Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .

Mario-Vegetti

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Ci sono stati, nel IV secolo, due processi contro la filosofia, che hanno avuto un ruolo in qualche modo epocale. Il primo, a tutti noto, è stato quello conclusosi nel 399 con la condanna di Socrate. A dire il vero, gli Ateniesi che processavano Socrate non sapevano di processare con lui la filosofia, bensì pensavano di avere a che fare con un nemico della città democratica. È stato Platone a vedere nel processo l’atto decisivo del conflitto fra la città e la filosofia – il segno di una malattia della politica che richiedeva un rovesciamento della situazione, la costruzione di una città capace di “prendersi cura della filosofia”, l’unico modo possibile per salvare se stessa insieme con quella che aveva creduto la sua rivale (Hegel, come è noto, avrebbe visto nel processo lo scontro destinale fra il principio dello stato e quello della libera individualità, destinato a ricomporsi storicamente solo nello stato

moderno).
Nel secondo processo, invece, la filosofia era esplicitamente imputata. Si tratta di quello, meno noto ma per noi non meno importante, originato nel 307 da un decreto proposto da un politico democratico di nome Sofocle, che chiedeva la messa al bando delle scuole
filosofiche da Atene, e il divieto sotto pena di morte di insegnarvi filosofia senza un esplicito permesso del popolo. Per un anno, Sofocle ottenne in effetti la messa al bando dei filosofi da Atene; l’anno seguente, fu a sua volta accusato da Filone di proposta illegale, graphe para nomon. Sofocle fu difeso da Democare, ma perse il processo, fu condannato e la filosofia questa volta assolta (la vicenda è narrata in Diogene Laerzio V 38 e in Ateneo XI 508f sgg.).
A noi interessano tanto l’atto d’accusa quanto le ragioni dell’ assoluzione … [continua a leggere]
.

 

 

 

 

 

Mario Vegetti, La filosofia e la città: processi e assoluzioni [pubblicato su Koinè, Periodico culturale – Anno XVI – Gennaio-Giugno 2009 – Direttore responsabile: Carmine Fiorillo – Direttori: Luca Grecchi, Diego Fusaro], pp. 7.

 

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Walter Benjamin (1892-1940) – «Esperienza» . Il giovane farà esperienza dello spirito e quanto più dovrà faticare per raggiungere qualcosa di grande, tanto più incontrerà lo spirito lungo il suo cammino e in tutti gli uomini. Quel giovane da uomo sarà indulgente. Il filisteo è intollerante.

Walter Benjamin,1928
G. Klimt, Giardino fiorito
G. Klimt, Giardino fiorito.
La nostra lotta per divenire responsabili la combattiamo contro un essere mascherato. La maschera dell’adulto si chiama «esperienza». È inespressiva, impenetrabile, sempre la stessa. Quest’adulto ha già vissuto tutto: gioventù, ideali, speranze, la donna. Tutte illusioni. Ne siamo spesso intimiditi e amareggiati. Forse ha ragione. Che dobbiamo rispondergli? Non abbiamo esperienza.
Ma cerchiamo di sollevare la maschera.
Quale esperienza ha fatto questo adulto?
Cosa ci vuol dimostrare? Una cosa soprattutto: è stato giovane anche lui, ha voluto anche lui quello che vorremmo noi, anche lui non ha creduto ai genitori, ma anche a lui la vita ha insegnato che avevano ragione loro. Ridacchiando con sufficienza ci dice che succederà lo stesso anche a noi; svaluta in anticipo gli anni che viviamo, trasformandoli in anni di cretinate giovanili, in ebbrezza infantile che prelude alla lunga sobrietà della vita seria.
Così i benpensanti, gli illuminati. Conosciamo altri pedagoghi, la cui amarezza non ci concede neppure questi brevi anni di «gioventù»; severi e spietati, vogliono fin d’ora metterci di fronte alla fatica di vivere. Gli uni come gli altri svalutano e distruggono i nostri anni. E sempre più siamo sopraffatti da una sensazione: la tua gioventù è solo una breve notte (riempila di ebbrezza!), dopo verrà la grande «esperienza», gli anni dei compromessi, della povertà d’idee, e dell’apatia. Questa è la vita. Questo ci dicono gli adulti, questa è la loro esperienza.
Già! Questa è la loro esperienza, sempre questa, mai un’altra: l’insensatezza della vita.
La brutalità.
Ci hanno mai incoraggiato verso cose grandi, nuove, future?
Oh no! Questo non fa parte dell’esperienza… [continua a leggere]

 

Walter Benjamin, Esperienza [pubblicato sul n. 6 di “Der Anfang”, 1913], pp. 5.

 

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Dante Alighieri (1265-1321) – Nè si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade.

Alighieri Dante

Alighieri Dante

«Nè si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, [li] medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano ma per acquistare moneta o dignitade; e chi desse loro quello che acquistare intendono, non sovrastarebbero a lo studio».

Convivio

Dante Alighieri, Convivio, III, XI, 10.

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Gabriella Putignano – Quel che resta di Raoul Vaneigem

Trattato+di+saper+vivere+ad+uso+delle+giovani+generazioni

copj170

 

 

«Imparare a diventare umani è la sola radicalità».

Raoul Vanegeim

 

 

 

  1. Un autore dimenticato: Raoul Vaneigem

 

 «[…] il Traité rimane uno scossone, un urlo
[…] a fare un bilancio rispetto a ciò che rimane
della soggettività come desiderio,
come piacere, come relazione solidale».

Pasquale Stanziale

 

 

In questo breve contributo critico ci proponiamo di analizzare il pensiero di Raoul Vaneigem, nato a Lessines, in Belgio, nel 1934 e tuttora vivente; intendiamo soprattutto comprendere quanto della sua opera resti più che mai vivo ed urgente nell’odierna attualità.
Vaneigem, insieme a Guy Debord (1931-1994), fu uno dei membri principali dell’Internazionale Situazionista, che lascerà nel 1970, ed il suo testo di capitale importanza è senz’altro Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni (1967) [1]. È un libro, questo, che – ha scritto giustamente Pasquale Stanziale – rimane ancora uno scossone, un richiamo a cambiare prospettiva, un urlo contro ogni forma di soggettività negata.
Tuttavia, se negli ultimi anni v’è stato un interesse esponenziale verso gli scritti di Debord [2], è come se Vaneigem fosse invece passato inosservato, rimosso tanto dall’ambiente dell’accademia quanto dall’“opinione pubblica” tout court. Proprio per questa ragione desideriamo oggi regalare al lettore un’analisi in grado di restituire il giusto peso, il significativo spessore del pensatore belga. Di più: riteniamo, con una certa cognizione di causa, che le riflessioni vaneigemiane possano aiutarci a penetrare all’interno del «nuovo spirito del capitalismo»[3], a recepire fino in fondo le implicazioni strutturali della controrivoluzione neoliberista.
Procederemo, inoltre, inserendo qui e lì delle “intermittenze” musicali, parole di due cantautori, Claudio Lolli e Gianfranco Manfredi [4], che hanno espresso artisticamente le esigenze situazioniste, la tensione libertaria ivi presente, e che, come tali, costituiscono un valido ed inusuale supporto per una maggiore comprensione. È, forse, inevitabile il riferimento al mondo musicale, poiché – in quell’«orda d’oro» [5] rappresentata dal decennio ʻ68-ʻ77 – esso ha davvero dato voce ai sogni giovanili, allo «sciamare d’energie»[6] – per dirla con Capanna – che si liberava in tutte le direzioni, al bisogno incontenibile di essere irriducibili e di non sottostare al fatalismo della storia. [7]
L’orizzonte del ʻ68-ʻ77 segna dunque una grandiosa rivoluzione dell’immaginazione, «un’incruenta rivolta per affermare il diritto alla felicità» [8]. Esattamente quest’ultimo aspetto, la volontà cioè di far «retrocedere dappertutto l’infelicità» [9], è quanto caratterizza l’Internazionale Situazionista (1957-1972), formatasi a Cosio d’Arroscia (Imperia) nel 1957. Essa nasce come contestazione artistica, influenzata dal lettrismo e dal surrealismo, e s’allarga poi al terreno politico, s’afferma quale critica serrata nei confronti dell’alienazione e della passività esistenziale, mira ad una rivoluzione permanente della vita quotidiana e ad una costruzione di situazioni [10]. I suoi testi fondamentali di riferimento sono quello già citato di Vaneigem e La società dello spettacolo di Debord, entrambi del 1967. Noi ci confronteremo in particolare con il primo e con la sua pars destruens: il morbo della sopravvivenza.

 

 

  1. Il morbo della sopravvivenza

 

«Lo sai che siamo tutti morti e non ce ne/
siamo neanche accorti, e continuiamo a dire/
e così sia». 

Claudio Lolli      

 

Il Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni si caratterizza, in primis, per una «fenomenologia della soggettività negata» [11], vale a dire per l’amara comprensione della riduzione della ragione a mera e squallida esecutrice di ordini.
Questa fase storica – scrive Vaneigem – non è né quella legata al principio di dominio della società feudale, né quella propria del principio di sfruttamento della società borghese, bensì essa reca il trionfo del principio d’organizzazione tipico di una società cibernetica, ove la ragione si svuota di senso, oblia del tutto l’idea di una qualche normatività morale e d’una finalità delle proprie scelte individuali e sociali. Essere ragionevoli – per dirla con il Max Horkheimer di Eclisse della ragione – significa infatti non essere ostinati, adattarsi alla realtà così com’è, diventare una semplice cellula di risposta funzionale. [12] Ma vuol dire anche divenire grotteschi personaggi che assomigliano, schopenhauerianamente, a burattini caricati come orologi [13], senza sapere il perché di quello che fanno; vuol dire trasformarsi in automi lobotomizzati da una insulsa «cascata di gadgets» [14]. Così il proprio io non si sente più e sembra alla fine rivolgerci queste desolanti parole: «Sono merce che un estraneo/scambia in me/tra me e me» [15], sono un feticcio che non ha più sogni, che si bea nell’ accettazione rassegnata dell’esistente.
Il tempo stesso si svalorizza, si frantuma in istanti seriali, equivalenti, intercambiabili. È il tempo-merce, del lavoro, del consumo, del potere, che congela l’orizzonte storico nella stagnazione di un presente perennemente indaffarato: «Istante per istante, il tempo scava il suo pozzo, tutto si perde, niente si crea…» [16], ciascuno si insegue senza mai raggiungersi, cambia di continuo status, pelle, ruolo, ma non la sua alienazione, non la sua dormiente sopravvivenza.
Dimenticare la propria coscienza storica implica, ipso facto, scordare l’identità finita di cui siamo intrisi, comporta essere impossibilitati ad aprirsi all’incontro con l’alterità, significa diventare potenzialmente manipolabili e strumentalizzabili da chi è al governo. Non resta se non «l’illusione di essere insieme» [17], poiché non riusciamo più a guardare il volto dei nostri fratelli e risultiamo sospesi in un limbo d’indifferenza generalizzata, ex-tranei a noi stessi ed al prossimo [18]. Siamo corrosi dentro da orride “tonalità emotive”: l’invidia, l’acredine, il rancore, che non ci danno pace e misurano il grado della nostra umiliazione. [19] Ci si scopre accomunati solo da questa espropriante lacerazione, solo dal consumo alienato, da un’apatia disarmante nei confronti del “senso”. Commenta, a questo proposito, in maniera molto lucida il giovane filosofo Giacomo Pisani: «Si afferma in questo modo un individualismo assolutamente particolare, in cui l’individuo risulta isolato non solo dagli altri, ma dalla sua stessa storia, perdendo qualsiasi occasione di ricerca di un senso. La sua vita è un continuo errare per sfuggire a questo vuoto, per mantenersi in un terreno neutro, in cui possa vivere chiunque, in cui possa essere un “chiunque”». [20]
Vale la pena soffermarsi su queste parole, perché svelano amaramente il modo in cui si vivono i rapporti interpersonali nel morbo della sopravvivenza: non già attraverso una condivisione (seppur, a volte, conflittuale) di pensieri, di sogni, di speranze, bensì nella modalità della scissione e dell’isolamento. Si è sì tutti insieme, «ma ognuno sta per sé/la ricomposizione si sogna ma non c’è/ognuno nel suo sacco/o nudo tra il letame/solo come un pulcino,/bagnato come un cane.» [21]
Questa dissociazione dall’alterità, denunciata da Vaneigem nel 1967, costituisce la base dell’odierno ʻnarcinismoʼ[22], pervaso da un’ipersoggettivazione individualista fatta di logorante competitività, prestazione, sfruttamento.
Invero tutta l’analisi di Raoul Vaneigem – come possiamo ora meglio comprendere – è un potente mezzo ermeneutico che ci permette di cogliere – per utilizzare un’acuta espressione di Mauro Magatti – l’attuale «capitalismo tecno-nichilista» [23], che ha risucchiato l’intera sfera del legein nel teukein, nel fare ansioso della propria ristretta competenza. Ed è un capitalismo che, tanto secondo il filosofo belga quanto secondo Magatti, si riflette in un preciso spazio urbano. Difatti, per Vaneigem, le nostre esistenze vengono stipate in angusti uffici o in sporche fabbriche, nel grigio di città che respinge le sue ʻvite di scartoʼ nelle «tristi balere di periferie» [24] ed accalca disperati su disperati negli angoli bui delle sue stazioni[25]. È un grigio che immalinconisce, in cui «la luna ha una faccia da strega/e il sole ha lasciato i suoi raggi in cantina» [26], è un grigio che purtroppo ci sembra riproporre l’attuale dicotomia fra il perbenismo del centro cittadino e le banlieues parigine [27], ove ciascuno patisce un’opprimente sensazione di emarginazione e cova dentro di sé risentimento, livore, invidia. Ma la città – potremmo aggiungere con Magatti – è pure lo spazio estetico deterritorializzato (SED) [28], che distrugge luoghi antropologicamente sociali/relazionali/“spirituali”, per far posto alla neutralità ed al disimpegno di grandi centri commerciali, nei quali si è “avviluppati” da un vortice consumistico, dall’«economia libidica del plusgodere» [29]. Ciò che si perde – sia nelle banlieues sia in questo centro deterritorializzato [30] – è la propria umanità, il senso di essere una comunità. A tal riguardo, Vaneigem descrive la riduzione dell’uomo allo stato di cosa ricordando i quadri di De Chirico o Ulisse di Malevič [31], dipinti di estremo pregio e valore. Troviamo, però, interessante affiancare oggigiorno a questi (soprattutto in virtù di quello che s’è detto poc’anzi a proposito dello spazio urbano) i quadri di Dino Di Bonito [32], perché essi ben rappresentano le «folle solitarie» della post-modernità, disperse in seriali metropoli e ridotte a fantasmi, ad anonimi esseri scarnificati.
Il morbo della sopravvivenza, adesso analizzato in tutte le sue sfaccettature, è quindi più che mai vivo e vegeto; quel che resta della pars destruens di Vaneigem è ancora tanto, troppo. Eppure anche la sua pars construens, che avverte l’assoluto bisogno di salvare “l’umanità dell’umano”, acquista oggi una notevole importanza. Ha scritto infatti Enea Bianchi: «[…] uno degli obiettivi più nobili dell’I.S. è stato quello di ridare dignità al termine “sociale”, distorto dalla propaganda neoliberista, la quale intende il sociale principalmente come avvicinamento delle distanze e come facilitazione delle interazione fra le persone». [33]
Da questo senso nobile del “sociale” dovremo ora muovere per comprendere il rovesciamento di prospettiva (détournement) operato dal Nostro.

 

 

  1. Il valore sovversivo dell’eros

 

«[…] quando due persone si amano, sottraggono
terreno al Leviatano, creano spazi che egli non controlla».

Ernst Jünger

 

Il détournement dobbiamo immaginarlo come uno stadio radicalmente antitetico rispetto al morbo della sopravvivenza, uno stadio che comincia a partire da una profonda insoddisfazione nei confronti dell’esistenza rinunciataria e parassitaria. È come una scossa che ci risveglia dal nostro torpore, le cui parole iniziali urlano questo: «Sono vivo/fammi uscire/dal cadavere,/dal cadavere di me» [34], e reclamano, altresì, lo squartamento di quel limbo d’indifferenza, dove ogni cosa ci scivola via senza toccarci mai.
Si tratta, in altri termini, di recuperare la nostra volontà di vivere in grado di infilzare la sua lama nella materia molle dell’inerzia; si tratta di rivendicare l’attività ludica contro il travaglio di un irrequieto teukein. È inscritta nella natura del gioco una venatura sovversiva, poiché essa risponde alla libera creatività che disfa il livellante principio di prestazione/organizzazione della società cibernetica. Del resto, in quegli stessi anni, anche Herbert Marcuse esprimeva concetti analoghi: «Gioco e libera espansività, come principi di civiltà, non implicano una trasformazione del lavoro, ma la sua assoluta subordinazione al libero evolversi delle potenzialità dell’uomo e della natura. Ora si comincia a intravvedere la vera distanza tra i concetti di gioco e di libera espansività, e i valori di produttività e di prestazione: il gioco è improduttivo e inutile proprio perché esso cancella i tratti repressivi e sfruttatori del lavoro e dell’agio». [35]
C’è nel gioco uno «stormire di spontaneità» [36], che ingloba i caratteri della gioiosità, della partecipazione, della gratuità. La temporalità dell’homo ludens è, dunque, tutt’altra cosa rispetto a quella quantitativa dell’heautontimorumenos [37]: è gonfiata di passione, di innocenza, di amore. Ed all’amore Vaneigem guarda quale decisivo punto di svolta per sottrarsi a questo mondo voyeuristico ed inautentico. Amare vuol dire, infatti, aprirsi alla sfera dell’intersoggettività, voler incontrare il prossimo, lasciare un pezzo di sé nell’altro. L’eros implica intensità, illuminazione del presente, uscita dal guscio economicista dei ruoli, per cogliere così la propria insostituibilità ed unicità.
Per Vaneigem, quando si ama davvero, lo si fa incondizionatamente e senza poter eludere il corpo (Leib): è come se si fosse dentro la fiamma di un fuoco che reca in sé il brivido della morte, la dissipazione delle «paure di sempre» [38], il trionfo su «tutte le costruzioni titaniche» [39]. Da questo punto di vista, l’amore non è un semplice modo per soddisfare i propri pruriti pubici, bensì è forza propulsiva al cambiamento, è «condivisione di un piacere che ci porti, insieme, al di là di quest’oggi meschino, almeno per un momento, un sogno di libertà, di infinitezza, di gioventù» [40].
Ecco quindi nascere la triade unitaria dell’autenticità: realizzazione-comunicazione-partecipazione [41], con cui le nozioni di castigo e di supplizio vengono liquidate e subentra una nuova innocenza, una nuova grazia di vivere [42]. Aspetti, questi, che intendono sconfiggere – per dirla con Franco Berardi (Bifo) – il «totalitarismo senza totalità» [43], il quale sottomette il singolo ad una regola fredda ed esige da lui solo un’alienata (ma efficiente) prestazione.
L’innocenza non è ignoranza né tantomeno riproposizione del narcinismo, ma indica una riappropriazione del divenire e del proprio essere, una capacità di danzare sugli abissi e di sottrarsi ad ogni greve fatalismo. [44] Occorre abbandonare la pesantezza degli stolti ʻpredicatori di morteʼ [45], che si cullano in frasi stereotipate e nihilistiche del tipo “è la vita”, “va come deve andare”, “bisogna farsene una ragione”, per far sorgere un’etica dell’impegno e della partecipazione, in cui ci si “sporca le mani” in prima persona a favore della comunità (parola quanto mai dimenticata) di riferimento, si dice di sì ad uno «stato di dono e di disponibilità» [46].
In tempi come il nostro, nei quali troppo spesso si cavalca l’onda dell’antipolitica per chiudersi in se stessi e credere che nulla possa essere cambiato, Vaneigem può dunque rappresentare un pungolo a tentare, a rischiare un «colpo di mondo» [47], a non adagiarsi nell’alibi della rassegnazione. Ed il «valore sovversivo dei sentimenti» [48], l’effetto sregolante, al di là del bene e del male, dell’amore costituisce il primo passo per incominciare ad intaccare la corruzione delle istituzioni stesse.

Gabriella Putignano

Bibliografia

Aa.Vv., Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità, Ombre Corte, Verona, 2014;
Aa.Vv.,
Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, trad. it. di P. Stanziale, Massari Editore, Bolsena, 1998;
N. Balestrini – P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano, 1997;
F. Berardi (Bifo), Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione, Ombre Corte, Verona, 1997;
L. Boltanski – È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano, 2014;
M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Rizzoli, Milano, 1998;
J. Giustini, Claudio Lolli. La terra, la luna e l’abbondanza, Stampa Alternativa, Viterbo, 2003;
M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, trad. it. di E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino, 2000;
E. Jünger, Oltre la linea, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1998;
C. Lolli, Lettere matrimoniali, Stampa Alternativa, Viterbo, 2013;
M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009;
H. Marcuse, Eros e civiltà, trad. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino, 2001;
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. di S. Giametta, Bur, Milano, 2004;
G. Pisani, Il gergo della postmodernità, Unicopli, Milano, 2012;
M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010;
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Bari, 2008;
P. Stanziale, Dalla soggettività radicale all’internazionale del genere umano, in R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, trad. it. di P. Salvadori, Massari Editore, Bolsena, 2004;
R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, trad. it. di P. Salvadori, Massari Editore, Bolsena, 2004;
Id., Noi che desideriamo senza fine, trad. it. di S. Ghirardi, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.

 

Discografia

C. Lolli, Aspettando Godot, EMI Italiana, 1972;
Id., Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita, EMI Italiana, 1973;
Id., Canzoni di rabbia, EMI Italiana, 1975;
Id., Disoccupate le strade dai sogni, Ultima Spiaggia, 1977;
Id., Extranei, EMI Italiana, 1980;
G. Manfredi, Ma non è una malattia, Ultima Spiaggia, 1976;
Id., Zombie di tutto il mondo unitevi, Ultima Spiaggia, 1977.

 

Sitografia

N. Martino, Sulla felicità come opera in lotta nel lavoro della conoscenza, in http://effimera.org/sulla-felicita-come-opera-in-lotta-nel-lavoro-della-conoscenza-di-nicolas-martino/, 26 ottobre 2015;
G. De Michele, La banlieue come volontà e rappresentazione, in http://www.euronomade.info/?p=4517.

 

 

 

Note

[1] Sarà tradotto in Italia per la prima volta nel 1973.

[2] Questo si deve anche all’apertura dei sui archivi. Nondimeno tale interesse non sempre si è tradotto in una dispiegata comprensione del pensiero debordiano, spesso ridotto ad una mera critica mediatica.

[3] Cfr. L. Boltanski – È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano, 2014.

[4] C. Lolli e G. Manfredi sono, infatti, due cantautori “simbolo” del decennio ’68-’77.

[5] Cfr. N. Balestrini – P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano, 1997.

[6] M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Rizzoli, Milano, 1998, p. 39.

[7] Ha scritto F. Berardi (Bifo): «Io credo che ’68 si debba ancora apprendere la lezione più profonda. E che il ’77 sia il punto di vista migliore per comprendere quella lezione. Penso alla consapevolezza della irriducibilità dell’esistenza alla storia, penso all’autonomia intesa come carattere asimmetrico della traiettoria singolare rispetto al destino sociale e di genere. Penso alla libertà come attivo sottrarsi al divenire necessario del mondo.», Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione, Ombre Corte, Verona, 1997, pp. 34-35.

[8] M. Bellocchio, citiamo da M. Capanna, op. cit., p. 137. Corsivo nostro.

[9] È il titolo di un ciclo d’incontri, curato da Stefano Taccone nel 2013, presso il BAD Bunker Art Division di Casandrino (NA). Gli Atti sono oggi disponibili con il titolo Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità, Ombre Corte, Verona, 2014.

[10] Difatti nel numero 9 (agosto 1964) dell’ IS – alla domanda su che cosa significhi essere «situazionisti» – si legge: «Definisce un’attività che vuole creare le situazioni, non riconoscerle, come valore esplicativo o altro. Questo a tutti i livelli della pratica sociale e della storia individuale. Noi sostituiamo alla passività esistenziale la costruzione di momenti di vita, al dubbio l’affermazione ludica.», oggi in Aa.Vv., Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, trad. it. di P. Stanziale, Massari Editore, Bolsena, 1998, p. 219.

[11] P. Stanziale, Dalla soggettività radicale all’internazionale del genere umano, in R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, trad. it. di P. Salvadori, Massari Editore, Bolsena, 2004, p. 11.

[12] Cfr. M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, trad. it. di E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino, 2000, p. 16.

[13] Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Bari, 2008, p. 352.

[14] R. Vaneigem, op. cit., p. 25.

[15] G. Manfredi, Puoi sentirmi?, in Ma non è una malattia (1976).

[16] R. Vaneigem, op. cit., p. 105.

[17] Ivi, p. 43. Corsivo nostro. Si veda su questo anche E. Bianchi, L’illusione di essere insieme, in Aa.Vv., Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità, pp. 34-43.

[18] Il termine ʻextraneiʼ allude ad un album di C. Lolli pubblicato nel 1980, che sancisce non solo il crollo degli ideali politici, ma anche lo sfacelo dei rapporti umani. Cfr. J. Giustini: «Anche i legami tra gli stessi uomini sono spariti. Si diventa inesorabilmente ex. Ma più che altro estranei a se stessi, incapaci di legarsi a niente.», Claudio Lolli. La terra, la luna e l’abbondanza, Stampa Alternativa, Viterbo, 2003, p. 14.

[19] Cfr. R. Vaneigem: «Invidio, dunque esisto. Cogliersi a partire dagli altri è cogliersi altro. E l’altro è l’oggetto, sempre. Sicché la vita si misura dal grado di umiliazione vissuta.», op. cit., p. 36.

[20] G. Pisani, Il gergo della postmodernità, Unicopli, Milano, 2012, pp. 35-36.

[21] G. Manfredi, Un tranquillo festival pop di paura, in Zombie di tutto il mondo unitevi (1977).

[22] Narcinismo è neologismo formato dalle parole “narcisismo” e “cinismo”. Si veda su questo M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010, ma si veda anche e soprattutto N. Martino, Sulla felicità come opera in lotta nel lavoro della conoscenza, in http://effimera.org/sulla-felicita-come-opera-in-lotta-nel-lavoro-della-conoscenza-di-nicolas-martino/, 26 ottobre 2015.

[23] M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009.

[24] C. Lolli, Hai mai visto una città, in Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita (1973).

[25] Si ascolti C. Lolli, Angoscia metropolitana, in Aspettando Godot (1972).

[26] C. Lolli, Incubo numero zero, in Disoccupate le strade dei sogni (1977).

[27] Si veda su questo, problema quanto mai attuale, G. De Michele, La banlieue come volontà e rappresentazione, in http://www.euronomade.info/?p=4517.

[28] M. Magatti, op. cit., pp. 80-88. Si veda anche G. Pisani, op. cit., pp. 30-32.

[29] Cfr. M. Magatti, op. cit., pp. 130-138.

[30] Si tratta, a ben vedere, di due facce della stessa medaglia.

[31] Scrive Vaneigem: «Il movimento Dada, il quadrato bianco di Malevič, Ulisse, le tele di de Chirico fecondano, con la presenza dell’uomo totale, l’assenza dell’uomo ridotto a stato di cosa», op. cit., pp. 167-168.

[32] D. Di Bonito è un artista tuttora vivente, nato a Pozzuoli e residente a Roma. Facciamo riferiamo, in particolare, alla sua prima personale intitolata “Metropolis”.

[33] E. Bianchi, art. cit., p. 43.

[34] G. Manfredi, Puoi sentirmi?

[35] H. Marcuse, Eros e civiltà, trad. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino, 2001, p. 213.

[36] R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, cit., p. 246.

[37] Vaneigem utilizza questo termine, che riecheggia una commedia di Terenzio, per indicare il “punitore di se stesso”, ovvero l’uomo della sopravvivenza.

[38] C. Lolli, Donna di fiume, in Canzoni di rabbia (1975).

[39] E. Jünger, Oltre la linea, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1998, p. 97.

[40] C. Lolli, Lettere matrimoniali, Stampa Alternativa, Viterbo, 2013, p. 97. Corsivo nostro.

[41] Cfr. R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, p. 212.

[42] Ivi, p. 310.

[43] F. Berardi (Bifo), op. cit., p. 105.

[44] Il tema dell’innocenza è, chiaramente, nietzscheano. Si ricordi su tutto il concetto di innocenza del divenire.

[45] Nel lessico nietzscheano ʻpredicatori di morteʼ sono coloro per i quali niente vale la pena, sono «i tisici dell’anima: non sono ancora nati che già cominciano a morire, e sono avidi di dottrine della stanchezza e della rinuncia.», Così parlò Zarathustra, trad. it. di S. Giametta, Bur, Milano, 2004, p. 45.

[46] R. Vaneigem, Noi che desideriamo senza fine, trad. it. di S. Ghirardi, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 117.

[47] A. Trocchi, Tecnica del colpo di mondo, in “Internationale Situationniste”, 8, janvier 1963, pp. 53.62; trad. it in Internazionale Situazionista 1958-69, Nautilus, Torino, 1994.

[48] P. Stanziale, art. cit., p. 12.

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Giovanni Stelli – Senso e valore della filosofia. Tre domande, alcune risposte

Giovanni Stelli

Giovanni Stelli

Cercherò di rispondere alle domande con alcune considerazioni teoretiche che riflettono, a grandi linee e in modo schematico, il mio itinerario speculativo degli ultimi trent’anni. Ho indicato nelle note alcuni lavori in cui ho trattato i temi qui illustrati analiticamente e con i necessari passaggi argomentativi, che nei limiti di questo contributo sono stati omessi.
La definizione dell’attività filosofica contenuta nella prima domanda mi trova sostanzialmente d’accordo con alcune precisazioni. In primo luogo, direi che l’attività filosofica consiste non tanto nell’“attribuire” quanto nel “riconoscere e precisare il senso e il valore della vita umana nell’intero” per le ragioni che cercherò di esporre più avanti. In secondo luogo, credo che l’essenza dell’attività filosofica o della filosofia vada ulteriormente determinata. La definizione proposta potrebbe infatti riferirsi anche alla religione, che ha certamente un nesso profondo con la filosofia, ma che da essa va chiaramente distinta.
È stato Aristotele ad individuare con chiarezza ciò che costituisce lo specifico della filosofia rispetto alle scienze particolari: queste ultime studiano l’ente in quanto determinato in un modo o in un altro (come numero, come movimento, come vita, ecc.), mentre la filosofia studia l’ente in quanto tale, l’ente in quanto ente. Da ciò segue che la filosofia (più precisamente: la “filosofia prima”, che è quella che qui ci interessa) riguarda appunto sempre l’intero (tutti gli enti nelle loro connotazioni universali) e costituisce pertanto il fondamento di tutte le scienze particolari…

Leggi tutto il saggio di Giovanni Stelli
aprendo l’impaginato in PDF
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Già pubblicato in: Koiné Periodico culturale
Anno XX  –  NN° 1-4 – Gennaio-Dicembre 2013, , pp. 41-60
Direttore responsabile: Carmine Fiorillo – Direttori: Luca Grecchi, Diego Fusaro.

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Alessandro Monchietto – Dialettica dell’illuminismo. Diagnosi della società contemporanea, critica della ragione strumentale

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L’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, primo ente scientifico di esplicito indirizzo marxista, nacque nel 1923 grazie all’appoggio – essenzialmente finanziario – di Hermann Weil e di suo figlio Felix, due ricchi mercanti tedeschi simpatizzanti socialisti.
Il primo direttore che venne designato fu Carl Grünberg, insigne studioso di storia economica; durante il suo discorso di insediamento, costui manifestò la propriaconvinzione di “trovarsi al centro di una transizione dal capitalismo al socialismo”, e continuò affermando: …

Leggi tutto il saggio aprendo l’impaginato in PDF.

 

 

Indice
L’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte.

La direzione di Max Horkheimer.

Il materialismo storico: dalla critica alla struttura alla critica alla sovrastruttura.

Sostituzione dell’analisi di classe con l’analisi del profondo.

Il materiale umano di cui sono formate le società.

La Scuola di Francoforte.

Le ipotesi di Neumann e di Pollock.

La pietra tombale del progetto originario della teoria critica.

Analisi di “Dialettica dell’illuminismo”.

Una tesi e due excursus storico-intellettuali.

Il rapporto tra mito e ragione.

Interpretazioni del totalitarismo.

La logica del dominio.

Soggettivizzazione della ragione.

L’illuminismo è la filosofia che identifica la verità al sistema scientifico.

La ragione come vuota razionalità formale.

Odisseo, il primo borghese della storia.

Implosione della dialettica servo-padrone.

L’industria culturale come degradazione della cultura.

La cultura prodotta come qualsiasi altra merce.

L’industria colonizzatrice del “tempo libero”.

Il feticismo in ogni ambito dell’esperienza.

La cultura di massa come humus di totalitarismo politico.

Le varie polemiche sul testo.

 

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Alessandro Monchietto, Dialettica dell’illuminismo. Diagnosi della società contemporanea, critica della ragione strumentale, Inedito, 2009 , pp. 30.

 

 

 

 

 

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Bhagavad-Gītā – Queste sono qualità proprie degli uomini virtuosi

Manoscritto della Bhagavadgītā risalente al XIX secolo (Southern Asian Collection, Asian Division, Library of Congress, Washington, DC)
Manoscritto della Bhagavadgītā risalente al XIX secolo (Southern Asian Collection, Asian Division, Library of Congress, Washington, DC)
Manoscritto della Bhagavadgītā risalente al XIX secolo
(Southern Asian Collection, Asian Division, Library of Congress, Washington, DC)

«L’assenza di paura, la purificazione dell’esistenza, lo sviluppo della conoscenza spirituale, la carità, il controllo di sé, il compimento di sacrifici, lo studio dei Veda, l’austerità, la semplicità, la non-violenza, la veridicità, l’assenza di collera, la rinuncia, la serenità, l’avversione per la critica, la compassione verso tutti gli esseri, l’assenza di cupidigia, la dolcezza, la modestia, la ferma determinazione, il vigore, il perdono, la forza morale, la purezza, la libertà dall’invidia e dalla sete di onori – queste sono qualità trascendentali, proprie degli uomini virtuosi …».

La Bhagavad-Gītā così com’è, a cura di Srila Prabhupada, Bhaktivedanta book trust, Firenze 2003, pag. 636.

Kṛṣṇa ed Arjuna a Kurukṣetra, pittura del XVIII-XIX secolo

Kṛṣṇa ed Arjuna a Kurukṣetra, pittura del XVIII-XIX secolo

Bhagavadgītā (sanscrito, sf.pl.; devanāgarī: भगवद्गीता, , “Canto del Divino” o “Canto dell’Adorabile” o, meno comunemente, Śrīmadbhagavadgītā; devanāgarī: श्रीमद्भगवद्गीता, il “Meraviglioso canto del Divino”[1]) è quella parte dall’importante contenuto religioso, di circa 700 versi (śloka, quartine di ottonari) divisi in 18 canti (adhyāya, “letture”), nella versione detta vulgata, collocata nel VI parvan del grande poema epico Mahābhārata.

La Bhagavadgītā ha valore di testo sacro, ed è divenuto nella storia tra i testi più prestigiosi, diffusi e amati tra i fedeli dell’Induismo.

In tale contesto la Bhagavadgītā è il testo sacro per eccellenza delle scuole viṣṇuite e kṛṣṇaite, eredi dell’antico culto devozionale del Bhagavat, ma è venerato come testo rivelato anche dagli śivaiti e dai seguaci dei culti śākta.

L’unicità di questo testo, rispetto ad altri coevi, consiste anche nel fatto che qui non viene data un’astratta descrizione del Bhagavat[2], qui inteso come il dio Kṛṣṇa, la Persona Suprema che si rivela, ma questa figura divina è un personaggio protagonista che parla in prima persona, offrendo all’uditore la sua darśana (dottrina) completa. (da Wikipedia)

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Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.

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Scritti fra l’aprile e l’agosto del 1844 a Parigi da un Marx ventiseienne, i Manoscritti economico-filosofici del 1844 sono un’opera non destinata alla pubblicazione, che Marx non ha mai sistematizzato ed organizzato come è d’uso quando un testo è destinato ad una pubblicazione a stampa. Essi presuppongono la lettura e lo studio del saggio dell’amico Engels Lineamenti di una critica dell’economia politica, pubblicato nel febbraio 1844. Si tratta essenzialmente di appunti di chiarimento ad uso personale, come è stato recentemente stabilito da un accurato esame filologico (cfr. Jürgen Rojahn, in “Passato e Presente”, 3, 1983). Pubblicati per la prima volta nel 1927 in URSS per opera di Rjazanov, essi non entrarono nel dibattito filosofico europeo prima del 1932, ed il primo intervento autorevole di quell’anno che ne segnala la grande importanza per la comprensione del pensiero globale di Marx è quello di Herbert Marcuse (cfr. H. Marcuse, Marxismo e rivoluzione. Studi 1929–1932, Einaudi, Torino 1975, pp. 61–116). La presa in considerazione dei Manoscritti è quindi del tutto estranea al processo di sistematizzazione e di coerentizzazione dottrinale del pensiero di Marx, che divenne appunto “marxismo” nel ventennio 1875–1895 per opera pressoché esclusiva di Engels e Kautsky. E questo non è un caso. Questo “marxismo”, costruito di fatto come una teoria del crollo della produzione capitalistica, non avrebbe saputo che farsene di una teoria dell’alienazione e neppure di una critica filosofica dell’economia. I Manoscritti hanno quindi letteralmente “dormito” per quasi un secolo. Si tratta di una sorte comune a molte altre opere filosofiche. L’Aristotele che conosciamo aveva “dormito” per tre secoli fino al primo secolo avanti Cristo, e Lucrezio, del tutto ignoto a Dante, dovette attendere il quindicesimo secolo per essere “scoperto” in Germania da un umanista italiano in “trasferta”.
Se mi chiedessero di consigliare ad un principiante che non ne sa assolutamente niente un’opera di Marx con cui cominciare non consiglierei mai i Manoscritti, la cui comprensione presuppone una specifica competenza linguistica a proposito del linguaggio filosofico di Hegel, ma consiglierei invece decisamente Il Manifesto del Partito Comunista del 1848, la cui “facilità” è peraltro anch’essa più apparente che reale, in quanto presuppone anch’essa la conoscenza delle varie correnti socialiste e comuniste degli anni quaranta dell’ottocento. Ma qui si tratta di introdurre alla lettura dei Manoscritti, ed allora la cosa più utile è dividere questa introduzione in due parti. In primo luogo, cercherò di riassumere criticamente – con qualche inevitabile notazione personale – il contenuto dei Manoscritti. In secondo luogo, cercherò di segnalare le interpretazioni principali che sono state date ai Manoscritti negli ultimi novant’anni, limitandomi all’essenziale e trascurando i pur significativi particolari.
In estrema sintesi, il contenuto dei Manoscritti può essere riassunto in tre punti principali: una critica globale dell’intera concettualizzazione dell’economia politica borghese del tempo, che culmina in alcune pagine di straordinaria efficacia dedicate al concetto di “lavoro alienato”; una prima tematizzazione esplicita del comunismo come risoluzione dialettica dei processi economico-sociali del mondo moderno; una critica radicale a Hegel, in particolare per quanto riguarda la dialettica “idealistica” della coscienza su cui è costruita logicamente ed ontologicamente la Fenomenologia dello Spirito. Tutti e tre questi punti meritano, a fianco della necessaria segnalazione, un breve commento.
Marx è il primo pensatore in assoluto che applica sistematicamente al mondo reale della produzione capitalistica il concetto di alienazione. Nell’Ottocento resterà praticamente il solo, mentre nel Novecento sarà seguito da alcuni altri grandi pensatori critici (Lukács e Adorno in primo luogo). È vero che già Hegel aveva criticato il punto di vista unilaterale ed astratto dell’economia politica, definendolo un sapere dell’intelletto (e quindi non della ragione), ma lo aveva fatto senza utilizzare il concetto di “alienazione”, che nel suo lessico significa soltanto oggettivazione, nel senso di fisiologica uscita da sé, e quindi estraniazione dialettica (Entäusserung) intesa come momento dello spirito.
Ma Marx, a differenza di Hegel, sostiene che nella produzione capitalistica l’oggettivazione avviene nella forma dell’alienazione (Entfremdung), in quanto in essa, anziché realizzarsi nel lavoro, l’uomo perde il proprio essere specifico (e cioè la sua naturale genericità, Gattungswesen), cadendo sotto il dominio del capitale che gli si contrappone come un mondo reificato (Verdinglichung). Marx mette in evidenza quattro aspetti principali di questo processo di alienazione, che il lettore potrà analizzare adeguatamente nella lettura diretta dei Manoscritti, e che si riconducono però tutti e quattro ad un solo fondamento unitario, il fatto che l’uomo, essere sociale per sua propria essenza, non può realmente “riconoscersi” nel rapporto sociale di capitale.
Sta qui il momento unitario fra Hegel e Marx. È vero infatti che i concetti di alienazione-estraneazione-oggettivazione-reificazione (ho qui volutamente riassunto la loro quadruplice natura) sono diversi in Rousseau, Hegel, Feuerbach e Marx, e questa diversità è stata messa correttamente in luce dai saggi storico-monografici dedicati al concetto di alienazione. Ma è ancora più vero che esiste un minimo denominatore filosofico robustamente comune a Hegel e Marx, il fatto cioè che l’umanità, pensata idealisticamente come un unico concetto trascendentale riflessivo che procede dialetticamente verso la propria autocoscienza razionale, deve infine riconoscersi in se stessa, e senza questo riconoscimento restano tutte le patologie della cosiddetta “coscienza infelice”. E mentre nel medioevo la coscienza infelice si manifestava nei conflitti fra Dio e Uomo, mondo divino e mondo terrestre, Gerusalemme e Babilonia, millennio e secolo, eccetera, nel mondo moderno la coscienza infelice sorge nella consapevolezza dell’impossibile universalizzazione dell’etica del mondo borghese. E questa coscienza infelice produce appunto il concetto di comunismo.
In un ottica filosofica hegeliana, il concetto (Begriff) non è in alcun modo un lockiano (e kantiano) contenuto della coscienza, ma è una realtà ancora potenziale che deve realizzarsi concretamente nel mondo reale (Wirklichkeit), per cui possiamo dire che nel giovane Marx il concetto di comunismo deriva direttamente dalla diagnosi precedente dell’alienazione del lavoro nel mondo borghese-capitalistico.
Marx è ovviamente ancora lontano dalla sua posteriore concretizzazione storico-economica del concetto di comunismo (esito della contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive sociali e la natura classista dei rapporti sociali di produzione, formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato alleato con il general intellect, cioè con le stesse potenze produttive sprigionate dalla produzione capitalistica, eccetera), ma da un punto di vista filosofico-concettuale egli vi era già pienamente arrivato a ventisei anni.
E veniamo ora alla sua giovanile critica radicale a Hegel. È chiaro che senza la presa d’atto di una radicale discontinuità con Hegel il materialismo storico marxiano non sarebbe mai potuto nascere, il che fa diventare questa rottura con Hegel inevitabile ed indispensabile, per un insieme di ragioni che qui compendierò in due soltanto. In primo luogo, la teoria della successione dei modi di produzione sociali non può certamente derivare dalla filosofia della storia di Hegel, ma implica una rottura specifica con essa, che Marx un po’ impropriamente definì con il termine di dualismo Struttura/Sovrastruttura con dominanza della struttura. In secondo luogo, la critica radicale all’alienazione del lavoro nel capitalismo riprendeva certamente il tema hegeliano della lotta per il riconoscimento fra Servo e Signore, ma era incompatibile con la sostanziale accettazione del mondo borghese compiuta da Hegel nella sua Filosofia del Diritto (Spirito Oggettivo, Famiglia, Società Civile, Stato, eccetera).
E tuttavia non bisogna prendere dogmaticamente per scontato tutto ciò che Marx afferma di Hegel come se Marx fosse una divinità che ha sempre ragione qualunque cosa dica (cfr. Roberto Fineschi, Marx e Hegel, Carocci, Roma 2006). La critica di Marx alla dialettica della coscienza di Hegel è indubitabile, e senza di essa sarebbe stato impossibile riportare alla lotta contro il lavoro concretamente alienato il tema della necessaria soggettività rivoluzionaria (consigli, classe, partito, eccetera), che ha poi nutrito per più di un secolo l’intera storia del marxismo. Un marxismo depurato dall’imbarazzante lotta di classe, e depurato dall’ancora più imbarazzante comunismo, è oggi propugnato da quello che resta del marxismo universitario, ma si tratta di una congiuntura storica segnata dalla recente restaurazione (cfr. Alain Badiou, Il Secolo, Feltrinelli, Milano 2006), che prima o poi inevitabilmente finirà. Resta il fatto che Marx pensa filosoficamente il comunismo in modo decisamente hegeliano, in quanto prodotto da una antitesi contraddittoria (forze produttive e rapporti di produzione, borghesia e proletariato, eccetera) e concepito come sintesi ideale ( nel linguaggio hegeliano ideale=reale) delle contraddizioni capitalistiche. Non a caso la stessa accusa di sostenere così la fine della storia è stata sollevata (con qualche ragione) sia verso Hegel che verso Marx, e più o meno con gli stessi termini e lo stesso apparato argomentativo.
Ho esposto sinteticamente alcune ragioni che portano a giudicare del tutto attuali (ed attuali perché sostanzialmente ancora irrisolti) i tre nuclei di problemi sollevati da Marx nei Manoscritti. La loro analisi richiederebbe centinaia di pagine analitiche, del tutto incompatibili con una breve introduzione al testo. Vale invece la pena di segnalare alcune cose a proposito della ricezione storica dei Manoscritti da parte della comunità dei pensatori marxisti novecenteschi. Secondo la corretta formulazione di Kant, la filosofia è un campo di battaglia (Kampfplatz), in cui ogni oggettivazione teorica coerente cerca la sovranità assoluta nel proprio regno “ideale”, ed in cui ci possono essere al massimo degli armistizi, ma non certo delle “paci perpetue”. Una guerra di questo tipo c’è per esempio fra il profilo filosofico kantiano ed il profilo filosofico hegeliano, perché non ci può essere pace possibile fra una concezione che pensa la soggettività umana con un’operazione di formalizzazione aprioristica di tipo gnoseologico–trascendentale (Kant) ed una concezione che la pensa al contrario come l’esito sempre provvisorio di un conflitto dialettico fra soggettività opposte (Hegel).
Non possiamo dunque stupirci che da quasi un secolo i Manoscritti siano diventati il pretesto filologico per lo scontro fra due partiti filosofici entrambi riferentesi a Marx, il partito filosofico filo-hegeliano ed il partito filosofico anti-hegeliano. Si tratta spesso di uno scontro di tipo teologico–ideologico, simile per molti aspetti allo scontro fra teologi platonici e teologi aristotelici nel medioevo cristiano e bizantino. In quanto scontro teologico, il pensiero di Marx viene ridotto a Scriptura sacra, ad Auctoritas suprema cui appellarsi per la risoluzione di ogni possibile controversia, e comincia allora lo scontro interminabile per trovare la citazione giusta, quasi sempre decontestualizzata, che dovrebbe risolvere una volta per sempre il contrasto, e non può ovviamente farlo mai, perché le citazioni staccate dal contesto espressivo sono sorde e mute. In quanto scontro ideologico, si può dire di esse ciò che argutamente Terry Eagleton ha scritto dell’ideologia, e cioè che “l’ideologia, come l’alitosi, è qualcosa che appartiene sempre agli altri” (cfr. T. Eagleton, Ideologia, Fazi, Roma 2007). I Manoscritti non potevano quindi sfuggire a questa sorte.
Chi scrive è un ammiratore esplicito dei Manoscritti, e li considera parte integrante del corpus marxiano. Ma è bene segnalare anche le posizioni contrarie del partito anti-hegeliano, che per comodità espositiva dividerò in due parti, e cioè gli anti-hegeliani che con la scusa di liberarsi di Hegel mirano in realtà (e quasi sempre lo dicono anche esplicitamente) a liberarsi anche di Marx, e gli anti-hegeliani che invece ritengono che per poter salvare il “vero” Marx, quello scientifico e non contaminato dall’idealismo, bisogna invece liberarsi di Hegel. Anche se gli argomenti dei due “partiti”sono spesso sorprendentemente simili, è bene ammettere che le loro intenzioni politiche restano opposte. Non potendo entrare nel merito di queste posizioni per ragioni di spazio, il lettore sappia che per quanto riguarda il primo partito anti-hegeliano ho soprattutto in mente Jürgen Habermas (cfr. Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari-Roma 1987), e per il secondo partito anti-hegeliano ho soprattutto in mente Louis Althusser (cfr. Leggere il Capitale, Mimesis, Milano 2006). In entrambi i casi, ovviamente, la valutazione filosofica dei Manoscritti resta il cuore teorico del contendere.
Il partito anti-hegeliano “borghese” riprende contro Hegel-Marx (visti come i due corni dello stesso partito filosofico tardoromantico e tardometafisico dell’alienazione) i vecchi argomenti della corrente neokantiana (Bernstein, Adler, eccetera) che “stroncano” le loro posizioni dialettiche con lo stesso apparato concettuale con cui a suo tempo Kant aveva “stroncato” le pretese conoscitive e normative della metafisica classica. È interessante che Habermas, che pure si definisce un moderno in lotta contro i cosiddetti “postmoderni” (Lyotard, eccetera), usi poi di fatto gli stessi argomenti “antimetafisici” contro Hegel e Marx impiegati dai postmoderni stessi (critica di Lyotard alle “grandi narrazioni”, in cui c’è ovviamente sia la grande narrazione hegeliana sia la grande narrazione marxiana).
Il concetto di alienazione dei Manoscritti è ovviamente nel mirino della critica razionalistico-neokantiana di Habermas, in quanto “indeterminato”, ed in quanto indeterminato non “operativo”. Habermas si rende perfettamente conto che un’accettazione filosofica del concetto marxiano di alienazione comporterebbe automaticamente una critica politica radicale al capitalismo, esattamente quella che non intende fare in alcun modo, soprattutto dopo la sua rottura con i maestri francofortesi Horkheimer e Adorno, di cui ha comunque prudentemente atteso la morte per evitare che potessero prendere decisamente le distanze dalla sua evoluzione (o per meglio dire, dalla sua penosa involuzione).
Nel contesto del nostro discorso introduttivo, apparirà chiaro che la presa di distanza da Marx (attuata dopo un tentativo di “ricostruzione del marxismo” di tipo neokantiano, il che equivale a ricostruire una cattedrale con cartone pressato) gira intorno (e non potrebbe essere diversamente) alla delegittimazione teorica del concetto filosofico di alienazione. In soldini, bisogna che il succo del discorso consista in ciò, che non è vero che il lavoro erogato in condizioni capitalistiche sia alienato, così come non è neppure vero che sia realmente sfruttato (e per negare lo sfruttamento viene ideologicamente mobilitata la famosa trasformazione dei valori in prezzi di produzione, le cui innegabili inesattezze vengono utilizzate in analogia con le inesattezze teoriche delle vecchie prove ontologiche e cosmologiche sull’esistenza di Dio). C’è chi pensa che Dio, da un lato, ed il Comunismo, dall’altro, possano essere fatti “sparire” attraverso un’abile sofistica di tipo gnoseologico, senza rimuovere le ragioni storiche e sociali che in qualche modo legittimano entrambi. Ma chi pensa questo deve essere lasciato stare nel suo delirio gnoseologico, senza dimenticare un cortese inchino di congedo.
Un discorso diverso deve essere fatto per il secondo partito, il partito anti-hegeliano “comunista”. Trascurando qui il partito anti-hegeliano italiano (sviluppatosi con Galvano Della Volpe e poi “suicidato” con un harakiri neokantiano e popperiano da Lucio Colletti), che non se la prese mai particolarmente con i Manoscritti e con il concetto di alienazione, salvo poi scoprire che si trattava di una tarda secolarizzazione hegelo–marxiana di un concetto neoplatonico (Bedeschi, Albanese, collettiani vari), il vero fuoco d’artiglieria contro i Manoscritti ed il concetto di alienazione fu aperto a metà degli anni sessanta dalla scuola francese di Louis Althusser. Vi sono certamente ragioni di tipo “congiunturale” che lo spiegano. Nel dodicennio 1956-1968 (in breve, dal XX congresso del PCUS con relativa destalinizzazione all’entrata a Praga delle truppe del Patto di Varsavia, due date indubbiamente periodizzanti nella storia del movimento comunista internazionale) il successo del concetto di alienazione (Adam Schaff, Roger Garaudy, eccetera), successo che si fondava con tutta evidenza su di un “rilancio” del giovane Marx e della lettura dei Manoscritti, copriva ideologicamente una critica di “destra” al movimento comunista dell’epoca, il quale metteva al primo posto il concetto di alienazione come generico disagio interclassista generalizzato e finiva con il subordinare il concetto di lotta di classe fra capitalisti e proletari. Il contemporaneo sviluppo dell’”eresia” cinese, della diffusione in Europa del pensiero di Mao Tse Tung e della formazione di gruppi politici filocinesi, denominatisi marxisti-leninisti, finì con il fare da amplificatore al pensiero di Althusser.
La critica althusseriana al marxismo filosofico, che si fondava indiscutibilmente sul concetto di alienazione, non deve certo essere buttata via come si butta via il bambino con l’acqua sporca, in quanto a fianco dell’(ingiustificata)eliminazione del concetto di alienazione e della collocazione dei Manoscritti fuori del corpus “scientifico” marxiano (operazione – lo ripeto solennemente – inaccettabile), vi erano anche elementi molto positivi, come l’enfatizzazione della centralità del concetto di modo di produzione, la critica allo storicismo ed all’economicismo, ed infine la critica alle metafisiche grandi-narrative dell’Origine e della Fine della storia.
Non è certo questa la sede per entrare nei dettagli di questa storia, anche perché la scuola althusseriana fra poco compirà cinquant’anni di vita. È invece utile concludere questa breve introduzione con qualche consiglio al giovane lettore dei Manoscritti, che almeno in una cosa è “postumo”, in quanto viene dopo le tempeste ideologiche che hanno investito i Manoscritti di Marx in quanto “incunabolo dell’alienazione”. È bene allora essere informati del dibattito teorico-ideologico dei due partiti filosofici filo-hegeliano ed anti-hegeliano, ma è anche bene accingersi a leggere i Manoscritti con occhi nuovi. In proposito, mi limiterò ad alcune osservazioni largamente problematiche e del tutto prive di “raccomandazioni imperative” (l’espressione fu usata da Althusser a proposito di come aiutare gli operai a leggere il Capitale di Marx senza farsi “scoraggiare” dal suo lessico hegeliano).
In primo luogo, bisogna dire che una lettura (o per i più anziani una rilettura) dei Manoscritti non può che riportarci all’attualità del concetto marxiano di alienazione. Al di là della “dotta archiviazione” di questo concetto presente nelle dossografie filosofiche, appare chiaro che invece Marx ha saputo trattarlo con grande maestria dialettica nei suoi vari aspetti, e per così dire nelle sue “interfacce”. L’alienazione è prima di tutto espropriazione del lavoro umano da parte dei capitalisti, che se ne appropriano, lo sfruttano e rovesciano la sua potenza sociale cristallizzata contro il produttore stesso. L’alienazione è poi distacco del singolo dalla comunità produttiva solidale di cui fa parte, frantumata e scomposta dalla organizzazione capitalistica del lavoro (che più tardi nel Capitolo VI inedito del Capitale Marx ridefinirà in termini di sottomissione reale del lavoro al capitale). L’alienazione è inoltre separazione traumatica dell’uomo dalla sua stessa essenza umana, che è generica per definizione (Gattungswesen), e non può tollerare a lungo senza una degradazione antropologica devastante un suo inserimento unidimensionale nella pura logica riproduttiva del capitale. L’alienazione è infine sfiguramento dello stesso lavoro umano (Arbeit) come forma e modello della prassi trasformativi del mondo operata dall’attività umana (Tätigkeit).
Ma al di là della ricca sfaccettatura del termine di alienazione resta – come ho già rilevato in precedenza – il carattere profondamente unitario, e cioè logico-antropologico, del concetto stesso. L’alienazione concerne l’insieme della produzione capitalistica, ed in questo senso ritengo abbia perfettamente ragione l’economista-filosofo italiano Claudio Napoleoni, morto nel 1988 ed oggi purtroppo quasi dimenticato, per il quale nel capitalismo solo alcuni sono sfruttati (nel senso che solo gli sfruttati all’interno del modo di produzione capitalistico sono oggetto di estorsione di plusvalore assoluto e relativo, estorsione che avviene nella forma feticizzata dell’apparente scambio di equivalenti), mentre tutti sono alienati, in quanto anche la classe dei capitalisti (meglio definibile come la classe funzionale dei funzionari attivi della riproduzione capitalistica) è pur sempre inserita in un meccanismo anonimo ed impersonale di cui non sono in alcun modo i “padroni”.
Questo concetto di “capitalismo assoluto”, di cui i capitalisti sono funzionari subalterni assai più che veri e propri dominatori-decisori, è molto vicino al concetto di Heidegger di Imposizione-Impianto Anonimo (Gestell), frutto della risoluzione storica della lunga vicenda della metafisica occidentale in tecnica planetaria. Al di là del fatto che il concetto heideggeriano di Gestell tecnico possa sovrapporsi ad un concetto di capitalismo in Marx cui viene sottratta la contraddizione (mentre non gli vengono sottratte l’astrazione e la stessa alienazione), non c’è dubbio che la nozione di alienazione resta insostituibile. Al tempo di Marx non esisteva ancora l’attuale lavoro flessibile e precario, la valorizzazione capitalistica non si era ancora estesa mediante la manipolazione pubblicitaria dell’intero “mondo della vita” (Husserl), la famiglia e la sessualità non erano ancora state “liberalizzate”, eccetera, ma ciononostante il raggio sociale del concetto di alienazione da lui disegnato nei Manoscritti resta sempre attuale. In secondo luogo, resta il fatto incontrovertibile che nei Manoscritti c’è la “prova provata” che il ventiseienne Marx si considerava e si “autocertificava” (mi si scusi per questo linguaggio burocratico) come “comunista”. Si tratta di un dato filologico incontestabile, su cui concordano tutte indistintamente le scuole “marxiste”.
Possiamo dichiararci “comunisti” anche noi, in questo inizio del ventunesimo secolo ed addirittura epocalmente del terzo millennio? Ognuno ovviamente risponderà come vuole, e ci metterà tutte le riserve linguistico-politiche che riterrà necessarie. Per quanto mi riguarda risponderò – ad un tempo con cautela e decisione – di sì, aggiungendo che soggettivamente sostengo un’interpretazione comunitaristico-democratica del comunismo unita ad una interpretazione idealistico-filosofica del marxismo.
Ma ciò che conta ovviamente non è ciò che pensa empiricamente la modesta figura dello scrivente. Ciò che conta è che il concetto di comunismo in Marx non venga fatto “implodere” nel giudizio storico che ognuno ha diritto legittimamente di dare sulle vicende e sugli esiti del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917–1991). Alla luce dello stesso pensiero di Marx (non però del Marx dei Manoscritti, ma del Marx posteriore teorico della dinamica dialettica dei modi di produzione sociali) se ne possono dare giudizi diversi, che vanno da un giustificazionismo integrale ad una condanna senza appello. E tuttavia il concetto marxiano di comunismo ha una dimensione ad un tempo storica e metastorica, in quanto interpella non solo la logica dinamico-evolutiva del capitalismo, ma anche il significato della storia universale.
A differenza di Hegel, che limitava la sua filosofia ai concetti storicamente determinati e determinabili nel presente, Marx ritiene di poter parlare di una futura “società comunista”, anche se chiarisce immediatamente di non “voler scrivere ricette per i ristoranti del futuro”, e di non voler lasciarsi andare a previsioni dettagliate come era stato il caso per i cosiddetti “falansteri” di Fourier. Egli ricava il comunismo concettualmente per “differenza specifica” con il capitalismo, e questo lo porta di fatto ad utilizzare una sorta di teologia negativa alla Dionigi l’Areopagita, o se si vuole di dialettica negativa all’Adorno. Certo, Marx non può non parlare di “comunismo”, e lo definisce sia dinamicamente (il comunismo è quel movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti) sia staticamente (il comunismo è quella società in cui ognuno darà secondo la sua capacità e riceverà secondo i suoi bisogni). Si tratta certamente di concetti non sufficientemente determinati, e sarebbe sciocco nasconderlo per ragioni di appartenenza ideologica o di carità di patria. E tuttavia, nonostante alcuni aspetti francamente utopistici (chi scrive – ad esempio – non crede alla teoria della cosiddetta “estinzione dello stato”), sappiamo dalla filologia marxiana che Marx aveva una concezione storica e non soltanto naturalistico–frugale del concetto di “bisogno”, e che intendeva il comunismo non certo come società autoritaria, organicistica e pacificata (da fine della storia, cioè), ma come un momento della progettualità umana sociale concreta (più tardi il vecchio Lukács parlò correttamente di agire “teleologico”, e non certo di esito necessitato di una dialettica della natura). In definitiva, il bilancio del comunismo storico novecentesco falsifica certo popperianamente un certo modo di costruire il socialismo, ma passa largamente a lato del concetto di comunismo che Marx per la prima volta cercò di concretizzare nei suoi Manoscritti giovanili.
In terzo luogo, per finire, i Manoscritti pongono inderogabilmente il problema del profilo filosofico originale di Marx. Qui il discorso si farebbe inevitabilmente lungo (problema della differenza fra la filosofia di Marx e la filosofia di Engels, problema dell’esistenza o meno di una “rottura epistemologica” fra il giovane Marx ed il Marx maturo, problema dell’uso ideologico di legittimazione partitico-statuale del pensiero di Marx, eccetera), ma non è ovviamente questa la sede per parlarne in modo adeguato. Al di là del modo consueto di parlarne (Hegel sì ed Hegel no, dialettica sì e dialettica no, eccetera) il punto cruciale sta in ciò, se il marxismo abbia realmente bisogno di una fondazione filosofica, e sia cioè una vera e propria scienza filosofica nel senso di Fichte e di Hegel oppure sia invece una scienza sociale predittiva in senso positivistico, che in quanto tale è valida anche e soprattutto in assenza di una fondazione filosofica, ritenuta superflua ed addirittura negativa e dannosa in quanto “metafisica”. Chi scrive queste note di introduzione ai Manoscritti è un evidente sostenitore della prima variante, e per di più in forma esplicitamente “estremistica”. Ma i Manoscritti possono e devono essere letti anche da chi non la pensa affatto in questo modo. Ogni generazione filosofica e politica ha diritto alla sua lettura, e che cosa ne possa venir fuori è scritto nello scrigno segreto del futuro.

Costanzo Preve

Questo scritto del filosofo Costanzo Prevecostituisce un’introduzione ai Manoscritti di Marx per una nuova edizione greca degli stessi. È stato pubblicato come Appendice nel libro di Eugenio Orso, Alienazioni e uomo precario, Petite Plaisance, 2011.

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Franco Toscani – Il rapporto etica-politica e il tema dell’amicizia in Aristotele.

Aristotele 012

a Lea e Attilio,
pazienti angeli custodi

  1. Il nesso ineludibile fra etica e politica in Aristotele

Il percorso che qui cerchiamo di proporre sul rapporto fra etica e politica e sul tema della philía in Aristotele non ha programmaticamente nulla di meramente storiografico. La nostra ricognizione parte dalla lucida consapevolezza della crisi devastante dell’etica e della politica nella civiltà odierna e dall’esigenza di ripercorrere criticamente alcuni tratti essenziali della tradizione culturale occidentale per contribuire a porvi rimedio. Ritrovare e tornare a meditare il nesso essenziale fra etica e politica nello Stagirita può servire ad affrontare i nodi più controversi della situazione spirituale del nostro tempo e a riscoprire il senso del bene comune, di ciò che può e deve essere condiviso nella nuova civiltà planetaria che ancora troppo faticosamente e contraddittoriamente intravediamo all’orizzonte.
Nella impossibilità di occuparci qui in modo esaustivo delle problematiche presenti nell’Etica Nicomachea e nella Politica dello Stagirita, del tutto consapevoli della inesauribile ricchezza tematica di queste opere, noi qui tenteremo una lettura selettiva e parziale di esse (con un particolare riferimento alla prima), mirante a mettere in luce alcuni aspetti basilari che possono costituire anche oggi motivo di grande interesse, attenzione e riflessione.
Vi sono per Aristotele tre tipi fondamentali di vita, propri della moltitudine (oi polloí), della vita etico-politica, della vita contemplativa. Sul tipo di vita più diffuso, quello della massa, il giudizio dello Stagirita – espresso nell’Etica Nicomachea con parole che non potrebbero essere per noi più drammaticamente attuali, soprattutto quando accenna alle «passioni di Sardanapalo», il re assiro Assurbanipal del VII sec. a. C. (di cui parla Erodoto), famoso per le sue ricchezze favolose e per la sua vita dissoluta, precursore di tanti nostrani imitatori potenti e prepotenti – è netto e duro: «La moltitudine, dunque, appare del tutto simile a una massa di schiavi, poiché sceglie una vita degna delle bestie; ma trova una giustificazione per il fatto che molti di coloro che coprono cariche direttive sono mossi dalle stesse passioni di Sardanapalo».1
Nel campo etico-politico noi ricerchiamo non per un mero e sterile sapere circa la virtù, ma per diventare buoni, virtuosi e per praticare la saggezza: «nell’ambito della pratica il fine non è contemplare e conoscere ogni singola cosa, ma piuttosto il compierla; e pertanto neppure riguardo alla virtù è sufficiente conoscerla, bensì bisogna tentare di possederla e di metterla in pratica» (Eth. Nic., X, 10, 1179 a 35 – 1179 b 1-4; ECA 489. Cfr. anche Eth. Nic., II, 2, 1103 b 26-29).
Ora, quale rapporto vi è fra etica e politica, sapendo che esse concernono l’uomo come essere capace di agire consapevolmente e liberamente in vista di un fine?2
Sul tipo di vita etico-politica, nell’Etica Nicomachea Aristotele osserva che l’etica non studia cose che «non possono essere diversamente da quelle che sono» e la cui modalità di esistenza è la necessità (ciò è oggetto delle scienze teoretiche), ma le «realtà che possono essere diversamente da quelle che sono», possono «sia essere che non essere» e sono quindi caratterizzate dalla contingenza.3
L’oggetto dello studio dell’etica è il bene umano supremo, il fine che «vogliamo per sé stesso», che è «oggetto della scienza più direttiva e architettonica al sommo grado; e tale è manifestamente la politica» (cfr. Eth. Nic., I, 1, 1094 a 19; 1094 a 26-27; EZA 84-85).
Qui sono in gioco i rapporti umani, che nel loro istituirsi sono etici e si determinano pure in senso politico. Etica e politica mostrano una convergenza fondamentale.
Come ha opportunamente osservato Franco Trabattoni, nel pensiero antico dell’epoca classica non vi è una distinzione netta fra etica e politica; ciò è dovuto probabilmente ad alcuni fattori: «In primo luogo, data la particolare struttura politica in cui era articolato il mondo greco (ossia il sistema delle poleis), il cittadino viveva profondamente immerso nella propria comunità, di cui era parte integrante e spesso attivamente partecipe (in particolare negli stati, come Atene, retti per lunghi periodi dal regime democratico). In questo quadro è ben comprensibile che i comportamenti privati assumessero una valenza pubblica, e che per converso il mondo della politica influisse in modo diretto sulle norme etiche. In secondo luogo, la stessa distinzione tra privato e pubblico, tra la sfera dei rapporti familiari e sociali e quella dei rapporti con le istituzioni, era molto più labile che nel mondo moderno. Infine, i pensatori politici dell’epoca classica, almeno fino ad Aristotele, non percepivano la politica come una attività tecnica dotata di meccanismi e di regole proprie, ma piuttosto come la più alta e completa forma di educazione».4
La dimensione etica, che riguarda in modo più specifico il bene dell’individuo, non può che rinviare ed essere strettamente collegata – pena la ricaduta in un “individualismo” (diremmo con termine moderno) inaccettabile – alla dimensione politica, ossia di un bene non meramente individuale, ma condiviso e condivisibile, comune, pubblico, di tutti. Ecco perché Aristotele scrive: «il bene (agathón) infatti è amabile (agapetón) anche nella dimensione dell’individuo singolo, ma è più bello e più divino (kállion dè kaì theióteron) quando concerne un popolo e delle città. A queste cose tende dunque la trattazione, che è una trattazione di politica» (Eth. Nic., I, 1, 1094 b 8-11; EZA 86-87).
Bene dell’individuo e bene della città sono così per Aristotele indisgiungibili. Abbiamo bisogno delle leggi, delle istituzioni e delle costituzioni statali, perché senza di esse le passioni non possono sottomettersi alla ragione, la massa (ancora oi polloí!) tende a non seguire il lógos, non è possibile alcuna umana convivenza e neppure diventare buoni (cfr. Eth. Nic., X, 10, 1179 b – 1180 a; 1181 b 15-23; EMA 9-10). Come hanno giustamente notato diversi studiosi, sembra che qui assistiamo ad una subordinazione sostanziale dell’etica alla politica. Ma non è così, le cose stanno anzi per noi esattamente al contrario.5
Rileva ad esempio Aristotele: «Studiare il piacere e il dolore compete a chi tratta filosoficamente la politica; questi infatti è architetto del fine (télous architékton), volgendo lo sguardo sul quale diciamo di ogni cosa che è un bene o un male in senso assoluto» (Eth. Nic., VII, 12, 1152 1-3; EZA 682-683). Non il politico, dunque, ma il filosofo politico è «l’architetto del fine» che ha il compito di studiare il piacere e il dolore mirando a stabilire ciò che è bene e ciò che è male in senso essenziale.
Per questi motivi sul rapporto fra etica e politica nello Stagirita concordiamo con ciò che lucidamente scrivono Gauthier e Jolif nella loro monumentale edizione critica dell’Etica Nicomachea: «L’oggetto della morale è il bene supremo dell’individuo; ma, benché essa, a rigore, possa accontentarsi di assicurare questo bene a un solo individuo, preferirà evidentemente assicurarlo a tutti gli individui. Ora, la città non ha altro fine che il bene dell’individuo o, più esattamente – ma ciò non fa alcuna differenza –, la somma dei beni individuali. Dunque la morale, per il fatto stesso che determina il bene dell’individuo, è la politica nel senso forte della parola, la politica architettonica che detta alla città il suo fine; in altri termini, la vera politica è la morale. Il perno di tutta questa argomentazione è l’affermazione dell’identità tra il bene dell’individuo e il bene della città; è l’affermazione di questa identità […] che permette ad Aristotele […] di subordinare la società all’individuo, del quale essa persegue i fini, e della politica alla morale, che ad essa fornisce il fine».6

  1. L’essenza della politica in Aristotele

Per lo Stagirita, l’uomo è un politikòn zôon (animale politico) che non può vivere isolatamente ed è definito essenzialmente dal suo vivere insieme agli altri: «politikòn gàr o ánthropos kài syzên pephykós» («l’uomo, infatti, è un essere sociale e portato per natura a vivere insieme con gli altri»).7
Riprendendo esplicitamente questa impostazione di Aristotele, a distanza di molti secoli Marx scriverà nella sua Einleitung zur Kritik der politischen Oekonomie (1857): «L’uomo è nel senso più letterale uno zôon politikón, non soltanto un animale sociale, ma un animale che solo nella società riesce ad isolarsi».8
La politica è la anthrópeia philosophía (filosofia delle cose umane) che ha di mira il bene supremo dell’uomo, la sua felicità (eudaimonía), ossia il bene «più compiuto» (con cui si perviene all’autárkeia, autosufficienza da intendere appunto in senso politico; perfezione e autosufficienza sono caratteristiche fondamentali del bene anche per Platone, Filebo 20 d), perché è il bene che realizza il proprio fine (télos) nel massimo grado e non cerchiamo di perseguirlo in vista di altro, ma per sé stesso (cfr. Eth. Nic., X, 10, 1181 b 16; ECA 495; Eth. Nic., I, 5, 1097 a 25-b 22; EZA 102-107; Pol., VII, 5, 1326 b 28-32; PLA 232; Pol., I, 2, 1253 a 2; PLA 6). Che cosa infatti si può volere di più, oltre che essere felici, realizzando la finalità interna alla propria natura?
Essendo la politica la scienza «più direttiva e architettonica al sommo grado» e avendo come fine il bene propriamente umano, il suo fine abbraccerà anche quello di tutte le altre scienze e tecniche (cfr. Eth. Nic., I, 1, 1094 a 22- 1094 b 11).
Se ogni pólis è una comunità che si costituisce in vista del bene comune, il politikós dovrà sempre agire di conseguenza, con un’autorità che si esercita su liberi ed eguali. Il vero uomo di stato non deve dominare (árchein), tiranneggiare o far violenza sui cittadini, ma esercitare il potere secondo giustizia e legalità (cfr. Pol., VII, 2, 1324 b 27-29; PLA 226). Nella realtà storica spesso accade invece che i potenti, «per i proventi che si traggono dai beni comuni e dalla carica, vogliono restare al potere ininterrottamente», mirando a formare delle costituzioni «pervase da spirito di dispotismo, mentre lo stato è comunità di liberi» (cfr. Pol., III, 6, 1279 a 14-22; PLA 83-84).
Quando l’uomo è perfetto è la migliore delle creature, ma è la peggiore fra tutte senza la virtù della giustizia (la dikaiosýne che regge lo stato) e senza il diritto (díke) che ordina la comunità sociale (cfr. Pol., I, 2, 1253 a 30-40; PLA 7; Pol., I, 7, 1255 b 21; PLA 14).
Mostrando insieme le affinità e le differenze con l’impostazione di Platone, all’inizio del II libro della Politica Aristotele osserva che per ricercare la migliore comunità politica occorre studiare tutte le costituzioni, «sia quelle vigenti in alcuni stati, di cui si dice che sono ben governati, sia talune altre esposte da certi pensatori e che hanno fama di essere buone, affinché si scorga quel che v’è di giusto e di utile e insieme non sembri dovuta solo a desiderio di cavillare a ogni costo la ricerca di qualche altra forma diversa da quelle, ma risulti anzi che abbiamo intrapreso quest’indagine proprio perché quelle ora esistenti non vanno bene» (Pol., II, 1260 b 29-35; PLA 31).
Essendo per natura gli uomini animali socievoli, «anche se non hanno bisogno d’aiuto reciproco, desiderano non di meno vivere insieme: non solo, ma pure l’interesse comune li raccoglie, in rapporto alla parte di benessere che ciascuno ne trae. Ed è proprio questo il fine e di tutti in comune e di ciascuno in particolare: ma essi si riuniscono anche per il semplice scopo di vivere e per questo stringono la comunità statale. C’è senza dubbio un elemento di bellezza nel vivere, anche considerato in sé stesso, a meno che non sia gravato oltre misura dai mali dell’esistenza. È chiaro del resto che i più degli uomini sopportano molte avversità perché attaccati alla vita, come se racchiudesse in sé stessa una qualche gioia e dolcezza naturale» (Pol., III, 6, 1278 b 21-31; PLA 82; cfr. anche Eth. Nic., IX, 9, 1270 a 20-1270 b 13). Il discorso circa la dolcezza del vivere e la bellezza della vita vale per lo Stagirita su tutti i piani, sul piano del vissuto individuale e sul piano dell’esistenza collettiva, su quello della philía e su quello della politica.
Più volte Aristotele nella Politica parla dell’esigenza di una «costituzione migliore», alla quale mira pure lui, benché in modo diverso da Platone. Le virtù dominanti nello stato migliore sono le stesse di quelle nominate da Platone nella Repubblica (Resp. IV, 427 e), ossia sapienza, coraggio, temperanza e giustizia, con la sola differenza significativa che Aristotele chiama phrónesis ciò che Platone chiama sophía (cfr. Pol., VII, 1, 1323 a 27-29; PLA 221).
Pure molto platonico è l’invito a non trascurare la necessità dell’educazione allo spirito della costituzione e alla coscienza del valore delle leggi (cfr. Pol., V, 9, 1310 a 13-19; PLA 179-180).9 Così come quello rivolto a concepire lo stato migliore in relazione al primato dell’anima sulle cose e sugli averi, non al primato delle cose e degli averi sull’anima (cfr. Pol., VII, 1, 1323 b 8-37; PLA 222-223).
Ma giustamente è stato da più parti notato che, nel modo in cui nel V libro della Politica lo Stagirita parla di come le tirannidi mantengono il potere, egli manifesta una concretezza, uno spirito realistico e una lucida coscienza della realtà politica che anticipano e ricordano molto da vicino Machiavelli. Lucidità e realismo che risaltano anche nell’osservazione secondo cui «i diversi popoli vanno a caccia della felicità in modo differente e con mezzi differenti, si costruiscono modi di vita diversi e costituzioni diverse» (Pol., VII, 8, 1328 a 41-1328 b 1; PLA 237).

  1. La felicità della «vita compiuta». Il nesso fra piacere, attività e virtù in Aristotele

Nella Politica Aristotele istituisce un nesso molto stretto tra felicità umana, virtù e politicità. La migliore costituzione è finalizzata alla felicità umana, che non è un semplice habitus, una éxis (disposizione), ma è «perfetta attività e pratica di virtù», «realizzazione e pratica perfetta di virtù» ( cfr. Pol., VII, 13, 1332 a 10; PLA 248; Pol., VII, 8, 1328 a 38; PLA 237; Eth. Nic., X, 6, 1176 a 33-34).
Nell’Etica Nicomachea, in piena consonanza con queste affermazioni, leggiamo che «il bene umano consiste in un’attività dell’anima secondo virtù» (tò anthrópinon agathón psychês enérgeia gínetai kat’aretén. Eth. Nic., I, 6, 1098 a 16-17; EZA 108-109) o che la felicità (eudaimonía) consiste nell’esercizio concreto della ragione, nell’«attività dell’anima conforme a virtù» (Eth. Nic., I, 10, 1099 b 26; EZA 120-121; X, 7, 1177 a 12; EZA 860-861), nell’uso (chrêsis) della «virtù perfetta» (teleía areté. Cfr. Eth. Nic., V, 3, 1129 b 30-31; EZA 326-327) per una vita compiuta.
Ogni essere segue la propria natura, realizza la finalità interna alla propria natura, la propria entelécheia. La perfezione/compiutezza di una vita è il bene supremo dell’uomo e di «vita compiuta» (bíos teleíos) parla esplicitamente Aristotele allorché scrive che «una rondine non fa primavera» e a proposito di una vita non caratterizzata dalla episodicità, ma sorretta costantemente, giorno dopo giorno, dall’impegno della ragione e della buona volontà (cfr. Eth. Nic., I, 6, 1098 a 18-19; EZA 108-109).
Il termine kalokagathía – così importante non solo per il nostro autore, ma per tutta la cultura greca – esprime tale compiutezza e compare due volte nell’Etica Nicomachea, una volta alla fine dell’opera (cfr. Eth. Nic., X, 10, 1179 b 10) e un’altra allorché si tratta della megalopsychía (magnanimità). Qui (cfr. Eth. Nic., IV, 7, 1124 a 3-4) lo Stagirita rileva che non si può essere magnanimi senza la kalokagathía, parola di difficile traduzione che indica la bellezza morale, la perfezione della virtù, un’idea unitaria di perfezione che comprende in modo strettamente congiunto la bellezza e la bontà.
Il fine di tutte le azioni che si compiono è il «bene realizzabile nella prassi» (tò praktòn agathón, Eth. Nic., I, 5, 1097 a 23; EZA 102-103).
Mentre in Platone il bene (tò agathón) è la suprema fra le idee e la realtà umana è orientata verso di esso senza mai poterlo attingere pienamente, per Aristotele (che non manca di fare dell’ironia sul «bene in sé» di Platone e dei platonici, cfr. Eth. Nic., VIII, 7, 1158 a 24-25)10 il bene umano autentico, il «più compiuto» ( teleiótaton) va concretamente vissuto e praticato, è attuabile, consiste nel fine che si vuole di per sé stesso e non in vista di altro, ossia nella felicità (cfr. Eth. Nic., I, 5, 1097 a 25-1097 b 1; EZA 102-105), la quale non si risolve in una vita spesa all’inseguimento incessante e affannoso di piaceri, lucro, onori, ricchezze, poteri.
Contrariamente all’opinione dominante, la ricchezza, in particolare, non può essere altro che un mezzo e non può dare da sola la felicità, la quale ha certamente bisogno di beni esteriori e di mezzi, di condizioni strumentali favorevoli, ma non va confusa con essi.
Identificata la felicità col bene supremo, non è però ancora chiaro in che cosa essa consista; otteniamo una maggiore chiarezza se rispondiamo alla domanda difficile circa la funzione (érgon) specifica dell’uomo, che Aristotele, recuperando criticamente la concezione socratico-platonica dell’essenza dell’uomo come anima razionale, ravvisa nella capacità di pensare e di agire secondo ragione (cfr. Eth. Nic., I, 6, 1097 b 22-1098 a 20).
La eudaimonía non può darsi senza virtù come la moderazione (sophrosýne) e il coraggio (andreía), che non necessitano di eccesso o difetto, ma della mesótes, del giusto mezzo, della via di mezzo che non significa in alcun modo mediocrità. Anzi, la mesótes, sapendo evitare ciò che ci danneggia in un senso o in un altro, per eccesso o per difetto, rappresenta un vertice di perfezione e di eccellenza (tò áriston. Cfr. Eth. Nic., II, 6, 1107 a 7-8; EZA 166-167; Eth. Nic., II, 6, 1106 b 16-23; EZA 164-165).
Vedremo più avanti come la teleía eudaimonía (felicità perfetta) vada per Aristotele al di là dei confini dell’etica. Per il momento, soffermiamoci ancora sul fatto che la felicità per lo Stagirita implica il piacere (egli fa derivare makários, beato, da mála chaírein, gioire molto) e che il filosofo politico, come «architetto del fine», ha il compito di indagare di ogni cosa ciò che è bene e ciò che è male in senso assoluto, nella consapevolezza che la virtù e il vizio concernono i piaceri e i dolori (cfr. Eth. Nic., VII, 12, 1152 b 1-7; ECA 393-394).
Come ha messo bene in luce Claudio Mazzarelli, circa il tema del piacere nell’Etica Nicomachea (cui sono dedicati i capitoli 11-14 del libro VII e i capitoli 1-5 del libro X), Aristotele deve molto al Platone del Filebo, «non solo nella impostazione dei problemi, ma, talora, anche nelle soluzioni».11
Non possiamo qui addentrarci nei complessi riferimenti (oltre ovviamente a Platone, si pensi ad esempio alle tesi sul piacere di Aristippo, Eudosso, Antistene, Speusippo) e nelle mille sottigliezze del pensiero aristotelico nel merito della questione.
Limitiamoci allora a dire che per lo Stagirita piacere e dolore investono l’etica in quanto accompagnano costantemente la nostra vita e pesano fortemente sulla virtù e sulla vita felice. In qualsiasi campo coloro che operano con piacere pervengono a migliori risultati. Platone e Aristotele non condividono però la convinzione propria della teoria edonistica secondo cui tutti i piaceri hanno una natura identica e quindi sono tutti buoni (cfr. Platone, Filebo, 12 d-e; 13 c).
I due grandi filosofi sottolineano la diversità dei piaceri, diversità che secondo Platone è di natura ontologica, secondo Aristotele di natura etica. Per quest’ultimo i piaceri non sono tutti uguali e tutti buoni, perché alcuni alimentano l’attività, altri la ostacolano; essi sono buoni o cattivi per il fatto di conseguire a un’attività virtuosa o viziosa (cfr. Eth. Nic., X, 5, 1175 b 24-28; EZA 852-853; cfr. anche le note 2, 8 e 10 del commento di Zanatta, EZA 1095-1096).
Vi è un peculiare “edonismo” di Aristotele, un vivo senso del piacere, mai legato a sfrenatezze ed eccessi, del tutto lontano da ogni edonismo esasperato ed estenuato. L’uomo moderato e saggio (o sóphron) gioisce secondo la «retta regola» (orthós lógos. Cfr. Eth. Nic., III, 14, 1119 a 20).
I piaceri sani e genuini della vita sono attività (enérgeia) «non impedita», liberamente esercitata e fine (télos), corrispondono all’uso appropriato della vita: «I piaceri, infatti, non sono un divenire né si accompagnano tutti a un divenire ma sono attività e fine; e non si hanno nel corso del divenire, ma dell’uso; e non di tutti i piaceri il fine è qualcosa di diverso da essi, ma lo è quello dei piaceri di coloro che sono ricondotti alla perfezione della loro natura» (cfr. Eth. Nic., VII, 13, 1153 a 9-15; ECA 396; cfr. anche Pol., IV, 11, 1295 a 36-37; PLA 135).
Il piacere è un elemento di perfezionamento dell’attività conforme a natura; esso accompagna necessariamente ogni attività che venga esercitata secondo la sua propria natura, anzi si risolve in questa stessa attività, nell’esercizio della virtù: «Il piacere rende perfetta l’attività (teleioî dè tèn enérgeian e edoné). […] Il piacere perfeziona […] l’attività non come la perfeziona la disposizione immanente, ma come una sorta di fine che viene ad aggiungersi in sovrappiù, come ad esempio a coloro che sono nel vigore dell’età (akmaíois) si aggiunge la bellezza» (cfr. Eth. Nic., X, 4, 1174 b 23, 31-33; EZA 844-847).
Tutti i viventi, a partire dalla tensione vitale che li caratterizza, dalla tendenza naturale alla soddisfazione, desiderano il piacere. Non è umana l’insensibilità (anaisthesía) ai piaceri: «Persone che peccano per difetto in quel che concerne i piaceri e che si dilettano meno di quel che si deve non esistono proprio: infatti non è umana una tale insensibilità» (Eth. Nic., III, 14, 1119 a 5-7; EZA 246-249; cfr. anche Eth. Nic., II, 7, 1107 b 6-8).
Chiarire interamente il rapporto fra vita e piacere è possibile solo fino a un certo punto, ma il nesso stretto fra di essi è indubbio: «Se sia il piacere la causa per la quale scegliamo il vivere, o se sia il vivere la causa per la quale scegliamo il piacere, tralasciamo in questo momento. Vita e piacere sono infatti, in tutta evidenza, strettamente connessi e non ne è possibile una separazione, giacché senza attività non vi è piacere ed il piacere rende perfetta ogni attività» (Eth. Nic., X, 5, 1175 a 18-21; EZA 848-849).12

  1. Più di tutto l’oro di Dario. Necessità e bellezza della philía in Aristotele

 Per una vita felice e davvero degna dell’uomo non bastano i beni materiali, le ricchezze, gli onori, la fama, i poteri. Per le persone felici e virtuose occorrono gli amici che, nel loro essere altrettanto virtuosi, risultano anche piacevoli e utili (cfr. Eth. Nic., VIII, 7, 1158 a 22-28, 33-34).
In piena linea di continuità con queste posizioni dello Stagirita appare l’alta consapevolezza del valore dell’amicizia che ebbe nel secolo dei Lumi Gotthold Ephraim Lessing, ad esempio nel primo dialogo di Ernst und Falk. Gespräche für Freimäuer (1778-1780): «Nichts geht über das Lautdenken mit einem Freunde» («Nulla vale più del pensare ad alta voce con un amico»).13
Aristotele dedica al tema dell’amicizia (philía) gli splendidi e inesauribili libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea. Lucia Caiani pone un’avvertenza essenziale alla traduzione italiana del greco philía con amicizia: «Il termine greco philía ha un valore semantico più estensivo dell’italiano ‘amicizia’, con il quale l’abbiamo tradotto, ed esprime i sentimenti di affetto, di amore, di benevolenza verso gli altri; ossia (per usare una frase del Tricot…) ‘ c’est en somme l’altruisme, la sociabilité’. In connessione con philía troviamo l’aggettivo phílos, che può avere valore sia attivo che passivo ed indica tanto ‘colui che ama’ quanto ‘colui che è a sua volta amato’ (cfr. in proposito la definizione di Rhet., II, 4, 1381 a 1: phílos …estìn o philôn kaì antiphiloúmenos ‘amico…è colui che ama e che è a sua volta amato’)».14
In qualsiasi modo cerchiamo di definire l’amicizia, sappiamo che ogni definizione di essa non può che essere provvisoria, problematica e aperta, perché – come scrive Siegfried Kracauer in Ueber die Freundschaft (1917-1918) – essa presenta una «ricchezza insofferente del misero recipiente di una parola».15
Tenendo presente che per Aristotele la virtù (areté) è una éxis proairetiké (disposizione alla scelta), l’amicizia assomiglia a una disposizione (éxis) che, a differenza della passione (páthos), si accompagna ad una scelta deliberata (proaíresis. Cfr. Eth. Nic., II, 6, 1106 b 36; VI, 2, 1139 a 22-23; VIII, 7, 1157 b 28-31).
Lo Stagirita sottolinea a più riprese la necessità e la bellezza dell’amicizia (cfr. ad es. Eth. Nic., VIII, 1, 1155 a 4-6, 28-31; EZA 702-705), la quale si realizza meglio (si vedano i capitoli 12-13 del libro VIII dell’Etica Nicomachea) in una comunità politica, quando vi è qualcosa in comune da vivere, condividendo beni e interessi.
Il nesso qui istituito fra amicizia e politica, fra amicizia e giustizia è molto forte. Benevolenza (eúnoia, a cui è dedicato il capitolo 5 del libro IX) e concordia (omónoia, a cui è dedicato il capitolo 6 del libro IX) sembrano il punto di partenza dell’amicizia, ne preparano il terreno, ma non sono da confondere con essa, perché valgono soprattutto sul terreno sociale-politico.
La benevolenza non è da confondere con la phílesis (l’affetto), perché manca della tensione e del desiderio propri di essa, sorge anche per gli sconosciuti e manca dell’intensità propria della philía, della quale è però la condizione imprescindibile; la concordia sussiste fra i cittadini virtuosi non rivolti alla difesa dei meri vantaggi personali, è simile all’amicizia e si avvicina ad essa, ma è solo una «amicizia politica» (politiké philía), avente per oggetto gli interessi comuni dei cittadini e tutto ciò che riguarda la vita della pólis.16
Lo Stagirita non assume mai una posizione ingenuamente ottimistica, anzi mostra sempre notevole realismo e lucidità nel riconoscere che innumerevoli sono i mali e i dolori che tormentano la vita degli uomini, nel precisare che la maggior parte dei mortali preferisce ricevere benefici, ma si guarda bene dal compierne, «è priva di memoria e tende a ricevere il bene piuttosto che a farlo» (cfr. Eth. Nic., VIII, 16, 1163 b 28-29; IX, 7, 1167 b 26-27).
Il capitolo 2 del libro VIII dell’Etica Nicomachea prende l’avvio con un riferimento al Liside, il dialogo in cui Platone mette in bocca a Socrate l’affermazione secondo cui l’amicizia è da preferire a tutto l’oro di Dario (cfr. Liside, 211e-212 a). Aristotele riprende esplicitamente dal Platone del Liside la questione se l’amicizia sia fondata sulla somiglianza o sulla dissomiglianza degli amici. A questo proposito sia Platone sia Aristotele citano un celebre verso di Omero: «sempre il dio mena il simile al suo simile» (Odissea, XVII, 218).
Com’è noto, la conclusione del Liside (cfr. Liside, 222 d-223 b) ribadisce da un lato il valore dell’amicizia e dall’altro l’incapacità di trovare una soddisfacente definizione di essa. Forse uno dei motivi delle impasses del Liside consiste nel fatto che il suo autore non coglie – tale aspetto, peraltro, non verrà colto, mi sembra, nemmeno dallo stesso Stagirita in seguito – il valore dell’amicizia nella ricchezza della differenza capace di veicolare la reciprocità dell’affetto, della stima e della necessità degli amici. Dagli interrogativi e dai punti irrisolti del Liside riparte comunque Aristotele, pervenendo – diciamolo subito – alla conclusione che l’amicizia è fondata sulla somiglianza degli amici nella virtù.
E’ importante per lo Stagirita stabilire che cosa è tò philetón, ossia ciò che è amabile, è oggetto o suscettibile di amicizia, ciò per cui si ama quello che viene amato. In linea di principio, amabile, attraverso la mutua benevolentia e l’intimità degli amici, è il bene (tò agathón) e solo esso, ma di fatto gli uomini amano ciò che a essi sembra bene, «un amabile apparente» (tò philetón phainómenon. Cfr. Eth. Nic., VIII, 2, 1155 b 26-27; EZA 708-709).

  1. Le forme dell’amicizia secondo Aristotele e la teleía philía

Nelle tre principali forme che secondo Aristotele assume l’amicizia – secondo l’utile, secondo il piacere e secondo il bene o la virtù –, gli uomini amano ciò che ad essi sembra amabile, l’«amabile apparente».
Qui va sottolineato che questa celebre distinzione aristotelica tra le forme essenziali della philía (cfr. Eth. Nic., VIII, 3) ha molto da dirci anche oggi, se ad esempio pensiamo al fatto che l’amicizia secondo l’utile mostra un evidente filo di continuità con la ratio strumentale calcolante imperante nella civiltà moderna e contemporanea, non solo nell’ideologia borghese-capitalistica, liberista o neo-liberista che sia. Inoltre, l’amicizia secondo il piacere può essere facilmente collegata all’edonismo superficiale e disinvolto della società sirenico-spettacolare odierna, in cui trova sicuramente un suo forte revival.
Nelle amicizie secondo l’utile e secondo il piacere, l’amico – o, sarebbe meglio dire, il cosiddetto amico – non viene amato per quello che è in sé stesso, ma, appunto, per l’utile o per il piacere che procura, perciò esse sono accidentali (katà symbebekós, cfr. Eth. Nic., VIII, 3, 1156 a 14-19; VIII, 4, 1156 b 10-11; VIII, 6, 1157 b 1-5)17 e spesso effimere, non durature e sostanziali.
L’amicizia perfetta (teleía philía) è quella di coloro che sono buoni e simili nella virtù, è quella del tutto priva di invidia,18 in cui si ama l’amico per sé stesso: «L’amicizia dei buoni, vale a dire di coloro che sono simili in virtù, è perfetta. Questi infatti, in quanto buoni, vogliono in ugual modo l’uno ciò che è bene per l’altro, e buoni essi sono di per sé stessi» (Teleía d’estìn e tôn agathôn philía kaì kat’aretèn omoíon. Oûtoi gàr tagathà omoíos boúlontai allélois e agathoí, agathoì d’eisì kath’autoús. Eth. Nic., VIII, 4, 1156 b 7-9; EZA 712-713).19
La somiglianza degli amici nella virtù non li rende identici e indistinguibili come due gocce d’acqua, ma salvaguarda la fruttuosa differenza tra di essi. L’amicizia perfetta – in cui gli amici si accettano e si amano per quello che sono, così come sono – è duratura (almeno sino a quando i buoni rimangono tali; la virtù di solito è durevole, non capricciosa), massimamente utile e piacevole, ma pure molto rara (pochi infatti sono sempre i veri amici) e bisognosa di tempo (le persone non si conoscono bene in poco tempo e con una scarsa frequentazione) per realizzarsi e consolidarsi.
Il realismo e la lucidità di Aristotele qui avvertono che non «è possibile accogliere qualcuno nella propria amicizia né essere amici prima che ciascuno si sia mostrato amabile all’altro ed abbia ottenuto fiducia. Coloro che instaurano rapidamente tra loro i vincoli dell’amicizia, vogliono essere amici, ma non lo sono se non sono anche degni d’amore e lo sanno. Infatti il desiderio di amicizia sorge rapidamente, ma l’amicizia no» (Boúlesis mèn gàr tacheîa philías gínetai, philía d’oú. Eth. Nic., VIII, 4, 1156 b 28-32; EZA 714-717).
La philía degli agathoí non è katà symbebekós, tende a essere più solida e stabile, perché si ama l’altro innanzitutto per quello che egli è e non per quello che ci può dare in termini di utilità e piacere.
I buoni, «amando l’amico, amano ciò che è bene per loro stessi, giacché l’uomo buono, diventando amico, diventa un bene per colui al quale è amico» (Eth. Nic., VIII, 7, 1157 b 33-34; EZA 722-723).
Tali individui – rileva ancora Kracauer – «sono simili alla pietra di luna, nella quale affiorano sempre più colori man mano che lo sguardo vi si immerge. In loro è insita una profondità che non si può attingere con le parole, e ogni persona che entra in contatto con loro percepisce – spesso in un sorriso o in una parola densa di richiami – la ricchezza della loro natura».20
La forma migliore di amicizia, fondata sul bene o sulla virtù, sancisce il primato del rispetto e della fiducia, del dialogo (cfr. Eth. Nic., VIII, 6, 1157 b 11-13) e dell’intimità, del vivere insieme (tò syzên) e dell’essere, dell’affetto e dell’intenzione, della reciproca benevolenza e della libera comunicazione sull’avere, sul calcolo, sull’utile, sul vantaggio, sul divertimento, sul piacere, tutti aspetti, peraltro, che almeno parzialmente sono o possono essere presenti anche in ogni vera amicizia, ma in modo secondario.
Secondo Giorgio Agamben, il convivere proprio dell’amicizia è definito «da una condivisione puramente esistenziale e, per così dire, senza oggetto: l’amicizia, come con-sentimento del puro fatto di essere. Gli amici non condividono qualcosa (una nascita, una legge, un luogo, un gusto): essi sono con-divisi dall’esperienza dell’amicizia. L’amicizia è la condivisione che precede ogni divisione, perché ciò che ha da spartire è il fatto stesso di esistere, la vita stessa. Ed è questa spartizione senza oggetto, questo con-sentire originale che costituisce la politica».21
L’amicizia autentica non è di natura puramente oblativa né puramente ricettiva, non è mero éros né mera agápe, né mero dono né mero desiderio, ma è un insieme di dono e desiderio, dare e ricevere, un rapporto libero dal dominio e dalla costrizione.
Rilevano a questo proposito Gauthier e Jolif: «Il virtuoso, precisamente perché è virtuoso e perché amare fa parte della virtù, non potrà essere amico di un uomo meno virtuoso di lui, giacché non potrebbe amarlo nella stessa misura in cui è amato, ma potrà essere amico soltanto di un uomo virtuoso come lui, che egli amerà così come ama sé stesso. Aristotele non ha neppure supposto l’esistenza dell’amore-agápe. Se l’egocentrismo dell’éros si trova, nella sua concezione della philía, un poco corretto, questo non è per un annuncio, sia pur lontano, dell’agápe, ma esclusivamente per l’esigenza di reciprocità che vi è inclusa. La philía non è dono gratuito, non si tratta di donare senza ricevere; ma essa non è neppure puro desiderio, non riceve senza donare: misto di dono e di desiderio, essa ricambia ciò che riceve, ed è per questo che non è né, come l’éros, l’amore dell’inferiore per il superiore, né, come l’agápe, l’amore del superiore per l’inferiore, ma, propriamente parlando, l’amore dell’uguale per l’uguale, amore disinteressato nel senso che non richiede come prezzo del suo amore stesso che dell’amore, ma che non è per nulla meno uno scambio, giacché lo scambio per Aristotele è della stessa natura dell’amicizia».22
L’amicizia virtuosa è disinteressata e duratura perché qui gli amici amano i loro caratteri, il loro êthos, si amano l’un l’altro per sé stessi, per la loro personalità e non in vista di altro (cfr. Eth. Nic., IX, 1, 1164 a 10-13). Il buono non solo vuole, ma agisce concretamente per il proprio bene e per il bene dell’amico.

  1. La philía tra egoismo e altruismo

Nel capitolo 4 del libro IX dell’Etica Nicomachea Aristotele avvia l’analisi di quelli che chiama tà philiká, i tratti caratterizzanti l’amicizia dell’uomo virtuoso (o epieikés oppure o agathós). I philiká sono cinque, rivolti pròs éteron («verso l’altro») e altrettanti rivolti pròs eautón («verso sé stesso»).
Il virtuoso vuole infatti fare del bene all’amico e a sé stesso, augura una lunga vita all’amico e a sé stesso, ama vivere in compagnia dell’amico e di sé stesso, condivide le opinioni e i gusti con gli amici, sperimenta gioie e dolori con l’amico e sulla propria pelle (sui philiká cfr. tra l’altro ECA 443, nota 35; EZA 1047-1049). Per lo Stagirita c’è una corrispondenza tra i sentimenti d’amicizia che l’uomo virtuoso prova verso sé stesso e i sentimenti di amicizia che prova verso gli altri.
Il discorso aristotelico sulla philía ci aiuta ancor oggi a gettar nuova luce sulle controverse questioni concernenti l’egoismo e l’altruismo. Abbiamo già osservato che l’amicizia autentica non è affatto invidiosa e comporta anzi la volontà di fare ciò che è bene per l’amico (cfr. Eth. Nic., VIII, 2, 1155 b 31), senza però dimenticare che autô gàr málisth’ékastos boúletai tagathá («è soprattutto per sé stesso che ciascuno vuole ciò che è bene», Eth. Nic., VIII, 9, 1159 a 12; EZA 732-733; cfr. anche Eth. Nic., IX, 8). Questo stesso bene che riserva a sé stesso, il virtuoso lo riserva anche all’amico, ésti gàr o phílos állos autós (giacché l’amico è un altro sé stesso. Cfr. Eth. Nic., IX, 4, 1166 a 31-32; EZA 784-785; IX, 9, 1169 b 6-7; IX, 9, 1170 b 6-7).
E’ questa la fondamentale dimensione egoistica della philía aristotelica, sottolineata anche da studiosi come il Tricot – per il quale la philía si fonda sull’egoismo dell’uomo virtuoso che si confonde con l’altruismo (infatti o agathós «nei rapporti con l’amico sta come nei rapporti con sé stesso», pròs dè tòn phílon échein ósper pròs autón, Eth. Nic., IX, 4, 1166 a 30-31; EZA 784-785) – e come il Robin – per il quale il luogo sorgivo dell’altruismo nell’Etica Nicomachea è l’egoismo del buono che si estende fuori di sé con una sorta di «irraggiamento».23
Si tratta qui di un egoismo ben diverso dall’egoismo meschino e miope, perché l’egoismo del virtuoso (su cui si veda fra l’altro l’«Introduzione» di Marcello Zanatta, cfr. EZA 66-67)24 corrisponde all’amore bene inteso di sé, che vuole trasferire e proiettare il sano e necessario amore di sé anche all’altro e assume quindi i tratti dell’altruismo. Il vero amico è quello del phílautos che coltiva i sentimenti d’amicizia (i philiká) con gli altri a partire dal rapporto che ha con sé stesso, dall’amore sacrosanto e ineludibile di sé (cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1168 b 1-10). L’egoismo più diffuso, quello biasimevole e meschino della moltitudine, è di chi antepone sempre e comunque i propri interessi a tutto il resto, mirando solo ad accumulare quanti più onori, ricchezze, poteri, piaceri corporei possibili.
L’egoismo sano del phílautos – come lo definirà anche Nietzsche in Also sprach Zarathustra (1883-1885), differenziandolo da quello «malato» – asseconda il suo vero sé, ama e coltiva la parte migliore di sé (tò kyriótaton, ossia il noûs. Cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1168 b 30), non è akratés («che non si domina»), ma enkratés («temperante», inteso come «colui che domina su di sé», cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1168 b 34-35), sa padroneggiare e controllare le sue passioni, presuppone un profondo dialogo interiore di sé con sé stesso, ricerca la bellezza morale (tò kalón), la stima in sé e negli altri, soppesa i veri grandi beni dell’esistenza, coltiva saggezza, senso della misura e del limite, uso della ragione.
Tale egoismo del virtuoso non costituisce un impedimento al rapporto con gli altri e un motivo di conflitto, ma, al contrario, agisce anche a loro vantaggio, si confonde con l’altruismo, è l’unica via per incontrare davvero l’altro. Uno splendido detto del buddhismo appare in grande consonanza con tutto ciò: «badando a sé stessi si bada agli altri, badando agli altri si bada a sé stessi».25
I veri amici sono phílautoi (egoisti o «amanti di sé»), nel senso che non fanno nulla che prescinda da sé stessi: essi vogliono e fanno il bene dei loro amici a partire da sé stessi, dal giusto e necessario amore che hanno per sé stessi.
L’uomo virtuoso ha addirittura il dovere di essere phílautos nel senso che abbiamo chiarito, perché in tal modo, sviluppando appieno le proprie potenzialità, qualità, capacità ed energie, gioverà a sé stesso compiendo belle azioni e sarà nel contempo generoso, utile agli altri, sino al punto di sacrificare talvolta la vita – se necessario – per il bene comune (cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1169 a 3-20).
Sicuramente la vicinanza interiore, il dialogo fecondo, la confidenza intima, la partecipazione profonda caratterizzano questa modalità di philía. Gli esiti positivi dell’agire dei phílautoi si riscontrano sia nella sfera privata sia nella comunità, nel campo dell’agire sociale e pubblico. Delle cose belle amate dal phílautos fa parte anche la capacità di aiutare e di donare (Von der schenkenden Tugend, Della virtù che dona è non a caso il titolo dell’ultimo capitolo della Parte Prima di Also sprach Zarathustra di Friedrich Nietzsche).26
L’egoismo del virtuoso si fonde così indubbiamente con l’altruismo, con la disponibilità ad aiutare e a favorire gli altri. La sua attività – il suo compiere delle azioni – è l’attuazione delle proprie potenzialità che è in piena armonia con l’attuazione delle potenzialità altrui. Bisogna dunque essere “egoisti”, amanti di sé nel modo giusto.
Ciò vale anche per Spinoza, che sulla scia di Aristotele e nel pieno rispetto dello spirito autentico del suo pensiero, scrive mirabilmente nella sua Ethica ordine geometrico demonstrata (IV, 18): «Poiché la ragione nulla esige che sia contro natura, essa dunque esige che ognuno ami sé stesso, ricerchi il proprio utile, ciò che davvero è utile, e appetisca tutto ciò che conduce l’uomo ad una maggiore perfezione, e, in senso assoluto, che ognuno si sforzi di conservare il proprio essere per quanto dipende da lui. E questo è così necessariamente vero come è vero che il tutto è più grande della parte. […] All’uomo niente è più utile dell’uomo; gli uomini, cioè, non possono desiderare per la conservazione del proprio essere niente di più eccellente se non che tutti concordino in tutto, in modo che le menti e i corpi formino quasi una sola mente e un solo corpo, e tutti si sforzino insieme, per quanto possono, di conservare il proprio essere, e tutti insieme cerchino per sé l’utile comune; da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli».27

  1. L’amicizia, la condivisione della vita e la dolcezza dell’esistere

Perché l’uomo virtuoso e felice ha bisogno degli amici, lui che sa star da solo ed è capace di autosufficienza (autárkeia), sia pure sempre relativa e mai assoluta? Per cominciare a rispondere dobbiamo riferirci a ciò che – come abbiamo visto nelle pagine precedenti – più volte ribadisce Aristotele nell’Etica Nicomachea e nella Politica circa l’essere dell’uomo inteso come animale sociale e politico.
L’uomo virtuoso e felice non può essere altro che un animale sociale, politico e culturale, incline al vivere sociale e bisognoso di amicizia. Per lo Stagirita la felicità (eudaimonía) è una sorta di attività (enérgeia) consistente nel vivere necessariamente insieme agli altri; si tratta di agire, di essere attivi in modo stimolante, piacevole e fruttuoso per sé e per gli altri.
Il vero e più profondo godimento dei beni non può essere un fatto meramente solitario, ma si dà attraverso la dolcezza naturale del vivere in società; delle cose belle e buone dell’esistenza si gioisce meglio insieme agli amici che provano un reciproco piacere e una reciproca volontà di amarsi, senza tutti quegli inutili risentimenti, invidie, meschinità e perfidie che avvelenano soltanto la vita.
Per gli esseri umani il vivere si definisce fondamentalmente con le facoltà della sensazione e del pensiero, ricordando che la dýnamis (facoltà, potenza) va sempre ricondotta all’elemento essenziale dell’enérgeia (attività, atto).
Vivere (tò zên), nel suo senso più pieno e profondo, equivale per lo Stagirita a sentire (aisthánesthai) e a pensare (noeîn) e tutto ciò è di per sé cosa buona e piacevole (cfr. Eth. Nic., IX, 9, 1170 a 19-26). Noi umani non soltanto svolgiamo tutte le nostre attività (il vedere, l’udire, il camminare, il pensare, etc.), ma siamo coscienti di svolgerle e proviamo piacere in esse: «esistere (tò eînai) significa infatti sentire e pensare. Sentire che viviamo è di per sé dolce, poiché la vita è per natura un bene (phýsei gàr agathòn zoé) ed è dolce sentire che un tale bene ci appartiene. Vivere è desiderabile, soprattutto per i buoni, poiché per essi esistere è un bene e una cosa dolce.
Con-sentendo (synaisthanómenoi) provano dolcezza per il bene in sé, e ciò che l’uomo buono prova rispetto a sé, lo prova anche rispetto all’amico: l’amico è, infatti, un altro sé stesso (éteros gàr autòs o phílos estín). E come, per ciascuno, il fatto stesso di esistere (tò autòn eînai) è desiderabile, così – o quasi – è per l’amico.
L’esistenza è desiderabile perché si sente che essa è una cosa buona e questa sensazione (aísthesis) è in sé dolce. Anche per l’amico si dovrà allora con-sentire che egli esiste e questo avviene nel convivere e nell’avere in comune (koinoneîn) discorsi e pensieri. In questo senso si dice che gli uomini convivono (syzên) e non, come per il bestiame, che condividono il pascolo» (Eth. Nic., IX, 9, 1170 a 33 – 1170 b 14).
La presa di coscienza non solo della nostra esistenza (di che cosa vuol dire per noi vivere), ma anche dell’esistenza degli amici e degli altri (di che cosa significa per loro stessi e per noi l’esistenza degli amici e degli altri) non può essere qui più netta e radicale. Massima è qui davvero l’apertura a un sentimento positivo dell’esistenza capace di investire col suo soffio energetico e accogliente tutti gli ambiti della vita quotidiana.
Desiderabile e piacevole è la compagnia degli amici, che sperimentano e avvertono assieme a noi i beni del sentire e del pensare, la piacevolezza dell’esistere, la comunanza dei pensieri, delle azioni e dei discorsi.
Così commenta Agamben queste indicazioni aristoteliche: «L’amicizia è l’istanza di questo con-sentimento dell’esistenza dell’amico nel sentimento dell’esistenza propria. Ma questo significa che l’amicizia ha un rango ontologico e, insieme, politico. […] L’amico non è un altro io, ma una alterità immanente nella stessità, un divenir altro dello stesso. Nel punto in cui io percepisco la mia esistenza come dolce, la mia sensazione è attraversata da un con-sentire che la disloca e deporta verso l’amico, verso l’altro stesso. L’amicizia è questa desoggettivazione nel cuore stesso della sensazione più intima di sé».28
Se la vita è naturalmente bella e orientata al piacere (cfr. Eth. Nic., X, 4, 1175 a 10-17) e se vivere insieme (syzên) è fondamentalmente con-sentire (synaisthánesthai), Aristotele può affermare con risolutezza che la philía è koinonía (comunione. Cfr. Eth. Nic., IX, 12, 1171 b 32-35; VIII, 11, 1159 b 31-32; VIII, 14, 1161 b 11), come condivisione delle dolcezze dell’esistenza e, aggiungiamo noi, pure delle sue pene, dei suoi immensi dolori.
Gli amici sono infatti necessari sia nelle situazioni di prosperità e positività sia nelle situazioni di avversità e negatività. Anche il buddhismo parla mirabilmente di Karuna – compassione, intesa come capacità di partecipare ai dolori altrui – e di Mudita – con-gioire, il Mitfreuden di Nietzsche, inteso come capacità di partecipare alle gioie altrui, senza alcuna invidia e bassezza.
La philía è koinonía, nel senso di una comunione esistenziale ed affettiva, in cui la fraternità dell’amicizia, purtroppo rara, rincuora per quanto possibile la vita fragile dei mortali. Ciò che importa è il modo, l’animo con cui gli amici ci sono vicini nelle sofferenze e nelle cose piacevoli.
Scrive a questo proposito Aristotele, esaltando pure la parresía, già indicata da Euripide nello Ione e nell’Ippolito come caratteristica saliente del cittadino e dell’uomo libero: «Verso i compagni e i fratelli occorre usare libertà di parola (parresía) e comunanza di ogni cosa» (Eth. Nic., IX, 2, 1165 a 29-30. Sul parresiastés cfr. anche Eth. Nic., IV, 8, 1124 b 29).
In Das zeugende Gespräch (Il dialogo fecondo, 1923), Kracauer parla del dialogo profondo proprio dell’amicizia, che produce mutamenti sostanziali nei soggetti coinvolti, diventa processo e unione esistenziale, un «con-vivere» in cui gli individui, mantenendo la loro piena libertà e l’autonomia della personalità, «esercitando reciprocamente un’azione maieutica, avanzano l’uno grazie all’altro nella loro esistenza».29
Ora, il dialogo degli amici non è di per sé l’assoluto, la verità intesa come dato oggettivo e definitivo, ma è un percorso, l’esperienza di un cammino, una tappa che avvicina i viandanti alla verità, senza poterla possedere, ma respirandone l’atmosfera.
Non può esserci philía se non vi è qualcosa in comune (tò koinón) tra gli umani e quanto «più comune è la vita» (koinóteros o bíos. Cfr. Eth. Nic., VIII, 14, 1162 a 7-9) tanto più l’amicizia è piacevole e utile.
Qui siamo ancora ben lontani dalla metafisica della soggettività illimitata coltivata dall’idealismo e massicciamente presente o serpeggiante nella storia della filosofia occidentale. Emerge invece un sano senso del vivere, del sentire e del pensare, dell’esistere e dell’essere, sotto il segno della misura e del limite, nell’ambito del destino a noi concesso.

  1. Saggezza e sapienza in Aristotele

Come si sa, essendo le virtù dianoetiche superiori a quelle etiche, per Aristotele la sapienza (sophía) è superiore alla saggezza (phrónesis) – forma di intelligenza pratica che indirizza l’azione nell’ambito dei beni umani – e la felicità trova la sua massima realizzazione nell’esercizio della sapienza. La felicità è infatti «attività secondo virtù» (kat’aretèn enérgeia); ora, la virtù più alta è ciò che in noi vi è di migliore, l’intelletto (noûs) o comunque vogliamo definire qualcosa che in noi ha conoscenza delle verità più alte, di tutto ciò che vi è di bello e divino, «o perché è in sé stessa divina, o perché è la cosa più divina (tò theiótaton) di ciò che è in noi»; tale attività non può essere che la theoretiké enérgeia (attività contemplativa), che costituisce la «felicità perfetta» (teleía eudaimonía. Cfr. Eth. Nic., X, 7, 1177 a 12-18; EZA 860-863).
Questa attività è la più elevata per vari motivi: perché è l’attività della parte in noi più alta, è la più continua, la più piacevole, la più autosufficiente, la più amata per sé stessa. Anche il sophós (sapiente) ha bisogno delle cose necessarie per l’esistenza ed è meglio se ha dei collaboratori attorno a sé, ma egli – rispetto al sóphron (saggio) che esercita la saggezza nel rapporto con gli altri – anche da solo è perfettamente capace di theoreîn (contemplare) ed è quindi massimamente autosufficiente (autarkéstatos), lontano dagli affari e dagli impegni pratici, dalle occupazioni politiche o militari che, pur avendo la loro importanza, gli tolgono quel tempo libero che è la sua risorsa più preziosa e gli consente – se una lunga e fruttuosa vita gli è concessa – di attingere la teleía eudaimonía e di diventare immortale (athanatízein), nei limiti delle possibilità umane (cfr. Eth. Nic., X, 7, 1177 a 19-1178 a 8).
Com’è noto, nella Metafisica lo Stagirita riserva a Dio l’assoluta autosufficienza, il bene nella sua pienezza, la perfezione massima della contemplazione e beatitudine eterne; contemplazione-beatitudine, theoretiké enérgeia che è propria anche dell’uomo, ma solo per brevi tratti e nei limiti della sua vita mortale.30
Nel capitolo 8 del libro X dell’Etica Nicomachea scrive su ciò lo Stagirita: «per gli dei tutta quanta la vita è beata, per gli uomini lo è nella misura in cui vi è in loro un’immagine di tale attività. Invece nessuno degli altri viventi è felice, poiché non partecipa in nessun modo della contemplazione (tôn d’állon zóon oudèn eudaimoneî, epeidè oudamê koinoneî theorías). Di quanto dunque si estende la speculazione si estende anche la felicità, e coloro ai quali maggiormente compete il contemplare (tò theoreîn) saranno anche maggiormente felici, non per accidente, ma in virtù della contemplazione stessa (ou katà symbebekòs allà tèn theorían): giacché questa di per sé stessa è degna di onore (timía). Di conseguenza la felicità consisterà in una certa contemplazione» (Eth. Nic., X, 8, 1178 b 25-32; EZA 872-873).
L’esistere è dunque secondo Aristotele un bene, ma per l’uomo è necessaria una ricerca, un travaglio, un lavoro di scavo al fine di individuare il proprio bene, di pervenire al proprio autentico ben-essere, una ricerca dagli esiti nient’affatto scontati, che deve far leva sulla parte migliore di noi stessi. Proprio in ciò si misura la differenza e la nostra distanza dal divino: «infatti Dio possiede già ciò che è bene» (échei gàr kaì nûn o theòs tagathón, Eth. Nic., IX, 4, 1166 a 21-22; ECA 444).
Ora, nel tentativo di rileggere criticamente queste tesi aristoteliche e di ripensarle ai fini di una migliore comprensione dei problemi del nostro tempo, proprio la teleía eudaimonía della vita contemplativa può essere rivalutata in modo provocatorio nella nostra epoca caratterizzata dal dominio pressoché incontrastato, a tutti i livelli, della ratio strumentale calcolante e di una ormai illimitata volontà di potenza economico-politica, scientifico-tecnologica e militare.
La perfetta felicità della theoría, però, non deve indurci a dimenticare o a sottovalutare il ruolo della phrónesis, della saggezza rivolta alle pratiche della vita umana e dei suoi rapporti.

  1. Aristotele e noi. La civiltà planetaria e la questione del bene comune

Al di là dei vecchi ideologismi sempre più fuorvianti e dannosi, la phrónesis ci comanda oggi di lottare per la difesa dei beni comuni, di diventare militanti dei beni comuni sempre più minacciati.
Non solo l’acqua, l’aria, la terra, gli elementi della phýsis cara al pensiero presocratico, ma anche i beni comuni più propriamente umani come la philía aristotelica, ossia l’amicizia e la capacità di stabilire rapporti umani davvero soddisfacenti vanno difesi e salvaguardati da un sistema economico, politico e militare imperniato sulla volontà illimitata di dominio, profitto, rapina e sfruttamento.
Ora, qualcuno potrebbe chiedersi che cosa c’entrano Aristotele e l’Etica Nicomachea con tutto ciò.
Osserva ad esempio Günther Anders in un’intervista del 1979 pubblicata in quello stesso anno col titolo Wenn ich verzweifelt bin, was geht’s mich an? (Se sono disperato, ciò non mi riguarda): «Nei settantacinque anni della mia vita, il mondo e la posizione dell’uomo nel mondo sono cambiati così radicalmente che io sono stato costretto a partire dalla verità stessa. Deviare attraverso le opinioni dei filosofi degli ultimi 2500 anni non solo sarebbe stato superfluo ma anche insensato, per non dire immorale. Avrei perso troppo tempo prima di arrivare a esercitare un’influenza sul mondo contemporaneo. Quando le testate nucleari si accumulano, non ci si può fermare a spiegare l’Etica Nicomachea. La comicità del novanta per cento della filosofia odierna è insuperabile. Le critiche che mi sono state rivolte per il modo ‘immediato’ del mio fare filosofia, come se i diecimila libri dei miei avi non fossero esistiti, e perché io non avevo saccheggiato quei tesori, non mi toccano molto. Io uso il mondo stesso come libro, e siccome è ‘scritto’ in una lingua quasi incomprensibile, cerco di tradurlo in un linguaggio comprensibile e forte».31
Sul terreno etico-politico e antropologico una ben diversa risposta, rispetto a quella fornita qui da Anders, è venuta dal dibattito suscitato dalla cosiddetta Rehabilitierung der praktischen Philosophie che in Germania, nella seconda metà del XX secolo, ha trovato in autori come Aristotele e Kant riferimenti fondamentali.32
Ora, proprio Aristotele nell’Etica Nicomachea ci ricorda, sia pure in riferimento a tutt’altro contesto storico-epocale rispetto al nostro: «A poca cosa si riducono […] le amicizie e il giusto (ai philíai kaì tò díkaion) nelle tirannidi; nelle democrazie, invece, la loro importanza è grande, giacché molte sono le cose comuni a coloro che sono uguali (pollà gàr tà koinà ísois oûsin)» (Eth. Nic., VIII, 13, 1161 b 8-10; EZA 748-749).
Oggi la minaccia concerne il Tutto del mondeggiare del mondo, del coseggiare della cosa e dell’umanità dell’uomo; il compito urgente del pensiero, forse sempre più disperato, riguarda la cura del Tutto.
In tempi remoti, con un detto memorabile il cui valore profetico e ammonitore risuona oggi con ancor più forza di quando fu pronunciato, scrisse Periandro corinzio, uno dei sette sapienti dell’antica Grecia: meléta tò pân (abbi cura del Tutto).
Il detto fu valorizzato e commentato da par suo già nei Grundbegriffe, un corso di lezioni che Martin Heidegger tenne a Freiburg nel semestre estivo del 1941.33
Diventa decisiva la riflessione su ciò che è comune (tò koinón), sul bene comune che deve essere condiviso e fruito equamente da tutti, non rapinato, saccheggiato, privatizzato, degradato come sta avvenendo sotto i nostri occhi secondo le modalità proprie della perversa forma attuale della cosiddetta globalizzazione.
Il mondo odierno vive un disagio e uno smarrimento enormi, una profonda crisi, un termine abusato e piuttosto logoro, ma che esprime innanzitutto una devastante sfiducia nell’uomo, nella possibilità di una nuova civiltà e di una nuova umanità.
Abbiamo invece un bisogno estremo di ritrovare fiducia in noi stessi, negli altri e nelle inedite possibilità umane. Seguiamo ancora le fertili indicazioni di Kracauer: «Come il vero amore, l’amicizia dona fiducia dell’uomo. Essa rimane sempre un luogo in cui rifugiarsi quando la sventura si abbatte sull’individuo e questi viene abbandonato da tutti. Appoggiandosi all’amico egli può e anzi deve risollevarsi, imparando ogni volta attraverso di lui a credere di nuovo negli uomini. Finché il suo essere può riscaldarsi al calore di un altro, l’estrema amarezza che rende insensibili non ha potere su di lui. L’amicizia allarga lo spirito».34
Come abbiamo mostrato sopra, Aristotele pone in evidenza il fatto che molte sono le cose comuni a coloro che sono eguali: ciò sembra anche nella situazione attuale il manifesto di un nuovo pensiero che, dismesse le vecchie armature ideologiche, ha responsabilmente a cuore il destino della civiltà planetaria, la cura del Tutto, la salvaguardia della terra, dell’umanità dell’uomo, del mondeggiare del mondo, del coseggiare delle cose. Esso ha a cuore, in altre parole, la verità, un termine che oggi non gode di buona fortuna nemmeno in molti ambienti filosofici e accademici ufficiali.
Noi non sappiamo se questo nuovo pensiero potrà radicarsi ed esercitare un’influenza effettiva sul corso del mondo oppure se resterà un reperto archeologico del mondo accademico e teorico, senza alcuna possibilità di incidenza nel mondo reale. Sappiamo però con certezza – come abbiamo cercato di mostrare in queste pagine – che pure Aristotele può aiutarci nella direzione del consolidamento di un pensiero caratterizzato dalla passione per la verità e rivolto alla cura del Tutto.

Franco Toscani

 

Il saggio è stato pubblicato su Koiné, Periodico culturale , Anno XVIII  –  NN° 1-3,  Gennaio-Giugno 2011, pp. 149-167.

Note

1 Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, I, 3, 1095 b 14-22, in Etiche. Etica Eudemea, Etica Nicomachea, Grande Etica, a cura di L. Caiani, «Introduzione» di F. Adorno, Utet, Torino 1996 (d’ora in poi citata con la sigla ECA), p. 195. Sul problema dei tre tipi fondamentali di vita, cfr. l’«Introduzione» di F. Adorno, pp. 15-16.

2 Su tale rapporto s’interroga lucidamente anche Claudio Mazzarelli nella sua «Introduzione» ad Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1979 (d’ora in poi citata con la sigla EMA), pp. 7-10.

3 Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 3, 1139 b 20; VI, 4, 1140 a 1; VI, 4, 1140 a 13, a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1998, 2 voll. (d’ora in poi riportata con la sigla EZA), vol. II, pp. 590-593.

4 F. Trabattoni, Platone, Carocci, Roma 2009, p. 109.

5 Favorevole alla tesi del primato della politica sull’etica nello Stagirita è invece G. Mari nel suo Pedagogia in prospettiva aristotelica, «Prefazione» di G. Vico, La Scuola, Brescia 2007, p. 26.

6 R.A. Gauthier-J.Y. Jolif, Aristote. L’Éthique à Nicomaque, Introduction, traduction et commentaire, 4 voll., Paris-Louvain 1970, II, 1, pp. 11-12.

7 Cfr. Eth. Nic., IX, 9, 1169 b 18-19; I, 5, 1097 b 8-11; EMA 24, 398; Eth. Eud., VII, 10, 1242 a 24-25; ECA 15, 161; Pol., I, 2, 1253 a 2-3; Pol., III, 6, 1278 b 21, in Aristotele, Opere. Politica, Trattato sull’economia, vol. IX, trad. it. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1983 (d’ora in poi cit. con la sigla PLA), p. 6 e p. 82.

8 K. Marx, Einleitung zur Kritik der politischen Oekonomie (1857), trad. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Introduzione a ‘Per la critica dell’economia politica’, in K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, I, 2, Appendici, trad. it. di E. Cantimori Mezzomonti, B. Maffi e G. Backhaus, Einaudi, Torino 1975, p. 1142.

9 Secondo Giuseppe Mari, l’attenzione specifica all’agire rende il pensiero aristotelico assai fruibile anche in un’ottica pedagogica. Cfr. G. Mari, Pedagogia in prospettiva aristotelica, cit., p. 61.

10 Sull’idea di bene o di “buono” in Platone, cfr. M. Vegetti, «Il ‘buono’ e l’‘uno’», in Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003, pp. 224-231.

11 C. Mazzarelli, «Introduzione», in Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 39. Cfr. anche Platone, Filebo, a cura di C. Mazzarelli, Marietti, Torino 1975.

12 Sul tema del piacere in Aristotele si veda fra l’altro: A.-J. Festugière (Introduction, traduction et notes), Aristote. Le plaisir (Eth. Nic. VII 11-14, X 1-5), Paris 1936; J. Léonard, Le bonheur chez Aristote, Académie Royale de Belgique, Bruxelles 1948; G. Lieberg, Die Lehre von der Lust in den Ethiken des Aristoteles («Zetemata», Heft 19), München 1958.

13 G. E. Lessing, Ernst und Falk. Gespräche für Freimäurer (1778-1780), Ernst e Falk. Dialoghi per massoni, in G. E. Lessing, Opere filosofiche, a cura di G. Ghia, Utet, Torino 2006, p. 664.

14 ECA, p. 404, n. 1. Cfr. anche Reth., II, 4, 1381 b 26-27: «noi amiamo tutti coloro che ricambiano pienamente ai loro amici amicizia con amicizia».

15 S. Kracauer, Ueber die Freundschaft (1917-1918); trad. it. di L. Portesio, Sull’amicizia, «Postfazione» di K. Witte, Marietti, Genova 1989, p. 11.

16 Cfr. Eth. Nic., IX, 6, 1167 b 2-4; EZA 792-793; sulla omónoia cfr. anche Eth. Nic., VIII, 1, 1155 a 24-26; su benevolenza e concordia si veda anche Eth. Eud., VII, 7, 1241 a 1-35; ECA 157-158. Com’è noto, pure il libro VII dell’Etica Eudemia è dedicato all’amicizia (ECA 136-175).

17 A proposito del libro VIII dell’opera si veda fra l’altro L. Ollé-Laprune, Aristote. Morale à Nicomaque, livre VIII, Paris 1886; in particolare, cfr. p. 143, per ciò che riguarda il capitolo 3, le fini considerazioni dell’autore sull’impiego dei verbi phileîn, agapân e stérgein per denotare l’amore nelle differenti forme aristoteliche di amicizia; cfr. anche il commento di Zanatta, in EZA 998-999.

18 Su di essa si veda E. Pulcini, Invidia. La passione triste, Il Mulino, Bologna 2011.

19 Su questo aspetto fondamentale si veda il commento di R. A. Gauthier – J. Y. Jolif, op. cit., II, 2, p. 676.

20 S. Kracauer, Ueber die Freundschaft (1917-1918), trad. it. cit., Sull’amicizia, p. 33.

21 G. Agamben, L’amico, nottetempo, Roma 2007, p. 19.

22 R. A. Gauthier-J. Y. Jolif, op. cit., II, 2, p. 690.

23 Cfr. J. Tricot, Aristote. Éthique à Nicomaque (Introduction, traduction, notes et index), Paris 1967, p. 403, n. 3; L. Robin, Aristote, Paris 1944, p. 244; EZA 1015, 1031.

24 Di un egoismo «sano, naturale, necessario, irrinunciabile, identico alla vita» parla anche Ludwig Feuerbach nel suo ultimo scritto del 1868 Zur Moralphilosophie. Cfr. L. Feuerbach, Etica e felicità, a cura di F. Andolfi, Guerini e Associati, Milano 1992, p. 46.

25 Sull’etica buddhista si veda fra l’altro G. Pasqualotto, Fondamenti dell’etica buddhista, «Dharma. Trimestrale di buddhismo per la pratica e il dialogo», n. 5, aprile 2001, pp. 48-54.

26 Cfr. F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra (1883-1885), trad. it. di S. Giametta, Così parlò Zarathustra, a cura di G. Pasqualotto, Rizzoli, Milano 1985, pp. 92-97. Su queste stesse tematiche rinvio a F. Toscani, L’etica del soggiorno e il problema dell’identità, «Testimonianze» n. 432, novembre-dicembre 2003, pp. 26-32.

27 B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Utet, Torino 1972, pp. 281-282.

28 G. Agamben, L’amico, nottetempo, Roma 2007, pp. 16-17.

29 S. Kracauer, Das zeugende Gespräch (Il dialogo fecondo,1923); trad. it. cit., Sull’amicizia, p. 80. Cfr. anche p. 47.

30 Cfr. Metaph., XII, 7, 1072 b 14-18, 25, in Aristotele, Metafisica, a cura di C. A. Viano, Utet, Torino 2002, pp. 511-512; cfr. anche Eth. Eud., VII, 12, 1245 b 14-19; ECA 172-173.

31 G. Anders, Wenn ich verzweifelt bin, was geht’s mich an? (1979), in Id.,Opinioni di un eretico, trad. it. di R. Callori, «Presentazione» di S. Velotti, Edizioni Theoria, Roma-Napoli 1991, pp. 81-82.

32 Su di essa si veda fra l’altro: AA.VV., Rehabilitierung der praktischen Philosophie, a cura di M. Riedel, 2 voll., Rombach, Freiburg 1972-74; F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in AA. VV., Filosofia pratica e scienza politica, a cura di C. Pacchiani, Francisci, Abano Terme (Padova) 1980, pp. 11-97; Id., Heidegger e Aristotele, Daphne, Padova 1984 (ripubblicato con «Prefazione» di E. Berti, Laterza, Roma-Bari 2010); Id., La riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella crisi della modernità, “Il Mulino” n. 35, 1986, pp. 928-949; Id., Tra Aristotele e Kant: orizzonti, prospettive e limiti del dibattito sulla ‘riabilitazione della filosofia pratica’, in AA.VV., Teorie etiche contemporanee, a cura di C. A. Viano, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 128-148.

33 Cfr. M. Heidegger, Grundbegriffe ( Sommersemester 1941), Herausgeberin P. Jaeger, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1981 (vol. LI della Gesamtausgabe); trad. it., Concetti fondamentali, a cura di F. Camera, il melangolo, Genova 1989.

34 S. Kracauer, Ueber die Freundschaft (1917-1918); trad. it. cit., Sull’amicizia, p. 42.

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Claudio Lucchini – Alcune riflessioni sulle nozioni di felicità e di natura umana nel pensiero di Luca Grecchi.

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Esaminando le caratteristiche peculiari di quel processo di «razionalizzazione irrazionale» che è venuto via via imponendosi nella contemporaneità capitalistica, dissociando infine «la ragione dal valore degli scopi della esistenza umana»,1 Massimo Bontempelli ha cura di evidenziare il nesso che intercorre tra un siffatto paradigma di razionalità e l’ipostatizzazione storico-sociale della categoria ontologica del mezzo: «Nell’universo tecnico la razionalità non può che non avere scopi, ed essere perciò irrazionale, in quanto la tecnica appartiene per definizione alla sfera dei mezzi, non degli scopi. Finché dunque la tecnica è subordinata ad altre istanze sociali, essa è ancora compatibile con una razionalità connessa a scopi. Ma in un universo tecnico lo scopo è lo stesso apparato scientifico-tecnologico, cioè un mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo. Inoltre il nostro universo è anche un universo di merci, e la circolazione delle merci ha come scopo l’accrescimento senza limite del denaro, che è un altro mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo [ossia il suo valere come strumento indispensabile per una cieca affermazione di potenza nel contesto di una società dominata dalle strategie della lotta intercapitalistica nelle sue molteplici dimensioni economiche, politiche, culturali]».2
Sono le modalità sociali attuali, scrive a sua volta Luca Grecchi in pagine di spiccata intelligenza filosofica, a costituire il terreno più fecondo per una simile relativizzazione strumentalistica e nichilistica del valore e del senso del nostro esistere, sollecitando il generalizzarsi intensivo ed estensivo di quella crematistica per la quale si viene gravemente intorbidando l’«originario fiume umanistico» che percorre dall’inizio la storia degli uomini e reca con sé un’essenziale riferimento alla dimensione razionale, morale e comunitaria delle migliori potenzialità della natura umana.3 Se la “regola d’oro” (non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, o, positivamente, fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te) è il «principale comune denominatore, attraverso i secoli e le civiltà» di tale fiume,4 la “regola di latta” è l’espressione quintessenziale del suo contraltare dialettico, negatore e spregiatore, in nome di un cieco utilitarismo individualistico, della pienezza di un contesto di vita eticamente realizzato.5 «Nel clima antiumanistico oggi dominante rappresentato dalla regola di latta – sostiene dunque Grecchi –, l’individuo si percepisce come un atomo isolato dagli altri, e relazionantesi ad essi solo tramite un rapporto strumentale. Quando domina una simile regola, per ciascuno gli altri uomini rappresentano solo dei mezzi necessari al raggiungimento del fine della massimizzazione della propria utilità, ed il pensiero è ritenuto anch’esso soltanto o una modalità in tal senso persuasiva (relativismo, retorica, ecc.), o una modalità strumentale al raggiungimento di un determinato fine (pragmatismo, ecc.). È evidente però come tale regola costituisca solo il risultato di modalità di vita inumane, in cui all’uomo rimane sconosciuta, e dunque impedita, la propria vera essenza, e con essa la comprensione della necessità della sua cura per il raggiungimento di una condizione di felicità».6
L’incessante rinvio di Grecchi a quelle forme storicamente determinate della riproduzione sociale complessiva che inibiscono il ricco sviluppo delle possibilità ontologiche più alte del genere umano, distinguono radicalmente le sue posizioni da quelle – pur tra loro differenziate – diagnosi sui mali del nostro tempo, tendenti a ravvisare nel puro e semplice dominio della tecnica la fonte principale della relativizzazione nichilistica oggi imperante. L’enfasi sulla «centralità della tecnica» quale connotazione essenziale della società e della cultura occidentali finisce infatti col misconoscere una ben più decisiva centralità, quella del modo capitalistico di produzione, la cui dinamica, afferma correttamente Bontempelli nel suo scritto sopra citato, è invece l’unica a poter rendere compiutamente conto della «proliferazione tendenzialmente infinita delle tecniche, e [della] progressiva tecnicizzazione di ogni spazio umano».7 «Indicare la tecnica come essenza dell’Occidente» (e, in prospettiva, per il tramite del mondializzarsi dell’economia e della cultura occidentali, del mondo intero) equivale perciò, commenta ulteriormente Grecchi, ad indicare non «il fenomeno reale, ma solo la sua ombra, e questo comporta indubbiamente dei vantaggi a quegli interpreti che non vogliono inimicarsi troppo le strutture oggi dominanti. Il fenomeno reale è infatti il modo di produzione capitalistico con tutto il suo portato di ingiustizia, sopraffazione e sofferenza, di cui la tecnica capitalistica costituisce semplicemente l’apparato di funzionamento».8
Checché ne dicano Heidegger, Severino o Galimberti, la causa principale della tecnicizzazione vieppiù accresciuta dell’economia e dell’ambiente umano di vita non è dunque certamente da ricercarsi «nella struttura autoincrementativa dell’apparato tecnico», ma, in maniera ben più convincente, «nelle finalità e nelle strutture del modo di produzione sociale» che nella nostra epoca tende ad imporsi su scala globale, determinando «la derealizzazione della vera natura dell’uomo. È infatti la brama del massimo profitto (non l’incremento dell’Apparato tecnico) che conduce alle guerre ed alle attuali modalità della produzione e della distribuzione di beni e servizi. È tale esasperata brama che spezza tuttora il pianeta in ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati, integrati ed emarginati, e che pone l’alienazione come unica (ma indesiderabile) forma di eguagliamento universale. Si tratta forse di una lettura datata o retrò? Può essere, ma finché di questa lettura non verrà data una seria confutazione (ed, a nostra conoscenza, essa non è stata data), continueremo a considerare il modo di produzione capitalistico, e non la tecnica, come il cuore pulsante dell’attuale Occidente».9
Respinta una simile analisi dei guasti prodotti dalle vicende della metafisica occidentale, la quale dovrebbe appunto esprimere la sua natura nichilistica – o, se si preferisce, la sua “follia” – nel dominio planetario della tecnica, e denunciati con altrettanta forza, sulla scorta soprattutto degli studi critici di Domenico Losurdo, i tratti disumanizzanti del pensiero liberale, teoreticamente e storicamente contiguo all’atomizzazione mercificante della crematistica capitalistica,10 Grecchi sostiene risolutamente la necessità inderogabile di recuperare quella che gli appare essere l’insuperata lezione umanistica della grande filosofia greca. È stato infatti Platone, egli precisa, ad aver per primo compreso che l’essere umano «è nella sua essenza un ente razionale, morale e simbolico»,11 portatore dunque di contenuti «che purtroppo la contemporaneità ha rimosso, sfavorendone una effettiva realizzazione e condannando l’uomo all’infelicità».12 Il vero bene dell’umanità consiste infatti, secondo il decisivo insegnamento platonico e aristotelico, nella costituzione storica di un tessuto comunitario del vivere sociale che stimoli positivamente nei singoli l’attuarsi di un equilibrio armonico delle tre componenti suddette della natura umana: la razionalità – intesa soprattutto come ricerca sui significati delle cose in funzione del loro miglior utilizzo per una compiuta realizzazione etico-sociale –,13 la quale «consente di comprendere gli uomini e il mondo, nonché la corretta misura dell’approccio di ogni uomo al mondo»;14 la moralità, nella sua triplice articolazione di affetto, comunitarietà e amore,15 che «consente di rapportarsi al mondo in maniera consapevole, e di incarnare adeguati comportamenti di vita»;16 la simbolicità, che permette invece «di arricchire il proprio approccio esistenziale tenendo conto della ambivalenza dei contenuti che inevitabilmente ci si pongono innanzi».17
L’ostilità costantemente risorgente nella storia contro la possibilità medesima di definire teoreticamente sia le migliori potenzialità dell’uomo sia quella loro proporzionata ed equilibrata combinazione in cui va ravvisata, come si è detto, l’autentica felicità degli esseri umani – ostilità particolarmente accentuata nell’epoca della capillare mercificazione degli ambiti di vita e della relativizzazione consumistico-capitalistica di comportamenti, bisogni, scopi –, deve ricondursi, a parere di Grecchi, ad un duplice ordine di fattori tra loro connessi, il primo di natura antropologica, il secondo di carattere storico-sociale. «Il motivo di ordine antropologico concerne il fatto che l’uomo, come è noto, è il solo fra gli esseri viventi ad essere pienamente consapevole della propria condizione mortale. […] Proprio per l’angoscia che il tema della morte pone innanzi, l’uomo che non sa vivere in buona armonia con se stesso e col mondo tende ad identificare con la morte, ed a temere, tutto ciò che si rapporta a lui come un limite, come una chiusura. In questo senso ogni stabile definizione, ed in particolare ogni sistema di pensiero, tendono a rappresentare all’uomo la dimensione finita dell’esistenza. È anche per questo che tali tematiche sono così spesso state trascurate, rimosse e addirittura combattute nella storia del pensiero filosofico. La de-finizione essenziale dell’uomo, in particolare, è il tema che più appare come una chiusura di orizzonti di vita. Per questo il pensiero filosofico, scientifico, psicologico, letterario, poetico e artistico in genere ha sempre insistito sulla profondità insondabile dell’anima umana (la originaria tesi di Eraclito), e mai sulla struttura essenziale dell’anima stessa, mostrando nei confronti di questo tema un claustrofobico timore».18 L’angoscia antropologicamente connotata nei confronti del proprio morire è stata potentemente accentuata, nel corso della storia, dalle concrete modalità in cui si è venuta articolando la costituzione e la riproduzione della vita della società: le attuali modalità sociali infatti, ribadisce ancora una volta Grecchi, «svuotando di umanità la vita, hanno sempre più lasciato l’uomo in balia del proprio connaturato timore della morte».19
L’esplicita preferenza accordata «al pensiero filosofico greco, che faceva della cura dell’anima e dell’apertura alla vita i propri capisaldi»,20 conduce l’analisi grecchiana a ritenere portatore di indebito riduzionismo qualunque tentativo di mediare una prospettiva onto-assiologica di natura filosofica con gli apporti di una ricerca scientifica volta a chiarire i presupposti biologico-evolutivi del vario complesso di facoltà cognitive ed emozionali umane interagenti nelle concrete risposte etiche elaborate nella densa problematicità dialettica dei processi storici. Il nostro autore, a dimostrazione della validità di ciò che afferma, porta come esempio «un comportamento molto noto, quello di Socrate. Egli, pur ingiustamente condannato per empietà dagli ateniesi, decise di rimanere in cella e di bere la cicuta, nonostante la possibilità di fuga che gli fu apertamente prospettata da alcuni amici. Dobbiamo allora chiederci: Socrate decise forse di rimanere in cella a morire perché i suoi neuroni gli bloccarono le gambe? Niente affatto. Egli prese consapevolmente questa decisione in quanto comprese che la conformità agli ideali che aveva sempre sostenuto non gli avrebbe reso possibile vivere evitando il dialogo filosofico, come invece il tribunale ateniese gli imponeva. […] La biografia di Socrate mostra dunque che le questioni del senso della vita, ossia quelle che più influenzano la felicità, non si determinano sul riduttivo piano biologico, ma sul più complessivo piano umano (o filosofico)».21 Il che, se è vero qualora si pretenda di rintracciare a livello del mero scorrimento della processualità naturale la chiave per interpretare in modo ontologicamente corretto le fondamentali questioni etico-sociali umane, non toglie affatto che solo a partire da una determinata dotazione biologica (evolutivamente sviluppatasi al di fuori di ogni teleologia unitariamente operante nel corso spontaneo della natura) divenga possibile l’apertura alla storicità e alla stessa problematizzazione critica di stampo filosofico ed etico. Il rinvio alle zone cerebrali che controllano il movimento, nel contesto dell’esempio portato da Grecchi, non pare molto ben scelto. Non appena, infatti, si ponga mente al nesso che recenti studi – per fare solo un semplice esempio – hanno mostrato sussistere tra lo sviluppo dell’intelligenza sociale e la facoltà umana di metarappresentazione, l’influsso coevolutivo del linguaggio e delle sue strutture sintattiche completive su di essa, l’accesso conseguente ad una capacità di tematizzazione estesa di alternative possibili e di riflessione (entro certi limiti) autocosciente – tutto ciò ovviamente associato al possesso innato di una serie di inclinazioni empatico-simpatetiche, altruistiche, cooperative, ecc. –,22 appare chiaro come Socrate neppure si sarebbe potuto mentalmente figurare il problema che si è posto se non avesse posseduto un ventaglio articolato e innato (di nuovo, nel senso di evolutivamente formatosi, attraverso exaptation, tramite l’agire da bricoleur della selezione naturale) di facoltà e predisposizioni biologicamente determinate, le quali si manifestano e si sviluppano mediandosi concretamente coi processi storici in atto. Come scrive assai correttamente Edoardo Boncinelli, la nozione umana di male (e del suo correlativo, il bene) può svilupparsi solo in riferimento alla «capacità di confrontare una serie di circostanze con le loro capacità alternative, compiendo un’operazione riflessiva e comparativa che negli animali più evoluti è carente e può riguardare al massimo l’immediato presente, ma non il passato. L’uomo al contrario si lamenta, s’infuria, recrimina e rimpiange, almeno a partire da una certa età».23 Non esiste quindi alcuna scissione radicale tra determinatezza materiale-naturale e concreta storicità umana, dato che è solo sul fondamento della prima che la seconda può svolgersi ed influire sull’ulteriore vicenda evolutiva della specie, la quale però non può mai rescindere il suo legame con la processualità naturale in cui soltanto le ideazioni e le posizioni teleologiche degli uomini possono formarsi e operare. La moralità umana, pur dotata di una sua indiscutibile specificità, pare dunque essersi costituita a partire da «una base naturale. […] Solo gli esseri umani hanno la capacità di ragionamento morale, sanno interiorizzare i bisogni degli altri e sanno valutarli in modo disinteressato. Ma sia gli esseri umani sia gli altri primati hanno la capacità di aiutare gli altri e di non danneggiarli».24
Si comprende, alla luce di queste pur sommarie considerazioni, come il giusto, incessante rinvio di Grecchi alla natura umana quale fondamento di universale verità etico-sociale possa venire potenziato e non condurre necessariamente ad un volgare riduzionismo scientista in virtù di un processo di acquisizione concretizzante – opportunamente mediato sul piano concettuale – di ciò che la ricerca scientifica, neurobiologica, etologica, ecc. viene via via elaborando; questo, in effetti, sembra poter consentire di determinare con sempre maggior approssimazione la stessa nozione di essenza umana, sottraendola tanto alle secche di un’eccessiva genericità quanto al pericolo di un discontinuismo dualistico, che, nonostante la più volte ribadita unità psicofisica sostenuta dai greci, non può non fare capolino quando le matrici evolutivo-biologiche di fondamentali processi cognitivi ed emozionali non siano minimamente prese in considerazione.
In modo analogo, si possono già individuare da tale insieme di valutazioni i contorni del giudizio che, sia nei suoi aspetti largamente positivi sia in quelli più cautamente critici, può essere formulato a proposito di quello che lo stesso Grecchi afferma essere «il fondamento teorico» delle sue argomentazioni e di tutti i suoi scritti. «In conformità al titolo del nostro primo libro pubblicato, [la struttura metafisica sistematica che abbiamo cercato, in questi anni, di elaborare] pone l’anima umana (l’essenza dell’uomo) come fondamento della verità. Questa struttura parte da un assunto molto semplice, ma fondamentale: poiché la totalità dell’essere (ossia la totalità di ciò che è, e che l’uomo può sempre comprendere e comunicare) è tale, nella sua struttura concettuale, solo in quanto pensabile dall’uomo, ne risulta che l’uomo (e nessun altro ente, poiché l’uomo è il solo ente dotato di questa qualità) è il fondamento dell’essere. Poiché l’uomo, approcciandosi all’essere, sa comprenderne la realtà solo quando può relazionarsi all’intero mediante la propria essenza razionale, morale e simbolica (anima), ne risulta che l’anima umana è il solo fondamento della realtà dell’essere. Se si accettano queste assunzioni, si deve necessariamente addivenire ad una conclusione: che l’uomo è il solo ente in grado di attribuire significato all’essere, e che tale significato, se elaborato dalle componenti universali dell’uomo, può assumere valore di verità assoluto».25
Grecchi ha certamente ragione, nella sua duplice battaglia contro il relativismo nichilistico e le modalità sociali che potentemente lo favoriscono, a sottolineare la possibilità dell’uomo di porsi come fondamento di una verità oggettiva. Chi scrive, però, è disposto a seguirlo solo qualora si espliciti che questa verità processualmente universalizzabile non può essere altro che la verità etico-umana, risultato di processi riflessivo-ideativi e di atti teleologici del porre che non possono sussistere svincolati da quella base naturale-materiale – di per sé indifferente ad ogni scopo umano – nella quale soltanto si radica, in ultima istanza, il loro poter essere. Che ad un certo punto del processo evolutivo si costituisca, al di fuori di ogni predeterminata direzione finalistica, un ente capace di attività teleologica e progettuale, dotata di struttura alternativa ed (entro certi limiti) autocosciente, non significa affatto che il divenire storico che ne consegue e la sua oggettiva dialettica di senso riducano effettivamente a sé la totalità (estensiva ed intensiva) della realtà naturale, la quale, nello spontaneo svolgersi delle sue legalità e dei suoi processi, resta rigorosamente ateleologica. È quanto sostiene ripetutamente György Lukács nel suo approccio ontologico-materialistico all’essere sociale, rimarcando per esempio sia il costante risorgere di alternative nello svolgimento processuale della prassi umana,26 sia gli ineliminabili fattori causali che interferiscono con i processi storici («E se ora io mi rifaccio alle più alte forme di unità del reale ritorno [al seguente fatto]: la natura – tanto la natura organica quanto quella inorganica – si svolge secondo la propria dialettica e si realizza indipendentemente dalle posizioni teleologiche dell’uomo. Così la costituzione fisiologica dell’uomo e anche il suo destino psicologico dipendono, socialmente parlando, dal caso. Marx osserva giustamente a questo proposito che dipende appunto dal caso se una determinata situazione rivoluzionaria trova a capo della classe operaia un certo individuo, sebbene ciò non sia già più una circostanza meramente fisiologica o psicologica. In ogni caso rimane un residuo ineliminabile di casualità che scaturisce però dal corso meramente causale degli eventi naturali»).27
Non già, beninteso, che tali considerazioni vanifichino l’intelligente correlazione posta da Grecchi tra definizione della natura umana ed affermazione di un universalismo etico-politico fortemente polemico con le forme sociali attuali e con le loro ideologie relativistico-nichilistiche; soltanto, almeno così sembra a me, possono inquadrarla in una più convincente totalità concettuale concreta, e problematizzarla, ancorandola ad un’ineliminabile condizione di finitezza materiale, al di fuori di qualsiasi tentazione meramente pragmatica, ermeneutica, ecc., insomma al di fuori di correnti di pensiero che possano legittimare direttamente o indirettamente la prassi manipolatoria oggi imperante. Si pensi, in merito a ciò, al modo in cui le precisazioni ontologiche testé esposte possono contribuire a rendere più determinata – sempre ovviamente a parere dello scrivente – l’importante questione affrontata da Grecchi circa il carattere «stabile» di una felicità scaturente da un’avveduta consapevolezza filosofica. Rifacendosi nuovamente al grande pensiero platonico e aristotelico, il nostro autore sostiene infatti che «la felicità è la stabile condizione di chi vive la propria compiutezza umana anche contro, se necessario, le modalità sociali esistenti; l’infelicità è invece la condizione di profonda tristezza di chi non vive la propria compiutezza umana, non riuscendo peraltro nemmeno ad adeguarsi in maniera efficace alle modalità sociali esistenti; la condizione di serenità, che costituisce appunto un mixtum, è invece la condizione di chi, pur non vivendo pienamente la propria compiutezza umana, sa almeno conformarsi alle modalità sociali esistenti, apparentemente senza sofferenza».28 La filosofia greca, in altri termini, pensava correttamente «la felicità come lo stabile raggiungimento, dopo una adeguata ricerca, di una condizione di compiutezza dell’uomo. Da tale condizione indubbiamente, in alcuni momenti, era possibile anche degradare, ma sempre fermo restando il fatto che, una volta compresa e assaporata, la felicità diventava una condizione nella sua essenza non obliabile né perdibile. Contrariamente al possesso di beni esteriori, infatti, la felicità era costituita da una stabile conoscenza dell’uomo e del mondo, che si deposita nell’anima in maniera permanente. Per i Greci, dunque, la felicità non era questione di picchi da mantenere e da innalzare continuamente, come accade oggi per i grafici che indicano i profitti delle aziende. Essa era una condizione di armonica apertura alla vita (harmonìa) che può essere tale solo nella incarnazione di rapporti affettivi e comunitari».29 Ovviamente Grecchi sa benissimo che un compiuto inveramento delle più essenziali caratteristiche della natura umana non può non essere intralciata e ostacolata, in varia misura e maniera, dal dominio ontologico-sociale delle attuali forme capitalistiche di vita; per tal ragione egli, respinto ogni mortificante adattamento del progetto di vita di ciascuno alle coordinate sociali esistenti, e ribadito, di contro alla quasi totalità del pensiero contemporaneo, l’insopprimibile legame ontologico intercorrente tra l’essenza dell’uomo e il pieno dispiegarsi di un’esistenza umana felice, afferma la necessità di «rimarcare che chi consapevolmente cerca di realizzare grandi progetti di vera umanità, analizzando dapprima se stesso ed il mondo, difficilmente si illude che gli stessi possano compiutamente realizzarsi in queste modalità di vita. È anzi molto fermo nella conoscenza della quasi impossibilità di riuscire a mutare in meglio la situazione. Costui, dunque, in realtà non si illude, e pertanto non può, più di tanto, né deludersi né soffrire. La sofferenza gli deriverebbe, invece, dal non aver tentato i propri grandi progetti, il proprio sogno, la realizzazione della propria umanità in un determinato campo della vita».30
Nuovamente, se, da un lato, non si possono non sottolineare le profonde ragioni e la profonda validità teoretica della concezione ontologica della felicità proposta da Grecchi, dall’altro pare indispensabile, rispetto a quest’ultima, formulare talune precisazioni nei termini di una ontologia sobriamente materialistica. Non v’è dubbio che la felicità, quanto al suo nucleo concettuale centrale, sia in un certo senso stabile, una volta che la si intenda come un complesso di capacità, sviluppate a partire dalle più alte potenzialità della natura umana (quelle, in altri termini, concorrenti a realizzare la consapevole «genericità per sé» degli esseri umani) e universalizzabili sulla base della comune dotazione cognitiva ed emozionale della specie. Ma poiché l’intrascendibile radicamento materiale cui sono sottoposti i processi ideativo-riflessivi e gli atti del porre teleologico mediante i quali viene storicamente sostanziandosi l’autocoscienza umana, pongono sempre di nuovo gli uomini di fronte a scelte e decisioni alternative, la cui natura può costituire peraltro un essenziale terreno di ulteriore sviluppo concreto della riflessione autocosciente della specie, l’universalità della felicità e del bene umano non può che assumere la forma essenziale del processo determinato, dell’incessante – ma non relativistico perché ontologicamente fondato – lavorìo problematizzante e riflessivo, aperto a più profonde e circostanziate determinazioni: così, per esempio, il giusto richiamo alla misura cui deve essere sottoposta ogni prassi produttiva trasformatrice della natura, viene innervata di concreti contenuti oggettivamente (approssimativamente) validi dalla riflessione sorta storicamente dai problemi ecologici e antropologici generati da una dissennata accumulazione di beni in forma di merce. La felicità, nella sua maggiore o minore compiutezza, è sempre, in altri termini, l’esisto di disposizioni etiche, di abiti morali fondati sullo sviluppo concreto della propria autocoscienza umano-generica, disposizioni e abiti i quali devono sempre di nuovo rispondere alle risorgenti alternative poste dai processi reali; nel far ciò, essi devono dar prova di saper effettivamente perseguire, senza alcuna aprioristica garanzia e nei limiti di condizioni oggettive non tutte necessariamente conosciute o controllabili, lo scopo di arricchire e sviluppare la più vera (la migliore possibile) umanità dell’uomo (tesi, quest’ultima, su cui, lo ripetiamo, Grecchi ha totalmente ragione). Questo complesso problematico, peraltro, non è certo ignoto al pensiero grecchiano, che pure non sempre considera a dovere la dimensione ontologicamente processuale del bene umano rispetto alle possibilità di concretizzazione universalistica del suo concetto; in un passo assai bello, il nostro autore scrive molto efficacemente: «Così descritto, il tema morale sembra molto facile da sviluppare, ma tale in realtà non è, e ciò non va nascosto. È infatti estremamente problematico – questo il dramma della condizione umana – decidere in concreto le scelte migliori da attuare: destinare il proprio tempo e le proprie risorse ad un’attività anziché ad un’altra, ad una persona anziché ad un’altra, e così via. Ciò nonostante, in questa problematicità, la centralità della cura dell’anima, propria ed altrui, costituisce una bussola nel lungo termine infallibile».31
In che modo queste importanti affermazioni di Grecchi debbano essere intese, in rapporto alle osservazioni svolte in precedenza, dovrebbe ormai essere chiaro, così come non può non apparire chiaramente a chiunque si confronti con essi l’indiscutibile valore dei testi grecchiani qui esaminati, fecondo terreno di dialogo teorico ispirato ad un’idea profondamente sentita di verità etico-umana senza la quale la filosofia è destinata a diventare futile gioco accademico o pedestre apologia dell’esistente.

Claudio Lucchini

Il saggio è stato pubblicato su Koiné, Periodico culturale , Anno XVIII  –  NN° 1-3,  Gennaio-Giugno 2011, pp. 221-229.

Note

1 Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, Pistoia, 1998, p. 123.

2 Ibidem.

3 Cfr. Luca Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, Il Prato, Saonara (Pd), 2009, pp. 48-50.

4 Ibidem, p. 50.

5 Ibidem, pp. 50-51.

6 Ibidem, p. 51.

7 Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, op. cit., pp. 130-131.

8 Luca Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, op. cit., pp. 101-102.

9 Ibidem, pp. 104-105.

10 Ibidem, pp. 121-138. Un’efficacissima sintesi delle analisi di Domenico Losurdo è contenuta nel volumetto (da lui medesimo scritto) Il peccato originale del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1998.

11 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, Petite Plaisance, Pistoia, 2005, p. 41.

12 Ibidem, p. 40.

13 Ibidem, p. 41.

14 Ibidem, p. 94.

15 Cfr., in ibidem, p. 43.

16 Ibidem, p. 94.

17 Ibidem.

18 Ibidem, pp. 26-27.

19 Ibidem, p. 27.

20 Ibidem.

21 Ibidem, p. 38.

22 A titolo puramente indicativo, rinviamo per la trattazione di tali questioni al bel libro di Francesco Ferretti, Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana, Laterza, Roma-Bari, 2007; e agli importanti scritti di Frans de Waal, di cui ci limitiamo a menzionare Primati e filosofi. Evoluzione e moralità, Garzanti, Milano, 2008. Un’esposizione sintetica delle argomentazioni di tali autori e una loro discussione critica, inquadrate nel più ampio tentativo di abbozzare un’etica fondata su un’ontologia sociale materialistica, sono contenute nel mio Il bene come processo possibile concreto. Natura umana e ontologia sociale, Mimesis, Milano-Udine, 2010.

23 Edoardo Boncinelli, Il male. Storia naturale e sociale della sofferenza, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2007, p. 6.

24 Vittorio Girotto – Telmo Pievani – Giorgio Vallortigara, Nati per credere, Codice edizioni, Torino, 2008, p. 127.

25 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, op. cit., p. 113.

26 Cfr., a titolo di esempio, quanto Lukács scrive alle pp. 43-45 dell’ Ontologia dell’essere sociale, vol. II, Editori Riuniti, Roma, 1981.

27 Wolfgang Abendroth – Hans Heinz Holz – Leo Kofler, Conversazioni con Lukács, De Donato Editore, Bari, 1968, p. 88.

28 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, op. cit., p. 141.

29 Ibidem, pp. 120-121.

30 Ibidem, pp. 142-143.

31 Ibidem, pp. 44-45.

Il saggio è stato pubblicato su Koiné, Periodico culturale , Anno XVIII  –  NN° 1-3,  Gennaio-Giugno 2011, pp. 149-167.

 

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