Salvatore Bravo – Trasgressione, Filosofia, Vita. Essere felicemente inadeguati al conformismo del politicamente corretto, facendo della vita che ci accomuna un’opera d’arte filosofica

Salvatore Bravo

Trasgressione, Filosofia, Vita

Essere felicemente inadeguati al conformismo del politicamente corretto,

facendo della vita che ci accomuna un’opera d’arte filosofica

 

La filosofia, per sua struttura epistemica ed etica, è trasgressiva. Essa sovente disorienta, in quanto pone in discussione dogmi e verità sclerotizzate che alla luce del logos si svelano “ideologiche”. In ogni tempo è in tensione feconda con le strutture di dominio e, dunque, con l’egemonia di classe che determina linguaggi e visioni della realtà. Filosofare è anche arte politica ed è impegno etico. Ma nel nostro tempo storico – dominato dal monologo culturale fondamentalmente narcisistico –, la filosofia è oggetto di una precisa operazione ideologica finalizzata a renderla irrilevante: per i potentati può e deve essere soltanto mero onanistico compiacimento della propria servile attività, deprivata programmaticamente di ogni possibilità – dialogica e comunitaria – di flusso vitale. Innumerevoli sono i festival della filosofia e gli interventi nei media da parte di cultori, di studiosi, di specialisti di “materia” filosofica, ma lo scopo è sempre il medesimo: rendere la filosofia impotente. Nel migliore dei casi essa è presentata come la disciplina che pone sì domande, ma solo in un circolo di infinite problematizzazioni che non approdano mai alla verità. Disciplina, dunque, che rafforza e affina soltanto le capacità retoriche. Insomma, essa prepara agli artifici linguistici con cui si conquistano posizioni nel mercato del lavoro, nel mercato delle merci e nel migliore posizionamento possibile in una carriera fondata esclusivamente sul merito postulato dai centri di potere. Fin quando la filosofia sarà soltanto ossequioso ospite nei salotti “bene” e sarà soltanto chiacchiera “colta” per signori e signore annoiati, al più potrà essere usata per consolidare le capacità linguistiche dei futuri venditori delle merci globalizzate. Sarà alienata, quindi, da un sistema economico e sociale che ha nella reificazione la sua forza perversa.

In questa cornice di violenza organizzata occorre preparare, nel presente, la critica radicale della autentica filosofia, quale premessa per disegnare e progettare una nuova realtà politica conforme alla natura sociale e comunitaria dell’essere umano. Il dominio avanza, ma il suo potere non è mai totale, poiché vi sono uomini e donne che resistono e pensano il presente storico. Concettualizzare il tempo storico è gesto linguistico con cui si denuncia l’innaturalità del capitalismo e si tenta di aprire brecce verso il futuro. Luca Grecchi è filosofo del nostro tempo, felicemente inadeguato al conformismo del politicamente corretto. Leggere le sue opere significa sospendere le grammatiche conservatrici del capitalismo per riorientarsi verso la verità. La filosofia da salotto può anche formalmente esaltare il filosofare, ma nella sostanza nega alla verità il suo cammino veritativo, proprio benedicendo il politeismo delle opinioni senza fondamento comune. Senza verità nessuna progettualità è possibile. Riportare la filosofia al suo senso profondo non può che condurre ad affermare che la filosofia non è un inutile girovagare di parole: essa si pone di fronte ai problemi per poter cercare le risposte. Se il capitalismo – oltre che le domande – cerca di neutralizzare le risposte che tentano di immaginare modalità di vita diverse da quelle attuali, Luca Grecchi invece pone di nuovo al centro del filosofare le risposte veritative che ne possono scaturire come momento dialettico senza il quale il problematizzare domandante si dissolve nel pulviscolo desertificante del niente:

 

«Col passare degli anni il desiderio di un sapere vero e buono continua in effetti, nel philosophos, a rimanere il fine della propria esistenza, la quale consiste sempre in una ricerca fatta per trovare, ossia per raggiungere un risultato utile per sé e per gli altri».[1]

 

Filosofia e verità

La filosofia non è una eterna ideale aspirazione alla verità, essa è un ricercare per trovare. Nessun filosofo, certo, possiede completamente la verità assoluta, ma proprio il suo lungo e paziente ricercare è approdo alla verità. Egli partecipa in modo comunitario alla definizione della verità. La filosofia che pone problemi ma non dà risposte è coccolata, in quanto è rassicurante. Luca Grecchi ha deviato da tale infruttuoso percorso. Rappresentare la filosofia come una eterna ricerca senza risultato è un abile modo per disinnescarne il potenziale rivoluzionario e gestaltico:

 

«Nella sua opera, Platone afferma più volte che gli anthropoi non possono divenire compiutamente sophoi, in quanto, pur desiderando assimilarsi al divino, per i loro limiti naturali non possono riuscirvi. Malgrado questo, l’anthropine sophia, per quanto non totale, comprende contenuti importanti di verità. […] La sophia ricercata dalla philosophia, infatti, è per Platone questione di gradi, sicchè può, in parte piccola o grande, essere posseduta da tutti, nonché continuamente incrementata».[2]

 

La verità non può che comportare la definizione di “bene”. La filosofia da festival non osa pronunciare ad alta voce la parola “bene”, e men che meno l’espressione “bene comune”, la quale è il più delle volte consegnata alla cultura della cancellazione. Il capitalismo ha convertito il contenuto umanistico di “bene” in calcolo degli interessi privati, e oscurando il “bene” si oscura la “verità”: così più facilmente costoro possono sottrarsi ed eludere il compito e l’impegno derivanti dalla valutazione etica. Con tale procedura ideologica il “bene” è parola misconosciuta dai padroni del discorso. Solo riportando il “bene” al centro del filosofare la filosofia potrà scorrere nell’alveo fecondo del suo corso:

 

«Quando l’episteme caratterizza la philosophia, essa viene a costituire un sapere che comprende, oltre a contenuti ontologici essenziali per la conoscenza del vero, anche contenuti assiologici essenziali per la realizzazione del bene».[3]

 

Il filosofare autentico non è un astratto vagheggiare (non pochi presentano così la filosofia), ma è ricerca inesausta della verità da parte dell’uomo nella sua storia di essere umano che si umanizza. L’arma della calunnia fu usata contro Socrate: oggi è utilizzata contro la struttura veritativa della filosofia. Il sistema le permette di sopravvivere ma solo come esoscheletro spettrale di se stessa, mutila della sua essenza umana e della sua reale finalità. A tal scopo i filosofi sono presentati con l’espressione – usata come denigrante –  di “metafisici”, cioè alla ricerca di impossibili verità astratte che non conducono a nulla. La verità non sarebbe da ricercare, perché non c’è. Si usa la stessa filosofia per dimostrare che l’oggetto della sua ricerca (la verità) è solo una chimera del passato. Luca Grecchi, invece, dimostra e smaschera la falsità di tale postura ideologica.

Sì, la filosofia ricerca la verità, ma ha ben presente che l’essere umano deve soddisfare in primis i bisogni primari, i quali però non gli sono sufficienti per essere “umano”; ecco dunque che deve ricercare la verità della totalità in cui è implicato per potersi umanizzare. La verità, poi, non è un possesso, ma una prassi che rende l’esistenza individuale e comunitaria qualitativamente migliore. Quantità e qualità sono, di conseguenza, in felice connubio:

 

«Dopo aver soddisfatto le necessità materiali della vita, il bisogno di philosophia, per un ente razionale-morale come l’anthropos, che necessita di attribuire un senso ed un valore alla realtà, costituisce appunto l’attività primaria, ossia la più utile. Essa soltanto consente, infatti, di condurre nella maniera migliore la vita, realizzando la sua essenza nel modo più eccellente verso il fine naturale della verità. Per questo la sophia, per Aristotele, deve non solo essere posseduta, ma compiutamente utilizzata. È il fine del raggiungimento in atto della sophia, del resto, a muovere la potenza insita nel philosophein».[4]

 

Filosofia dell’educazione

Il “bene” è pratica, per cui la filosofia è pratica paideutica. Essa insegna il difficile cammino dell’umanizzazione. Il “bene” è prassi sociale ponendo in essere l’eccellenza dell’essere umano: l’indole comunitaria e sociale. Ma senza una adeguata paideutica delle emozioni e dei bisogni la finalità universale è profondamente imperfetta. La filosofia, sin dalle origini, insegna a contenere le spinte irrazionali e crematistiche mediante la chiarezza della verità e del bene, che devono essere testimoniati e vissuti, affinchè portino all’armonia interiore e sociale. Da ciò deduciamo la motivazione dell’avversione del capitalismo alla filosofia. Il capitalismo, per sopravvivere, esige il disordine delle emozioni e l’oblio del logos, quale razionalità etica capace di disciplinare le emozioni e di favorire le buone relazioni comunitarie nel segno del discernimento tra “essenziale ed inessenziale”:

 

«La philosophia, disciplinando le emozioni, risulta utile per orientarsi fra i problemi più rilevanti conducendo verso le soluzioni migliori, svolgendo in tal modo un compito fondamentale per l’essere umano».[5]

 

La filosofia delle Accademie universitarie insegue e si adatta al mondo, frammentandosi così in formalistiche iperspecializzazioni incapaci di cogliere l’approccio olistico che la connota. La filosofia è sapere teoretico concreto. Educa a ricomporre le parcellizzazioni che hanno smarrito il profondo sguardo con cui “mirare” la realtà. Teoria e prassi sono un corpo unico e vivente in perenne osmosi:

 

«La mera conoscenza pratica infatti, per lo Stagirita, non può sostituire la philosophia, che in tutte le sue parti si presenta come una episteme, ossia anche come un sapere teoretico. Per deliberare bene sul piano politico è in effetti necessario un orientemento filosofico, che nemmeno phronimos può trascurare completamente».[6]

 

La filosofia non è, dunque, un vuoto chiacchiericcio: essa ha un carattere epistemico ben saldo e chiaro. La filosofia è ricerca veritativa dell’intero, valutazione assiologica e metodo dialettico. Filosofare è ragionare per martellare la qualità veritativa delle “proposizioni”. La dialettica non è un mero parlare, è la struttura metodologica con la quale si approda alla verità e alla valutazione etica dell’intero:

 

«In base, infatti, a quanto finora argomentato, essendo la philosophia una ricerca dialettica della verità dell’intero avente come fine la buona vita degli esseri umani, tali elementi strutturalmente intrecciati, dunque separabili solo per esigenze didattiche – risultano essere: a) l’orizzonte veritativo dell’intero; b) la finalizzazione della buona vita; c) il metodo dialettico».[7]

 

Filosofia, scienza e religione

La filosofia si differenzia dalla religione, in quanto è sapere veritativo fondato a livello dialettico e argomentativo, ma anche dalla scienza, poiché quest’ultima si astiene dalla valutazione etica, si limita a descrivere i fenomeni e a matematizzarli. L’economicismo scientista è il vero nemico della filosofia. Lo scientismo asservito all’economia e agli affari è una forma di riduzionismo gnoseologico che struttura trasversalmente l’Occidente. Esso è ateo, in quanto rimuove volutamente la verità, in modo da proliferare e depredare l’umanità e l’ambiente:

 

«Come insegnano sia Platone che Aristotele, la prima operazione da compiere, per la definizione di philosophia, è, esattamente come per gli altri enti, la differenziazione della medesima dalle altre “specie” del “genere” comune, ossia del sapere. Erano in effetti presenti già in epoca presocratica molteplici forme di sapere simili alla filosofia, quali in primo luogo, come detto, le religioni e le scienze definite da alcune differenze specifiche. Le religioni, infatti, a differenza della philosophia, non sono caratterizzate né da un approccio veritativo, né da un metodo dialettico […], così come le scienze non sono caratterizzate né da un approccio interale, né da una finalizzazione valoriale […]».[8]

 

La filosofia è “sapere di non sapere”. Il capitalismo estrapola con il consenso del mondo accademico talune frasi e le trasforma in Totem con cui manipola il fine della filosofia. Nella logica “stile baci perugina” Socrate è un eterno ricercatore di verità, è condannato ad un’esistenza accostabile al mito di Sisifo: un lavoro continuo ma senza soddisfazione alcuna. La filosofia, come detto, è invece pacata e razionale soddisfazione del bisogno di verità in una cornice amicale nella quale chi è sconfitto ha fatto un passo in avanti verso la verità:

 

«Il clima dialogico-amicale, unito alle note affermazioni del Socrate storico di “sapere di non sapere” – o meglio, di sapere di non sapere tutta la verità in maniera assoluta, rimanendo dunque sempre aperto alla possibilità della confutazione –, ha dato tuttavia luogo ad alcuni equivoci ermeneutici sul suo pensiero. Frequenti sono tuttora, infatti, gli studiosi che interpretano Socrate come un mero fautore del dialogo, come se fosse impossibile, alla philosophia, trovare il sapere (la sophia), ma fosse possibile solo cercarlo, per amore del medesimo (la philia, appunto)».[9]

 

L’essere umano è comunitario e veritativo per sua natura, ricerca il senso della sua esistenza nella totalità della comunità. Universale e particolare sono inscindibili:

 

«L’essere umano è in effetti, per il prevalente pensiero greco, un ente che si realizza in maniera compiuta cercando di conoscere con verità e di agire bene. Per questo necessita della philosophia per la realizzazione della propria umanità. Nessun altro sapere, infatti, oltre la philosophia, si occupa della verità e del bene».[10]

 

La prassi del bene-verità

Per uscire dal politicamente corretto dobbiamo riconquistare il sapere filosofico e sulle orme dei filosofi dobbiamo reimparare a valutare la totalità sociale nella quale possiamo fiorire o sfiorire. La valutazione è responsabilità politica, in quanto invoca la partecipazione a migliorare qualitativamente la totalità. La filosofia, dunque, è impegno nella comunità e deserta i salotti:

 

«Per lo Stagirita, infatti, per quanto concerne la realtà umana, non basta descrivere le cose per come effettualmente si sono svolte, al fine appunto di conformarsi alla physis dell’essere umano. Si tratta peraltro di un compito in certo senso naturale, dato che per natura quelle modalità, se non impedite tendono a realizzarsi in quanto “le cose vere e giuste sono più forti delle loro contrarie”. Nella considerazione dello Stagirita, infatti non vi è mai opposizione, bensì complementarietà fra fatti e valori, così come fra teoria e prassi, le quali vengono quasi sempre analizzate in connessione. Aristotele parla per questo anche di una “verità pratica”, che si dà quando un ragionamento vero ispira, appunto, una scelta buona».[11]

 

Dobbiamo ricercare i motivi per ricominciare a leggere filosofi ed autori che hanno trasgredito il linguaggio dell’impero e che non usano tale prospettiva come uno strumento di affermazione personale, ma per sollevare domande vissute che “osano dare risposte”. Nel nostro tempo tutto è possibile, tranne essere autenticamente umani con i limiti e le contraddizioni che queste comportano, per cui riprendiamoci la nostra umanità-verità che il sistema ci nega con la sua hybris nichilistica.

La risposta al dramma etico in cui ci troviamo ad essere, Luca Grecchi l’ha elaborata con la Metafisica umanistica. L’essere umano è l’assoluto che pone la storia, ma quest’ultima ritrova il suo senso nella prassi finalizzata al bene e alla verità. Dobbiamo riprenderci la storia che il capitale vuole curvare ai suoi interessi mediante una progressiva opera di cancellazione di essa:

 

«Il fatto che l’Uomo costituisca un Assoluto solo secundum quid, non un Assoluto simpliciter, non deve far dubitare del suo ruolo di Fondamento. L’Uomo non è l’Assoluto simpliciter, dunque non è il Principio, semplicemente in quanto la sua esistenza è sottoposta sul piano fisico ad alcune condizioni, che sono appunto quelle del Principio. Ciò nonostante, l’Uomo è il suo Fondamento sul piano metafisico, poiché è, come ormai più volte ricordato, il solo ente in grado di conferire significato trascendentale alla Realtà».[12]

 

L’Umanesimo filosofico riconduce la storia al suo fondamento, l’essere umano, il capitalismo, invece, pone al centro la merce e il dispositivo tecnocratico. La storia è il luogo e lo spazio dell’impossibile, ma affinchè l’impossibile possa realizzarsi l’essere umano deve riprendersi la storia con la prassi del pensiero.

Salvatore Bravo

 

[1] Luca Grecchi, Il concetto di philosophia dalle origini ad Aristotele, Scholé, Morcelliana, Brescia 2023, p. 30.

[2] Ibidem, p. 89.

[3] Ibidem, p. 106.

[4] Ibidem, p. 184.

[5] Ibidem, p. 191.

[6] Ibidem, p. 223.

[7] Ibidem, p. 35.

[8] Ibidem, p. 82.

[9] Luca Grecchi, Verità, Unicopoli, Milano 2023, p. 103.

[10] Ibidem, p. 23.

[11] Ibidem, pp. 212-213.

[12] Luca Grecchi, Metafisica umanistica, petite plaisance, Pistoia 2023, p. 89.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Siamo capaci di costruire “comunità di senso” ? L’umanità è vicinanza solidale e condivisione, e necessita di “comunità di senso” per vivere la profondità del suo essere-esserci. La “comunità di senso” si caratterizza per l’universale concreto. Il concetto trae la sua energia creativa dal dono. La società della “seduzione” recide i legami; predilige e organizza la solitudine. Solo tematizzando categorie che la quotidiana ipostatizzazione naturalizza rendendole invisibili agli occhi della mente si può progettare un futuro diverso. Altrimenti il pensiero diventa “intrasformabile”. Questa “intrasformabilità” del pensiero sterilizza l’immaginazione concettuale. La testimonianza viva di una compiuta rigenerazione concettuale non deve restare chiusa nel forziere della mente, ma trasmutarsi in azione che invita a pensare e a rendere ciò che sembrava impossibile “reale e razionale”, a vivere il “naturale senso di comunità”, con amicizia libera da finalità crematistiche.

Stone arch with red stone at top in the morning on a beach
«E quando ti chiederanno che cosa facciamo, tu gli risponderai : “Noi ricordiamo”», Fahrenheit 451, di François Truffaut.

Siamo capaci di costruire “comunità di senso” ? L’umanità è vicinanza solidale e condivisione, e necessita di “comunità di senso” per vivere la profondità del suo essere-esserci. La “comunità di senso” si caratterizza per l’universale concreto. Il concetto trae la sua energia creativa dal dono. La società della “seduzione” recide i legami; predilige e organizza la solitudine. Solo tematizzando categorie che la quotidiana ipostatizzazione naturalizza rendendole invisibili agli occhi della mente si può progettare un futuro diverso. Altrimenti il pensiero diventa “intrasformabile”. Questa “intrasformabilità” del pensiero sterilizza l’immaginazione concettuale. La testimonianza viva di una compiuta rigenerazione concettuale non deve restare chiusa nel forziere della mente, ma trasmutarsi in azione che invita a pensare e a rendere ciò che sembrava impossibile “reale e razionale”, a vivere il “naturale senso di comunità”, con amicizia libera da finalità crematistiche.

 

 

 

L’inimicizia come dispositivo anticomunitario

Il nostro è il tempo dell’inimicizia competitiva. Il capitalismo assoluto colonizza e neutralizza l’immaginazione critica con l’inimicizia programmata e pianificata. Nel sistema mercato che ha cannibalizzato la comunità e la prassi della speranza, l’inimicizia è il mezzo più efficiente per tale risultato. I luoghi della comunità sono spazi ancora visibili, ma in essi è stata trasmessa l’inimicizia. In ogni spazio pubblico regna la divisione crematistica. Il linguaggio non è ponte tra le persone e non è l’esplicarsi del percorso per pensare la totalità in cui si è gettati per uscirne rigenerati. Il linguaggio-logos è stato abilmente neutralizzato nella sua forma veritativa. È divenuto solo calcolo che persegue interessi personali o di gruppo. Ma specialmente è divenuto “seduzione”. Per vendere e vendersi il sistema addestra ad usare artifici linguistici che possano obnubilare il cliente-consumatore e, in tal maniera, egli è vinto e irretito nella rete del “non senso”. La seduzione è il mezzo con cui l’ipertrofia consumistica oscura l’altro, per cui la parola diventa “sofistica” del PIL. L’inimicizia è l’asse portante del capitalismo: non a caso sin dall’infanzia si insegna la competizione divisiva. Si insegna che lo spazio-tempo è un’immensa vetrina, per cui i ruoli sono due: si compra o si vende. La guerra di tutti contro tutti è la normalità dello Stato-mercato. Ogni giorno sono innumerevoli le vittime della quotidiana battaglia per le merci, ma in quanto vittime cadono nella dimenticanza, in quanto è solo la merce che deve apparire e governare il mondo. La derealizzazione ha il volto patinato della società dello spettacolo.

Nella corsa all’accaparramento bisogna imparare a sbaragliare il nemico. L’inimicizia alligna in tale deformazione emotiva contrassegnata da una razionalità irrazionale, e penetra nelle profondità della psiche fino a riorientarla verso la logica dell’inimicizia. La disarmonia interiore è la condizione perché il “mercato” trionfi e la “comunità” sia sacrificata sull’altare del profitto. Il sistema capitale, con i suoi dispositivi di controllo, sollecita alla lotta crematistica ed esalta l’uomo imprenditore. Si tace sul dolore che ogni carriera e ogni “successo” lascia dietro di sé. Non vi è alcuna crematistica “buona”, l’ossessione proprietaria non può che condurre alla disintegrazione di ogni forma di solidarietà in cui si esplichi la natura umana razionale, etica e solidale. L’inimicizia è il dispositivo che deve circolare, deve produrre l’urto competitivo perenne finalizzato ad impedire la comunicazione veritativa. La solitudine è garanzia per il capitalismo; personalità tagliate nella solitudine subìta disimparano la speranza e non osano pensare un altro mondo possibile.

 

Società della paura

Il capitalismo non è semplice nichilismo, esso conosce la natura umana, in quanto è fenomeno storico posto dall’umanità. Le oligarchie, per eternizzare il sistema, devono pianificare la negazione della consapevolezza collettiva della natura umana. Stimolare gli appetiti più irrazionali e descrivere l’alterità come competitore che in ogni gesto e parola vuole solo saccheggiare e defraudare induce alla società della paura. Dove vi è inimicizia vi è paura. L’altro è colui che ordisce l’inganno, è il potenziale nemico, anche quando non vi sono le condizioni per la lotta. La paranoia dilaga e pone il pensiero nella mordacchia del timore che può trasformarsi in terrore. La distanza emotiva non solo è fonte dell’atomistica delle solitudini, ma rende il pensiero debole e fragile. Il concetto emerge dal confronto, è l’effetto dell’incontro-scontro con parole vere. Ma affinché ciò possa essere è necessaria la fiducia con la quale si tende all’ascolto e ad accogliere le parole per “tenerle preziose nei propri pensieri”. Sono germogli di verità dai quali fioriscono la verità e la prassi. La società della seduzione e della paura recide i legami come scinde le parole; essa predilige, vuole e organizza la solitudine. Non a caso le cronache ci restituiscono in modo pruriginoso interminabili discussioni mediatiche sui crimini sanguinosi che spingono a chiudersi nel proprio bozzolo privato. Ogni vita è così racchiusa nel proprio inferno privato, ci si consuma nel terrore panico della comunità desiderata e agognata. Ciò che dovrebbe essere fonte di vita, la comunità, diviene il tormento di ogni giorno.

Il capitalismo, per dominare, ha il suo cattivo alfabeto dei sentimenti. Il dispositivo di controllo, che circola oppressivo e silenzioso, insegna sin dalla più tenera età a guardare e vivere l’alterità come il nemico. Utilizzando tale strategia il capitalismo mostra con l’operazione di “rastrellamento della natura umana” di conoscere “la natura dell’essere umano”. Per renderlo singolarità seduttiva deve pianificare l’oblio della natura etica e razionale fin dalla più tenera età: gli spazi di condivisione dei giochi sono privatizzati e le stesse attività ludiche non più spontanee occasioni di incontri creativi sono parte degli automatismi crematistici. Il totalitarismo liberista, come ogni totalitarismo, deve controllare la formazione sempre più precocemente, perché l’innaturalità del sistema dev’essere schermata con il velo di Maya dell’attivismo deformante. Le patologie sempre più precoci e il tragico che ormai campeggia negli episodi di cronaca sono i segnali da decriptare.

 

Trascendere il capitalismo

Il capitalismo è innaturale, non risponde ai reali bisogni dell’essere umano. Trasforma gli esseri umani in “galli da combattimento”, ma la solitudine e il vuoto metafisico non sono cancellabili, continuano a sussistere e si manifestano in un dolore sordo e cieco che assume forme nuove e metamorfiche, apparentemente irrazionali. Se il dolore è riportato nella materialità della storia, esso non può che parlarci dell’intero. In ogni dolore psicologico e in ogni vita incompiuta si svela la verità del capitalismo. L’essere umano reificato e reso muto nella sua verità etica e razionale è la denuncia più vera del capitalismo crematistico.

L’umanità è vicinanza solidale e condivisione, necessita di “comunità di senso” per vivere la profondità del suo essere-esserci. La comunità di senso si caratterizza per l’universale concreto.

L’essere umano per poter rendere “reale e razionale” la sua natura necessita di essere riconosciuto nella sua umanità nello sguardo dell’altro che lo accarezza sulla soglia della parola.

L’universale concreto è il logos, è conoscenza che dispiega concettualmente la natura umana per porla nella prassi. Il capitalismo non è progettualità ma dispotismo economico, mentre la natura umana ricerca e progetta la comunità in cui la conoscenza di sè è processo comunitario.

Il concetto trae la sua energia creativa dal dono. La quantità e la qualità sono così in felice connubio mediante il concetto.

Il pensiero riflettente orienta la comunità verso la realizzazione della natura umana. La qualità rende la quantità razionale e funzionale ai reali bisogni dei singoli.

La progettualità verso la comunità di senso certamente si esplica in un lungo percorso nel quale conflitti e spinte regressive sono e saranno presenti. Il fulcro del processo è nella chiarezza del concetto e dei fini fondati a livello metafisico che possono consentire il superamento di tensioni e umane incomprensioni. Il compito che si prospetta per ognuno – anche nella comprensibile incertezza, nella latente indecisione, nella difficile accettazione dell’unità inscindibile di teoria e prassi –, è quello di partecipare con decisione alla progettualità (teorica e pratica) delle comunità di senso che si ritengano presenti tra di noi per contribuire a dare loro un futuro, generando anche nuove oasi di resistenza. Rompere l’assedio è possibile. Il capitalismo con i suoi mezzi e con le sue strategie è il prodotto di una classe sociale che ha divinizzato la “merce”, il plusvalore, il profitto. Ma, nonostante la potenza dei mezzi di cui dispone non è “assoluto”, benché si presenti come tale. La resistenza messa in atto anche se da piccole comunità di senso dà prova, proprio nel “piccolo”, che il capitalismo non è tutto, che non è forza invincibile, e che dunque anche in questo tempo d’assedio è possibile divergere e mostrare che il capitalismo può rivelarsi solo come tragica manifestazione storica che potrà essere trascesa dall’universalizzarsi delle umane comunità di senso.

 

Il lento incedere della trasformabilità del pensiero

e l’intrasformabilità dello stesso

La rivoluzione è prassi, è radicale in quanto tematizza categorie dell’economico che la quotidiana ipostatizzazione naturalizza al punto che esse possono rendersi invisibili agli occhi della mente. Il pensiero umano diventa allora intrasformabile, non urta contro il “non io” della categoria che fonda la sottomissione, il denaro, e non lo concettualizza nella sua storicità, ma lo sterilizza naturalizzandolo, lo “percepisce” come perenne e intrascendibile.

Questa intrasformabilità del pensiero sterilizza l’immaginazione concettuale: la categoria del denaro è resa non più visibile, come fosse connaturata all’uomo che agisce dunque al pari del «pesce che non vede l’acqua»; nello stesso modo il denaro è nelle relazioni, le configura, ma non è pensato. La prassi incontra il suo limite nel “non pensato/non desiderato” e quest’ultimo non si converte in azione.

Un modello altro di società dev’essere radicale, deve pensare l’ovvio dogmatizzato per scendere nell’abisso delle pratiche del dominio e pensare la radice prima del male: solo in tal modo il pensiero si trasforma in desiderio e in testimonianza di un altro modo di esserci che ha il suo inizio nel presente. La progettualità è orientata verso il futuro, ma si radica nel presente. La testimonianza viva di una compiuta rigenerazione concettuale non resta racchiusa nel forziere della mente, ma si trasmuta in azione che invita a pensare e a rendere ciò che sembrava impossibile “reale e razionale”, a vivere e a far vivere comunità di senso. La trasformabilità del pensiero diventa convertere, come il termine latino suggerisce è un volgere/cambiare che vive nella persona e nel corpo sociale in modo integrale. Siamo nella caverna del denaro, è la nostra oscurità, e come tale ci acceca al punto da normalizzare il “buio-violenza della quantità-crematistica”: condizione naturalizzata che irrigidisce le relazioni in rapporti inautentici. La trasformabilità del pensiero è relazione che rende effettiva la possibile trasformazione nel presente e diventa “il fuoco creativo” per nuove trasformazioni/conversioni.

Il pur lento incedere della trasformabilità del pensiero non può che essere in tensione e in lotta con l’intrasformabilità dello stesso, poiché conduce alla consapevolezza che in ogni essere umano vi sono categorie assimilate simili all’aria che respiriamo e dunque, vi sono automatismi del pensiero non concettualizzati. La nostra umanità si può anche smarrire e irrigidirsi in schematismi ipostatizzati rinunciando a priori alle potenzialità dell’immaginazione con cui esplorare possibilità di vita e di pensiero diverse da quelle immediatamente prescritte e/o vigenti. Tale passivizzante “intrasformabilità” congela il desiderio, diventa la corrente fredda che isterilisce l’immaginazione rivoluzionaria e tende a riprodurre i rapporti crematistici e di sussunzione formale e materiale anche nel progetto vivificante delle comunità di senso, il quale si genera già eroso da una profonda deficienza interna. Il denaro, come categoria sacrale indiscutibile, è lo strumento della riproduzione delle relazioni anti-comunitarie e, non altrimenti pensato e immaginato, continuerà ad operare.

L’amicizia disinteressata e libera da narcisismi e da finalità crematistiche è l’alfabeto emotivo e razionale con cui reimparare a vivere il “naturale senso della comunità”, rifondando la prassi e la speranza.

Salvatore Bravo

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Un ponte sull’abisso ontologico – Dai postulati dell’ideologia dell’aziendalismo ancorché meritocratico, all’occultamento dell’economia umana concreta, eternizzando l’economia capitalistica pur declinata come “progressista”, ma che resta comunque un’economia asociale, emerge con chiarezza la nuda verità del cosiddetto progresso capitalistico che si realizza solo come regresso umano. Ecco allora l’urgenza di progettare un’economia concreta degli esseri umani che risponda ai suoi veri più profondi bisogni, secondo regole di solidarietà e di eguale rispetto di ogni individuo, al di fuori della molla puramente egoistica del profitto privato e/o aziendale. Il progresso economico ha un significato umano nella misura in cui lascia all’uomo più tempo e più energie per dedicarsi all’elaborazione simbolica della sua esistenza, all’arricchimento delle sue relazioni interpersonali, nell’interesse delle generazioni a venire e non solo a nostro vantaggio, ma anche per il bene altrui. Saremo capaci di costruire un ponte sull’abisso ontologico che divide l’essere dal dover essere, un ponte che ci porti a vivere amando il bene e il bello, promuovendone i contenuti in relazioni non competitive ma di dono, con coloro che incontriamo, generando ciò che davvero vale nell’attraversamento della quotidianità?

Gustav Klimt, Albero della vita (19051909).
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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petite plaisance – Perché abbiamo scelto questo frammento come “pensiero-guida” della nostra ricerca, del nostro agire quotidiano, della nostra vita? Perché Eraclito ci invita a modificare sostanzialmente la “modalità” dello sperare, realizzando il compimento della destinazione ontologica dell’uomo nell’armonicità che gli viene conferita dall’amore. Senza speranza, senza armonicità, senza amore, vi è soltanto l’eclisse di un essere disgiunto da sé dalla contesa (νεῖκος) e dalla nichilistica conflittualità.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Carmine Fiorillo – Rendiamo noi stessi costruttori di ponti eidetici: allora saremo davvero animati da nuove strutture di pensiero. I ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero, ponti eidetici, in cui si sedimentano quelle tracce di significato che realizzano l’attraversamento dalla vita alla vita. L’antropologia capitalistica ce ne consente solo lo strumentale utilitaristico transito, ma inanimato. I veri costruttori di questi ponti sono tali se sanno offrire testimonianza autenticamente vissuta dell’essere animati da nuove strutture di pensiero negli atti sostanziali di relazione, testimonianza di un alto grado di differenziazione dall’onnivora omologazione.

Paul Klee, Rivoluzione del Viadotto, 1937.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Federica Piangerelli – «Navigazioni filosofiche tra le parole greche di Straniero». La collana “mare dentro” propone un viaggio lungo i molteplici crinali della parola “straniero”. Un percorso semantico e concettuale che mostra tutta l’attualità e l’urgenza di tornare a riflettere sulle parole e a riscoprirne l’importanza come primo passo per promuovere una efficace trasformazione del mondo in cui viviamo.

Federica Piangerelli, Straniero. Navigazioni filosofiche tra le parole greche di straniero.

ISBN 978-88-7588-390-4, 2024, pp. 264, formato 130×170 mm., Euro 18 – Collana “mare dentro” [2].

In copertina: Lawrence Alma-Tadema, A coign of vantage (Una posizione vantaggiosa), 1895, Malibu, J. Paul Getty Museum.



Introduzione

Arianna Fermani

Volgere lo sguardo all’infinito mare del bello:1
la bellezza, l’utilità e l’urgenza

di tornare a “dare peso alle parole”.

 

 

La medesima lingua greca, quella così immensamente pieghevole e libera,nondimeno … è pur lingua formata e perfetta.

G. Leopardi, Zibaldone, 2852.

 

Le domande […] sono tutto, nella vita. Dietro a ogni do­manda si nasconde un universo in espansione di ignoranza, senza limiti. È bello, che l’ignoranza non abbia limiti, perché ti consente, insieme al tuo universo di (appunto) espanderti. Di arrivare là, dove nessuno è mai giunto prima. E come la grammatica e la punteggiatura si piegano al mio volere […] anche la conoscenza deve per forza uscire dagli schemi, deve andare oltre, deve osare, anche le brutte figure, altrimenti significa che state cercando in camera vostra e senz’altro ci troverete tante cose, a parte l’altro calzino, ma saranno tutte cose che avrete già acquisito nella vita e che non dico che non vi servano più, ma non estingueranno la vostra sete.

L. Ortolani,

Istruzioni per prendersi il mondo, Sole24Ore, 21 gennaio 2024.

 

 

 

La parola “straniero”, nei vari modi in cui l’hanno detta e pensata gli antichi Greci, rappresenta il secondo approdo, dopo “desiderio”, di una serie di “navigazioni filosofiche”, che, con questa collana, ci piacerebbe intraprendere idealmente con i nostri lettori e che, nei nostri viaggi futuri, ci condurranno verso le parole greche per dire “movimento”, “anima”, “armonia e disarmonia”, “economia e ricchezza”, “natura”, “guerra e pace”, “felicità e infelicità”, “tempo” e molte altre ancora.

Ma perché, a nostro avviso, può aver senso dare avvio queste navigazioni?

In primo luogo, perché abbiamo pensato che, virare tra le diverse pieghe di alcune parole antichissime e insieme eterne, è un modo per “volerci bene”, spingendoci a scorgere meglio i nostri orizzonti, a capire meglio chi siamo e chi vorremmo essere e, dunque, perfino a cambiare la rotta della nostra esistenza, se e quando è necessario.

Ecco perché, l’“infinito mare del bello” che, come indica il titolo di questa collana, ci portiamo dentro da sempre, merita di essere nuovamente solcato, alla scoperta (o alla riscoperta) di mondi infiniti, eternamente seduttivi e sempre capaci di dirci qualcosa, mondi antichi e lontani, capaci però di offrirci uno sguardo nuovo per comprendere il nostro universo, fatto di gesti e parole.

Come è stato ricordato, infatti, in ogni parola si nasconde un mondo meraviglioso da far risuonare: «non si tratta, infatti, solo di lingua: si tratta di pensiero, di storia, di immaginazione. Si tratta di incontri infiniti: con suoni, metafore, etimologie; con schiere di personaggi, umani e divini; con vicende politiche, con miti; con luoghi geografici; con sistemi di pensiero e di valori; con concezioni estetiche; con emozioni e sentimenti e sensazioni. E poi c’è tutta l’ambiguità delle cose antiche, i cui messaggi si offrono e si sottraggono a un tempo, e ci costringono ad apprendere altri codici, altre categorie, altre intenzioni»2.

In secondo luogo, abbiamo voluto varare questo progetto perché riteniamo che lavorare sulle parole e porsi all’ascolto delle loro voci e dei loro echi infiniti non sia solo un lavoro bello, ma si configuri anche come un’impresa profondamente utile e urgente, come una impellente e seria chiamata di fronte a un vero e proprio “inabissamento del valore della parola”. Con la svalutazione della parola, infatti, cresce, inevitabilmente, anche l’indifferenza verso la verità. Oggi, più che mai, ci troviamo di fronte a un’«onda oceanica di parole aggressive, svendute, abusate, svalutate, esasperate che corre lungo i canali informatici… da un lato, la parola precipita trasformandosi in scarto, accumulandosi in depositi maleodoranti per volgarità e stupidità: dall’altro lato, ecco invece l’impennarsi della falsità che cresce esponenzialmente, raggiungendo picchi di popolarità e di adesione acritica»3. Attraversare – in modo volutamente leggero4 ma per nulla superficiale – l’“infinito mare del bello” di quell’universo di parole che i Greci hanno elaborato per il loro tempo e, indirettamente, anche per il nostro, significa rispondere ad un appello alla bellezza, che è estetico ed etico insieme.

Si tratta, in conclusione, di provare a ri(dare) forma a noi stessi e al mondo, di tentare di “rimettere le cose al proprio posto”: sapere di che cosa parliamo quando usiamo alcune parole è, in questo senso, un’operazione semplice solo in apparenza perché, al contrario, è delicatissima e, allo stesso tempo, potentissima, proprio per le sue numerose ricadute sulla realtà, per il suo poderoso effetto trasformativo del reale.

È dunque con la stessa “sete di forma”5 che sentivano i Greci che ci apprestiamo a partire, in una serie di viaggi, nel mondo e dentro noi stessi, che non sempre saranno semplici ma che anzi, talvolta, risulteranno perfino disagevoli e rischiosi (d’altronde, si sa, “una nave è al sicuro nel porto: ma non è per questo che le navi sono fatte”6), e che saranno sempre guidati da una ferma esigenza di concretezza di fondo: tornare a sentire il vero profumo di parole che “sanno” di vita; riuscire a vedere quell’intimo e strettissimo legame che gli Antichi istituirono, ogni volta da punti vista e angolature diverse7, tra linguaggio e cose del mondo; riuscire a commuoverci, ancora come più di 2000 anni fa, di fronte alla «ricchezza del vocabolario nel quale a ogni parola si afferma il contatto diretto e vario delle realtà»8. Queste traversate sono motivate da una convinzione: comprendere, distintamente e intimamente, che senza passare attraverso una profonda “ecologia” del linguaggio, non potrà mai esserci nessuna vera trasformazione del mondo in cui viviamo.

 

1 L’immagine è tratta da Platone, Simposio 210D.
2 N. Gardini, Viva il greco. Alla scoperta della lingua madre, Milano 2021, p. 12.
3 G. Ravasi, Brevario. Una proporzione, Domenicale, Sole24 ore, 24 settembre 2023.
4 Per una precisa scelta editoriale, infatti, le note e i riferimenti bibliografici dei vari numeri della collana saranno limitate al minimo.
5 «Il posto singolare occupato dalla Grecità nella storia dell’umana educazione si fonda sulla medesima peculiarità della sua organizzazione interna, sulla sete di forma che tutto domina» (W. Jaeger, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen, 3 voll., Berlin 1936-1947; trad. it. L. Emery-A. Setti, introduzione G. Reale, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Bompiani, Milano 2003, p. 13).
6 Mi permetto di rimandare al mio saggio “Una nave è al sicuro nel porto, ma non è per questo che le navi sono fatte”. L’incertezza nel mondo antico: la vita buona fra rischi e cicatrici, in Vivere L’incertezza, a cura di C. Chiurco, QuiEdit, Bolzano 2022, pp. 43-56.
7 Secondo il paradigma del Multifocal Approach, su cui cfr. M. Migliori, Opportunità e utilità di un approccio multifocale, in Il pensiero multifocale, «Humanitas» 1-2, 2020, pp. 3-38; P. Mauri – M. Migliori, Un secondo round su “Il pensiero multifocale”. La ripresa teorica della proposta, in Il Pensiero Multifocale 2. Una ripresa teorica della proposta, «Humanitas» 1-2, 2022; E. Cattanei – A. Fermani – M. Migliori (eds), By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach, Academia Verlag, Sankt Augustin 2016.
8 M. Yourcenar, Memorie di Adriano, trad. it. di L. Storoni Mazzolani, Torino 2002, pp. 33-34.


Federica Piangerelli

S t r a n i e r o

Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.

Italo Calvino,

Lezioni americane.
Sei lezioni per il prossimo millennio.

 

Per intraprendere questa nostra navigazione filosofica attraverso le parole greche dello straniero, il primo aspetto che ci preme rimarcare è il saldo intreccio che lega questa figura alla dimensione del mare. Spesso, infatti, è proprio dalle “liquide vie del mare color del vino” – per utilizzare una espressione omerica – che arriva lo straniero ed è solcando le rotte dei grandi “mari chiusi”, come il Mar Mediterraneo1, che gli stessi Greci giungono in nuove terre, venendo a contatto con altri popoli e civiltà diverse dalla propria.

Elemento duplice e angosciante per natura, perché finito e infinito, pericoloso e ospitale, impraticabile e percorribile, il mare merita di essere considerato un luogo evenemenziale. Questo, infatti, non funge da sfondo monolitico alle vicende umane, ma detiene un ruolo attivo nello sviluppo delle stesse e lo fa con una movenza costitutivamente dinamica: mentre apre nuovi canali di comunicazione, preserva le differenze. Non è un caso, allora, che tra i vocaboli utilizzati dai Greci per esprimere il mare nelle sue variegate sfaccettature, come ἄλς (als), “acqua salata”, πέλαγος (pélagos), “ampia e piatta distesa”, e θάλασσα (thálassa) “canale”, vi sia anche il lemma πόντος (póntos), che rimanda alla «‘via di passaggio’, talvolta difficile, come nell’Ἑλλήσποντος, che collega l’Europa e l’Asia, o nell’Εὔξεινος πόντος, il Ponto Eusino, che i Greci hanno percorso come migranti a commerciare e a fondare nuove città, e dove εὔξεινος “accogliente, ospitale”, è un eufemismo … che del mare sa esprimere per antifrasi anche i pericoli che sono necessariamente compresi nella funzione positiva della parola pontos. La radice è la medesima del lat. pons, pontis, il ponte che collega due rive e che richiama pure pontifex»2.

Questa immagine evocativa, dunque, ci sprona a prendere il largo e a solcare i flutti iridescenti che ribollono nel vasto mare dentro lo straniero, consapevoli, però, che ci attende un viaggio avventuroso, tra tempeste e bonacce. Ma, se è vero, come riconosce Pittaco, che «la terra è affidabile, il mare inaffidabile» (DK10A3, V, 10), è altrettanto vero, come ricorda Pla­tone, che «il rischio è bello (καλὸς γὰρ ὁ κίνδυνος)» (Fedone, 114D5), motivo per cui vale la pena affronta­re con il giusto coraggio e una buona dose di curio­sità questa nostra esplorazione filosofica dai molti e articolati percorsi.

Federica Piangerelli

1 Si deve a Platone una delle più incisive immagini relative al Mar Mediterraneo: «Sulla terra ci sono molti e meravigliosi luoghi […]. Essa è qualcosa di straordinariamente grande e noi abitiamo in una piccola parte che va dal fiume Fasi alle Colonne d’Eracle, stando intorno alle rive del mare [scil.: Mediterraneo] come rane o formiche intorno ad uno stagno. E ci sono molti altri popoli che abitano altrove, in molte altre regioni simili a questa» (Fedone, 108C5-109B). Sempre a Platone, però, si deve anche una rappresentazione eloquente dei pericoli legati al mare: «Il fatto che il mare sia vicino ad una regione è una condizione piacevole nella vita di tutti i giorni, ma, nel tempo, è realmente una vicinanza salata e aspra» (Leggi, IV, 705A2-3).

2 A. Camerotto, Xenia epica, ovvero le regole della civiltà, in A. Camerotto – F. Pontani (a cura di), Xenia. Migranti, stranieri, cittadini tra i classici e il presente, Mimesis, Milano-Udine 2018, pp. 249-273, pp. 249-250.


Indice

Presentazione della collana mare dentro

di Arianna Fermani

Ringraziamenti

 

Mare

 

  1. βάρβαρος (bárbaros)

 

  1. Lo straniero balbuziente

1.1. Lo straniero estraneo alla lingua del lógos

1.2. Lo straniero che parla una lingua sconosciuta,

       ma che si può apprendere

1.3. Lo straniero che emette suoni animali

 

  1. Lo straniero che appartiene ad altre civiltà

2.1 Lo straniero differente dal greco

2.2. Lo straniero inferiore al greco

 

  1. Lo straniero spietato e turpe

3.1. Lo straniero simbolo di tracotanza

3.2. Lo straniero sottomesso a regimi dispotici

3.3. Lo straniero accecato dalla ricchezza

3.4. Lo straniero bestiale

3.5. Lo straniero “non greco”, ma comunque “umano”

 

  1. Lo straniero “straordinario”

4.1. Lo straniero sbalorditivo

4.2. Lo straniero depositario di una antica sapienza

 

 

 

  1. ξένος (xénos)

 

  1. Lo straniero, l’ospite, il nemico

1.1. Lo straniero perturbante

1.2. Lo straniero: una figura relazionale

1.3. Lo straniero al bivio

 

  1. Lo straniero inospitale

2.1. Lo straniero egoista e prepotente

2.2. Lo straniero nemico degli stranieri

2.3. Lo straniero che mette al bando gli stranieri

 

  1. Lo straniero ospitale

3.1. Lo straniero amico degli stranieri

3.2. Lo straniero che diventa ospite

3.3. Lo straniero protetto dagli dèi

3.4. Lo straniero protetto da accordi politici

 

  1. Lo straniero residente

4.1. Lo straniero incluso nella città,

       ma escluso dalla cittadinanza

4.2. Lo straniero chiamato ad una condotta irreprensibile

4.3. Le straniere

 

Verso altre mete e nuovi lidi

 

Bibliografia

 

Indice dei nomi




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Aristotele – «La ricerca psicologica». Antologia, scelta, introduzione e note di Diego Lanza. Posfazione di Lucia Palpacelli: «Psyché: una realtà dalla profondità insondabile»

Aristotele, La ricerca psicologica. Antologia, Scelta, introduzione e note di Diego Lanza. Postfazione di Lucia Palpacelli: «Psyché: una realtà dalla profondità insondabile».

ISBN 978-88-7588- 387-4, 2024, pp. 224, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “il giogo” [175]. In copertina: Joan Mirò, Ciphers and Constellations in Love with a Woman, 1941, Art Institute of Chicago, Chicago, Illinois.


Sinossi

Questa antologia degli scritti psicologici aristotelici a cura di Diego Lanza è preziosa perché ci guida con perizia alla scoperta di un «oggetto illustre e ingombrante», quale la psyché: «Il soffio vitale, la vita, quindi anche l’anima secondo il tradizionale significato di entità legata al corpo». Aristotele studia l’anima a partire da una prospettiva del tutto nuova nella sua epoca: la analizza come oggetto della scienza della natura e apre quindi il suo studio a «un nuovo campo di fenomeni, quelli appunto che interessano contemporaneamente anima e corpo».
Lucia Palpacelli, nella postfazione all’antologia, intreccia con Diego Lanza un ideale e importante dialogo dialettico che tocca i punti nevralgici dell’analisi aristotelica intorno alla psyché. Un tale riattraversamento mostra come i problemi evidenziati da Lanza continuino a nutrire il dibattito critico odierno; inoltre coglie, nell’atteggiamento aristotelico rispetto all’anima, un insegnamento che è un “possesso per sempre”: «Gli Antichi continuano a insegnarci il modo di guardare e interrogare il mondo e noi stessi, gesto profondamente ed esclusivamente umano e che ci fa riscoprire nella bellezza di essere esseri umani».


Diego Lanza

Diego Lanza (1937-2018), grecista e accademico dei Lincei, già titolare della cattedra di Letteratura greca all’Università di Pavia. Studioso di rara sensibilità, nel corso della sua prolifica carriera ha curato edizioni con commento di Anassagora e Aristotele e ha contribuito a opere collettive come Lo spazio letterario della Grecia antica (1992-1996) e I Greci. Storia, cultura, arte, società 1996-2002). È autore di opere e saggi di grande respiro storico-letterario. Nel 2013 esce Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Ottocento e Novecento, e nel 2017 Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento ad oggi. Nel 2018 Bompiani ha pubblicato la nuova edizione delle Opere biologiche di Aristotele a cura di Lanza/Vegetti, con il titolo Aristotele, La vita. Testo greco a fronte. Nel 2019 vedono nuova luce La disciplina dell’emozione e Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune; nel 2020 Il tiranno e il suo pubblico; nel 2022 Nous e thanatos. Scritti su Anassagora e sulla filosofia antica; nel 2023 Dramata I. Scritti sulla drammaturgia euripidea, Dramata II. Scritti sulla tragedia antica e le teorie del tragico, Dramata III. Scritti sulla commedia antica; sua unica prova narrativa, uscito postumo, Il gatto di piazza Wagner (2019).


Lucia Palpacelli

Lucia Palpacelli è docente di Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Per Bompiani ha curato l’appendice bibliografica e lessicografica del volume di Aristotele, Fisica (2011); la revisione, aggiornamento e saggio bibliografico del volume di Aristotele, La generazione e la corruzione (2013) e il saggio introduttivo, traduzione e note del De interpretatione all’interno dell’Organon aristotelico (2016). Tra i suoi scritti: L’Eutidemo di Platone. Una commedia straordinariamente seria (2009); Aristotele interprete di Platone. Anima e cosmo (2013); Zenone di Elea. Frammenti e testimonianze (2022).



Abbiamo pubblicato di Diego Lanza …

Pubblicazioni di Lucia Palpacelli

https://docenti.unimc.it/lucia.palpacelli#content=publications



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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“Poikilia” delle emozioni. La complessità dei “pathe” in Platone. A cura di Laura Candiotto e Alessandro Stavru.

Con contributi di Mariapaola Bergomi, Douglas Cairns, Laura Candiotto, Melania Cassan, Fulvia de Luise, Gabriele Flamigni, José Antonio Giménez, Luca Grecchi, David Konstan, Laura Marongiu, Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano, Anna Pavani, Olivier Renaut e Alessandro Stavru.

Mariapaola Bergomi, Douglas Cairns, Laura Candiotto, Melania Cassan, Fulvia de Luise, Gabriele Flamigni, José Antonio Giménez, Luca Grecchi, David Konstan, Laura Marongiu, Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano, Anna Pavani, Olivier Renaut, Alessandro Stavru, Poikilia delle emozioni. La complessità dei pathe in Platone, Prefazione e cura di Laura Candiotto e Alessandro Stravu.

ISBN 978-88-7588-383-6, 2024, pp. 296, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “il giogo” [186].

In copertina: Vassily Kandinsky, Composition 7, 1913.

indicepresentazioneautoresintesi


Introduzione

 di

Laura Candiotto & Alessandro Stavru

 

 

I

Ci sono ormai diversi studi sulle emozioni in Platone1. Se fino a pochi anni fa la ricerca filosofica sulle emozioni nel periodo classico si concentrava specialmente sulla Retorica di Aristotele, oggi il ruolo epistemico, morale ed estetico delle emozioni nella filosofia platonica è stato ampiamente evidenziato e discusso. Perché dunque proporre una nuova pubblicazione sulle emozioni in Platone?

La finalità di questa raccolta è analizzare le emozioni in Platone nella loro diversità e complessità. Spesso gli studi sono dedicati a una specifica emozione e in un preciso contesto dialogico2. Gli articoli che qui presentiamo, invece, affrontano la questione delle molteplici forme che l’esperienza emotiva assume in svariati contesti dialogici. Le emozioni sono varie e spesso presentano una natura complessa. La diversità esprime la ricchezza e la bellezza dell’analisi fenomenologica platonica. L’esperienza affettiva viene così associata all’anima incarnata, alla meraviglia epistemica, e al fascino estetico. La complessità allude però anche alla sregolatezza e trasformazione delle emozioni che richiama l’esigenza etica della cura di sé e il governo delle emozioni. Questa è l’ambiguità dell’affascinante varietà (poikilia) delle emozioni da cui deriva il titolo della raccolta.

Se l’assenza di uniformità e precisione analitica può scoraggiare gli interpreti, in questo volume si evidenzia come invece essa possa stimolare una ricerca che abbraccia la dimensione complessa e tensionale del reale per proporre una lettura sistematica, seppur contestuale, del ruolo delle emozioni in Platone. Il risultato, a nostro parere, è molto interessante. Non riportiamo qui un sommario dei diversi contribuiti perché esso è presente nella magistrale postfazione di Linda Napolitano Valditara, la cui ricerca sulle emozioni in Platone è stata pioneristica ed ha ispirato molti dei contributi qui raccolti. Vogliamo invece accennare ad alcuni passi platonici in cui la nozione di poikilia ricorre in associazione con la psyche e la sua complessità emotiva.

 

II

Nel IX libro della Repubblica, dopo una lunga disamina sulla natura dello stato, Platone volge la sua attenzione alla natura dell’anima (588c)3. Per essere compresa, la psyche richiede di essere plasmata in una “immagine verbale” (eikona… logoi) in grado di raffigurarne tutta la complessità. Al pari di esseri mitici come la Chimera, Scilla e Cerbero, essa “riassume in un’unica natura” (sympephykyiai… eis hen) “molte forme” (ideai pollai). Ha dunque la caratteristica di essere multiforme e al tempo stesso una. È “una bestia variopinta e policefala” (theriou poikilou kai polykephalou), e, per di più, metamorfica: le sue teste, di belve ferine e di animali addomesticati, si trasformano le une nelle altre avvalendosi del loro potere di rigenerarsi continuamente (metaballein kai phyein ex hautou).

In questo senso è dunque da intendersi la poikilia dell’anima e delle emozioni che la pervadono: come una moltitudine eterogenea di elementi che, proprio in virtù della sua irriducibile complessità e dinamicità, è in grado di apparire sempre come in sé coerente e unitaria. Questo modello ha una lunga tradizione: l’idea di una poikilia complessa e dinamica, in grado di conferire unità a un insieme eterogeneo di elementi, si trova, ben prima di Platone, applicata a una molteplicità di ambiti4. “Variopinti”, “elaborati” sono non soltanto i manufatti e i prodotti dell’arte, ma anche, in una prospettiva indipendente dall’agire umano, le facies di animali e altri oggetti prodotti nell’ambito della natura. Possono essere poikiloi l’intricata manifattura di un’arma5 o di una calzatura6, del trono di Afrodite7, di un disegno istoriato sul celebre scudo di Achille8, ma anche i suoni di strumenti musicali9, addirittura interi Inni10. Variopinti sono però altresì il manto di un cavallo11, la pelle di un serpente12, le piume di un uccello13.

La poikilia platonica delle emozioni riflette dunque un’idea ampiamente attestata nella tradizione arcaica, dove essa definisce una complessità dinamica in grado di articolarsi in una unità molteplice. Si è visto come l’immagine del therion poikilon sia a tal proposito estremamente significativa. Si tratta, tuttavia, di un’immagine verbale, come Platone non manca di sottolineare: in quanto tale, il therion poikilon istituisce un nesso tra due unità complesse, quella dell’anima e quella del linguaggio. Tale nesso trova un significativo approfondimento nel Fedro, dove si evince che a una “anima variopinta” (poikilei psychei) è utile abbinare “discorsi” altrettanto “variopinti” (poikilous logous), comprendenti tutte le armonie, mentre per un’anima semplice è preferibile optare per discorsi anch’essi semplici (277c). Sappiamo che nel X libro della Repubblica Platone prende le distanze dall’idea di un’anima poikile, poiché la molteplicità mal si abbina alla più importante delle caratteristiche della psyche, quella cioè di essere immortale: “non dobbiamo credere che nella sua autentica natura l’anima sia una realtà colma di una moltitudine di tratti variopinti (hoste polles poikilias), di confusione e di differenze” (611b). La “vera anima” non è quella incarnata proprio in quanto molteplice: occorre quindi esaminarla solo quando è riconoscibile nella sua unità, il che avviene solo quando è purificata dalle affezioni corporee. Sul piano emotivo, ciò si traduce in una liberazione dalla molteplicità dalle hedonai, dalla quale occorre astenersi soprattutto in giovane età.

Questo risvolto educativo trova largo spazio in svariati luoghi della Repubblica. Occorre sottrarsi a tutto ciò che è capace di “suscitare infiniti piaceri di ogni genere e tipo” (pantodapas hedonas kai poikilas), poiché i piaceri hanno il potere di trasformare l’anima, fino a mutare un carattere oligarchico in uno democratico (559d-e)14. Le implicazioni paideutiche della poikilia delle emozioni si riflettono dunque in ambito politico15: la varietà delle passioni è uno dei tratti portanti dell’arte per definizione antieducativa, quella mimetica (399e)16. I giovani cittadini devono essere educati nella semplicità (401a), evitando, per quanto possibile, ogni forma di sofisticazione (404d-e), in quanto la poikilia emotiva ingenera “malattie” che risultano perniciose non soltanto perché molteplici e variegate (426a), ma anche perché il fascino derivante dalla loro varietà impedisce di osservare la realtà al di là della sua superficiale apparenza: chi ne rimane avvinto corre “il rischio di fare come chi, alzando lo sguardo per contemplare le variopinte decorazioni sul soffitto (en orophei poikilmata theomenos), per il solo fatto di scorgervi qualcosa si illude di avere contemplato con l’intelletto, mentre ha invece contemplato con gli occhi” (529b). L’illusione è data dal fatto che la realtà sensibile, proprio in quanto variopinta, risulta avvincente in tutte le sue espressioni: la sua poikilia caratterizza il movimento dei pianeti e i loro variegati movimenti nel cielo (ta en toi ouranoi poikilmata), ma anche il modo in cui questi si riflettono nei molteplici fenomeni visibili della realtà terrena (en horatoi pepoikiltai) (529d)17.

La poikilia è dunque ingannevole perché induce a contemplare (theorein), a elevare lo sguardo a una bellezza dal fascino irresistibile, perché osservabile nella sua multiforme unità. La sua capacità di muovere dal molteplice all’uno è analoga a quella che è dato riscontrare nella vera conoscenza, conseguente alla contemplazione delle idee – laddove la visione si caratterizza invece per la sua semplicità e immediatezza. Platone sembra qui focalizzare un punto di fondamentale importanza: la differenza tra le due modalità del theorein – da un lato l’illusione variopinta, dall’altro la visione noetica delle idee – è data non tanto dalla modalità di osservazione, che in entrambi i casi si caratterizza per una decisa verticalità, quanto piuttosto per i rispettivi organi e ambiti di competenza. Se la complessità (emotiva e teoretica) permette di cogliere la realtà sensibile solo a partire da un organo sensibile (l’anima e l’occhio), la semplicità consente invece di contemplare la realtà ultrasensibile mediante un organo preposto a osservare proprio tale realtà, ovvero l’intelletto. La poikilia si caratterizza dunque per la sua radicale ambivalenza: intrinsecamente ingannevole, è altresì sintesi del molteplice sensibile, e dunque capacità di abbracciare l’infinita varietà delle sue forme. In questo senso va dunque intesa la complessità delle emozioni platoniche: come un insieme variegato, potenzialmente pericoloso e ingannevole, ma caratterizzato da una straordinaria ricchezza di sfumature, intrecci, sovrapposizioni.

I saggi contenuti nel presente volume si cimentano in vario modo con la stratificazione insita nella nozione di poikilia, nel tentativo non di risolvere, ma di evidenziare – e se possibile anche di problematizzare – le difficoltà insite nella teoria platonica delle emozioni. Trovano spazio contributi dei maggiori esperti sull’argomento, i quali vengono arricchiti da prospettive innovative, avanzate da studiosi giovani e promettenti. L’esito di una simile ricerca non può che essere interlocutorio, vista la all’indomani dell’uscita di ben due volumi incentrati su Platone e le emozioni18, il presente volume assolve al compito di rilanciare le questioni più importanti poste sul tappeto negli ultimi anni.

 

 

* La presente introduzione è stata concepita nel suo insieme dai due autori. Il primo paragrafo (I) è tuttavia da attribuire a Laura Candiotto, il secondo (II) ad Alessandro Stavru.

1 Citiamo almeno le due più recenti raccolte in lingua inglese ed italiana presentate presso l’Università di Verona nell’ottobre del 2021: L. Candiotto & O. Renaut (eds.), Emotions in Plato, Brill, Leiden/Boston 2020 e F. Benoni & A. Stavru (eds.), Platone e il governo delle passioni. Studi per Linda Napolitano, Aguaplano, Perugia 2021. È da questo incontro che è scaturita la presente iniziativa.

2 Pur non potendo essere esaustivi, forniamo qui di seguito una lista dei lavori più recenti su alcune specifiche emozioni in Platone. Amore: P.W. Ludwig, Eros in the Republic, in: G.R.F. Ferrari (ed.), The Cambridge Companion to Plato’s Republic, Cambridge University Press, Cambridge 2007, 202-231. O. Renaut, Challenging Platonic Eros: The Role of Thumos and Philotimia in Love, in: E. Sanders/C. Thumiger/N.J. Lowe (eds.), Eros in Ancient Greece, Oxford University Press, Oxford 2013, 95-110; F.C.C. Sheffield, Erōs and the Pursuit of Form, in: P. Destrée/Z. Giannopoulou (eds.), In Plato’s Symposium: A Critical Guide, Cambridge University Press, Cambridge 2017, 125-141; L. Candiotto, The Divine Feeling: The Epistemic Function of Erotic Desire in Plato’s Theory of Recollection, Philosophia, 48, 2020, 445-462. Coraggio: J. Wilburn, Courage and the Spirited Part of the Soul in Plato’s Republic, Philosopher’s Imprint 15 (26), 2015, 1-21. Invidia: B. Bossi, On Mild-Envy and Self-Deceipt (Phlb. 47d-50e), in: Candiotto & Renaut (eds.), Emotions in Plato, cit., 220-237. Meraviglia: L.M. Napolitano Valditara, Meraviglia, perplessità, aporia: cognizioni ed emozioni alle radici della ricerca filosofica, Thaumàzein – Rivista di Filosofia 2, 2014, 127-178; L. Candiotto & V. Politis, Epistemic Wonder and the Beginning of the Enquiry: Plato’s Theaetetus 155d2-4 and Its Wider Significance, in Candiotto & Renaut (eds.), Emotions in Plato, cit., 17-38. Paura: L. Palumbo, La paura e la città (Platone, Leggi i, ii), Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche 117, 2007, 309-323. Rabbia: M. Jiménez, Plato On the Role of Anger in Our Moral and Intellectual Development, in: Candiotto & Renaut (eds.), Emotions in Plato, cit., 285-387. Vergogna: R.B. Cain, Shame and Ambiguity in Plato’s Gorgias, Philosophy & Rhetoric 41 (3), 2008, 212-237; D.B. Futter, Shame as a Tool for Persuasion in Plato’s Gorgias, Journal of the History of Philosophy 47 (3), 2009, 451-461; L. Candiotto, “Purification through Emotions: The Role of Shame in Plato’s Sophist 230b4-e5.”, in J.M. Dillon & M.L. Zovko (eds.), Educational Philosophy and Theory 50 (6-7), 2018, 576-585; F. de Luise, La pedagogia della vergogna nel Simposio di Platone. Due modelli a confronto per l’uso di un’emozione sociale, in: Benoni & Stavru, Platone e il governo delle passioni, cit., 131-162.

3 La questione è già stata affrontata da Jonathan Fine, Plato and the Dangerous Pleasures of Poikilia, Classical Quarterly 71, 2021, 152-169, la cui prospettiva diverge tuttavia in modo significativo da quella qui proposta.

4 Per una rassegna delle concezioni più significative legate alla nozione di poikilia, cfr. il volume collettaneo E. Berardi/F. Lisi/D. Micalella (eds.), Poikilia. Variazioni sul tema, Bonanno, Acireale 2009. Ma si vedano anche, per un senso più tecnico di poikilia, gli studi di A. Grand-Clément: La fabrique des couleurs: histoire du paysage sensible des Grecs anciens (VIIIe début du Ve siècle av. n. è.). De l’archéologie à l’histoire, De Boccard, Paris 2011, 488 n. 436; Poikilia. Pour une anthropologie de la bigarrure, in: P. Payen/E. Scheid-Tissinier (eds.), Anthropologie de l’Antiquité. Anciens objets, nouvelles approches, Brepols, Turnhout 2013, 239-262 e Poikilia, in: P. Destrée/P. Murray (eds.), A Companion to Ancient Aesthetics, Wiley Blackwell, Malden, MA/Oxford/Chichester, 406-421, spec. 415-416. Cfr. anche P. LeVen, The Colours of Sound: Poikilia and Its Aesthetic Contexts, Greek and Roman Musical Studies 1, 2013, 229-242.

5 Bacch. 10.43.

6 Sapph. fr. 39.2.

7 Sapph. fr. 1.1.

8 Il. 18.590. Altre significative occorrenze omeriche sono Il. 11.482, 14.214-221; Od. 3.163, 13.293 (discusse in Fine, Plato and the Dangerous Pleasures of Poikilia, cit., 156-157).

9 Pind. Ol. 3.8 e 4.2.

10 Pind. Ol. 6.87 e Nem. 5.42.

11 Pind. Pyth. 2.8.

12 Alcm. fr. 1.66, Pind. Pyth. 4.249, 8.46, 10.46.

13 Pind. Pyth. 4.214-216; Alcm. fr. 345.2.

14 La pericolosità della poikilia delle emozioni è stata messa in luce più volte, soprattutto in riferimento alla critica platonica alla mimesis: cfr. B. Rosenstock, Athena’s Cloak: Plato’s Critique of the Democratic City in the Republic, Political Theory 22, 1994, 363-390; S. Halliwell, The Aesthetics of Mimesis: Ancient Texts and Modern Problems, Princeton University Press, Princeton 2002, 93-94 e 325; J. Moss, What is Imitative Poetry and Why Is It Bad?, in: G.R.F. Ferrari (ed.), The Cambridge Companion to Plato’s Republic, Cambridge University Press, Cambridge 2007, 415-444, spec. 426 e 435-437; R.W. Wallace, Plato, Poikilia, and New Music in Athens, in: E. Berardi/F. Lisi/D. Micalella (eds.), Poikilia, cit., 201-213; J.I. Porter, The Origins of Aesthetic Thought in Ancient Greece: Matter, Sensation, and Experience, Cambridge University Press, Cambridge 2010, 86-87; R.S. Liebert, Apian Imagery and the Critique of Poetic Sweetness in Plato’s Republic, Transactions and Proceedings of the American Philological Association 140, 2010, 97-115 e, della stessa autrice, Tragic Pleasure from Homer to Plato, Cambridge University Press, Cambridge 2017, 134-155; Z. Petraki, The Poetics of Philosophical Language: Plato, Poets and Presocratics in the Republic, de Gruyter, Berlin 2011, 64-65, 181-185, 235-250.

15 Circa le implicazioni politiche della poikilia si veda anche Leg. 3.693d, su cui cfr. G. Cambiano, Platone e il governo misto, Rivista storica italiana 124, 2012, 143-165. Opportune le riflessioni di Jonathan Fine (Plato and the Dangerous Pleasures of Poikilia, cit., 160), il quale nota come Platone, nella sua polemica contro la poikilia democratica, sembri parodiare l’ideale teognideo del poikilon ethos (cfr. Thgn. 213-218).

16 La poikilia è caratteristica dell’arte mimetica in tutte le sue accezioni. Non fa eccezione la suprema delle arti mimetiche, la poesia, come si evince da Menex. 234c-235c, Phdr. 277b-c e Leg. 2.665c. Si veda in proposito M. Tulli, Una Spaltung: Platone, la poikilia e il sapere, in: Berardi/Lisi/Micalella (eds.), Poikilia, cit., 227-238.

17 Il fascino variopinto del visibile si evince anche da Phaed. 110b-d e Tim. 39d-40a. Cfr. in proposito A. Nightingale, The Aesthetics of Vision in Plato’s Phaedo and Timaeus, in: A. Kampakoglou/A. Novokhatko (eds.), Gaze, Vision, and Visu­ality in Ancient Greek Literature, de Gruyter, Berlin 2018, 331-353.

18 Cfr. Candiotto & Renaut (eds.), Emotions in Plato, cit. e Benoni & Stavru (eds.), Platone e il governo delle passioni, cit.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Mario Vegettti – «Figure dell’identità greca. L’io, l’anima, il corpo, il soggetto». Prefazione di Silvia Gastaldi.

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Prefazione

 

di   Silvia Gastaldi

 

 

Questo volume comprende dodici saggi pubblicati da Mario Vegetti in un arco di tempo compreso tra i primi anni Ottanta del Novecento e la prima decade del Duemila, scelti nella sua vasta produzione e raggruppati attorno a un tema, quello della concezione antica, in particolare greca, della soggettività.

I contributi sono preceduti da due scritti biografici. Nel primo caso si tratta di una breve Autopresentazione, scritta da Vegetti per il «Bollettino della Società Filosofica Italiana», uscita nel 2002, che ripercorre i tratti salienti delle sue vicende biografiche e parallelamente lo sviluppo dei suoi studi e della sua carriera accademica; nel secondo siamo di fronte a un’ampia intervista concessa a Marco Solinas, pubblicata su Iride nel 2008, con un titolo significativo: Lo strabismo dello storico (fra gli antichi e noi). Si tratta di un’intervista che esordisce, come l’Autopresentazione, con una serie di riferimenti alla biografia di Vegetti, ma si sposta ben presto sulla sua vicenda intellettuale e sui presupposti teorici cui i suoi studi hanno fatto riferimento. Un ruolo particolarmente rilevante in questo ambito è assegnato agli studiosi francesi che, negli anni Settanta del Novecento, si accostano all’antico con nuovi strumenti di analisi, mutuati da una parte al marxismo, dall’altra allo strutturalismo. Tra questi spiccano J.-P. Vernant, M. Detienne e soprattutto M. Foucault, da cui Vegetti afferma di essere stato particolarmente influenzato, individuando nel suo “metodo archeologico” uno strumento fruttuoso per comprendere come le tradizioni antiche abbiano influito sulla nostra modernità e sulla nostra visione del mondo.

Significativamente, l’Autopresentazione finisce là dove l’Intervista ha il suo inizio, e cioè con la menzione del lavoro di traduzione e commento della Repubblica di Platone: nel primo testo quella che Vegetti aveva sempre definito come una vera e propria impresa era ancora in pieno svolgimento, mentre nel 2008 era appena terminata con la pubblicazione del settimo volume. Lo spazio riservato in entrambi i testi a questo dialogo platonico testimonia la sua rilevanza negli studi di Vegetti, come del resto lui stesso spiega ampiamente nell’Intervista. È una centralità che ha modo di manifestarsi anche nei saggi contenuti in questo volume, in cui il riferimento alla Repubblica è tanto frequente da costituirne in una certa misura il filo conduttore.

Il tema cui sono dedicati i dodici articoli ripubblicati in questa raccolta è chiaramente spiegato dal titolo del volume: Figure dell’identità. Il sottotitolo specifica che ci si riferisce a una serie di nozioni – l’io, l’anima, il corpo, il soggetto – tramite le quali si intende spiegare come viene concepita e descritta la percezione che l’uomo greco ha di sé stesso. Il problema, come Vegetti sottolinea nel saggio più ampio e più rilevante dal punto di vista teorico pubblicato nel volume, e che si intitola proprio L’io, l’anima e il soggetto, è che queste nozioni, cui si può aggiungere anche quella di corpo, «pur appartenendo senza dubbio alla stessa famiglia concettuale e rinviando alla stessa esperienza – quella radicata nell’esistenza individuale −, non possono venir pensate come complementari o tali da formare una sequenza lineare» (p. 194). Occorre dunque evitare, utilizzando proprio quello «strabismo dello storico» cui allude il titolo dell’intervista a Solinas, di leggere l’esperienza culturale greca, e dunque anche la categoria di soggettività, alla luce della modernità: la lontananza nel tempo non ci impedisce di comprenderla, ma la colloca nella corretta prospettiva rispetto al nostro presente.

Il saggio citato − L’io, l’anima e il soggetto − che riprende e amplia un altro articolo sullo stesso tema riproposto in questo volume – Un vincolo ambiguo: l’anima, l’io, il soggetto − fornisce proprio le coordinate entro le quali leggere gli altri contributi presenti in questa raccolta. Vegetti mostra che, nel pensiero greco, non è possibile rintracciare la categoria del soggetto né nell’ambito teologico, in cui non è presente alcuna soggettivazione del divino, diversamente da quanto avviene nella tradizione giudaico-cristiana, e neppure in quello psicologico, perché l’anima – con poche eccezioni − si delinea come un’entità superindividuale. Neppure si può, a rigore, parlare di una soggettivazione politico-sociale, poiché l’individuo è parte, in quanto cittadino, della comunità della polis. L’unica concezione cui può essere attribuita in un certo modo la funzione di termine di passaggio dal pensiero antico a quello moderno della soggettività è, secondo Vegetti, quella dell’aristotelico “io proprietario”, cioè dell’individuo che gode di una proprietà privata, connesso ad altri soggetti dotati delle stesse caratteristiche da vincoli di amicizia, un legame che appare come il prolungamento di quella affezione – primaria e fondante – che ciascuno ha per sé stesso.

Si è detto che una nozione che, nel pensiero greco, non appare in grado di assolvere al ruolo di soggetto è l’anima. A questo tema sono dedicati alcuni saggi che esplorano la dimensione psichica. Si tratta anzitutto del contributo intitolato Anima e corpo. La scena iniziale del percorso rimanda ai poemi omerici, dove entrambi i termini di questa coppia sono citati e descritti solo nel momento della morte. Il corpo – soma – è il cadavere, quello dell’eroe o del nemico ucciso che resta sul terreno, mentre la psyche, il soffio vitale, sotto forma di vapore o fumo, esce dalla ferita mortale e va all’Ade, dove sopravvive come doppio fantasmatico del vivente. Vegetti ripercorre le successive vicende della riflessione sull’anima partendo dalla tradizione medica, analizzando in particolare i tentativi finalizzati, nel V secolo, a riunificare le funzioni psichiche, ancora prive di una coerenza unitaria. L’altra tradizione che viene indagata è quella designata come orfico-pitagorica, caratterizzata in senso mistico-religioso, secondo la quale l’anima è un demone. Vegetti mostra come questa concezione sia rievocata in alcuni dialoghi di Platone, ad esempio il Fedone, ma rileva, al tempo stesso, che nella riflessione psicologica platonica coesistono altri modelli di anima, in particolare quella tripartita della Repubblica, rielaborata nel Timeo in una prospettiva bio-fisiologica, in cui le tre parti psichiche trovano la loro collocazione negli organi del corpo. Vegetti prosegue la sua analisi analizzando l’ilomorfismo aristotelico, gli apporti anatomici e fisiologici della scienza alessandrina per giungere a Galeno che, nel II sec. d. C., ristruttura il sistema platonico del Timeo introducendovi una svolta materialistica, rendendo cioè i comportamenti umani dipendenti dalla struttura degli organi. È un percorso che si conclude con Plotino, nella cui visione metafisica l’anima recupera la sua natura di demone divino e subordina a sé totalmente quel corpo di cui il filosofo, secondo la testimonianza del suo allievo Porfirio, addirittura si vergognava.

La vicenda dell’anima, dunque, è complessa, come emerge anche da altri saggi che ne approfondiscono aspetti particolari. Un tema saliente, in questo ambito, è rappresentato dalla sua sopravvivenza. Nel contributo intitolato appunto La sopravvivenza dell’anima nel mondo antico, Vegetti indaga le prospettive secondo cui la concezione dell’immortalità viene proposta. Così, è esaminata, da una parte, la concezione omerica, cui si è già fatto riferimento, e che assegna alla psyche un’esistenza fantasmatica, come semplice doppio del vivente, legando l’immortalità degli eroi alla gloria imperitura derivante dal canto poetico che li celebra. Dall’altra parte viene analizzata la tradizione che designiamo come orfico-pitagorica, e che presuppone l’immortalità dell’anima, dovuta alla sua natura di demone divino, destinata a premi o a punizioni a seconda del tipo di vita condotto dall’individuo in cui si installa, ma si tratta di un’anima trans-individuale: proprio perché la pena o la ricompensa comportano il suo passaggio ad altri corpi, essa non può essere considerata come appartenente a un singolo soggetto. Vegetti sottolinea l’influenza esercitata da questa concezione su Platone, che, soprattutto al fine di incentivare il perseguimento di una vita giusta, in alcuni dialoghi, come il Gorgia, il Fedone, il libro X della Repubblica, introduce per la prima volta nel pensiero greco la concezione di un’anima individuale che va incontro a un destino ultraterreno, descritto nei grandi miti dell’aldilà. Vegetti rileva comunque come in altri dialoghi, ad esempio nel Timeo, Platone affermi chiaramente che solo la parte razionale dell’anima è immortale, ma al tempo stesso trans-individuale. Su questa linea si colloca anche la concezione aristotelica dell’intelletto attivo, che rappresenta la funzione più elevata dell’anima. Di un’autentica immortalità dell’anima individuale si potrà parlare solo a partire dal I secolo d. C., quando avverrà la saldatura tra il Platonismo e il nascente Cristianesimo.

Ancora al tema dell’immortalità è dedicato il saggio Immortalità personale senza anima immortale, che ne esamina due diverse declinazioni, quella esposta da Diotima nel Simposio e quella di Aristotele. Nel suo dialogo Platone, attraverso il discorso della sacerdotessa di Mantinea, passa in rassegna differenti gradi di immortalità che non presuppongono quella dell’anima: dall’immortalità conseguibile con la riproduzione, che perpetua l’individuo nella sua discendenza, a quella culturale, legata alla produzione di opere destinate a durare nel tempo, per culminare con l’immortalità ottenibile tramite la conoscenza delle idee, in particolare di quella del bello. Vegetti riscontra anche in Aristotele forme di immortalità che non sono legate alla sopravvivenza dell’anima: anzitutto, quella biologica, che si identifica con la persistenza delle specie, poi quella – meno esplicitata – che si ottiene con la pratica delle virtù etiche, nel contesto sociale, e infine quell’”immortalizzazione” – athanatizein, un verbo che nel Corpus del filosofo compare una sola volta – conseguibile con la pratica della vita filosofica, la forma di esistenza più elevata consentita all’essere umano e che lo avvicina alla divinità, cui Aristotele – come è noto – attribuisce la sola attività del puro pensiero.

Alla riflessione sulla natura dell’anima è strettamente connesso il problema delle passioni, con cui la cultura greca si confronta costantemente. Nel saggio Passioni antiche: l’io collerico Vegetti mostra la centralità, nell’universo passionale dell’uomo greco, della reattività collerica, partendo dalla sua prima, archetipica manifestazione, quella di Achille nell’Iliade. La menis dell’eroe è una forma peculiare di ira, attribuita da Omero solo a questo eroe, un’ «indignazione» o un «risentimento violento», come la definisce Vegetti (v. infra, p. 157), che appartiene costituzionalmente alla sua figura e ne determina la reazione di fronte a tutti i comportamenti lesivi nei suoi confronti. Proprio nel poema, inoltre, sono descritte altre forme di reattività collerica che ne definiscono con precisione tutte le diverse manifestazioni. Questa attenzione alla pluralità di declinazioni di una passione assolutamente primaria costituisce un’eredità che si trasmette alle epoche successive e che viene assunta soprattutto dai filosofi come tema privilegiato di riflessione. Vegetti approfondisce i momenti salienti di questo approccio, partendo dall’individuazione del ruolo che la reattività collerica ha in Platone. Nella Repubblica, essa, come thymos, caratterizza l’anima dei guerrieri, difensori della kallipolis ed ha uno statuto complesso e anche ambiguo, essendo in grado di allearsi con la razionalità dei governanti-filosofi ma anche di ribellarsi e di assumere il potere, stravolgendo le corrette gerarchie, nell’anima come nella città. Se in Aristotele l’ira, contenuta nei giusti limiti, è la reazione in tutto degna del cittadino libero, che non deve subire passivamente le offese, per gli Stoici è, come tutte le passioni, una malattia dell’anima che deve essere completamente estirpata. Ma se questo è il fine – l’apatheia – è necessario conoscere ogni aspetto dell’universo emotivo: sono proprio gli Stoici a elaborare la più ampia e raffinata catalogazione delle passioni, e delle forme di ira in particolare, che Vegetti riporta tramite accurate rappresentazioni grafiche. Il percorso si conclude con Galeno, che introduce una svolta in questa lunga vicenda, interpretando le passioni dal punto di vista fisiologico, connettendole cioè alla conformazione e al funzionamento degli organi. Una parte rilevante, nelle riflessioni sulle passioni, è dedicata alla loro terapia. Vegetti mostra come in Platone, Aristotele e, sebbene con maggiore problematicità, negli Stoici, un ruolo rilevante in questo ambito sia assegnato ai dispositivi di controllo sociale. Gli Epicurei, per contro, propongono uno sforzo individuale teso al contenimento dei bisogni e dei desideri. Per gli Scettici, infine, le passioni non sono radicate per natura nell’anima, ma sono distorsioni prodotte dalle teorie etiche normative, che indicano quali beni perseguire e quali mali evitare, imponendo di seguire questa o quella “arte del vivere”. Si è dunque di fronte a una vasta gamma di posizioni che testimoniano la ricorrenza di una riflessione sulle dinamiche emotive, e in particolare sulle reazioni colleriche, che dà luogo a una costante produzione di trattati, sia in epoca ellenistica sia nel mondo romano, come il De ira di Seneca.

Sempre in tema di passioni, nel saggio Psicopatologia delle passioni nella medicina antica, Vegetti si interroga sui motivi per i quali queste reazioni emotive, che interessano anche il corpo, non siano state oggetto di indagine da parte dei medici. A questo riguardo rileva che tale lacuna dipende, se ci si riferisce agli Ippocratici, dalla mancata elaborazione di una nozione di anima e di conseguenza delle modalità con cui essa interagisce con il corpo. Il termine pathos, in questo contesto, è sinonimo di nosos, malattia. Si deve giungere a Platone, e in particolare al Timeo, per assistere alla costruzione di un’«immagine articolata della corporeità e della sua interrelazione con la dinamica psichica» (p. 249) che spiega l’eziologia delle passioni: la loro natura patologica è dovuta al malfunzionamento degli organi e insieme a comportamenti psichici scorretti. Anche per Aristotele l’insorgenza delle passioni si colloca all’intersezione tra anima e corpo, ma solo le forme estreme di devianza psichica sono considerate malattie vere e proprie: tutti gli altri comportamenti errati sono attribuiti alla cattiva educazione sia in ambito familiare sia sociale. È proprio l’ambiente in cui si vive, per gli Stoici, la causa del verificarsi delle passioni, malattie dell’anima a cui si può porre rimedio rinforzandone il tonos, l’energia con cui essa riesce a opporsi alle spinte negative provenienti dall’esterno, grazie anche all’aiuto fornito dagli insegnamenti di infine, che recupera il modello platonico del Timeo, le passioni sono ricondotte a cause organiche, su cui solo il medico può intervenire.

Nel contributo Metafora politica e immagine del corpo nella medicina antica Vegetti analizza la terminologia medica utilizzata tra il V e il IV secolo, individuando differenti modalità di utilizzo del lessico politico: da una parte, Alcmeone identifica la salute con l’isonomia, cioè una condizione di uguale potere, tra le forze attive nel corpo, dall’altra negli scritti ippocratici si riscontra la prevalenza di termini che rinviano, nella descrizione dei rapporti tra le parti e le funzioni corporee, al linguaggio della forza e del potere, così come a quello della guerra. Il ricorso a questo vocabolario dipende dalla concezione ippocratica del corpo, considerato come un recipiente vuoto entro il quale scorrono fluidi in lotta tra loro per imporre il proprio dominio e su cui hanno influsso anche i fattori esterni, come il clima e l’ambiente. L’origine di un’immagine del corpo come un organismo costituito di parti che collaborano tra loro, modellato sulla struttura gerarchica dei poteri all’interno della polis, è da individuare, per Vegetti, forse nel pitagorismo ma certamente in Platone, come mostra chiaramente l’elaborazione della sequenza anima-corpo-città che si realizza tra la Repubblica e il Timeo.

Nel saggio Corpo e anima in Galeno, Vegetti esamina le posizioni espresse al riguardo in una delle opere maggiori del medico-filosofo, il De placitis Hippocratis et Platonis. Anzitutto, in merito all’individuazione dell’hegemonikon, il principio direttivo, da cui dipendono i comportamenti, Galeno, confrontandosi con le teorie, ancora rivali al suo tempo, dell’emocentrismo e del cardiocentrismo e fondandosi sull’osservazione anatomica e sull’inferenza logica, opta decisamente per il cervello in quanto principio dei nervi. Sostenendo questa posizione Galeno si rifà a una tradizione illustre, che prende avvio con gli Ippocratici, arriva a Platone e si rafforza con le scoperte dei medici di Alessandria tra il IV e il III secolo a.C. In tal modo Galeno innesta sulla tripartizione platonica i dati acquisiti dagli studi anatomici tra il periodo alessandrino e i suoi tempi, connettendo rispettivamente al cervello, al cuore e al fegato i sistemi nervoso, arterioso e venoso. A differenza di quanto avviene in Platone, tuttavia, non vi è contrasto, bensì collaborazione tra i tre livelli. Galeno individua nella cattiva conformazione degli organi, cioè in una disfunzione fisiologica, la causa delle azioni viziose e malvagie, e indica pertanto nel medico la figura preposta al recupero della salute sia del corpo sia dell’anima, mentre per gli inguaribili – egli sostiene − non rimane che la pena di morte.

Un gruppo di tre saggi indaga infine gli aspetti politico-sociali della soggettivazione greca. Il primo contributo – Politica dell’anima e anima del politico nella Repubblica – studia in particolare le modalità con cui si presenta il rapporto anima-città posto alla base della costruzione della kallipolis. Contro le interpretazioni che assegnano alla tripartizione delle funzioni e alla parallela tripartizione psichica il ruolo di semplice analogia giungendo a mettere in discussione o addirittura a negare il carattere politico della Repubblica, Vegetti vi vede un modello dinamico, in base a cui la psicologizzazione della città e la politicizzazione dell’anima si rispecchiano reciprocamente. In entrambi i contesti vigono gli stessi rapporti gerarchici e di potere: il migliore domina sul peggiore e, in questo modo, in un ambito e nell’altro si realizza la giustizia. Lo sconvolgimento dell’ordine corretto dà luogo a un’anima ingiusta e parallelamente, a livello politico, a quella serie di costituzioni deviate che sono descritte nei libri VIII e IX. Una particolare attenzione è dedicata, in questa analisi, allo statuto e al ruolo del thymos, il centro motivazionale intermedio tra razionalità e appetizione, che caratterizza, nella città, il gruppo dei guerrieri. Nell’ultima parte del suo contributo, Vegetti chiarisce come si debba intendere quell’organicismo che secondo una certa tradizione di pensiero annullerebbe l’individuo nella comunità: Platone rappresenta l’erede di quella concezione tradizionale che fa della polis una comunità educante, preposta alla formazione-conformazione dei cittadini ai valori collettivi.

Proprio i problemi che insorgono nella città greca quando si manifestano le spinte individualistiche, determinate dai desideri corporei e soprattutto da quelli legati all’autoaffermazione e al dominio politico, sono il tema del contributo Antropologie della πλεονεξία in Platone. Vegetti esamina le posizioni espresse da tre personaggi – Callicle nel Gorgia, Trasimaco e Glaucone nella Repubblica – sul tema di quell’istinto di sopraffazione, la pleonexia appunto, insito, come insegna Tucidide, nella natura umana. Per Callicle si tratta di esaltare, al fine di raggiungere la suprema felicità, il soddisfacimento di tutti i desideri, realizzando in tal modo una superiorità sugli altri equiparata a quella del leone nel regno animale, mentre le concezioni espresse da Trasimaco sono molto più cogenti sotto il profilo teorico e investono la natura stessa del potere politico. Trasimaco argomenta con assoluto rigore che il giusto coincide con l’utile del più forte, cioè di chi governa, e parallelamente demolisce la concezione della legge come norma formulata nell’interesse collettivo, mostrando come sia in realtà uno strumento finalizzato alla conservazione del potere stesso. Glaucone, infine, proprio sulla scia delle tesi di Trasimaco, che trovano corrispondenza nelle posizioni sostenute da autorevoli intellettuali del V secolo, come Antifonte, espone una vera e propria “genealogia della morale”: la formulazione delle leggi e l’imporsi di una concezione della giustizia sono l’esito di un accordo stipulato tra i deboli e i forti – e a malincuore da questi ultimi, caratterizzati dalla pleonexia – in vista della mutua conservazione. La necessità di contrastare gli esiti distruttivi della pleonexia, che per Platone è radicata nella componente desiderativa dell’anima, rende necessario progettare un nuovo modello di città – quello della Repubblica – in cui si realizzi una nuova modalità di gestire il potere nell’interesse collettivo per conseguire la vera giustizia.

L’ultimo saggio pubblicato nel volume – Il guerriero e il cittadino. Figure dell’identità greca − discute una forma peculiare dell’identità greca, strettamente legata alle strutture politico-sociali, e cioè quella del cittadino-soldato. Partendo dalla constatazione che il polemos, la guerra contro i nemici esterni, è una presenza costante nella vita delle città, esportando all’esterno quell’aggressività che all’interno produrrebbe la stasis, il conflitto civile distruttivo della convivenza stessa della comunità, Vegetti esamina le varie forme in cui si esplica nella polis la funzione guerriera. Il personaggio paradigmatico è l’oplita, cui si richiede di conservare la posizione nelle file ordinate della falange, per assicurare alla formazione la sua forza d’urto. Questo schieramento riflette la compattezza della città e si contrappone a quel combattimento individuale, finalizzato ad assicurare la gloria al singolo eroe, proprio dei poemi omerici. Sempre nell’ambito della polis sono presenti altre figure di combattenti che non godono della stessa considerazione sociale dell’oplita. È il caso anzitutto dei marinai imbarcati sulla flotta, che per altro ha assicurato ad Atene vittorie marittime, come quella di Salamina, e il controllo delle città alleate, e più tardi – in pieno IV secolo – dei mercenari, stranieri, e dunque estranei al corpo civico. Dopo aver condotto questa rassegna, Vegetti mostra come Platone, nella Repubblica, cerchi di conciliare in un solo personaggio, quello del guerriero-difensore, le diverse figure che rappresentano l’«antropologia di guerra», per usare le sue parole (v. infra, p. 332). Nella guerra, di cui Platone fissa accuratamente le regole, e che si trasforma in un evento collettivo, i guerrieri, privati della proprietà e della famiglia, ricevono una mercede, e rappresentano dunque un tipo del tutto peculiare di mercenari, ottenendo soprattutto l’onore tributato loro dalla città intera. A Platone non sfugge tuttavia che il gruppo armato presente nella kallipolis può sottrarsi al controllo dei governanti e prendere il potere: da questa mossa avrà di fatto origine la prima forma di degenerazione della città descritta nel libro VIII della Repubblica. Benché in quegli anni anni si vada configurando quel panellenismo che propugna la guerra nei confronti dei “barbari”, i popoli orientali di lì a poco assoggettati da Alessandro, l’orizzonte di Platone rimane quello della città, come unica cornice entro la quale è possibile realizzare una vita buona e «trovare un’appartenenza identitaria “felice”» (p. 336).

Da questi saggi emergono la ricchezza di prospettive, la profondità teorica e la limpida chiarezza dell’esposizione che hanno sempre caratterizzato la produzione scientifica di Mario Vegetti. La loro ripubblicazione rappresenta un’importante operazione culturale che ne tiene viva la memoria e la grandezza intellettuale. Un grande merito, a questo riguardo, deve essere attribuito all’editrice «petite plaisance» e al suo instancabile animatore, Carmine Fiorillo, a cui va il ringraziamento mio e di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscere e di apprezzare Mario Vegetti.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
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Arianna Fermani – «mare dentro»: Navigazioni filosofiche tra le parole greche di Desiderio.

ὄρεξις  βούλησις  ἐπιθυμία  ὁρμή  οἶστρος  ἔρως  ἵμερος  πόθος

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Presentazione e Indice

Introduzione


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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