«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
331 Diego Lanza, La disciplina dell’emozione.Un’introduzione alla tragedia greca. Prefazione di Anna Beltrametti. ISBN 978-88-7588-235-8, 2019, pp. 416, formato 140×210 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [107]. In copertina: Alcesti, i figli e altri personaggi, Loutrophòros apula vicina al Pittore di Laodamia, 340 a.C. circa., Basel, Antikenmuseum.
332 Enrico Berti, Luciano Canfora, Bruno Centrone, Franco Ferrari, Francesco Fronterotta, Silvia Gastaldi, La filosofia come esercizio di comprensione. Studi in onore di Mario Vegetti. Nota di Fiorinda Li Vigni. Prefazione di Giovanni Casertano e Lidia Palumbo. ISBN 978-88-7588-237-2, 2019, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “Il giogo” [108]. In copertina: Mario Vegetti.
333 Antonio Fiocco, Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente. ISBN 978-88-7588-239-6, 2019, pp. 80, formato 170×240 mm., Euro 10 – Collana “Divergenze” [64]. In copertina: V.V. Kandinskij, Giallo, rosso, blu (1925), Musée National d’art Moderne, Centre Georges Pompidou.
334 Enrico Berti, Scritti su Heidegger. ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [109]. In copertina: Statua in bronzo di Aristotele, ingresso della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, Germania. In quarta di copertina: Paul Klee, Die Zeit, 1933.
335 Maura Del Serra, Altro Teatro. Introduzione di Marco Beck. ISBN 978-88-7588-243-3, 2019, pp. 208, formato 130×200 mm., Euro 18 – Collana di Teatro “Antigone” [12]. In copertina: Beato del San Andrés de Arroyo, El fuego de Babilonia, iluminación sobre pergamino. Folio 147, Paris, Bibliothèque Nationale de France.
336 Jules Vallès, L’insorto. Introduzione, traduzione e cura di Fernanda Mazzoli. ISBN 978-88-7588-207-5, 2019, pp. 320, formato 140×210 mm., Euro 27. In copertina: Jules Vallès.
337 Giangiuseppe Pili, Anche Kant amava Arancia meccanica. La filosofia del cinema di Stanley Kubrick. Prefazione di Silvano Tagliagambe. ISBN 978-88-7588-230-3, 2019, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [4]. In copertina: Stanley Kubrick sullo sfondo di una sequenza di 2001. Odissea nello spazio, con l’astronauta David Bowman (interpretato da Keir Dullea). In quarta: il monolito nero.
338 Sergio Rinaldelli, Vento di sogni. Note di pittura (1976-2018). ISBN 978-88-7588-170-2, 2020, pp. 120, formato 130×200 mm., Euro 10. In copertina: Sergio Rinaldelli, Vento di sogni sulla parete antica, 2005, olio su faesite, 70×80.
339 Carlo Carrara, Essere e Dio in Heidegger. ISBN 978-88-7588-234-1, 2020, pp. 200, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [110]. In copertina: Robert Ryman, Twin (1965).
340 Livio Rossetti, Parmenide e Zenone, sophoi ad Elea. Presentazione di Mariana Gardella Hueso. ISBN 978-88-7588-256-3, 2020, pp. 160, formato 130×200 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [112]. In copertina: Parmenide e Zenone alla porta di Elea.
Solo l’esito infelice della Comune e il successivo esilio a Londra fecero di Jules Vallès uno scrittore e, anzi, uno dei più singolari del suo tempo. Prima era stato un giornalista di estrema sinistra sotto Napoleone III detto il Piccolo, collaboratore di fogli più o meno effimeri quali La Rue e poi fondatore di un giornale, Le Cri du peuple (chiaro omaggio all’archetipo di Jean-Paul Marat), che della Comune sarebbe divenuto l’emblema. Alverniate di origine, allevato in una famiglia piccolo-borghese che in realtà è un universo concentrazionario (suo padre insegnante contegnoso, ligio al governo, sua madre contadina prodiga di castighi e di pregiudizi), Vallès fa parte della generazione che esce dalla sconfitta del 1848 e dalle barricate parigine di giugno di cui dicono le pagine più tese di Herzen in Passato e pensieri. Nella capitale fin dal 1851, che è l’anno del 18 brumaio di Luigi Bonaparte, non ha un preciso apprendistato politico se non quello che gli viene dalla inquietudine degli studenti e, in clandestinità, dai propositi rivoltosi di taluni circoli operai: Vallès è un libertario o in sostanza un socialista rivoluzionario (e, va anche detto, un anti-marxista dichiarato), i suoi autori sono Proudhon e lo storico Jules Michelet di cui è assiduo alle lezioni di storia nel Collège de France. Quella che appare già sua, viceversa, è una scrittura che gli deriva dagli autori di un tribolatissimo baccalaureato, specie Sallustio e Tacito, una scrittura rapida, ritmica, scandita da inversioni, impennate, brucianti aforismi e perciò lontana dalla tipica retorica umanitaria con accenti calligrafici degli autori della II Internazionale.
Le inchieste nei «Refrattari» Argomento pressoché esclusivo di Vallès giornalista (che non ama la politica politicante e malvolentieri, durante la Comune, accetta la elezione a deputato del XV arrondissement) è l’esistenza quotidiana degli individui marginali e reietti, la folla di umiliati e offesi di cui la dittatura fondiaria e/o bancaria dell’Impero sta affollando le strade di Parigi: nel 1865 (l’ultima edizione italiana, da SugarCo, risale invece al 1980) riunisce le sue inchieste in un volume dal titolo programmatico e persino autobiografico, I refrattati, che chiude virtualmente la vicenda di giornalista. Testimone fino all’ultimo della Comune nella cosiddetta «settimana di sangue», sottrattosi rocambolescamente alla caccia all’uomo dei versagliesi di Thiers, poco incline alle diatribe dei reduci e alla frequentazione degli altri comunardi in esilio, è dunque a Londra che Vallès progetta qualcosa che combini il suo tracciato autobiografico, insomma un memoir, con il meccanismo di un romanzo di formazione scritto da chi peraltro non si vuole un letterato à la page ma solo un fervente lettore di Balzac, di Victor Hugo e di Charles Dickens. Titolo complessivo è un nome assonante con il suo, ]acques Vingtras, e si tratta di una trilogia aperta da L’enfant (1879) che prosegue con Le bachelier (1881) e si conclude con L’insurgé (1886) immediatamente postumo. Ora, dopo una assenza lunghissima, escono in contemporanea, grazie a due appassionati studiosi e a due piccoli benemeriti editori, Il diplomato (a cura di Enrico Zanette, edizionispartaco, «Dissensi», pp. 309, € 16.50) che è una princeps italiana in assoluto, e L’insorto (a cura di Fernanda Mazzoli, Petite Plaisance pp. 318, € 27.00) la cui versione precedente di Giacomo Cantoni uscì nel 1953 per la Universale Economica, libretti dalla copertina gialla o arancione immancabili nelle sezioni dei partiti operai. Nel primo, Vingtras è già a Parigi e vive la vita di bohème che Henri Murger, ai propri occhi, ha edulcorato e di fatto ha tradito. Tra infime bettole e sottotetti di fortuna, egli è alla ricerca disperata di un impiego da scritturale, da insegnante o da giornalista, ma quando lo ottiene (e al quotidiano Le Figaro, addirittura) se lo gioca rifiutando di piegare la schiena e di adattarsi, parlando d’altro, ai tabù del regime napoleonico: epicentro è il Quartiere Latino, che il protagonista draga nel suo dedalo di miseri ritrovi come un uomo di continuo risucchiato tra la folla di reietti come lui ma nel frattempo delegato a loro portavoce nella clandestinità di quanti si oppongono, ancora mutamente, alla dittatura. Romanzo della miseria piccoloborghese e della etimologica viltà di un ceto che la lotta di classe sta per annientare, Il diplomato è il luogo di fermentazione di «un’opera di lotta», così la definisce Enrico Zanette, che culmina nella partitura oramai polifonica de L’Insorto. Vallès qui ripercorre la parabola della Comune, il suo sguardo è al solito portato dal basso e il luogo del protagonista è collocato a latere: chi dice «io» in effetti dice «noi», senza doverlo proclamare con enfasi perché qui la scrittura – nota puntualmente Fernanda Mazzoli – è un «riconoscimento di sé che, per realizzarsi pienamente, passa attraverso il riconoscimento della propria gente».
Il «ragazzo» latitante Infatti lo scrittore può persino permettersi un finale avventuroso, da racconto picaresco. E qui va detto che è un peccato continui a latitare dal 1973 (catalogo di Feltrinelli, versione magnifica di Lisli Basso) l’incipit della trilogia, Il ragazzo, un autentico capolavoro. Scritto stavolta al chiuso di una monodìa della sofferenza adolescente e nello stile esplosivo di quella che Vallès chiamava langue verte (cioè gergale ma anche ruvida, acerba), il romanzo rappresenta un atto di accusa contro la famiglia tradizionale e le altre istituzioni, a partire dalla scuola, che assortiscono l’universo disciplinare dell’infanzia. Ambientato nei borghi della Alvernia nativa, il piccolo Jacques Vingtras vi conosce la pedagogia delle gifles, le sberle, le atroci penombre di una provincia ignorante e bigotta, infine il sussiego di una piccola borghesia che si immola per imitare, vanamente, le grandigie della classe superiore; ma Vingtras qui può anche vivere, almeno a momenti, l’estasi di un contatto carnale con la natura, errando per i boschi e le vaste praterie lontano dalla ferula dei suoi istitutori. Memore di Hugo (in particolare di Gavroche, le gamin, il monello de I Miserabili) e anche dell’Oliver Twist di Dickens, Il ragazzo ha ispirato espressamente il personaggio di Bardamu ne il Viaggio al termine della notte (e Céline, di solito avaro di riconoscimenti, ranunenta Vallès ancora nelle tarde interviste di Meudon) ma ha influenzato anche un paio di capolavori della cinematografia francese, Zéro de conduite (1933) di Jean Vigo, piccola bibbia della ribellione impubere, e il folgorante esordio di Francois Truffaut, Les Quatre Cents Coups (1959) il cui protagonista Antoine Doinel è quasi un redivivo Jacques Vingtras, una vittima sacrificale della famiglia e della scuola. «Vi si vedrà come il pane, il denaro, l’habitat, la promozione sociale, i valori borghesi e rivoluzionari, la ricchezza e la povertà, l’oppressione e la rivolta, le classi sociali siano solo investimenti in cui i genitori hanno il ruolo di agenti di produzione e di antiproduzione particolari, sempre là a prendersi per l bavero con altri agenti che essi esprimono tanto meno in quanto sono alle prese con loro nel cielo e nell’inferno del bambino. E il bambino dice: perché?»: sono parole tratte da un libro molto amato dalla generazione antagonista, L’anti-Edipo (Einaudi 1975) di Gilles Deleuze e Félix Guattari, e sono scritte giusto a proposito del capolavoro di Jules Vallès.
Massimo Raffaeli, Vallès. Ruvida lingua di un io che parla per gli infelici noi, «Alias», il manifesto, 27-12-2020, pp. 3-4.
Nei giorni eroici e tragici della Comune un giornalista squattrinato ed insofferente all’ordine costituito fa sua la causa degli insorti, condividendone speranze, battaglie, sofferenze, entusiasmi ed errori fino alla sanguinosa sconfitta. Storia collettiva e destino individuale si incontrano, si confondono e si alimentano reciprocamente in una narrazione serrata dal ritmo incalzante, capace di restituire lo spirito di un tempo grande e terribile e l’umana verità di quanti, vittime dell’ingiustizia sociale, osarono sperare e progettare un mondo diverso.
Libro della Comune e nella Comune, espressione di una profonda fedeltà alle sue ragioni, e per questo relegato ai margini della letteratura, L’insurgé trova nella sua apparente inattualità il punto di forza del suo incontro con il lettore di oggi, costringendolo ad uscire dal perimetro del “migliore dei mondi possibili” tracciato dal pensiero dominante per confrontarsi con la passione durevole per una prassi di emancipazione comunitaria. «Rendere coscienti le tendenze incoscienti della Comune» (F. Engels) è opera di cui non si è detta l’ultima parola.
Massimo Raffaeli, filologo e critico letterario, è nato a Chiaravalle nel 1957. Scrive su quotidiani (La Stampa, il manifesto) e collabora con le riviste Nuovi Argomenti, Il Caffè illustrato. Ha scritto testi per programmi radiofonici di Rai Radio 3 e della Radio Svizzera Italiana (RSI). Ha curato testi di autori del Novecento (fra cui Primo Levi e Paolo Volponi) e ha tradotto opere di Antonin Artaud, René Crevel, Louis-Ferdinand Céline, Jean Genet, Roger Nimier e Tony Duvert. Si è interessato dell’intreccio tra calcio e letteratura in L’angelo più malinconico (2005) e Sivori, un vizio (2011). Parte della sua produzione è raccolta, da ultimo, nei volumi I fascisti di sinistra e altri scritti sulla prosa (Aragno 2014), Il pane della poesia. Epicedi 1994-2013 (Cadmo 2015) e L’amore primordiale. Scritti sui poeti (Gaffi 2016). Nel 2019 è uscito Marca francese, frutto di un ventennale confronto con gli autori e le pagine più belle della letteratura francese moderna e contemporanea.
Più passa il tempo e più mi convinco che sarebbe utile abbandonare questa presunta coppia dialettica, Oeriente/Occidente, a favore di una definizione di ovest/est, qualcosa che si limiti a parlare soltanto di coordinate geografiche e non di altro. Questo perché si tratta di termini così profondamente segnati dall’eco di una visione orientalista, propria dell’età coloniale, che porta con sé la fascinazione per l’esotico ma anche l’idea di dominio. In realtà, quando si mettono in contrapposizione questi elementi si rompe in modo artificiale una linea di continuità che esiste da sempre, pur se tra rotture e passaggi. Un esempio? Quando Antoine Galland tradusse per la prima volta dall’arabo nel 1704 l’opera di origine persiana Le mille e una notte, aggiunse la figura del marinaio Sinbad alla raccolta di racconti che possedeva e che sarebbe stata usata nelle edizioni arabe del Cairo negli anni Ottanta del XIX secolo. Le prime versioni turche saranno poi tradotte dal francese, riprendendo questa versione che era stata scritta a Parigi.
La frontiera può rappresentare qualcosa di molto violento, quando si chiude di fronte al desiderio e al bisogno di attraversarla – pensiamo alle politiche dell’Unione europea che provocano decine di morti in mare ogni giorno – ma, al tempo stesso, può incarnare una possibilità, un’occasione offerta al cambiamento, al passaggio, all’incontro. C’è una sorta di contraddizione in termini nell’idea stessa di frontiera come limite, perché è un luogo che separa e che unisce allo stesso tempo. Per questo la nozione di frontiera non si limita soltanto ad una linea tracciata su una carta geografica, ma può essere più o meno profonda, iscritta in un orizzonte più largo di confronto, più essere la condizione formale di una scoperta. Del resto, nel momento in cui la frontiera definisce un’idea di limite, contribuisce a costruire la figura del contrabbandiere. E sul piano letterario un contrabbandiere è colui che fa passare dei testi da una parte all’altra, dall’uno all’altro. La frontiera crea la necessità della traduzione. In lingua basca c’è una bella espressione per definire il contrabbando, lo chiamano «il lavoro della notte». E il mestiere dello scrittore assomiglia un po’ a questo: non solo il lavorare la notte, come diceva Marcel Proust, ma il trasportare da un luogo all’altro, da un contesto all’altro dei racconti, delle storie, delle narrazioni.
Mathias Énard, “Letteratura e poesia come strumenti diviaggio che intrecciano le culture e interrogano le memorie”, il manifesto, 6-12-2020, p. 10.
«Se uno vende del ferro al prezzo dell’oro oppure fa un discorso colonialista facendolo passare per pacifista, è un buon venditore. Non a caso, infatti, le parole e gli oggetti venduti dal sistema ci offrono sempre due significati: uno vero, che per vanità non vogliamo leggere, e uno falso, indolore, che accettiamo con voluta complicità per sentirci storicamente validi e buoni venditori».
Vincenzo Agnetti
Citato in Vincenzo Agnetti, a cura di Achille Bonito Oliva e Giorgio Verzotti, catalogo della mostra del Mart, Skira, Ginevra-Milano, 2008, p. 14.
Malamente, dico, potranno approvar questa filosofia color che o non hanno buona felicità d’ingegno naturale, o pur non sono esperti, almeno mediocremente, in diverse facultadi, e non son potenti sì fattamente nell’atto reflesso de l’intelletto che sappiano far differenza da quello ch’è fondato su la fede, a ciò che è stabilito su l’evidenza di veri principii; perché tal cosa comunmente s’ha per principio che, ben considerata, si trovarà conclusione impossibile e contra natura. Lascio quelli sordidi e mercenarii ingegni che, poco e niente solleciti circa la verità, si contentano saper secondo che comunemente è stimato il sapere; amici poco di vera sapienza, bramosi di fama e riputazion di quella; vaghi d’apparire, poco curiosi d’essere. Malamente, dico, potrà eligere tra diverse opinioni e talvolta contradittorie sentenze chi non ha sodo e retto giudizio circa quelle. Difficilmente varrà giudicare chi non è potente a far comparazione tra queste e quelle, l’una e l’altra. A gran pena potrà comparar le diverse insieme chi non capisce la differenza che le distingue. Assai malagevole è comprendere in che differiscano e come siano altre queste da quelle, essendo occolta la sustanza di ciascuna e l’essere. Questo non potrà giamai essere evidente, se non è aperto per le sue cause e principii ne gli quali ha fondamento. Dopo, dunque, che arrete mirato con l’occhio de l’intelletto e considerato col regolato senso gli fondamenti, principii e cause, dove son piantate queste diverse e contrarie filosofie, veduto qual sia la natura, sustanza e proprietà di ciascuna, contrapesato con la lance intellettuale e visto qual differenza sia tra l’une e l’altre, fatta comparazion tra queste e quelle e rettamente giudicato, senza esitar punto farete elezion di consentire al vero.
Giordano Bruno, De l’Infinito, Universo e Mondi, Dialogo quinto, Harmakis Edizioni, 2018.
«Un gioco di destrezza tra i saperi di varie discipline, che incoraggia il lettore a cambiare prospettiva sulla storia del mondo. Un saggio non potrebbe offrire di più» Günther Wessel
«Culture dimenticate è un libro di grande valore che ci affascina e insegna a vedere la storia con occhi diversi» Theodor Kissel, Spektrum der Wissenschaft
«L’autore prende in esame le scoperte più recenti dell’archeologia, della linguistica e della genetica umana, riassumendo in modo chiaro e conciso lo stato della nostra conoscenza ma, soprattutto, lo stato della nostra ignoranza» Kathrin Meier-Rust, Neue Zürcher Zeitung
«Una panoramica molto intrigante sulle scoperte archeologiche più sensazionali al mondo» Niklot Krohn, Archäologie in Deutschland
Quarta di copertina
Molte culture del passato sono rimaste avvolte dall’oblio, altre invece hanno lasciato tracce che, se percorse, dischiudono mondi inimmaginabili. Grazie a recenti ritrovamenti archeologici e a nuovi studi genetici e linguistici, Harald Haarmann ci fa scoprire venticinque culture dimenticate o trascurate dalla storiografia tradizionale. L’autore va alla ricerca di insediamenti preistorici sul Lago Bajkal, getta nuova luce sulle popolazioni pelasgiche e svela il mistero delle guerriere del Mar Nero. Dalle mummie bionde ritrovate a Xinjiang, nel deserto cinese, alla sofisticata civiltà della valle del Danubio, dotata di una scrittura fra le più antiche al mondo, fino agli abitanti dell’Isola di Pasqua, decimati da una crisi ecologica che essi stessi avevano provocato. Questa esplorazione alternativa nella storia dell’uomo ci introduce anche a sensazionali scoperte, come quella di antichi insediamenti urbani in una regione dell’Amazzonia da sempre creduta semi-spopolata. Percorrendo i possibili sviluppi dell’umanità e le sue strade scartate, Haarmann non solo restituisce voce a chi l’aveva persa, ma esorta anche a riflettere sulla nostra civiltà, perché soltanto il riconoscimento del diverso ne dispiega il vero potenziale
Harald Haarmann(nato nel 1946) è un linguista e scienziato culturale tedesco che vive e lavora in Finlandia . Haarmann ha studiato linguistica generale, varie discipline filologiche e preistoria presso le università di Amburgo , Bonn , Coimbra e Bangor . Ha conseguito il dottorato di ricerca a Bonn (1970) e l’ abilitazione (qualifica a livello di cattedra ) a Treviri (1979). Ha insegnato e condotto ricerche in numerose università tedesche e giapponesi ed è membro delCentro di ricerca sul multilinguismo a Bruxelles . È vicepresidente dell’Istituto di archeomitologia (con sede a Sebastopol, California ) e direttore della sua filiale europea (con sede a Luumäki , Finlandia).
«Giacché quando ci poniamo di fronte all’antichità
e la contemppliamo con serietà nell’intento di formarci su di essa,
abbiamo il senso come di essere solo allora diventati veramente uomini».
***
Johann Wolfgang von Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, traduzione di Anita Rho ed Emilio Castellani, con un saggio di Hermann Hesse, Adelphi, Milano 1976.
Il titolo di questo saggio – ad un tempo storico, politico e filosofico – contiene quattro ossimori, espressamente concepiti per provocare intenzionalmente nel lettore quello “spaesamento” necessario per mettere in moto il suo autonomo processo di riflessione critica. I primi tre sono il Bombardamento Etico, l’Interventismo Umanitario e l’Embargo Terapeutico. Il quarto ossimoro rappresenta una sorta di denominatore unificante, il più corrotto e malvagio che esista, quello della Menzogna Evidente. Questo spaesamento è necessario per affrontare con animo libero gli enigmi dell’ideologia di legittimazione di questa inedita società capitalistica fondata sulla globalizzazione geografica coattivamente prescritta e sull’incessante innovazione culturale capillarmente imposta. Nel primo capitolo vengono richiamati i casi delle due scandalose guerre prevalentemente aeree e super-tecnologizzate contro l’Irak nel 1991 e contro la Jugoslavia nel 1999. In entrambi i casi i pretesti addotti dalle potenze imperiali, pretesti amplificati dal sistema giornalistico e culturale dominante, erano privi sia della legittimazione giuridica sia della plausibilità storica. In entrambi i casi però, come avviene nella favola del lupo e dell’agnello, la forza ha sostituito la ragione rispettiva. Nel secondo capitolo, che è a tutti gli effetti centrale, si ricerca il fondamento metafisico segreto di questo comportamento, che è il trattamento differenziato di Auschwitz e di Hiroshima ed il conseguente pentimento diseguale e manipolato che ne è seguito. In questo caso, la metafisica laica del Giudeocentrismo è servita per imporre una nuova lettura storico-religiosa del Novecento, non per contribuire ad una corretta comprensione delle cause che hanno portato al genocidio ebraico, una comprensione che dovrebbe impedire nel futuro il ripetersi di simili catastrofici eventi. Nel terzo ed ultimo capitolo, infine, si individua in una cultura di resistenza il presupposto necessario per una futura costituzione di forze politiche e sociali, per il momento non ancora esistenti, in grado di sostenere il confronto che certamente verrà, e non soltanto di ripetere in modo esasperante le mosse politiche, sociali e culturali di confronti ormai esauriti e tramontati con il venir meno del Novecento.
L’invidia è dunque un tale mostro? Sebbene molti uomini sotto accusa si siano dichiarati colpevoli di orribili azioni nella speranza di vedersi mitigare la pena, è mai accaduto che qualcuno confessasse seriamente di essere invidioso? Vi è in essa qualcosa che, a giudizio universale, viene percepito come più vergognoso perfino di un crimine efferato. E non soltanto tutti la sconfessano, ma le persone migliori sono inclini all’incredulità, quando viene imputata sul serio a un uomo intelligente. Ma siccome l’invidia alberga nel cuore, non nel cervello, nessun grado di intelligenza offre garanzia contro di essa. Ma l’invidia di Claggart non era una forma volgare di tale passione. E neppure, investendo Billy Budd, aveva quella vena di gelosia apprensiva che sconvolgeva il volto di Saul intento a rimuginare turbato sul bel giovane David. L’invidia di Claggart colpiva più a fondo. Se con occhio torvo guardava il bell’aspetto, la gioiosa salute, la schietta esuberanza della giovinezza di Billy Budd, era perché tali qualità si accompagnavano a una natura che, come percepiva magneticamente Claggart, nella sua semplicità non aveva mai voluto il male, né sperimentato il morso reattivo di quel serpente.
Herman Melville, Billy Budd, Einaudi, Torino 1965.
Al popolo della pace, la poesia incipitale di questa raccolta, letta da Maura Del Serra nel 2009 in occasione dell’iniziativa 25 TV per 25 guerre, realizzata dall’artista Gerardo Paoletti per “World March” Associazione Mondiale per la Pace, era finora l’unica traccia esistente di interpretazione autoriale dei suoi testi. Adesso, con la selezione di altre 54 poesie, l’autrice offre ai suoi lettori/ascoltatori, un articolato ventaglio della sua produzione poetica, dei temi, luoghi, voci e ritratti in cui l’esperienza personale si fa corale e universale.
Nutrita con intensità empatica e dialogica dalle radici culturali e sapienziali dell’Occidente nel loro intersecarsi con le vene più feconde delle tradizioni orientali, la poesia della Del Serra è percorsa dal costante agonismo tra assolutezza metatemporale della rivelazione e tenebre della violenza storica, solitudine identitaria e unanimismo creaturale, con un ethos appassionato e rigoroso e con una finezza ed originalità stilistica scandita con vibrante emozione anche dalla sua viva voce.
Maura Del Serra, poetessa, drammaturga, traduttrice e critico letterario, già comparatista nell’Università di Firenze, ha riunito le sue poesie nei volumi: L’opera del vento e Tentativi di certezza, Venezia, Marsilio, 2006 e 2010; Scala dei giuramenti, Roma, Newton Compton, 2016; Bios, Firenze, Le Lettere, 2020. Tutti i suoi testi teatrali sono pubblicati nei volumi: Teatro e Altro teatro, Pistoia, petite plaisance, 2015 e 2019.
Fra gli autori da lei tradotti dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo: Cicerone, Shakespeare, Woolf, Mansfield, Tagore, Proust, Weil, Lasker-Schüler, Sor Juana Inès de la Cruz. (www.mauradelserra.com)
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