale, e in secondo luogo, anche ai fini pratici, lo giudico noioso e assolutamente privo di incisività. La monotonia è sempre stucchevole e antipatica: la varietà, invece, è gradevole, come avviene anche in tutti gli altri campi, negli spettacoli musicali, ad esempio, o in quelli teatrali. […] Si deve dunque consentire a un ragazzo libero di ascoltare e conoscere anche tutte le altre discipline, che formano la cosiddetta educazione di base: queste, comunque, le dovrà apprendere di corsa, limitandosi, per così dire, a un assaggio (raggiungere la perfezione in ogni campo è impossibile), e assegnando invece un ruolo preminente alla filosofia. Posso esemplificare la mia idea con un’immagine: è bello, viaggiando per mare, scendere a visitare molte città, ma utile è andare a risiedere in quella migliore. […] Perciò la filosofia deve costituire il coronamento dell’intero processo educativo. Per la cura del corpo gli uomini hanno escogitato due scienze, la medicina e la ginnastica, che assicurano rispettivamente la salute e la vigoria. Il solo rimedio alle malattie e alle passioni dell’anima è dato, invece, dalla filosofia. Per essa e con essa è possibile capire in che cosa consistano il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, quello che, in breve, si deve ricercare o evitare. […]

Tre sono i modelli di vita possibili: l’attivo, lo speculativo e il gaudente. Quest’ultimo, che s’abbandona e si fa schiavo dei piaceri, è animalesco e meschino; quello attivo, se non è assistito dalla filosofia, è goffo e stonato; quello speculativo, se fallisce sul piano pratico, inutile.

Si deve cercare dunque, con il massimo impegno, di occuparsi degli affari pubblici e dedicarsi alla filosofia per quanto le circostanze consentano. […] Sostengo anche questo, che bisogna guidare i ragazzi a comportarsi bene ricorrendo a consigli e parole, e non, per Zeus!, a percosse o maltrattamenti».


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Jeroen van Busleyden (1470-1517) – Hai voluto guadagnarti la riconoscenza di tutto il mondo con i meriti splendidi di questa tua Utopia, nel proporre agli uomini dotati di ragione una tale idea di Stato.

Tommaso Moro Utopia 01

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«Hai voluto guadagnarti la riconoscenza di tutto il mondo con i meriti splendidi di questa tua Utopia: il che non avresti potuto ottenere per via migliore e più giusta di quella che consiste nel proporre agli uomini dotati di ragione una tale idea di Stato, una tale struttura dei comportamenti e un modello così perfetto, che non se n’è mai visto al mondo uno più sodamente istituito, più accurato nei particolari, più desiderabile, tanto che esso supera e sopravanza di un bel tratto le tanto celebrate e decantate repubbliche degli Spartani, degli Ateniesi e dei Romani.
Perché, se quest’ultime fossero state instaurate con gli stessi princìpi che ispirano questo tuo Stato, se fossero state regolate con le stesse istituzioni, leggi, decreti e costumi, certo non sarebbero ormai rovinate e rase al suolo, non giacerebbero estinte – ahimè! – senza speranza alcuna di poter risorgere».

Lettera di Jeroen van Busleyden scritta a Thomas More poco dopo la pubblicazione di Utopia, in Tommaso Moro, Utopia, a cura di L. Firpo, Torino 1970, p. 51.


Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Cosimo Quarta – Se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana.
Cosimo Quarta – Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità, ossia bisogno forte e urgente di utopia, il cui strumento privilegiato è la progettualità.
Cosimo Quarta – Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino.

 


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Paul Celan (1920-1970) – Toposforschung? Certamente! Ma nella luce di ciò che deve essere ricercato: nella luce dell’U-topia. E l’uomo? E la creatura? In questa luce. Quali problemi! Quali esigenze! È tempo di cambiare.

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Toposforschung? [La ricerca del topos?]
Certamente! Ma nella luce di ciò
che deve essere ricercato:
nella luce dell’U-topia.
E l’uomo? E la creatura?
In questa luce.
Quali problemi! Quali esigenze!
È tempo di cambiare.

 

Paul Celan, Der Meridian. Rede anlässlich der Verleihung des Georg-Büchner-Preises, in ID., Ausgewählte Gedichte, hrsg. von B. Allemann, Frankfurt a.M. 1975, pp. 145-146.


Paul Celan (1920-1970) – La poesia è dono per chi sta all’erta. Ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per rendermi conto di dove mi trovavo e verso dove ero trascinato, per progettarmi la realtà […] perché la realtà vuole essere cercata e conquistata.

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Paul Celan (1920-1970) – La poesia è dono per chi sta all’erta. Ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per rendermi conto di dove mi trovavo e verso dove ero trascinato, per progettarmi la realtà […] perché la realtà vuole essere cercata e conquistata.

Paul Celan 001
“Quest’avventarsi contro i limiti del linguaggio è l’etica”.
Ludwig Wittgenstein
***
Le poesie, sono altresì dei doni – doni per chi sta all’erta. Doni che implicano destino.
Paul Celan
***
La poesia non è alcun luogo concreto sulla carta geografica
dell’immaginario e della mente dell’uomo.
Essa è, piuttosto, come un meridiano:
una linea ad un tempo verissima e inesistente
che indica una direzione attraverso molti territori.
Paul Celan

La verità della poesia. «Il meridiano» e altre poesie

«Ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per rendermi conto di dove mi trovavo e verso dove ero trascinato, per progettarmi la realtà […] perché la realtà vuole essere cercata e conquistata».

 

Paul Celan, La verità della poesia. «Il meridiano» e altre poesie, Einaudi, 2008.

A Paul Celan, nel 1960, viene conferito il Premio Büchner. In quella occasione tiene un discorso dal titolo “II meridiano”, qui raccolto insieme a tutti gli scritti in prosa. Celan si prova a dire il significato della poesia, e trova questa immagine: poesia non è alcun luogo concreto sulla carta geografica dell’immaginario e della mente dell’uomo. Essa è, piuttosto, come un meridiano: una linea ad un tempo verissima e inesistente che indica una direzione attraverso molti territori. Su questa linea a ciascuno è data la possibilità di tracciare il proprio cammino verso quel sapere e quel sentire che appaiono sempre più lontani da chi è assediato dalla civiltà del rumore e del fatuo, e in essa si perde.

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Carmine Fiorillo – Delicatezza è sostantivo femminile. Lascia l’impronta con lo stile del proprio sentire in una scrittura capace di esprimere l’essenziale con la forza della gentilezza.

Delicatezza e stile

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Spirto gentil, che quelle membra reggi.

Francesco Petrarca

 

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Lo stilo è una piccola verghetta (di osso, di avorio, di legno duro e anche di metallo, ad una estremità appuntita, piatta e maneggevole dall’altra) con cui gli antichi scrivevano su tavolette cerate, trasferendo il segno eidetico nell’impronta materica.

La conoscenza di sé. Scritti e lettere (1939-41), Adelphi, 1986

Così René Daumal (1908-1944), giungeva a scrivere a proposito dello stile (in La conoscenza di sé. Scritti e lettere, Adelphi, 1986): «Lo stile è l’impronta di ciò che si è in ciò che si fa».

In effetti, nell’antichità, le due forme verbali – stile e stilo – venivano usate indifferentemente.

Dante scrivevà «Qual di pennel fu maestro o di stile Che ritraesse …?»; a lui si accompagnava Boccaccio parlando di Giotto: «Niuna cosa dà la natura … che egli [Giotto] con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse». E ancora Dante: «Deporrò giù lo mio soave stile, Ch’i’ ho tenuto nel trattar d’amore», con il Petrarca a parlar d’amore: «dir d’amore in stili alti et ornati».

«Lo stile è l’uomo», scriveva Georges-Louis Leclerc de Buffon (1707-1788) in Histoire naturelle de l’homme.

Delicatezza

Delicatezza

«Lo stile è la donna», io preferisco dire qui, in questi brevi appunti di diario, dedicati proprio ad una donna, al suo stile, e alla delicatezza con cui sa esprimersi, perché, come scriveva appunto Arthur Schopenhauer (1788-1860) in un suo libro che qui non è “galeotto” (Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, La Vita Felice, 2008): «Lo stile è la fisionomia dello spirito».

Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, La Vita Felice, 2008

Con tale «fisionomia» la persona di stile si manifesta agli altri nella sua delicatezza. Stile e delicatezza si uniscono a definire la personalità di chi ricerca la finezza (l’esprit de finesse del pensoso Pascal) e lascia l’impronta del proprio sentire in una scrittura capace di esprimere l’essenziale con la forza della gentilezza, in uno stile privo di ostentazioni, per niente affettato, o inutilmente ricercato.

Delicatezza è appunto sostantivo femminile.

Anche il maschile delicato, delicatus, è direi solo un derivato del femminile deliciae, «delizia».

La delicatezza denota finezza interiore, gentilezza di modi, capacità di nobili sentimenti, sensibilità per le più impercettibili finezze di suoni, profumi, luci, della bellezza in generale. Lo stile della delicatezza si esprime nella levità della carezza, e nell’intensa sua capacità di ascolto della parola: la forza della delicatezza rende il proprio stile invincibile, ammaliatrice di api. Conosce la lotta del quotidiano impegno il cui stile si manifesta per la correttezza e l’affidabilità nei rapporti umani.

Il vecchio e il mare, Mondadori, 2016

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Ernest Hemingway (1899-1961) scriveva «Lo stile non è un concetto vano, è la giusta maniera di fare», e con Santiago, il suo personaggio di Il vecchio e il mare, ci dice ancora: «L’uomo [e la donna] non sono fatti per la sconfitta. Un uomo [e una donna] possono essere distrutti, ma non possono essere sconfitti. È stupido non sperare. E credo che sia peccato».

Edward Hopper, Automat, olio su tela, 1927. Des Moines Art Center

Edward Hopper, Automat, olio su tela, 1927. Des Moines Art Center


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Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».

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309 ISBN

Giancarlo Paciello

Elogio sì, ma di quale democrazia?

La rivolta o fosrse la rivincita del demos

indicepresentazioneautoresintesi

 

 

Leggendo l’ultimo libro di Giancarlo Paciello, Elogio sì, ma di quale democrazia? La rivolta o forse la rivincita del demos, non ho potuto fare a meno di pensare ad una considerazione di Antonio Gramsci sul contesto in cui era andata maturando la crisi moderna che aveva trasformato i ceti dirigenti in ceti semplicemente dominanti. Le sbarre del carcere non gli impedivano di affacciarsi curioso sulla realtà contemporanea e di osservare che «il vecchio muore e il nuovo non nasce»,[1] ad indicare la possibilità di sviluppi incerti, contraddittori e anche morbosi nella vita sociale e a suggerire il rischio di una impasse. Posto che non intendo stabilire alcun parallelismo fra gli anni vissuti da Gramsci e i nostri, mi preme cogliere di tale osservazione la capacità di fotografare in modo incisivo un momento storico che le consolidate categorie interpretative faticano a cogliere, perché dalle macerie di un certo sistema di rappresentanza politica stenta a crescere e ad imporsi un cambiamento sostanziale, capace di andare oltre la manifestazione di un netto rifiuto dell’Ancien Régime.

È quanto l’autore sottolinea già a partire dalla premessa, mettendo in guardia da troppo facili entusiasmi per il voto del 4 marzo che, se ha segnato il «redde rationem di una classe politica improvvida»,[2] non rappresenta certamente la fine dell’oligarchia che ci governa da troppo tempo, ma, sicuramente, è da leggersi come un segnale importante, l’espressione di un desiderio autentico, anche quando soggetto a pulsioni contraddittorie, di farla finita con una classe politica corrotta che ha saccheggiato il Paese, finendo, poi, per consegnarlo nelle mani di organismi sovranazionali dominati dalla finanza.

Il libro si sviluppa su due binari: da un lato, la focalizzazione sull’attualità che si sostanzia nell’analisi precisa dei sistemi elettorali dal dopoguerra ad oggi e del voto degli ultimi anni, dall’altro una ricerca intorno al significato della democrazia che si avvale del contributo fornito da eminenti studiosi, quali Vernant, Preve, Canfora, Giacché. Il percorso si snoda dalla nascita della polis, decisivo punto di partenza per una nuova modalità di vita associata, e dalle considerazioni di Aristotele sulla differenza fra oligarchia e democrazia, nonché sulla natura dell’uomo come animale politico, fino al moderno concetto di democrazia. Tale concetto, troppo spesso, è stato identificato con il “liberalismo” e Paciello, sulla scia di uno studio dedicato da Losurdo alla lotta per il suffragio universale, vuole chiarire questo equivoco che ha finito per legittimare l’ordine sociale esistente.

Le due dimensioni su cui il libro si articola, l’attualità e la riflessione teorica, trovano un loro punto d’incontro nell’analisi dei caratteri delle democrazie sorte dopo il secondo conflitto mondiale e fondate su Costituzioni ricche di «importanti elementi di socialità».[3] La stagione migliore della democrazia in Europa, probabilmente, messa sotto attacco negli anni successivi dalla demolizione pratica del suffragio universale, dalla globalizzazione, dal predominio dell’economia sulla politica e dallo «stato di eccezione planetario».[4] Sono, queste, pagine importanti per comprendere il nostro presente e per sfatare decenni di propaganda (e di interventi anche legislativi) che hanno svuotato la democrazia di ogni sostanziale contenuto, riducendola a vuoto involucro o a rito elettorale sempre più disertato.

Il suffragio universale e diretto – che già aveva preoccupato nel XIX secolo teorici liberali come Constant e Tocqueville che lo ritenevano un elemento di instabilità politica e sociale – viene aggirato e messo in discussione da una serie di correttivi applicati progressivamente in diversi Stati europei al sistema proporzionale, con l’introduzione di soglie di sbarramento e del sistema maggioritario. La preoccupazione principale cui queste manovre rispondono è quella di marginalizzare i partiti comunisti che, all’epoca, contavano su un’organizzazione, una base sociale e una capacità di mobilitazione politica ed ideale potenzialmente pericolose per il mantenimento dell’ordine esistente. Se il contesto storico è indispensabile per comprendere il senso degli aggiustamenti dei sistemi elettorali in funzione antipopolare, l’autore ritiene altrettanto importante l’opera di ridimensionamento, se non svuotamento, della democrazia messa in atto sul piano teorico. La democrazia, da espressione di sovranità popolare che, fra i suoi strumenti, si avvale anche delle elezioni, si ritrova ridotta a semplice forma di governo, nell’ambito della quale i cittadini sono chiamati non tanto a decidere, quanto a designare – o ad accettare – una leadership politica. La stessa democrazia rappresentativa – che ha espunto ogni altro concetto di democrazia fino ad identificarsi con essa – è in realtà sotto attacco, poiché alcuni sistemi elettorali non consentono un’autentica rappresentatività del voto degli elettori. Dunque, viviamo attualmente in una situazione di democrazia elettorale caratterizzata da un preoccupante deficit democratico, in cui le istituzioni elette si ritrovano a ratificare decisioni prese in realtà altrove, tramite accordi tra élites politiche, burocratiche, economiche. Il «plebiscito delle urne» sembra ormai avere lasciato il posto al «plebiscito dei mercati»,[5] come riconosce senza ipocrisie uno che di mercati se intende, il Presidente della Bundesbank, Tietmeyer. L’intreccio eversivo fra classi dirigenti docili e potentati economici che premono per riscrivere le regole dei sistemi politici con il fine di approntare un quadro istituzionale favorevole ai loro interessi è perfettamente esemplificato dalle conclusioni di uno studio della Banca J.P. Morgan sulle Costituzioni del Sud Europa, che mostrerebbero «una forte influenza socialista»,[6] non più adeguata ai tempi della crisi. I ripetuti tentativi di riforma della Costituzione italiana, di cui l’ultimo fu respinto con forza proprio due anni fa, si devono leggere alla luce di pressioni come questa. La disamina delle diverse modalità – politiche, legislative, teoriche – attraverso le quali la democrazia è stata svuotata e messa sotto ricatto dai mercati, conduce l’autore a ritenere quanto mai appropriato a definire la stuazione attuale il concetto di post-democrazia, elaborato da Colin Crouch.[7] Né poteva mancare un confronto con la provocatoria proposta di Zizek che, di fronte al discredito in cui versa oggi la democrazia, suggerisce di correre il rischio di lasciarla al nemico. Questo, però, comporterebbe accettare «il significato monco» di democrazia diffuso a piene mani dall’ideologia dominante.

La strada, per Paciello, è un’altra e va nella direzione di riappropriarsi della democrazia, recuperando all’interno del concetto «l’obiettivo dell’uguaglianza».[8] Non è casuale che la crisi della democrazia sia parallela all’aumento delle diseguaglianze e che i modelli aziendali si siano ormai trasferiti nell’intero corpo sociale. L’autore riprende la distinzione teorizzata da Crouch fra la democrazia come valore dal contenuto dinamico, capace di spingere verso la democratizzazione in ogni ambito e la democrazia come forma governamentale.

Il contesto internazionale rimane il riferimento imprescindibile per comprendere i processi – pratici e teorici – di involuzione della democrazia. Se, nel Novecento, la presenza dell’Urss e la sua capacità di attrazione nei confronti del movimento operaio furono uno dei fattori determinanti che spinsero verso il welfare state, il suo crollo e la conseguente liberalizzazione di capitali e merci, salutati come inarrestabile marcia della democrazia, hanno finito, in realtà, per erodere i presupposti del compromesso sociale tra capitale e lavoro e per consegnare quest’ultimo – disarmato – a «una guerra di classe dall’alto» che ha spazzato via in pochi anni diritti sociali dati per acquisiti.

Globalizzazione e costituzione dell’ U.E. sono, oggi, i fattori che hanno portato allo spostamento della sovranità su un piano sovranazionale, sottraendo decisioni fondamentali per la vita collettiva agli Stati nazionali per trasferirle ad un livello in cui le istituzioni democratiche risultano sostanzialmente inefficaci. Giancarlo Paciello, richiamandosi alle analisi di Preve,[9] sottolinea il legame tra insediamento storico determinato e democrazia, a partire dalla polis greca – luogo storico e geografico di nascita della democrazia – per giungere alla stato nazionale. Questione, questa, di stringente attualità che l’autore cerca, però, di svincolare dall’immediatezza della polemica politica insabbiatasi in sterili contrapposizioni tra “sovranisti” e fautori della mondializzazione, per avanzare una teoria molto più interessante e meritevole di ulteriori analisi. Sostiene, infatti, che l’avversione verso gli stati nazionali, molto sbrigativamente e con sprezzo della verità storica fatti coincidere con il nazionalismo, fornisce la base ideologica ad «una nuova e diversa fase del processo di accumulazione capitalistica» che segue la fase liberistico-nazionale dominata dal mito del libero scambio e che è, per l’appunto, quella della globalizzazione neoliberista. Paciello, rifacendosi agli studi più seri sull’argomento, denuncia il carattere ancora una volta mitico della «globalizzzazione mercantile superstatuale» che presuppone la scomparsa o l’affievolimento delle entità statali, mentre lo Stato nazionale esiste ed è persino rafforzato (come hanno esaurientemente dimostrato Dardot e Laval nel loro La nuova ragione del mondo),[10] ma, lontano dall’essere espressione della sovranità popolare, supporta gli interessi dei gruppi di potere economici che regolano commercio e sistema finanziario mondiale.

Questo scenario, contraddistinto dall’attacco alla sovranità popolare e alle Costituzioni sociali del dopoguerra ad opera del ceto politico e delle lobby economiche, rovescia la tesi ampiamente accreditata dal pensiero liberale di una correlazione, suscettibile di virtuosi sviluppi, fra capitalismo e democrazia. Per il capitalismo la democrazia, a meno che essa non venga ridimensionata a pura procedura, rappresenta un pericolo, è espressione di istanze – comunitarie, nazionali e sociali – incompatibili con la logica del massimo profitto.

Se i processi politici ed economici della società di mercato hanno finito per erodere la democrazia al punto da configurare un nuovo ordine postdemocratico, è legittimo chiedersi se, oggi, essa sia soltanto un oggetto di studio, di discussione e di rimpianto di un passato irrimediabilmente defunto, un auspicio per un futuro capace di superare lo stato di cose presenti, oppure una realtà ancora in grado di trasmettere la propria linfa vitale nel corpo sociale. La risposta di Giancarlo Paciello individua la sopravvivenza della democrazia nel rifiuto dell’esistente, nella «resistenza popolare alla legittimazione delle istituzioni post-democratiche».[11]

La necessità di declinare al presente una democrazia ricca, piena e dinamica fornisce ai due binari su cui scorre il libro il punto d’incontro capace di fare dialogare attualità e riflessione teorica. Il terremoto elettorale del 4 marzo viene letto come l’espressione del tentativo da parte del demos – inteso come «aggregato degli economicamente svantaggiati» – di liberarsi da quelle forze politiche che per decenni hanno spadroneggiato nel nostro paese, divise per schieramenti di potere ed appartenenze identitarie, ma “responsabilmente” concordi nell’attuare quelle ricette liberiste che hanno svuotato di contenuto la democrazia stessa.

L’autore dichiara la sua grande soddisfazione per tale rivolgimento, reso tecnicamente possibile dal «giocattolo costruito per simulare la presenza della democrazia»[12] (leggi Rosatellum) che ha finito per ritorcersi contro i suoi troppo astuti promotori. Il libro, ultimato nell’estate, non può affrontare in modo esauriente il dopo-elezioni, né dare un giudizio sull’operato del governo che da tale scossone è nato e che viene visto come una necessità che una vergognosa legge elettorale promossa da tutti i partiti – salvo il Movimento 5 Stelle – ha imposto a due forze politiche antitetiche. Resta, inevitabilmente, aperta una questione anche più importante: se il risultato elettorale del 4 marzo ha indubbiamente rappresentato un momento di rivolta contro le classi dirigenti, esistono le condizioni perché da tale rivolta la democrazia possa ritrovare uno spazio autentico, dunque una possibile ricostruzione? E ancora: il Movimento 5 Stelle – che di tale rivolta è stato l’elemento catalizzatore e l’incognita che ha fatto saltare il tavolo di giochi politici che si volevano prevedibili – può davvero assumere questo ruolo storico e fare la sua parte sino in fondo? In apertura, già si è accennato alla consapevolezza dell’autore che la fine dell’oligarchia è ancora lontana; tuttavia, il processo innescatosi con le ultime lezioni autorizza Paciello a ritenere che si siano poste perlomeno le basi per la costruzione di una vera democrazia. L’invito che conclude il libro è a calarsi nell’agone politico e a battersi per dare corpo a questa rinascita, perchè cittadini si diventa,[13] misurandosi con i problemi della collettività.

La questione è affrontata più chiaramente nell’Appendice I, dove si riconosce «il respiro corto»[14] di una certa impostazione del Movimento 5 Stelle in quella focalizzazione sull’opposizione onesti/disonesti che occulta il vero terreno di scontro, quello sociale, dove una forza politica di rottura deve battersi per il prevalere di interessi comuni e non privatistici. Rappresenta motivo di preoccupazione anche la fideistica fiducia nella rete come soluzione per un ritorno alla partecipazione democratica che, sottolinea correttamente Paciellio, può nascere solo dal radicamento territoriale. Chi scrive ritiene che la base elettorale dei 5 Stelle – considerevole – sia inversamente proporzionale alla loro base sociale, fluida, umorale, portatrice di interessi anche contrastanti. Se questo è un fattore di debolezza per una forza candidata ad avviare una ricostruzione democratica, altre perplessità nascono proprio dalla constatazione dell’autore su una evidente difficoltà a collocarsi sul terreno della progettualità sociale. Il vulnus consiste nella mancanza di connotazione anticapitalista del Movimento, punto cruciale che avrebbe meritato più ampia trattazione, vista anche la giusta insistenza di Paciello sulla coincidenza tra autentica democrazia e democrazia sociale.

Questo “nuovo” che fatica a a nascere dalle macerie del “vecchio” e che rischia di esserne risucchiato esige un salto di qualità che non può che andare nella direzione di un’uscita dal capitalismo. A qualche mese dall’installazione del nuovo governo, il progressivo accantonamento o ridimensionamento di temi qualificanti del programma dei 5 Stelle (TAP, art. 18, abolizione della buona scuola) sta proprio a dimostrare l’impossibilità di dare concrete risposte ad istanze popolari di maggiore democrazia e giustizia al di fuori di una prospettiva fondata su un coerente progetto orientato verso la costruzione di una società socialista. È questo uno snodo cruciale intorno al quale Giancarlo Paciello potrebbe riprendere la sua analisi dell’attuale contesto politico dove l’ha lasciata, ovvero agli inizi del governo Conte.

Per concludere, invito il lettore a leggere con attenzione le appendici che forniscono un materiale documentario di notevole ricchezza e un bella ricognizione di Roberto Scarpinato[15] sullo stato della legalità materiale nel nostro Paese che evidenzia i perversi intrecci fra segmenti delle nomenklature politico-amministrative e quelle economiche sul terreno privilegiato delle privatizzazioni.

Fernanda Mazzoli

 

 

Note

[1] « Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più “dirigente”, ma unicamente “dominante”, detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati » (Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere [Q 3, § 34, p. 311]).

[2] Giancarlo Paciello, Elogio sì, ma di quale democrazia?, Petite Plaisance, Pistoia 2018, p. 10.

[3] Ibidem, p. 40.

[4] Ibidem, p. 41.

[5] Ibidem, p. 46.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem, p. 49.

[8] Ibidem, p. 51.

[9] Ibidem, p. 53.

[10] Pierre DardotChristian Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, 2013.

[11] G. Paciello, Elogio sì, ma di quale democrazia?, op. cit., p. 57.

[12] Ibidem, p. 64.

[13] Ibidem, p. 66.

[14] Ibidem, p. 106.

[15] Ibidem, pp. 127 ss.


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Democrito (460 – 370 a.C. circa) – Si deve essere veraci, non loquaci. Chi si compiace nel contraddire e chiacchiera molto non ha attitudine ad apprendere ciò che è necessario. Né arte né scienza si può conseguire da chi non apprende.

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Massime

Massime

«Si deve essere veraci, non loquaci».

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«Chi si compiace nel contraddire e chiacchiera molto
non ha attitudine ad apprendere ciò che è necessario».

Democrito, fr. 85.

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«Né arte né scienza si può conseguire da chi non apprende».

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«Agli stolti non il ragionamento è maestro, ma la sventura».

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Salvatore A. Bravo – Plebe e popolo: rivoluzione passiva e tecnologie. Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata. Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio. Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato. Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere.

Salvatore Bravo 030
Salvatore A. Bravo

Plebe e popolo: rivoluzione passiva e tecnologie

 

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Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata

La rivoluzione passiva delle tecnologie

Ecco l’inglese globale

Schiacciare la lingua sull’indicativo, riducendo a nulla il congiuntivo

Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio

Il popolo, per essere davvero tale, deve essere comunità

Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato

Popolo e ragione (Vernunft)

La plebe intelletto (Verstand)

La plebe non ha agorà

Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere

 

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Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata

Vi è popolo dove vi è sovranità partecipata, dove le politiche sociali ed economiche non cadono come un destino ineluttabile, come catene fatali sul popolo. Oggi siamo oltre la Rivoluzione passiva descritta da Cuoco e da Gramsci. La Rivoluzione passiva presuppone una borghesia affetta da coscienza infelice, capace di sentire l’universalità dei valori fondanti della Rivoluzione francese e dell’Umanesimo. Il popolo, ancora plebe, deve ancorarsi alla classe motrice della coscienza nazionale per poter essere protagonista, defilato, perché agito. La condizione attuale ha sostituito alla rivoluzione delle coscienze, dell’idea che diventa Spirito (Geist) nel movimento della storia, la sola rivoluzione permanente delle tecnologie, del mercato della produzione e del lavoro, una nuova trinità senza salvezza.

La rivoluzione passiva delle tecnologie

La rivoluzione tecnologica appare scissa dalla storia dell’umanità, essa avviene… È un evento che plana nella storia e modifica le esistenze. Rivoluzione anonima: la scienza – quale sostanza astratta dalla realtà contingenze – detta i suoi ordini, riconfigura le comunità, le travia fino a fessurare il loro essere, la loro identità culturale, per annientarle. Le comunità passivizzate perdono – con la coesione – sincronicamente anche le parole. La rivoluzione passiva delle tecnologie senza finalismo, smantellano non solo lo stato sociale, ma con esso anche il linguaggio.

Ecco l’inglese globale

Ed ecco l’inglese globale, lingua che ha la stessa funzione della materia omogenea, ovvero far scivolare le merci e gli scambi mercantili per il pianeta ed abbattere ogni limite linguistico e culturale, purchè l’economia – alleata delle tecnologie – possa trionfare senza limiti e confini. Le lingue nazionali – a parte pochissime eccezioni (Francia, Spagna) – sono gradualmente smantellate dalle nuove generazioni che, educate alla cultura imprenditoriale, corrono verso la rivoluzione che subiscono: il sistema scolastico asservito all’economia non consente senso critico e con esso lo sviluppo di empatica appartenenza “ruere in servitium”.[1]

Schiacciare la lingua sull’indicativo, riducendo a nulla il congiuntivo

Si corre verso l’asservimento, lo si abbraccia, si risponde all’appello della rivoluzione passiva dell’economia secondo logiche adattive: si amano le proprie catene. Affinchè il declino dello spirito critico, del pensiero connettente sia neutralizzato, si favorisce – con l’angloitaliano – la riduzione della lingua nazionale ad una manciata di parole pronte per l’uso. Ci si limita ad una lingua che deve limitarsi a soddisfare le esigenze individuali particolari ed immediate. Si schiaccia la lingua sull’indicativo riducendo a nulla il congiuntivo, il modo del dubbio, della possibilità, della complessità: non è un caso che si favorisca la lingua inglese, la quale praticamente ha il congiuntivo solo alla prima persona del verbo essere al passato, e spesso non è utilizzato, specie nell’americano. Devono esserci solo certezze e pensieri semplici per radicarsi nel presente. Pertanto bisogna congelare il congiuntivo, in quanto il dubbio introduce visioni critiche che rompono con l’atteggiamento adattivo al presente.

Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio

Il popolo diventa plebe non solo quando è minacciata la sua sopravvivenza materiale, quando lo si ricatta attraversa la precarietà. È plebe in assenza di pensiero, di linguaggio che eccede l’utile del tempo immediato. Senza il pensiero connettente e la ragione filosofica, non vi è che lo schiacciamento verso il basso, la riduzione del popolo a plebe consumante, brulicante a testa bassa. La plebe, non è una classe sociale, non si definisce mediante il censo: la plebe è la popolazione in cui prevale la condizione spaziale sulla condizione temporale. Il linguaggio è relazione, è memoria, esperienza riflessa, conoscenza di sé, dunque è movimento, temporalità concreta che riallaccia e trascende le divisioni.

Il popolo, per essere davvero tale, deve essere comunità

Ancora una volta la Filosofia ci è di ausilio per definire il popolo. Hegel, nella parte sesta della Fenomenologia dello Spirito, descrive il popolo come comunità. Il popolo è la comunità culturale di appartenenza, non tribale, che pensa se stesso come un tutto in cui convivono le parti. Il popolo è l’umanizzazione del singolo, che – non più atomo, non più astratto dal tutto – liberamente rinuncia al proprio egoismo per aprirsi all’altro, per riconoscere se stesso attraverso la relazione comunitaria.

Il popolo è tale se la condizione del tempo è vissuta nella pienezza della coscienza. Il popolo è storia, attività che pone progetti e dunque non vive scollato dalla sua contingenza storia, dal suo immediato, ma esso è il suo tempo pensato nell’estensione del pensiero che riannoda le fila del passato e del futuro passando per il presente:

«Nella misura in cui lo spirito è la verità immediata, esso è la vita etica d’un popolo: l’individuo che è un mondo. Lo spirito deve allora procedere fino alla coscienza di ciò che esso è immediatamente; deve levare la bella vita etica e raggiungere, attraverso una serie di figure, il sapere di se stesso. Queste figure però si differenziano dalle precedenti perché si tratta di spiriti reali, realtà effettive vere e proprie, e anziché essere figure solamente della coscienza, sono figure d’un mondo».[2]

 

Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato

Il popolo è comunità manifesta, la coscienza di un popolo è progetto partecipato e di conseguenza palese. Dove vi è il popolo la politica ha la sua massima espressione nei corpi medi partecipati. Il linguaggio diventa così condizione imprescindibile della partecipazione, non è limitato al solo utile immediato, ma si declina ed arrichisce nei contesti della partecipazione. Un popolo senza linguaggio, senza cultura è solo plebe, è oggetto della storia. Popolo e etica coincidono, vi è etica dove vi è comunità consapeole che agisce nella storia, si fa storia trasformando in prassi le verità eterne che l’esperienza storica custodisce:

«La comunità – la legge suprema, la cui validità pubblica si manifesta alla luce del sole – ha la propria vitalità effettiva nel governo, inteso come ciò in cui essa è individuo. Il governo è lo spirito effettivo riflesso entro di sé, è il Sé semplice della sostanza etica nella sua totalità. Questa forza semplice consente certamente all’essenza di espandersi nell’articolazione dei suoi membri, e di dare a ogni parte una sussistenza e un proprio essere-per-sé. In ciò, lo spirito ha la propria realtà ossia il proprio esistere, e l’elemento di questa realtà è la famiglia».[3]

Popolo e ragione (Vernunft)

Nel popolo non vi sono atomi, individui separati, astratti dalla comunità, dalla storia, da se stessi e pertanto alienati. Nel popolo ogni individuo è parte consapevole di un comune e condiviso progetto politico, per cui il soggetto umano trova la sua ragion d’essere, il suo destino. Nella comunità non vi è che la vita della ragione che unisce i destini, pone limiti, struttura processi di autoriconoscimento mediato dalla relazione con l’alterità. La relazione non è solo l’incontro dello sguardo, l’empatia immediata, ma è specialmente linguaggio quale figura universale dell’incontro e dell’unione. La lingua patria non è nazionalismo escludente, ma è consapevolezza nella differenza. L’autoriconoscimento dei popoli avviene nell’incontro delle differenze:

«In un popolo libero, la ragione s’è perciò data vera effettuazione; essa è presenza dello spirito vivente, in cui l’individuo non soltanto trova la propria determinazione destinale – vale a dire, la propria essenza universale e singola – enunciata e data al modo della cosalità, ma anzi è egli stesso tale essenza, e ha anche raggiunto quella propria determinazione».[4]

 

La plebe intelletto (Verstand)

La plebe è il popolo animalizzato, non necessariamente ridotto in miseria, anzi vi può essere popolo e nel contempo deficienza di beni, perché la verità di un popolo è la sua consapevolezza comunitaria. La plebe è la pratica della specialistica, senza capacità di cogliere la totalità, è la pratica dell’intelletto (Verstand).
La plebe è anche la cultura specialistica senza struttura, e pertanto facilmente oggetto di manipolazione. La plebe è disinformata, o meglio la sua informazione è costituita dall’accettazione acritica delle fonti informative. È belante, ripetitiva, automatica nelle parole e nei comportamenti, ma specialmente difetta di coscienza di sé e di coscienza pubblica. La plebe non crede di poter cambiare il proprio tempo, per cui non lo pensa, lo subisce. Regredisce ad uno stato superstizioso, crede nel potere magico del grande leader, crede nella sua lingua, nelle sue parole, si deresponsabilizza dinanzi alla storia, dinanzi a se stessa, è carne da cannone per il consumo:

«Nella tradizione della filosofia politica occidentale, che è di origine greca, il “popolo” (demos) si distingue dalla mera aggregazione popolare (laos) proprio perché è “informato”, ed è informato nello spazio pubblico (demosion), spazio pubblico che è presupposto alla sua sovranità (kyriarchia) che del suo potere (exousia)».[5]

La plebe non ha agorà

La plebe dunque non ha agorà. Dove vigono le oligarchie finanziarie, non vi sono spazi pubblici, ma solo luoghi per l’ortopedia del consumo: ipermercati e luoghi del divertissiment. Tutto deve indurre alla fuga dal proprio tempo, non bisogna pensare, rappresentarsi il reale, il pensiero non deve porre l’essere, ma lo deve subire mediante l’esercizio e la pratica dell’ideocrazia.
Non si nasce servi, lo si diventa mediante l’addestramento quotidiano all’ideocrazia, al pensiero unico: poche parole tutte funzionali alla valorizzazione del capitale senza limiti. L’ideocrazia del mercato, del modello unico del pensiero e della lingua non è un destino. La storia è il luogo della vita degli esseri umani, del possibile. Nella storia le faglie liberano potenzialità impensabili. La condizione di plebe può ribaltarsi in popolo, se si mettono in atto pratiche virtuose del pensiero.

Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere

La resistenza di un popolo non può che iniziare con il pensare il proprio tempo, con il rilevare il tragico non come un destino, ma come una circostanza posta da più soggetti responsabili popoli annessi: il riconoscimento delle proprie responsabilità dinanzi alla storia ed a se stessi è già prassi, uscita dalla caverna del nichilismo programmato da altri. La storia è Wirchliche Historie. Nessuna provvidenza verrà a salvarci. Ma, come l’Angelus Novus di Klee nel commento di Benjamin, non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere dal destino del Regno animale dello Spirito.

Salvatore A. Bravo

[1] «At Romae ruere in servitium consules, patres, eques» (A Roma intanto si precipitavano in gesti servili consoli, senatori, cavalieri), Tacito, Storie, I, 7.

[2] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Einaudi, Torino, p. 293.

[3] Ibidem, p. 300.

[4] Ibidem, p. 239.

[5] Costanzo Preve, L’Ideocrazia Imperiale Americana, Roma, p. 58.


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