«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Platone mostra così che nell’atto di scegliere a quale scopo indirizzare la sua esistenza la vicenda socratica giocò un ruolo determinante. Egli considerava altamente significativo, in particolare, il fatto che l’integerrima morale di Socrate si era più di una volta opposta alla prassi politica impura corrente in Atene sullo scorcio del V secolo. Decidendo di fare filosofia sulla scia di Socrate, e con l’occhio concentrato sugli esiti negativi della prassi etica e politica corrente, Platone inaugura dunque un’idea di filosofia in cui il sapere che si ricerca (ricordiamo che la parola “filosofia” significa “amore del sapere”) non è tanto un sapere fine a sé stesso, orientato al puro conoscere, ma è un sapere diretto a conoscere quei principi generali di fondo che soli possono promuovere il benessere dell’uomo (ovvero la sua felicità) sia nella vita privata sia in quella pubblica. Una delle più importanti eredità che Socrate consegna a Platone è dunque la stretta connessione tra filosofia e vita. Un paio di volte nel corso dei dialoghi (Gorgia 500c; Repubblica 352.d) il Soccate di Platone spiega che l’argomento di cui si discute è straordinariamente importante, perché di tratta di “come si debba vivere”. Pertanto nessun uomo può davvero dichiararsi estraneo alla filosofia, perché sarebbe come se dichiarasse il proprio disinteresse nei confronti della felicità».
Franco Trabattoni, La filosofia di Platone. Verità e ragione umana, Carocci, Roma 2020, p. 41.
«Se il vivere è in sé buono e piacevole […] e se chi vede ha la consapevolezza di vedere, chi ode di udire, chi cammina di camminare e lo stesso vale per tutti gli altri casi, vi è qualcosa che ci rende consapevoli del fatto di esercitare un’attività, cosicché noi possiamo avere la consapevolezza di sentire e di pensare, ed aver consapevolezza di sentire o di pensare significa aver consapevolezza di esistere (infatti si era detto che il fatto di esistere consiste nel sentire e nel pensare), ma se l’avere consapevolezza di vivere è, di per se stesso, una cosa piacevole (infatti la vita è, per natura, un bene, e sentire che questo bene noi lo possediamo in noi stessi è piacevole) e il vivere è desiderabile, soprattutto per le persone virtuose, poiché il fatto di esserci è bene per loro ed è anche piacevole (infatti godono di percepire insieme il bene in sé), se l’individuo moralmente retto è disposto verso gli amici come si comporta verso se stesso (infatti l’amico costituisce un alter ego), allora, come per ciascuno è desiderabile il fatto di esistere, allo stesso modo […] è desiderabile l’esistenza dell’amico. Abbiamo detto che l’esserci è desiderabile perché si ha la consapevolezza che noi stessi siamo virtuosi; una tale sensazione, inoltre, è piacevole di per se stessa. Quindi si deve sentire insieme anche l’esistenza dell’amico e questo avverrà vivendo insieme e condividendo ragionamenti e pensieri. […] Quindi l’individuo felice avrà bisogno di amici moralmente retti».
Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 1170 a 26-34 – 1170 b 1-19, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 875-877.
Oggi è improponibile l’idea secondo cui lo sviluppo tecnologico trainerebbe con sé, in quanto tale, anche lo sviluppo sociale. L’ideologia del progresso non ha nessuna universalità e nessun universalismo
***
Destra Sinistra
Ricostruire l’identità della sinistra e della destra non è operazione teoretica semplice: affermazione banale, ma vera.
La teoria non è scissa dalla prassi, anzi interagisce con essa secondo il paradigma osmotico. Pertanto non vi è ricostruzione che non possa non tener nel debito conto la cornice storica in cui siamo situati. Ogni fuga all’interno di semplicismi integralistici – o nostalgie verso un passato che non ritornerà – non può che rallentare i processi di più corretto riposizionamento. La storia del comunismo ci insegna che a mutate circostanze storiche è necessario salvare i principi attraverso “adeguamenti al contesto storico”. Esempio ne sono state la NEP (1921-1928) di Lenin, come pure le innumerevoli declinazioni del comunismo alle contingenze storiche nazionali. Viviamo, dunque, come direbbe Gramsci, in un interregno: il nuovo non nasce, il vecchio non muore. In questa sospensione si consolida il Regno animale dello Spirito al punto da apparire come la “fine della storia” che coinciderebbe con la negazione dell’umano. Ma fin quando l’essere umano vivrà la storia non avrà concluso la sua corsa, sarà apertura alla speranza, corrente calda che muove verso il futuro. La distopia liberista si è strutturata anche grazie all’eclissarsi della sinistra e del comunismo, non solo come esperienza storica realizzata, ma anche come opposizione ideologica.
La sinistra è preda di processi di auto-dissolvimento, in quanto imita per opportunismo le destre, e specialmente, nega la sua identità politica. In tali circostanze gli spazi per il dibattito risultano limitati, o meglio la sinistra di potere rifiuta il confronto con se stessa per abbracciare la causa del capitalismo a cui dà sostegno nel timore di scomparire dalle scene mediatiche e, specialmente, per conservare posizioni di potere. Salva il corpo per salvare l’anima; la realtà è che ha perso entrambi, in quanto il compromesso è diventato complicità, fino a trasformarsi nella testa d’ariete del capitale: taglia i diritti sociali per divenire l’araldo dei soli diritti individuali, e incentiva la “cultura” del privato contro il pubblico. Non difende il suo popolo, ma lo consegna alle multinazionali, alla finanza ed alla cultura anglosassone. Porta a termine un’operazione filosofico-politica iniziata con il contratto di Hobbes, in base alla quale l’individuo astratto riduce ogni ente a solo mezzo compreso, lo Stato. Lo slittamento della cultura liberale nella sinistra è palese, si fa portatrice delle istanze liberiste con un mutamento privo di razionalità critica, ma che punta solo all’utile ed al risultato immediato. La sinistra post crollo muro di Berlino (1989) ha scelto la via più breve e più semplice, si è adattata al nuovo corso della storia, rimuovendo la sua ingombrante identità e ritirandosi dai territori e dalla storia. Non restano che slogan e nomi continuamente cangianti ad occultare il nichilismo nelle parole di mediocri politicanti che hanno come unica causa veloci carriere che si consumano nella ridda sempre più accelerata nel nichilismo senza prospettive. Le passioni tristi, di conseguenza, sono la normalità di un’epoca senza vitalità e senza memoria. Per poter ricostruire la sinistra bisogna congedarsi dal presente, sempre più simile ad una palude con i suoi opportunismi e “pensare il proprio tempo”, come Hegel ha insegnato.
L’attualità storica si connota per la sua temporalità vorticosa; la globalizzazione con i suoi scambi commerciali e finanziari interconnessi ha messo in atto una temporalità senza concetto ed immediata, e spesso frammentata, nella quale i soggetti politici si disperdono e mutano:
«In particolare nell’idea di temporalità che ‘divora se stessa’ che consuma la propria dimensione di ‘durata’ man mano che aumenta la propria velocità di trasformazione e finisce per destituire di senso tutte le diverse forme di consapevolezza umana basate sulla percezione del tempo (memoria, esperienza, aspettativa, identità personale e sociale ecc.), sembra ritrovarsi il tema stesso dell’auto-contraddittorietà del moderno: di una ‘modernità’, appunto, che radicalizzandosi si nega o comunque si ‘rovescia’. Così come nell’immagine di un tempo parossisticamente accelerato tanto da decostruire ogni struttura stabile dell’esperienza, e nella possibilità stessa di concepire una ‘storia’ (un racconto temporalmente ordinato), si concentra buona parte della sensazione di incertezza, volatilità, sradicamento e paura che costituisce la ‘materia prima’ delle riflessioni recenti».[1]
Accelerazione temporale
L’accelerazione provoca dispersione e passività, ma è pur vero che questo stato di cose è favorito dal nichilismo globale e trasversale. Senza paradigmi ideologici, spogli di ogni processualità logica e concettuale ed esposti ad una temporalità divoratrice, le identità si annichiliscono, e i popoli non hanno così i mezzi per capire e riorientarsi nella precarietà strutturale del postmodernismo. Tale condizione non è una fatalità storica, ma una condizione creatasi, anche a seguito dell’omogeneizzazione della sinistra con la destra. La categoria della merce e del libero scambio senza limiti hanno inciso anche nell’organizzazione-percezione spaziale, la quale è ora senza confini e senza identità. Le frontiere si aprono ad un flusso ininterrotto di merci e di eccedenze del capitale (veri protagonisti del ‘nuovo corso della storia’) che trascinano con sé popoli ormai divenuti plebi senza volto, in quanto costretti alla migrazione perenne. Lo spazio diviene un luogo nel quale convivono sincreticamente e senza stabilità individualità plurime in disgregazione. La sinistra tace, anzi sostiene i flussi in nome dell’accoglienza umanitaria da donare al capitale ad ai capitalisti pronti a sfruttarne la disperazione.
Spazio globale e iperluogo Lo spazio globale diviene l’inferno perenne, dove il capitale con il sostegno delle destre e delle sinistre raccoglie i suoi frutti. L’indebolirsi dello stato nazionale stigmatizzato come la fonte di ogni male, è in realtà la rifeudalizzazione su scala planetaria. Lo Stato e la nazione sono sostituiti da potentati economici che assoldano la politica per utilizzarla ai loro fini. Lo Stato come garante di diritti sociali ed identità è perennemente oggetto di pubblico ludibrio, in quanto pone dei limiti al degrado dei popoli: l’identità è il male assoluto di cui bisogna liberarsi per consegnarsi al flusso della globalizzazione, si associa l’identità comunitaria e patria al nazionalismo per strutturare pregiudizi e rifiuti emotivi non mediati dalla ragione critica:
«In effetti, nel proprio processo vertiginoso di costruzione di uno ‘spazio globale’, essa sembra imporre alla precedente ‘spazialità nazionale’ lo stesso trattamento che questa aveva a sua volta riservato alla ‘spazialità feudale’: la travolge e dissolve, ne forza i confini e li relativizza, infine, nella sostanza, la delegittima e svuota».[2]
L’iperluogo rappresenta la nuova spazialità della globalizzazione, in cui in un solo punto sono compresenti “mondi diversi” che appaiono per dileguarsi nella globalizzazione. La sinistra che verrà deve essere capace di rispondere a tale nuova complessa condizione. Il problema è se bisogna sostenere i flussi, regolamentarli secondi i desideri del capitale, o se invece prospettare una diversa soluzione al problema. L’iperluogo è l’effetto del capitalismo finanziario che agisce per polverizzare istituzioni, lingue ed identità nazionali secolari, al loro posto vi è solo l’antiumanesimo. Il soggetto umano è preda di forze fatali che lo soverchiano, le quali “accadono” e non hanno soggetto, ma sono ipostatizzate e naturalizzate. La nuova sinistra se vuole smarcarsi dalle destre dovrebbe porre distanza concettuale, etica e politica dalla religione del capitale o continuerà ad essere parte integrante della tragedia nell’etico:
«Si spiegherebbe così – con questa trasformazione – della città da luogo di flusso o, se si preferisce, in ‘iperluogo’, in spazio in cui precipitano in un punto solo molti luoghi prima separati- l’intrinseca instabilità delle consolidate identità politiche qualificate spazialmente, come appunto ‘Destra/Sinistra’: quel loro mutare di segno, rovesciarsi nel proprio opposto, cambiare posizione relativa pur restando immobili, cui ci ha abituato l’esperienza quotidiana, così come allo sradicamento esistenziale di chi, nella liquefazione dei luoghi, sperimenta ormai sempre più spesso lo spaesamento dell’ubiquità (ciò che si prova quando a dirla con Gogol, “senza essere partiti, non si è già più là”) e l’irriconoscibilità del proprio paesaggio».[3]”
Religione del progresso Uno dei dogmi a cui la sinistra deve rinunciare, non senza problematizzarlo, è il dogma del progresso. La religione del progresso tecnologico, della liberazione da ogni vincolo comunitario ed etico e dell’aumento del PIL ha comportato un abbassamento inquietante della qualità delle relazioni umane. La competizione disintegra comunità e famiglie ed offre ai vincitori come ai perdenti solo una diversa solitudine. La riduzione di ogni ente a puro fondo di investimento sta rendendo il pianeta inospitale alla vita ed incentiva un individualismo astratto incapace di pensare e sentire il senso della comunità senza la quale non vi è che l’alienazione globale. La tecnica al servizio dell’accrescimento del capitale e del tenore di vita nell’Occidente in estensione all’intero globo mina ogni relazione autentica inaugurando l’antiumanesimo come nuova religione della violenza planetaria legalizzata:
«Ma così è accaduto anche per la sua variante ‘materialistica’: per il concetto di ‘sviluppo’ cui risulta sempre più difficile, per lo meno sul piano razionale (perché invece la sua apologetica continua a dominare sul piano della dogmatica ideologica), associare, com’era naturale fino a ieri, un’effettiva idea di benessere non misurato in puri termini di reddito, mentre si vanno moltiplicando le letture che tendono a coniugare, in forma finora impensabile, crescita dell’economia e diffusione del malessere sociale ed esistenziale, sviluppo economico e disgregazione sociale, aumento quantitativo della ricchezza e aumento qualitativo del disagio nelle forme insidiose dell’incertezza, della precarizzazione e improgrammabilità della propria vita, della crescente fragilità delle ‘biografie personali’ e nell’improponibilità di quelle collettive: in sostanza l’insieme di quegli elementi fattuali, ormai ben visibili nella nostra quotidianità, che spezzano irrimediabilmente la tradizionale identificazione di ‘progresso tecnico e progresso sociale’, o meglio, che rendono oggi improponibile l’idea – che era stata, fino a ieri, alla base del “consenso culturale-normativo di fondo” sull’idea di progresso e sulla politica del tecnologie da essa univocamente e acriticamente orientata – secondo cui lo sviluppo tecnologico trainerebbe con sé, in quanto tale, anche lo sviluppo sociale».[4]
Lo spazio ed il tempo della globalizzazione si trasformano sotto l’effetto della religione del progresso ultimo baluardo ideologico di una sinistra di governo complice dell’ordinaria violenza quotidiana. La nuova sinistra per rispondere a tali urgenze non può limitarsi a semplici dichiarazioni, ma deve rifondarsi su fondamenta metafisiche, deve uscire dai falsi miti ormai consunti per rimettere in atto processi razionali divergenti. Ritornare al logos e abbandonare i miti per discernere e rifondare sull’esperienza storica degli ultimi decenni comporta la necessità di introdurre nuovi fondamenti metafisici senza i quali ci si consegna al fatalismo della globalizzazione, alla religione stadiale del progresso senza prospettiva e senza umanità. L’anno zero della sinistra può essere l’inizio per uscire dall’abisso della coazione a ripetere, per intraprendere un percorso di ricostruzione critica adeguata ai tempi, ma nel solco di un’identità che non può essere granitica, ma neanche un nulla dai mille volti interscambiabili. Le facili e false dicotomie devono essere sostituite da valutazioni sui contenuti senza negare i principi costitutivi, solo in questo modo è possibile un nuovo inizio in nome della complessità consapevole:
«L’intelletto astratto ama le dicotomie, vive di dicotomie, si nutre di dicotomie, e la ragione sta in ciò, che per loro natura le dicotomie sono paralizzanti, portano a ciò che si chiama in filosofia “antinomie”, in modo che la manipolazione classista dell’irrigidimento antinomico porta alla conclusione che non c’è niente da fare in pratica, in quanto qualunque azione sarebbe unilaterale, e porterebbe da Scilla a Cariddi. Una di queste antinomie è l’opposizione frontale fra il progressismo ed il tradizionalismo. Se il comunitarismo vuole essere qualcosa, deve cominciare ad essere un superamento reale della dicotomia Progresso/Tradizione. L’ideologia del progresso era estranea agli antichi ed ai medioevali, almeno come la conosciamo noi, ed è un prodotto integrale delle origini della egemonia borghese e del mondializzarsi del mercato capitalistico. L’ideologia del progresso non ha nessuna universalità e nessun universalismo, ma nel suo insieme rappresenta la razionalizzazione falsamente universalistica delle pretese di estensione a tutto il mondo dell’occidentalismo individualistico e capitalistico. Il fatto che il movimento operaio, socialista e comunista abbia adottato l’ideologia del progresso, limitandosi a collocare il capitalismo alla penultima stazione ed il comunismo all’ultima, con la conseguenza di assorbire la secolarizzazione messianica della fine della storia, deve essere visto come un sintomo della inguaribile subalternità filosofica di questo soggetto sociale. Ed a sua volta la subalternità ideologica, politica e storica. Il secolo 1890-1990 è stato purtroppo lo scenario teatrale di questa incurabile subalternità. Rispondere a questa subalternità presuppone la coerentizzazione e la rigorizzazione di una concezione comunitaria del comunismo, a sua volta esito della comprensione del fatto che il semplice collettivismo (coatto) si rovescia necessariamente in individualismo (anomico)».[5]
L’atto di nascita di un’ipotetica sinistra è fondamentale per comprenderne destini e programmi. La sinistra di cui necessitiamo dev’essere partecipata, deve riattivare la potenza del concetto contro la tecnocrazia che produce movimenti e partiti all’occorrenza per scioglierli in base agli interessi dei nuovi signori feudali. L’imprinting iniziale determinerà la storia della sinistra che, ora, non c’è.
Salvatore Bravo
[1] Marco Revelli, Sinistra Destra. L’identità smarrita, Laterza, Bari 2009, pag. 173.
«Mi si rimprovera […] di essermi limitato ad una scomposizione puramente critica del dato, invece di prescrivere ricette (comtiane?) per la trattoria dell’avvenire». K. Marx, Poscritto alla seconda edizione del I Libro de Il capitale, Londra, 24 gennaio 1873.
«[…] l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. […] egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà». K. Marx. Il capitale, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1973. pp. 195-196.
Petite Plaisance
Per descrivere il “comunismo” Marx si rifugia spesso dietro la vaghezza del «sogno di una cosa» e banalizza la coscienza utopica che desidera il sorriso delle stelle (“de-sidera”) per l’armonia comunitaria di cui avverte la mancanza. Non dice che il comunismo è conforme alla natura umana, che è realizzabile in atto poiché è in potenza presente nella natura umana. La stella polare è nella fondata progettualità della buona utopia per una buona vita, e non nelle «ricette per la trattoria dell’avvenire». Eppure aveva ben chiaro il rapporto tra l’ape e l’architetto.
Marx ed Engels avevano ragione a sostenere che se il comunismo non fosse in potenza presente nella realtà capitalistica, esso non potrebbe nemmeno realizzarsi in atto. Tuttavia, affermando soltanto che esso era in potenza presente nella dialettica storica, Marx ed Engels non hanno mai esplicitamente sostenuto che così è in quanto il comunismo è conforme alla natura umana, e dunque che il comunismo è realizzabile in atto (e desiderabile) poiché è in potenza presente nella natura umana. Non è infatti la dialettica storica, la quale è prodotta spesso da situazioni contingenti, ciò che deve rendere più o meno ottimisti circa la possibilità di realizzare il comunismo, ma è proprio la natura umana. Il comunismo è invero costantemente ricercato dagli uomini, anche se sovente con scarsa consapevolezza, proprio in quanto esso costituisce quel mondo razionale e morale in cui gli uomini stessi desiderano vivere. Esso rappresenta il modo di produzione più adatto a creare quella armonia comunitaria in cui principalmente consiste la buona vita. Sostenere ciò non significa affermare che il comunismo necessariamente si realizzerà in atto, come prevalentemente sostennero Marx ed il marxismo in base alla presunta «dialettica storica». La dialettica storica non può essere interamente controllata. Sostenere questo significa solo affermare che se il comunismo si realizzerà in atto, è unicamente poiché esso è presente in potenza nella natura umana. La dura critica riservata da Marx agli utopisti nel Manifesto (ma anche in Miseria della filosofia e altrove) non fu dovuta alla loro critica delle fondamenta privatistiche e mercificate della società esistente. La pars destruens posta in essere dal pensiero utopico, per quanto poco scientifica, era sufficientemente argomentata. Il problema era nella pars construens, che Marx ed Engels ritenevano essere completamente disancorata dalle possibilità reali offerte dalle modalità sociali. Tuttavia, su questo punto occorre riflettere, per mostrare come una fondata progettualità comunista possa anche essere costruita sul pensiero classico antico, e non solo sul pensiero marxiano. La critica di Marx non è infatti estendibile a tutto il pensiero utopico – la Repubblica di Platone, ad esempio, è un’utopia politica molto attenta a considerare le modalità sociali presenti –, ed in più va sottolineato che il confronto fra la pars construens (sempre ad esempio) di Platone e la pars construens di Marx è innanzitutto un confronto fra qualcosa che esiste compiutamente (in Platone) e qualcosa che non esiste se non implicitamente (in Marx), e fra queste due alternative la prima è sempre preferibile alla seconda. Quando devono descrivere il “comunismo”, Marx ed Engels si rifugiano pressoché sempre dietro la vaghezza di espressioni quali «il sogno di una cosa»,[1] o altre dello stesso tenore, oppure tendono ad affermare che il comunismo deve essere l’opposto dialettico del capitalismo, attribuendo però a quest’ultimo una importanza troppo grande e troppo aleatoria, nel ritenerlo (per quanto “in negativo”) un riferimento costitutivo. Non si vuole qui sostenere che si debbano elaborare a tavolino anche i “particolari” della futura società ideale comunista. Tuttavia, almeno le linee generali della stessa dovrebbero essere elaborate in anticipo, poiché chi aspira al comunismo deve sapere non solo che ciò fa parte della sua natura di uomo, ma deve anche sapere, in linea di massima, in quale modo di produzione potrà realizzare la propria natura, per valutare se l’alternativa al tempo presente sia o meno desiderabile.
Questo è il compito principale del pensatore comunista. Limitarsi a criticare, per quanto con buone ragioni, il modo di produzione esistente senza essere in grado di pensare nemmeno ad una alternativa possibile migliore, è sterile ed inconcludente, e forse addirittura dannoso per la stessa credibilità della proposta teorica comunista. Limitarsi oggi a fare quello che suggeriva Marx, ossia ad essere gli “esecutori” delle presunte leggi della storia, anziché i “grandi architetti” di future società giuste, significa mettersi interamente nelle mani del modo di produzione capitalistico, le cui interne contraddizioni, sicuramente ben comprese da Marx, potrebbero richiedere secoli per determinarne la dissoluzione. Il tema interessante è che quando in Marx ed Engels la descrizione del comunismo assume una qualche concretezza, come appunto nel Manifesto, le linee generali di un modo di produzione comunista sono delineate in maniera universalistica, ossia attenta a princípi e fini generali, volte a creare un quadro di produzione sociale razionalmente e moralmente gestibile per la soddisfazione dei principali bisogni umani. In questo senso, la più importante indicazione di Marx ed Engels è quella della pianificazione comunitaria. Ciò è comprovato, appunto, dalle pur contingenti indicazioni del Manifesto: «espropriazione della proprietà fondiaria», «imposta fortemente progressiva», «abolizione del diritto di eredità», «accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello Stato», «aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano comune», «educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli», ed in generale «accentramento di tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato». È possibile certo sostenere che anche questa idea di “comunismo”, in Marx ed Engels, fu derivata in opposizione dialettica alla idea di “capitalismo”, e pertanto non può assumere valore generale. Questo è in parte vero. Tuttavia, anche in assenza di una esplicita fondazione umanistica da parte di Marx, queste sue indicazioni progettuali paiono molto coerenti e concrete, certamente compatibili – almeno in parte – con una pianificazione comunitaria e democratica della produzione sociale. Sapere di condividere, se non la lettera, almeno lo spirito di fondo di un pensatore come Marx, sicuramente il maggiore teorico del comunismo mai vissuto consente di non consegnare Marx ai semplici sostenitori del bellicoso “comunismo-antagonismo” o del vago “comunismo-autogestione”, dannosi i primi, inconcludenti i secondi.[2]
Note
[1] «La riforma della coscienza consiste soltanto nel fatto che l’uomo lascia che il mondo divenga la sua coscienza interna, che l’uomo si risvegli dal sogno su se stesso, che si renda chiare le proprie stesse azioni. Il nostro intero scopo non può consistere altro – come nel caso di Feuerbach riguardo alla religione – che ogni domanda religiosa e politica venga tradotta in forma umana autocosciente. […] Si vedrà allora che da tempo il mondo possiede [nel senso di custodisce, ha in sé] il sogno di una cosa, del quale gli manca solo di possedere la coscienza, per possederla veramente» (K. Marx, Lettera a Ruge, settembre 1843, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, III, 1843-1844, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 156). Interessante notare – per rendersi conto di quanto queste espressioni di Marx abbiano influenzato la riflessione teorica di tanti intellettuali del Novecento – come il «giovane» P. P. Pasolini incontri il «giovane» Marx proprio quando deve scegliere il titolo del suo primo romanzo, Il sogno di una cosa (scritto nel 1949-50, ma pubblicato da Garzanti solo nel 1962). Il tema del «sogno» verrà ripreso anche da E. Bloch nel suo Karl Marx, il Mulino, Bologna 1972, pag. 57-82.
[2] Cfr., su questi temi, Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”, Petite Plaisance, Pistoia 2013, pp. 80-83.
«[…] gli uomini scompaiono davanti al lavoro; […] il bilanciere della pendola è divenuto la misura esatta dell’attività relativa di due operai, come lo è della velocità di due locomotive […], non si può più dire che un’ora di un uomo vale un’ora di un altro uomo, ma piuttosto che un uomo di un’ora vale un altro uomo di un’ora. Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più la carcassa del tempo».
Karl Marx, Miseria della filosofia, Rinascita, Roma 1949, pp. 44-45.
«Una condizione della produzione fondata sul capitale è quindi la produzione di un cerchio della circolazione costantemente allargato […]. La tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto del capitale stesso. Ogni limite si presenta come un ostacolo da superare. […] La produzione di valore eccedente relativo […] richiede produzione di nuovo consumo […]. In primo luogo espansione quantitativa del consumo esistente; in secondo luogo: creazione di nuovi bisogni mediante la diffusione di quelli esistenti in una cerchia più ampia; in terzo luogo: produzione di nuovi bisogni e scoperta e creazione di nuovi valori d’uso. […] In conformità con questa sua tendenza il capitale tende a trascendere […] il soddisfacimento tradizionale […] dei bisogni esistenti, e la riproduzione di un vecchio modo di vivere. Nei confronti di tutto questo esso è distruttivo […]».
Karl Marx, Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, a cura di G. Backhaus, 2 voll., Pgreco, Milano 2012, pp. 374-377.
«[…] La circolazione del denaro come capitale è fine a sé stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura».
Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 168.
[…] Oggi viviamo in società estremamente complesse. Alcuni ritengono che è proprio la complessità a non tollerare progetti sociali di sorta. Poiché, si dice, è praticamente impossibile forzare entro schemi progettuali le odierne società complesse, è meglio rinunciare ai progetti globali, considerati come arbitrarie fughe in avanti, e limitarsi a controllare di giorno in giorno i singoli sottosistemi, intervenendo soltanto là dove dovessero verificarsi grosse smagliature che potrebbero mettere in crisi il sistema nella sua interezza. Non ci si accorge che è stata proprio l’assenza di un progetto globale, la politica del giorno per giorno e degli interventi-tampone a determinare quello che forse può essere considerato il più grosso disastro di tutti i tempi: la crisi ecologica a livello planetario. Così come è l’assenza di progettualità politica a produrre le forti sperequazioni tra cittadini nei Paesi sviluppati e il crescente divario, sotto ogni profilo, tra il Nord e il Sud del mondo. Altro che “fine dell’utopia”. Oggi il mondo ha bisogno come non mai di utopia, di progettualità. Si tratta certo di intendersi. È chiaro che qui, per utopia, non s’intende quella banalizzata dal marxismo, né quella demonizzata dall’ideologia borghese. Non è cioè vuota “fantasticheria” né progetto totalizzante.
L’utopia […] è un progetto storico, che nasce da una profonda coscienza etica, si sviluppa in una coscienza critica e s’adempie in una coscienza progettuale. Tale è infatti l’originario contenuto semantico del termine stesso, che oscilla, appunto, tra ou-topia “nessun luogo”) ed eu-topia “buon luogo”). L’utopia come luogo della società buona e felice che non c’è ancora. Il pensiero utopico nasce dalla consapevolezza che il mondo, o meglio, la società, così com’è, è carente d’essere: è inadeguata cioè a soddisfare i bisogni di ciascuno e a garantirne i diritti. Lo stato di cose presente è sentito fondamentalmente come ingiusto proprio perché non dà a ciascuno il suo. Questa rivolta morale contro l’ingiustizia sarebbe tuttavia velleitaria e impotente se non si tramutasse in coscienza critica, se cioè non individuasse quelle forme e quelle strutture concrete che sono causa d’iniquità, in ordine alla loro rimozione. Ma lo spirito critico-eversivo non sarebbe fecondo se non fosse sorretto da una coscienza progettuale, la sola che permette di ricostruire o rifondare la società secondo i dettami della giustizia, ossia di sostituire il “vecchio” con il “nuovo”.
Questo non significa […] che la mentalità utopica sia protesa a negare in maniera assoluta il presente, ossia a negare non solo il “negativo”, ma anche quel che di “positivo” vi è nel presente. In realtà, non tutto ciò che il presente contiene è “vecchio”, vale a dire superato, non rispondente agli imperativi della coscienza etica. Proprio perché l’utopia è il progetto della storia, che è nato e si va facendo nella storia, essa non può rinnegare le sue stesse conquiste. La coscienza utopica non rinuncia al bene presente in vista di un bene futuro. Al contrario, essa accetta e conserva tutto ciò che di positivo il presente offre, ben sapendo che il presente non è altro che il futuro del passato. In ogni presente possono venire a maturazione le spinte e le aspirazioni delle generazioni passate. La critica del presente, dunque, mira solo a rigettare tutto quel che di negativo e ingiusto il presente racchiude in sé.
Quella utopica non è una coscienza sognante, pigra, pacificata con la realtà, ma è sempre vigile, inquieta e in lotta contro le ideologie di turno, che tendono a mascherare la realtà effettuale, presentandola come il migliore dei mondi possibili. Avendo come suoi valori-guida fondamentali la giustizia, la libertà, l’uguaglianza, la fraternità, l’amore, la felicità, la pace, la coscienza utopica si protende a realizzarli con tutte le proprie forze. E poiché la realizzazione dei valori passa anzitutto attraverso le coscienze dei singoli, essa non può mai essere data per acquisita una volta per tutte. Donde la continua tensione, la vigilanza per evitare la ricaduta nell’ideologia, che è sempre in agguato per riproporre subdolamente istanze obsolete e “ripescaggi” antistorici.
La coscienza utopica, proprio perché si riconosce finita, limitata, è pronta al rischio e perfino allo scacco. Solo che il rischio e lo scacco non la deprimono, ma le infondono coraggio, perché sa bene che gli autentici valori umani che essa persegue possono pur subire uno scacco nel breve periodo, ma alla lunga prevarranno. La coscienza utopica consente all’uomo di correre il rischio di pensare e decidere autonomamente. Le nostre società, dove il lavoro sociale si svolge in forme sempre più parcellizzate, hanno di fatto espropriato l’uomo del gusto del rischio, deprivandolo così anche della responsabilità. Tale espropriazione, che con il passare del tempo si è tramutata in una tacita delega agli “specialisti” (della politica e della scienza-tecnologia) di pensare e di decidere per tutti, ci ha regalato quella che a giusta ragione è stata definita «la società del rischio». […] Occorre perciò riappropriarsi del diritto al rischio, del diritto a decidere responsabilmente e autonomamente, liberandosi dalle “tutele” false e interessate e, in particolare, dall’ideologia scientista, che non è meno pericolosa delle altre di cui si “celebra”, spesso in modo allegramente discorsivo, la crisi.
Si può dunque affermare che mentre la crisi delle ideologie, se correttamente intesa, costituisce un fatto largamente positivo, poiché ci libera dalla “falsa coscienza”, la crisi, o ancor più la fine dell’utopia sarebbe una sciagura per l’umanità.
Fine dell’utopia significa assenza di progettualità, smarrimento dei valori-guida, e quindi ritorno a uno stato ingiusto, dove i rapporti umani vengono regolati non dalla coscienza etica e dalla ragione, bensì dalla forza. Se dovesse venir meno l’utopia, la stessa politica, da arte o scienza del buon governo degli uomini, decadrebbe a mera lotta per il potere sugli uomini. Sarebbe il trionfo definitivo di quella che è stata recentemente definita «ragione cinica». Una strada su cui si è incamminata gran parte delle nostre società, proprio a causa dell’affievolirsi della coscienza e della tensione etica, che ha portato alla crisi e allo smarrimento dei valori autenticamente umani e, di conseguenza, alla caduta dello spirito utopico. Se la storia ha un qualche valore pedagogico, essa ci insegna che sovente il sonno dell’utopia ha generato i mostri.
È dunque tempo di svegliarsi, per riprendere, con l’energia necessaria, il cammino interrotto dalle forze distopiche, che in questi ultimi decenni hanno prevalso, anche a causa dell’attuale processo di globalizzazione, che si sta rivelando profondamente dannoso e ingiusto non solo per l’uomo, ma anche per l’ecosfera.
Cosimo Quarta, Homo utopicus. La dimensione storico-antropologica dell’utopia, Dedalo, Bari 2015, pp. 167-170.
Il politicamente corretto è il dispositivo interdittivo del capitalismo.
Non indossate l’abito del «Politically correct».
Serve a necrotizzare il concetto e sostituirlo con la chiacchiera
Politicamente corretto Ogni organizzazione sociale ha le sue interdizioni: senza di esse non vi è comunità che regga. Il capitalismo assoluto cela le sue interdizioni pur rappresentandosi come la società più libera che la storia umana abbia conosciuto.
Il politicamente corretto è il dispositivo interdittivo del capitalismo assoluto.
Per necrotizzare il concetto e sostituirlo con la chiacchiera si opera secondo modalità plurali. La chiacchiera è il distrattore di massa del capitale: l’etere è occupato dal continuo flusso di informazioni, e di gossip, che funzionano per distrarre i popoli, che si vogliono plebi, dalla durezza del reale e trasportarlo in un mondo onirico di desideri e sogni derealizzanti. La chiacchiera è la nuova religione del capitalismo assoluto, religione nichilista in cui mediocri personaggi di nessun talento raccontano il loro privato. Il dispositivo opera per sostituire il concetto (Begriff) con la chiacchiera (Gerede). I santi, i letterati e gli scienziati che nella fase precedente del capitalismo erano i modelli dialettici e critici del capitalismo, sono sostituiti dalla mediocrità dei narcisi dello spettacolo, dai loro racconti “tutti simili” come le loro fisicità e che convergono sulla cultura del privato e dell’indifferenza verso il pubblico. Sono vere armi per veicolare il capitalismo assoluto nella forma infantile ed innocente del narcisismo incentrato sul corpo da esporre e della parola da annichilire. La differenza, e l’identità dialettica sono respinte, poiché qualsiasi intelligenza media può ben rendersi conto che le storie e le aspirazioni raccontate sono tutte “drammaticamente” eguali. L’attenzione è volta unicamente al proprio privato che riproduce mediante gli automatismi della chiacchiera i modelli socialmente imposti. La gabbia d’acciaio ha le sbarre invisibili, perché costruite con gli atti fonatori senza prospettiva e senza logos. Il potere non cala dall’alto, ma si diffonde mediante le stesse vittime: è nella loro carne, vi si installa per renderli automi nei quali convive la vittima con il carnefice. I diritti individuali sono negati, benché siano la bandiera ideologica e violenta del grande capitale. Il diritto alla parola non è il diritto alla chiacchiera, ma al concetto, alla riflessione; pertanto la chiacchiera interdice il pensiero e neutralizza il diritto alla parola, al libero concetto e alla pratica del logos. Il dialogo decade a pura emissione di dati e di immagini, nega se stesso, è sostituito con un suo surrogato. Il circo mediatico, mentre spinge a parlare di tutto, ad usare un linguaggio senza filtri opera per impedire l’esperienza critica comunitaria, la quale non può che concretizzarsi con il linguaggio significante. La chiacchiera è veicolo della reazione, della conservazione senza speranza e senza pensiero. La chiacchiera allarga i suoi spazi per occupare la temporalità delle menti. È associata all’immagine fino a confondersi con essa, dato che la semplicità lessicale diviene la copia dell’immagine, l’una non aggiunge nessuna informazione all’altra, ma entrambe destabilizzano l’attenzione, attaccano il pensiero nella sua genealogia. Gli automatismi irriflessi divengono la forza del capitale che desoggettivizza, e riduce le identità a semplici presenze gettate nella ridda degli stimoli senza mediazione concettuale. L’interdizione è tanto più violenta tanto più è occultata dall’ideologia della chiacchiera, la quale è l’arma con cui si conquistano “le nuove colonie” per il capitale. Ogni vivente è un regno da usare e da occupare. Il politicamente corretto è la forma del nuovo dispositivo di controllo. La tragedia attuale è il passaggio della sinistra sconfitta nell’impero della chiacchiera degli pseudo diritti individuali. La frontiera del politicamente corretto con le sue interdizioni ha trovato nella “sinistra” il mezzo di consolidamento del capitale. Dopo la caduta del comunismo ed il dissolvimento del partito comunista, la “sinistra” di potere ha ritrovato un suo nuovo ruolo nell’ideologia dei soli diritti individuali, appare come il salvagente a cui aggrapparsi per salvarsi, ma che in realtà l’ha fatta affondare. Il naufragio ed il timore di perdere posizioni di potere hanno favorito un ribaltamento tanto veloce quanto opportunistico. Il nichilismo rende adattivi, per cui la “sinistra” recava in sé tale matrice che ora si svela nella sua verità. Il nuovo mantra della nuova “sinistra”, come rileva Costanzo Preve, è l’acquisizione dogmatica e preconcetta della liberalizzazione dei costumi e dei consumi:
«In primo luogo, la genesi vera e propria. Si tratta di un episodio interno alla cultura radicale di estrema sinistra negli USA, dalla Vecchia Sinistra (old left), ancora socialista e comunista di tipo europeo, alla Nuova Sinistra (new left), postsocialista e postcomunista, sconfitta a livello di “struttura”, e che cerca una rivincita al livello del costume, dei modi di pensare e della “sovrastruttura”, in particolare per quanto concerne i quattro punti del sessismo maschilista, dell’omofobia, dell’antisemitismo antiebraico e del razzismo contro i “diversamente colorati” (neri, amerindi eccetera). In secondo luogo si tratta di una generalizzazione dell’intera società “ufficiale” di questo movimento, generalizzazione resa possibile e necessaria da un mutamento di natura dell’intera società capitalistica globale, r cioè caratterizzata dalla dicotomia Borghesia/Proletariato, ad una fase speculativa, e cioè post-borghese e post-proletaria, deve far cadere e rendere obsoleti i vecchi modelli razzisti, sessisti ed omofobi».[1]
Semplicismo del politicamente corretto La “sinistra” ha abbracciato la causa della liberalizzazione dei costumi, ha rinunciato al pensiero critico e comunitario con il risultato che è diventata parte del politicamente corretto. Con la rinuncia alla dialettica in favore dell’individualismo narcisistico la lettura complessa e profonda dei fenomeni politici è sostituita da un semplicismo povero di idee e di ideali. Il femminismo e la lotta contro i razzismi sono diventati il mezzo più efficace per rafforzare il sistema capitale. La “sinistra arcobaleno” favorisce l’assimilazione nella società dei consumi, libera per poter mettere ai ceppi i “liberati”. Nel regno animale dello Spirito c’è spazio per chiunque, perché al capitale non importa il genere di appartenenza o l’identità di provenienza, il suo scopo è trasformare ciascuno in consumatore senza limiti e in adoratore idolatra del plusvalore. Il capitale è flessibile, è “rivoluzionario”, è un buco nero che attrae energia e materia per ridurla in “niente”. Le differenze sono rese irrilevanti in nome del consumo; pertanto a ciascuno è concesso di dichiarare la propria differenza, purché non si sottragga ai consumi ed all’individualismo dall’io minimo. Il capitale vive di ossimori, pertanto l’individuo è ammesso, ma solo se si connota come personalità minima. Si interdice la formazione personale ed identitaria in nome del “divino consumo”:
«In breve: la “sinistra” (nulla a che fare con le severe analisi strutturali di Marx) crede che il keynesismo in economia e la liberalizzazione dei costumi nella cultura siano tappe di avvicinamento progressivo (e di fatto “stadiale”) ad una società socialistica e comunistica (in senso umanistico ed antistaliano), in quanto crede che per sua stessa insuperabile natura il capitalismo si fondi su di un profilo razzista, omofobico, maschilista, sessista, autoritario, eccetera. Di fronte al fatto inatteso, invece, che il capitalismo per sua stessa natura riproduttiva tende a superare il suo primo momento di instaurazione, effettivamente razzista, maschilista, omofobico, sessista eccetera, per poter allargare le sue basi di consenso e di gestione attiva, includendovi appunto i neri, le donne, gli omosessuali, eccetera, non sapendo neppure più dove porre le sue basi culturali identitarie».[2]
Fascismo sempre alle porte Il politicamente corretto per interdire la discussione su alternative potenziali e sulla verità del presente utilizza abilmente timori e paure del passato. Si fa appello al fascismo in assenza di fascismo. Si mette in atto un’operazione di derealizzazione, si proietta l’aggressività verso un nemico immaginario. Si legittima il presente con la religione dell’olocausto, per cui il sistema capitale è idolatrato per contrasto con i crimini del nazifascismo, ma naturalmente si occultano i crimini del capitalismo del passato come del presente. La religione dell’olocausto con la sua immensa produzione libraria e mediatica inonda il mercato ed unisce al profitto lo strutturarsi ossessivo e delirante della minaccia del nazismo alle istituzioni democratiche. Il pericolo inoculato nei popoli è lo strumento per tenerli docilmente alla catena:
«La religione olocaustica è quindi bivalente, in quanto serve sia all’asservimento simbolico dell’Europa, chiamata ad espiare per sempre, sia alla giustificazione indiretta delle atrocità razziste del sionismo colonialistico. Il capitalismo ha superato da tempo lo stadio ascetico-weberiano dell’accumulazione e lo stadio freudiano della necessità del Super-Io paterno baffuto, barbuto e peloso con completamento amoroso materno in busto a stecche soffocanti, ed in questo modo ha soltanto una fondazione individualistica e consumistica».[3]
L’antifascismo funziona come catalizzatore per una società disgregata, per impedire che l’individualismo divori se stesso si produce un artificio valoriale con cui unire all’occorrenza gli individui in perenne lotta e competizione. La religione dell’olocausto funziona, anche perché è una religione senza responsabilità verso il presente e che si limita a brevi liturgie da attivare nei momenti di crisi:
«L’antifascismo in assenza completa di fascismo è in realtà un meccanismo ideologico pestifero per impedire la valutazione dei fatti attuali. La costituzione italiana è stata distrutta nel 1999 con i bombardamenti sulla Jugoslavia, e da allora l’Italia è senza costituzione, e lo resterà finché i responsabili politici di allora non saranno condannati a morte per alto tradimento (parlo letteralmente pesando le parole), con eventuale benevola commutazione della condanna a morte a lavori forzati a vita».[4]
La religione dell’olocausto giustifica l’occupazione americana dell’Europa e con essa la sua colonizzazione.
La quarta guerra mondiale Il capitalismo assoluto produce surrogati per compensare l’inquinamento dei bisogni autentici ed eterni dell’essere umano (religione, filosofia, arte e scienza). Ogni surrogato non è che un prodotto che non potrà rispondere alle autentiche esigenze assiologiche ed ontologiche dell’essere umano, ciò malgrado la religione dell’olocausto, del femminismo in carriera, delle famiglie arcobaleno e dell’uguaglianza come irrilevanza sono diventati i valori della sinistra che pratica il politicamente corretto senza prospettive:
«L’Antifascismo Senza Fascismo è stato quindi la religione di compensazione di un mondo che stava disgregando i precedenti valori comunitari. Si è trattato di una vera e propria “religione laica” o meglio di un surrogato laico della vecchia religione, e questo spiega perché i cosiddetti “fascisti” sono diventati l’equivalente degli intoccabili e degli immondi delle vecchie religioni tribali».[5]
Il politicamente corretto coincide con la quarta guerra mondiale, ovvero con l’americanizzazione del pianeta, con l’omogeneizzazione di popoli, lingue e culture. Il politicamente corretto cela la guerra in corso, la quale è un’azione belligerante continua contro ogni identità che si oppone al dominio messianico ed imperiale americano. Le responsabilità della sinistra divengono inquietanti dinanzi a tali crimini:
«Il progetto egemonico del nuovo impero americano si fonda su di una omogeneizzazione oligarchico-plebea dell’intera umanità. Al posto della ricca compresenza di nazioni, popoli e classi del mondo, si avrebbe un’unica piramide sociale omogeneizzata composta di individui preventivamente sradicati e poi risocializzati su basi consumistiche (ovviamente, basi consumistiche non egualizzate, ma a differenziati gradi di potere d’acquisto)». [6]
Contro il politicamente corretto bisogna operare riaprendo la catena dei perché, e trasformare la domanda in prassi. La resistenza è possibile, e l’emancipazione personale deve diventare potenza comunitaria per la liberazione culturale ed economica. Nessuna emancipazione può concretizzarsi con azioni singolari, ma l’impegno critico nel quale il concetto è il protagonista è la premessa per ogni trasformazione e prassi:
«Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido».[7]
La filosofia come talpa e civetta La filosofia lavora non per l’immediato, essa è a volte come la talpa di Hegel il cui lavoro carsico prepara l’emancipazione ed il volo della civetta. Costanzo Preve è stato consapevole di aver lavorato per un futuro non determinabile. La sua dedizione alla filosofia diviene eguale alla passione dei grandi filosofi che hanno pensato il passato per capire il presente e preparato il futuro. La filosofia è, anche, dono di sé e questo i sofisti del politicamente corretto non possono comprenderlo:
«Passiamo al lungo termine. Dal momento che sono un pessimista generazionale ed un ottimista storico, e sono abituato a studiare i secoli ed i millenni, dò per scontato che questa abietta formazione ideologica del Politicamente Corretto certamente sparirà. Ma quando? Sospetto che questo non solo riguardi me, ma neppure gli attuali ventenni».[8]
Costanzo Preve ha pagato con l’impegno e l’auto-marginalità la sua lotta contro il politicamente corretto, il suo nome sarà sempre legato alla passione filosofica (Bestimmung) la quale non può che essere attività politica comunitaria. Può essere un esempio scomodo, ma ogni grandezza ci scopre impreparati ed inadeguati, ciò malgrado che ognuno salga sul suo asinello e scenda dal dorso dei grandi, come era solito affermare, poiché solo il coraggio di deviare dal cammino tracciato dalle potenze del nichilismo può rendergli onore. Non siamo vocati a diventare eroi, ma ognuno può trovare il modo di impegnarsi a suo modo sul solco dei dissenzienti del concetto, bisogna tradurre la società dello spettacolo in concetto per sperare nella prassi collettiva:
«Nella produzione televisiva della comunicazione il mezzo determina il contenuto del messaggio, scegliendo sistematicamente gli aspetti più superficiali ma anche più “visivi”, e dunque impressionanti, dell’evento riprodotto. In questo modo, ad esempio, la CNN americana, che è lo strumento televisivo dell’impero, sceglie di rappresentare le “atrocità” che poi serviranno da legittimazione pubblica alla risposta dei bombardieri americani. Tutto questo è rivestito da un’aura di presunta imparzialità ed autenticità che sembra non nascondere niente mentre nasconde tutto, dagli interessi economici in gioco ai precedenti storici. Lo voglia o meno, il giornalista televisivo è al servizio di questo meccanismo di eccezionalità visiva, che gira sempre intorno a tre forme archetipiche di spettacolo, lo spettacolo sportivo, lo spettacolo porno e lo spettacolo di morte in diretta».[9]
In questi giorni cade la data della sua morte (23 novembre),[10] ma ogni grande pensatore non muore mai; le verità che un pensatore ha svelato sono il lascito, a volte scomodo, con cui bisogna dialetticamente confrontarsi.
«[…] conoscere se stessi, come hanno detto alcuni tra i sapienti, è la cosa più difficile, ma anche la più piacevole […]; come, dunque, quando vogliamo vedere la nostra faccia la vediamo guardandoci allo specchio, allo stesso modo quando vogliamo conoscere noi stessi potremmo conoscerci guardandoci nell’amico; infatti l’amicoi è, come abbiamo detto, un alter ego. Se, quindi, è piacevole conoscere se stessi, e non è possibile conoscersi senza un altro che ci sia amico, l’individuo autosufficiente avrà bisogno dell’amicizia per conoscere se stesso».
Aristotele, Grande Etica, II, 1213 a 13-25, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 1187-1189.
«Ciò che Heidegger chiama fenomenologia e ontologia non è in realtà che un’astratta e mistica descrizione antropologica dell’esistenza umana, descrizione che nel suo concreto attuarsi fenomenologico insensibilmente si converte in una disamina – spesso interessantissima –dell’esistenza del filisteismo intellettuale durante la crisi del periodo imperialistico » (p. 506).
«Il metodo e il contenuto della filosofia di Heidegger esprimono qui, in una terminologia estremamente complicata (ma soprattutto affettata), il sentimento della vita proprio dell’intellettuale filisteo in un’epoca di grave crisi: stornare il pericolo che minaccia la propria ‘esistenza’ in maniera che non ne risulti alcun obbligo di modificare le proprie condizioni esteriori di vita o anche solo di collaborare al cambiamento dell’obiettiva realtà sociale. Per quanto Heidegger sia difficile da capire, queste conseguenze sono state tratte giustamente dalla sua filosofia» (pp. 515-516).
«Il fascismo deve non poco alla filosofia di Heidegger e di Jaspers se poté educare gran parte dell’intellettualità tedesca a una neutralità più che benevola. A questo riguardo rimane cosa piuttosto indifferente la posizione personale che essi hanno assunto nei confronti dell’hitlerismo, poiché nessuno dei due ha mancato fede ai presupposti e alle conseguenze della propria filosofia fino al punto da schierarsi realmente contro Hitler. Il fatto poi che Heidegger abbia aderito apertamente al fascismo, mentre Jaspers, per ragioni di carattere privato, non sia potuto giungere a tanto, e dopo la caduta di Hitler, quando il vento sembrava soffiare da sinistra, abbia utilizzato l’otium cum dignitate mantenuto sotto il nazismo per atteggiarsi ad antifascista, non cambia nulla a questo fondamentale stato di cose. Resta il fatto che con il contenuto obiettivo della loro filosofia hanno entrambi spianato la via all’irrazionalismo fascista» (531-532).
György Lukács, Die Zerstõrung der Vernunft (1954); trad. it. La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959.
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.AcceptRead More
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.