«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Troppo a lungo le classi dominanti hanno attribuito alla natura (cioè ad una traduzione laica degli imperscrutabili decreti della Divina Provvidenza) le ingiustizie e le sofferenze di cui è responsabile l’organizzazione della società, comprese certe calamità ‘naturali’ (dalle alluvioni alle epidemie a tutte le malattie sociali) che non sarebbero accadute, o avrebbero arrecato danni molto meno gravi, se la ricerca del massimo profitto e la subordinazione dei pubblici poteri agli interessi capitalistici non avessero fatto trascurare le più ovvie misure di prevenzione e, ciò che molto più importa, non avessero impedito l’adozione di un modello di sviluppo tecnico-produttivo profondamente diverso».
Sebastiano Timpanaro, Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1975 (prima edizione 1970), p. XXVI.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
L’essere e la fine della metafisica. Il saggio di Carlo Carrara dedicato alla riflessione “teologica” del filosofo tedesco
«L’epoca metafisica, iniziatasi con Platone, per Heidegger giunge al suo compimento con Nietzsche. La metafisica di Nietzsche, in quanto compimento della metafisica occidentale in generale e quindi – in un senso rettamente inteso – la fine della metafisica come tale». Così scrive Carlo Carrara in Essere e Dio in Heidegger, denso saggio pubblicato per l’Editrice Petite Plaisance (pp. 186, 20 euro). Già nel titolo Carrara rende omaggio all’autore di Essere e tempo, affiancando la riflessione sull’ontologia e sull’essere alla parola di Dio. Il «Dio è morto!» nicciano è il punto di partenza, è crux interpretativa, è la svolta di quel pensiero nichilista e di riflessione metafisica dell’essere nel tempo e dell’esserci. Ed in merito osserva Carlo Carrara: «Heidegger non esclude che a questa epoca segnata dalla morte di Dio, dal compimento della metafisica, dall’assenza e della mancanza del divino, poetata da Hölderlin, possa essere concesso il favore della svolta della dimenticanza dell’essere nella salvaguardia della sua essenza». In questa direzione la riflessione su Dio e l’essere nel pensiero di Heidegger portata avanti con rigore da Carlo Carrara porta alla consapevolezza che la dimenticanza dell’essere, mutandosi nella salvaguardia della sua essenza, nella disponibilità umana della custodia e dell’attesa, si presenta nel pensiero poetante che dall’essere conduce a Dio, e nel poetare pensante, che si rivolge al sacro, come una luce nel tempo di povertà «della notte del mondo», scrive Carlo Carrara. Il saggio è un percorso vertiginoso e a tratti insidioso, che pone il lettore a interrogarsi sul Dio divino che non è il Dio cristiano che si è inverato nel tempo. «Solo il Dio divino può salvare l’uomo, nel senso che può liberarlo per la sua essenza propria in quanto esser-ci, dal dominio dell’oblio dell’essere dalle conseguenze della morte di Dio», continua Carrara nel suo itinerario speculativo. In questo contesto il pensiero poetante diventa una chiave di ingresso in una dimensione dell’umano che si completa nella filosofia, sapere intorno all’uomo giorno e notte.
«La Provincia di Cremona», giugno 2020.
Recensione di Essere e Dio in Heidegger – Quotidiano La Provincia di Cremona
La questione centrale del pensiero di Martin Heidegger è la questione dell’essere, ma fin dall’inizio del suo cammino, nei sentieri percorsi, il suo pensare è aperto al problema di Dio e a ciò ad esso inerente. Per il filosofo tedesco la metafisica occidentale, da Platone a Nietzsche, nasce e si sviluppa come oblio dell’essere, cosicché nulla ne è dell’essere stesso e della sua verità. Ne consegue che nella sua stessa essenza la metafisica è nichilismo. Il Dio metafisico è il Dio causa sui, il Dio fondamento, ragione e supremo valore, le cui immagini e maschere costruite dall’onto-teologia lungo la storia hanno contraffatto il Dio divino, il Dio che può aver luogo secondo il suo tratto proprio solo in base, a partire ed entro l’orizzonte della verità dell’essere. Solo il Dio divino può salvare l’uomo, nel senso che può liberarlo per la sua essenza propria in quanto esser-ci, dal dominio dell’oblio dell’essere e dalle conseguenze della morte del Dio non divino. Il favore della svolta nell’essere ancora non concesso, che la dimenticanza dell’essere si rivolti, mutandosi nella salvaguardia della sua essenza, nella disponibilità umana della custodia e dell’attesa, si presenta nel pensiero poetante, che dall’essere conduce al Dio, e nel poetare pensante, che si rivolge al sacro, come una luce nel tempo di povertà della notte del mondo, caratterizzato dall’assenza, dalla mancanza di Dio: «Quando si fa buio non vedo niente, e tuttavia (ci) vedo» (M. Heidegger).
Carlo Carrara è dottore in Filosofia e ha conseguito il Magistero in Scienze Religiose. Si occupa di filosofia contemporanea, antropologia filosofica e del pensiero di Martin Heidegger. Tra i suoi libri si segnalano: La domanda del senso dell’esistere (il nuovo melangolo, Genova 2013); Solitudine ed esistenza. Kierkegaard, Nietzsche, Unamuno, Heidegger, Jaspers, Sartre, Camus, Marcel, Berdjaev, Abbagnano (Petite Plaisance, Pistoia 2015); In cammino verso il silenzio (Paoline, Milano 2015); L’uomo ancora non pensa. Nei sentieri di Heidegger (Petite Plaisance, Pistoia 2016).
[Introduzione di Massimo Bontempelli. In appendice scritti di: Walter Kasper, Dario Antiseri, Luigi Giussani, Abraham J. Heschel, Juan Alfaro, Norbert Fischer, Bernhard Welte, Karl Rahner, Armando Rigobello, Günther Anders, Wolfhart Pannenberg, Norberto Bobbio].
Il sentiero qui percorso, muovendo i primi passi verso la necessaria chiarificazione della semantica e della polivalenza del termine «senso», seguirà la via del senso come domandaradicale, per poi proseguire sulla via del senso come problemafondamentale, per raggiungere il senso come mistero avvolgente. Tre vie con un unico intento: ri-passare la strutturaontologico-esistenziale ultima umana. Riallacciandosi poi alla situazione propria dell’uomo contemporaneo, il cammino ripercorrerà le tappe della perdita della domanda del senso, per arrivare alla mancanza del senso e all’insensatezza effettiva dominante. Tre vie con un unico intento: ri-levare l’odiernacondizioneumana. Gli ultimi passi volgeranno verso la ri-cercaresponsabile del senso ultimo da parte di ogni singolo uomo, con la ri-propostadella domanda del senso, per un «ri-trovamento» di quanto di più umano vi sia nell’uomo. Infine, alcuni approfondimenti di noti e attuali studiosi, ricondurranno a ripercorrere in modo più particolareggiato i diversi aspetti della questione esaminata.
«[…] l’uomo contemporaneo, in genere, non sente neanche più la necessità di enunciare la scomparsa delsenso ultimo, preoccupato com’è a dar vita ai «suoi» sensi; tanto è vero che il suo pensare al senso come mistero avvolgente dura per lo più quanto l’attimo di un lampo, che potrebbe comunque anche folgorarlo; il suo riflettere sul senso come problema fondamentale dura forse poco più di un’ora, giusto il tempo per supporre e dire qualcosa, per poi lasciare nuovamente il tutto sospeso nel vuoto o nel dubbio; il suo percepire il senso come domanda radicale sta invece alla circostanza che lo suscita come il sole sta a un giorno, che potrebbe tanto irradiare quanto accecare, o come la luna sta a una notte, che potrebbe tanto guidare quanto fuorviare, ma in qualunque modo stiano le cose, il domani sarà sempre un altro giorno e un’altra notte. Per il resto del suo tempo, cioè, per tutto il tempo, l’uomo contemporaneo non fa che pensare, fare e dire «per» questo mondo, «con» questo mondo e «in» questo mondo, a se stesso, in unità con la felicità di questo mondo, da conquistare mediante la ricerca, il possesso e il godimento (per quanto frenetici, esasperati e inappagabili possano essere) di tutti quei beni che il menù del mondo gli offre (potere, denaro, successo, piaceri, divertimenti, ecc.), augurandogli “buon senso!”». «La domanda del senso rimanda al mistero della vita e del mondo che avvolge integralmente l’uomo. Non più risposte a domande, ma domande a risposte; non più soluzioni a problemi, ma problemi a soluzioni; e nemmeno tentativi di pensare qualcosa di ciò che è non ancora pensato, di aspirare a trovare qualcosa di ciò che è non ancora trovato; ma soltanto il mistero che avvolge e coinvolge l’uomo, che lo inonda con le sue imprendibili acque, tenebrose per la sua ragione, sorgente di speranza per il suo cuore» (Carlo Carrara).
Carlo Carrara, La domanda del senso dell’esistere, Il Nuovo Melangolo, 2014.
Il sentiero qui percorso, muovendo i primi passi verso la necessaria chiarificazione della semantica e della polivalenza del termine “senso”, seguirà la via del senso come domanda radicale, per proseguire sulla via del senso come problema fondamentale, per raggiungere il senso come mistero avvolgente. Tre vie con un unico intento: ripassare la struttura ontologico-esistenziale dell’uomo. Riallacciandosi poi alla situazione propria dell’esistere umano contemporaneo, il cammino ripercorrerà le tappe della perdita della domanda del senso, per arrivare alla mancanza del senso e all’insensatezza effettiva dominante. Tre vie con un unico intento: ri-levare l’odierna condizione umana. Gli ultimi passi volgeranno nella direzione di una responsabile domanda e ricerca del senso dell’esistere da parte di ogni singolo uomo.
Il testo è strutturato in un centinaio di brevi pensieri sul tema dominante del silenzio. I pensieri, dal linguaggio a volte aforistico e poetico, seguono un percorso, un cammino, che parte dalla costatazione del predominio del rumore, prodotto alienante dell’odierno esistere inautentico dell’uomo, per inoltrarsi nella ricerca dell’autentico significato della parola, dell’ascolto, del dialogo e del rapporto interpersonale. Nel cammino si va via via chiarendo la molteplicità di forme e significati del silenzio, con la radicale distinzione tra le sue forme degenerative e spurie e il suo autentico e profondo significato. L’essere del silenzio si manifesta come la precondizione necessaria e imprescindibile dell’essere della parola, dell’ascolto, del dialogo e dell’altro. Il mondo del silenzio è il luogo del loro esistere autentico, nel bene e nel dono reciproco dell’amore accolto e vissuto concretamente. In questo luogo ogni singolo uomo è chiamato ad amare donandosi.
Che cos’è la solitudine? Perché la solitudine è così inscindibilmente legata con l’esistenza umana? Quali e quante solitudini vive l’uomo di questo tempo? In che termini si può parlare di solitudine per l’autenticità e di isolamento dell’inautenticità? Come definire la solitudine in quanto isolamento positivo e l’isolamento in quanto solitudine negativa? Attraverso l’analisi delle opere fondamentali dei maggiori precursori e rappresentanti della filosofia contemporanea dell’esistenza, e con un linguaggio semplice e chiaro, questo libro offre la possibilità di riflettere sul problema e sull’esperienza della solitudine, profondamente connessi con le questioni del fondamento e del senso dell’esistenza umana, con la sua dimensione autentica e con quella inautentica, con il modo di essere individuale, personale, sociale e religioso dell’uomo, con la realtà della sua morte e con la verità del suo destino ultimo.
Carlo Carrara
L’uomo ancora non pensa. Nei sentieri di Heidegger.
«La filosofia non è nata dal mito. Essa nasce solo dal pensiero e nel pensiero. Ma il pensiero è il pensiero dell’essere. Il pensiero non nasce. Esso è (ist) in quanto l’essere è (west)» (Il detto di Anassimandro). «Può il pensiero continuare a sottrarsi al compito di pensare l’essere, dopo che questo è rimasto nascosto in un lungo oblio e nello stesso tempo, nel momento attuale del mondo, si annuncia attraverso lo scotimento di tutto l’ente?» (Lettera sull’«umanismo»). «Il pensiero iniziale ha la sembianza della totale marginalità e dell’inutile. E tuttavia, se proprio si vuole pensare a un’utilità, che cosa è più utile della salvezza nell’essere?» (Contributi alla filosofia ‘Dall’evento’). (Martin Heidegger)
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Io sono uno studioso e sento tutta la sete di conoscere che può sentire un uomo. Vi fu un tempo nel quale io credetti che questo costituisse tutto il valore dell’umanità; allora io sprezzavo il popolo che è ignorante. E’ Rousseau che mi ha disingannato. Quella superiorità illusoria è svanita, ho imparato che la scienza è inutile, se non serve a mettere in valore l’umanità»
«Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo»
«Agisci in modo che ogni tuo atto sia degno di diventare un ricordo».
«“Qual è lo scopo della Rivoluzione? Certamente quello di rendere felici gli uomini. […] In breve, con l’assenza di coercizioni artificiali e con la libertà per chiunque di fare quello che sa fare meglio, unita alla conoscenza di ciò che vogliamo che il lavoro produca. Devo ammettere che a quest’ultima siamo arrivati lentamente e faticosamente. […] Da tutto ciò che sentiamo dire e leggiamo, appare chiaro che nell’ultimo stadio della civiltà, gli uomini si erano cacciati in un giro vizioso in materia di produzione di beni. Avevano raggiunto una straordinaria facilità di produzione, e per sfruttarla al massimo avevano gradualmente creato (o, piuttosto, lasciato sviluppare) un sistema assai complesso di compravendita, chiamato mercato mondiale; questo mercato mondiale, una volta entrato in funzione, li costrinse a continuare a produrre una quantità sempre maggiore di beni, ne avessero bisogno o no. Cosicché mentre, com’è naturale, non potevano sottrarsi alla fatica di produrre ciò che realmente era necessario, crearono una serie senza fine di bisogni falsi o inutili, che divennero, secondo la ferrea legge del suddetto mercato mondiale, di importanza pari a quella dei beni veramente indispensabili alla vita umana. Facendo questo, si accollarono un’enorme mole di lavoro, con l’unico scopo di mantenere in funzione il loro sciagurato sistema. […] Poiché si erano messi nella condizione di rimaner schiacciati sotto il terribile peso della produzione superflua divenne loro impossibile considerare il lavoro e i suoi prodotti da un punto di vista che non fosse l’incessante sforzo di impiegare la minor quantità possibile di lavoro per ogni articolo prodotto, e nello stesso tempo di produrre la maggiore quantità possibile di articoli. A questa ‘riduzione dei costi di produzione’, come era chiamata, tutto veniva sacrificato. La soddisfazione del lavoratore nel suo lavoro, anzi, i suoi bisogni fondamentali e la sua stessa salute, l’alimentazione, i vestiti, l’abitazione, il tempo libero, gli svaghi, l’istruzione – in breve, la sua vita – pesavano sulla bilancia meno di un granello di sabbia contro la crudele necessità di ‘ridurre i costi di produzione’ di merci che in gran parte non valeva nemmeno la pena di produrre. Si racconta anzi, e le prove sono tanto evidenti che, per quanto difficile, bisogna crederlo, che persino gli uomini ricchi e potenti, i padroni di quei poveri diavoli di cui vi ho parlato, si adattavano a vivere fra vedute, rumori e odori che la natura stessa dell’uomo detesta e cerca di sfuggire, pur di impiegare le loro ricchezze nel portare all’esasperazione questa suprema follia. L’intera comunità veniva gettata tra le fauci di quel mostro vorace che era la ‘riduzione dei costi di produzione’, imposta dal mercato mondiale”. […] “Ma le macchine, per ridurre il lavoro?”. “Che state dicendo? Le macchine per ridurre il lavoro? Sì, erano fatte per ‘risparmiare manodopera’ (o, per esser più precisi, energie umane) su certi prodotti perché potesse essere impiegata meglio – io direi sprecata – nella fabbricazione di altri prodotti probabilmente inutili. […] L’appetito del mercato mondiale cresceva man mano che questo ingoiava ricchezza: i paesi appartenenti alla cerchia della civiltà, cioè della miseria organizzata, venivano saturati di merci inutili e si ricorreva senza pietà alla forza e all’inganno per ‘aprire al commercio’ i paesi che si trovavano fuori di quell’area. Questo processo di ‘apertura’ appare strano a chi conosca le convinzioni degli uomini di quel periodo e non comprenda il loro modo di agire; e forse ci mostra nel suo aspetto peggiore la grande piaga del XIX secolo: l’uso dell’ipocrisia e dell’inganno per eludere la responsabilità di una ferocia praticata indirettamente. Quando il mercato mondiale dei paesi civili aveva delle mire su un paese che non fosse ancora nelle sue grinfie, si trovava qualche sfacciato pretesto […] insomma, ogni possibile trappola per catturare la preda. Poi si trovava un avventuriero audace, senza scrupoli […] e lo si pagava perché ‘creasse un mercato’ […]. Le merci che noi qui produciamo vengono prodotte perché ce n’è bisogno: lavoriamo per i nostri vicini come se lavorassimo per noi stessi, non per un astratto mercato di cui ignoriamo tutto e sul quale non abbiamo alcun controllo; poiché non c’è compravendita, sarebbe pura follia produrre merci basandosi soltanto sulla possibilità che ce ne sia richiesta: non c’è più nessuno che possa essere costretto a comprarle. Perciò tutto quello che si produce è di buona qualità e adatto all’impiego che bisogna farne. Non si può produrre nulla che non sia utile, e quindi non si produce nulla di scadente. Inoltre, come ho già detto, oggi sappiamo di che cosa abbiamo bisogno, e non produciamo più del necessario; e poiché nulla ci spinge a produrre una gran quantità di oggetti futili, abbiamo tempo e risorse a sufficienza per considerare la fabbricazione delle merci un piacere. Tutti i lavori che sarebbe troppo noioso eseguire a mano, vengono fatti da macchine altamente perfezionate; mentre per tutti i lavori che danno piacere si fa a meno delle macchine. Non c’è difficoltà a trovare un genere di attività che corrisponda alle inclinazioni di ognuno, così nessuno è sacrificato alla volontà di un altro. A poco a poco, quando ci rendevamo conto che fabbricare qualcosa era sgradevole o presentava dei problemi, abbiamo rinunciato a fabbricarlo facendone a meno. Ora potete certamente capire che in queste condizioni ogni genere di attività che svolgiamo è un esercizio più o meno piacevole della mente e del corpo […]”».
«Sarebbe molto difficile, se non impossibile, raccontarvi tutta la storia: presa di coscienza, scontento, tradimento, defezioni, disastri, miseria, disperazione. Tutti quelli che hanno cooperato al cambiamento, perché vedevano più in là degli altri, hanno percorso queste tappe dolorose. E durante tutto quel tempo, la maggior parte della gente ha assistito, senza capire, agli avvenimenti credendoli naturali come l’alba ed il tramonto; il che in realtà era anche vero […]. Guardando il passato, ci accorgiamo che la forza che ha spinto le masse verso il grande cambiamento è stata l’aspirazione alla libertà ed all’eguaglianza».
«Guardate […] come intorno a voi degli uomini obblighino altri uomini a condurre un’esistenza che non è la loro, mentre essi stessi non hanno cura della propria […] addolcite la vostra lotta con un po’ di speranza […] sforzandovi di edificare a poco a poco, nonostante le pene e le sofferenze necessarie, questa nuova epoca di amicizia, di riposo, di felicità».
William Morris, Notizie da nessun luogo, Garzanti, Milano 1984, pp. 103 ss.
William Morris, ritratto da George Frederic Watts, 1870.
«L’esperienza precede ogni metodo. Si potrebbe dire che l’esperienza è a priori ed il metodo è a posteriori. Ma ciò vale soltanto come indicazione, giacché la vera esperienza non può darsi senza l’intervento di una sorta di metodo. Il metodo si dà fin dal principio in una determinata esperienza, che proprio in virtù di ciò arriva ad acquistare corpo e forma, figura».
María Zambrano, Note di un metodo, trad. it. di S. Tarantino, Napoli, Filema, 2003, p. 35.
Descrizione del libro
“Note di un metodo” appartiene agli scritti dell’ultimo periodo della vita della pensatrice spagnola che ruotano intorno al problema della ragione poetica. Sono “note” proprio perché si allude al carattere frammentario, musicale del pensiero piuttosto che a quello logico-razionale. Un metodo da intendersi come ciò che apre il cammino all’esperienza umana e non semplicemente come ciò che struttura un ordine, una “forma mentis”. Una conoscenza che per Maria Zambrano deve avere le sue radici nella viva esperienza ma allo stesso tempo deve sapersi innalzare a quelle sfere in cui i desideri e i sogni fanno da materia alla nostra vita.
La ricerca di Luca Grecchi non solo rende palese l’assenza della metafisica nella filosofia di oggi, ma tenta di rielaborarne i fondamenti, non rinunciando alla progettualità onto-assiologica e alla verità e tracciando la via per una metafisica umanistica
Necessità della metafisica La necessità della rifondazione della metafisica è un’urgenza non procrastinabile. Il tramonto dell’Occidente coincide con la fine della metafisica. Ma la metafisica è progettualità onto-assiologica. Una civiltà senza metafisica rinuncia ad ogni progettualità e rinuncia specialmente alla verità. Si configura una civiltà strutturalmente violenta: l’essere umano è solo nuda vita disponibile per il mercato, il quale ha come obiettivo il solo guadagno. L’economicismo diviene l’architrave della violenza che capillarmente si infiltra e si espande con l’effetto di produrre la barbarie tecno-crematistica. Nessuno spazio è lasciato alla libertà processuale umana, nessuna riflessione sui fondamenti ontologici ed etici. L’abbandono della metafisica implica l’incapacità nel giudicare l’assetto sociale attuale. L’ostilità è specialmente di tipo ideologico, poiché l’essere umano – spogliato della sua capacità significante e metafisica – non è che vita offerta al mercato. Si è, in tal modo, servitori fedeli delle catene che obbligano ad una vita che nega il suo fondamento metafisico. La caverna oscura – con la sua buia ignoranza – è la normalità dell’Occidente senza metafisica. L’infelicità ed il vuoto assiologico divengono acceleratori del consumo che spingono i popoli verso le passioni tristi. La “solitudine del cittadino globale” dinanzi al mercato è solitudine metafisica:
«Il mercato infatti, da solo, non è per sua natura in grado di mettere in contatto il bisogno insoddisfatto di beni/servizi di milioni di poveri, ed il bisogno insoddisfatto di lavoro, ossia di partecipazione sociale, di milioni di disoccupati. I primi, senza denaro, non possono produrre una domanda di mercato; i secondi, senza quella domanda, non possono produrre una offerta sul mercato del lavoro. Il mercato ragiona solo sul denaro e sul profitto, non sui bisogni e sulla felicità delle persone, che non riesce strutturalmente, ossia per essenza (è il fine che determina l’essenza: ed il suo fine è altro), a realizzare. Per evitare quindi che bisogni sociali importanti (cibo, medicine, ecc.) rimangano insoddisfatti, mentre – con forte stridore – milioni di persone rimangono disoccupate (o impegnate in attività futili, quando non dannose), occorre necessariamente affidarsi a modalità sociali pubbliche e comunitarie, statuali o meglio ancora sovrastatuali, che coordinino quanto è necessario produrre e come produrlo».[1]
La metafisica come ricerca Luca Grecchi nel suo lavoro-ricerca di tipo filosofico ha non solo reso palese l’assenza della metafisica nella filosofia di oggi, ma specialmente ne sta rielaborando i fondamenti. La metafisica umanistica di Grecchi riconosce l’anima-razionalità umana quale fondamento onto-assiologico della natura umana. Il riconoscimento della razionalità, quale fondamento metafisico, non implica l’esclusione dall’orizzonte metafisico della trascendenza divina, ma constata che “attualmente” non abbiamo elementi che possano suffragare il fondamento divino, e che all’interno della storia metafisica tale principio primo è rimasto indimostrato.
Non si tratta né di ateismo, né di agnosticismo, ma di una postura aperta al possibile e sempre disponibile a riformulare e ridefinire il fondamento metafisico. Dove vige il dialogo filosofico i problemi non sono mai risolti in modo imperituro, ma sempre possono essere riconfigurati. L’assoluto, pertanto – nella condizione attuale –, non può che essere il logos, il quale non solo mette ordine al caos delle pulsioni, ma definisce i bisogni autentici della natura umana. Quest’ultima per natura è razionale, ovvero ha le potenzialità per calcolare le necessità autentiche dai bisogni indotti, per cui il fondamento giudica i valori, e li definisce; in tal mondo la metafisica si ricongiunge all’asse assiologico:
«Faccio qui riferimento in parte a quanto detto in precedenza circa la distinzione fra Principio e fondamento. Il Principio è quell’insieme di cause materiali, formali, finali ed efficienti, che hanno reso possibile l’essere ed il divenire del tutto. L’Uomo è il fondamento della comprensione di questo essere e divenire, l’unico ente dotato di capacità trascendentale, e pertanto il solo ente in grado di attribuire senso e valore alla realtà: in questo senso, sul piano onto-assiologico, può considerarsi l’Assoluto. Occorre però comprendere bene il significato della proposizione “L’Uomo è, sul piano onto-assiologico, l’Assoluto”, che è la prima proposizione inerente il Fondamento che mi propongo di analizzare».[2]
La realtà storica in cui si esplica la natura, si può modificare, ma non si può annichilire. La natura umana non è infinitamente modificabile, come vorrebbero gli assertori del totalitarismo del capitale. Non a caso il malessere generalizzato indotto dall’attuale sistema, induce verso desideri illimitati e dunque irrazionali non rispondenti alla natura umana:
«La realtà naturale, infatti, si può comprendere e – almeno entro certi limiti – modificare, ma non giudicare; la realtà sociale, invece, si può comprendere, modificare – sempre entro certi limiti, e prendendo come riferimento la natura umana –, ma soprattutto si può (e, direi, si deve) valutare. In questo senso più specifico l’Uomo è il fondamento onto-assiologico della verità dell’essere: nel senso che costituisce il solo riferimento valutativo del senso e del valore della realtà, del vero e del falso, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto».[3]
Tra ciclopi e lotofagi[4] Il fondamento metafisico necessita del passaggio dalla potenza all’atto, pertanto tale passaggio dev’essere favorito dall’educazione, in primis, e dalla comunità. In tal modo la metafisica di Aristotele vive in feconda tensione con Platone: l’atto e la potenza è il binomio dinamico che pone le condizioni, affinché il soggetto possa giungere al bene, e dunque alla consapevolezza della natura veritativa. Non a caso Platone pone il bene all’apice della gerarchia delle idee: il bene è razionalità, calcolo e misura. Senza fondamento metafisico, non vi è “bene” né individuale né collettivo; al suo posto si afferma la società dei ciclopi e dei lotofagi, già descritta da Omero, creature che regrediscono a pura ferinità, dominate da appetiti senza misura e senza etica. I ciclopi ci ammoniscono sui pericoli di una civiltà senza metafisica e senza bene. Regnano, senza metafisica e senza bene, il caos e la violenza generalizzata. L’anomia, l’assenza di leggi etiche condivise, comporta il pericolo per tutti, e la condanna a vivere senza identità e senza coscienza di sé, per cui ciascuno è nessuno, ed il niente minaccia la vita di ognuno:
«Il primo incontro “violento” del viaggio di Odisseo, dopo aver lasciato il territorio dei Lotofagi (solo apparentemente però innocui, come mostreremo poco oltre), fu quello coi Ciclopi; si tratta, come noto, di figure mitiche di giganti con un solo occhio, residenti sulle pendici dell’Etna, i quali, “prepotenti e senza leggi, fidando negli dèi immortali, non piantano alberi con le loro mani, né arano la terra” (Odissea, IV, vv. 105-108). La prima caratteristica dei Ciclopi è dunque quella di non essere una comunità, né economica, né sociale, né politica; essi non praticano l’agricoltura, come invece fanno i popoli civili, ma, soprattutto, “non hanno assemblee per deliberare, né leggi, ma abitano la sommità di alti monti, in profonde spelonche; ciascuno comanda ai figli ed alla moglie, e non si curano gli uni degli altri” (Odissea, IX, vv. 112-115). La a-nomia, ossia la assenza di leggi dei Ciclopi, li rese nel tempo simpatici ai Cinici (soprattutto ad Antistene), ma non ad Odisseo che, recatosi nella loro isola in cerca di cibo, scoprì che essi erano “prepotenti e selvaggi, senza giustizia” (Odissea, IX, 174-176), antropofagi e miranti esclusivamente al loro materiale benessere».[5]
Lotofagi e ciclopi sono metafore della negazione della natura umana, la quale è razionalità etica che – per essere tale – necessita di memoria della propria storia personale e collettiva, perché la memoria e l’esperienza permettono di perfezionare la natura umana, la cui realizzazione è sempre in itinere. I lotofagi descritti anch’essi da Omero sono il simbolo della miseria dell’abbondanza: la soddisfazione degli appetiti senza misura ha l’effetto di causare la dimenticanza di sé e dei propri doveri morali.
«Le metafore qui utilizzate – ovvero quella più “contemporanea” della droga, o quella più “omerica” della morte – sono solo due possibili interpretazioni simboliche di questo mito; ve ne possono però essere diverse altre, poiché molti sono i modi con cui ci si può allontanare “volontariamente” (a causa, in realtà, della seduzione e della propria fragilità) dalla propria umanità, specie in un mondo come l’attuale che produce appunto, al contempo, seduzioni e fragilità. Pensiamo a come spesso i consumi mercificati siano simili alle droghe; pensiamo alla dipendenza dal gioco d’azzardo, o anche dai viaggi-vacanze, solo all’interno dei quali molte persone hanno l’impressione di “essere felici”: si tratta, in realtà, di forme compensative di un disagio interiore, che contribuiscono però ad acuire questo disagio e non a risolverlo, in quanto la sola soluzione di questo disagio si trova in un giusto e sensato rapporto con se stessi e con la comunità sociale. L’uomo è infatti un ente sociale che ricerca un senso per la propria vita, dato che è consapevole della propria morte; la vita apparentemente tranquilla metaforizzata dai Lotofagi può accontentare degli animali, ma non certo degli uomini. Per gli uomini, omerici e non, queste forme seduttive costituiscono soltanto delle modalità, in apparenza non violente, con cui però ci si allontana dalla propria vera umanità».[6]
ISBN 978-88-7588-116-0, 2013, pp. 48. In copertina: Pieter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechi, tempera su tela, 1568. Museo di Capodimonte, Napoli.
Filosofia e metafisica La filosofia nell’attuale contesto sociale non è solo di ausilio, ma imprescindibile per rispondere alla tragedia etica in atto. L’educazione filosofica coniugata con la storia risponde ai bisogni umani. Il ridimensionamento della filosofia classica, la quale ha per oggetto la verità, è la spia evidente della penetrazione del nichilismo mercantile nelle aule universitarie e scolastiche asservite ai bisogni del solo mercato:
«Nell’attuale disastro della società e della scuola, solo la filosofia intesa in senso classico può fornire ai giovani quella necessaria educazione importante per essere insieme, a pieno titolo, uomini e cittadini, non semplici produttori o consumatori. Solo una educazione filosofica in senso classico, che deve essere al contempo storica – come dimostrano le opere di Platone, Aristotele, Hegel e Marx, e come dimostra per converso la pressoché totale decontestualizzazione storico-sociale della filosofia accademica contemporanea, specie anglosassone –, può infatti educare alla cura delle potenzialità onto-assiologiche presenti nella natura umana».[7]
La parcellizzazione dei saperi risponde ai bisogni specialistici del mercato e non dell’essere umano. La specializzazione dei saperi è utile ai bisogni immediati, ma non consente di fondare la progettualità comunitaria a misura di natura umana:
«Le facoltà di filosofia oggi, per come sono strutturate, impediscono la comprensione e la valutazione dell’intero. Di metafisica, ossia del sapere rivolto all’intero, si parla certamente ancora, ed anzi esso è un sapere addirittura “di moda”, dato che se ne occupano la filosofia analitica, la logica formale, la teologia, ecc. Tuttavia, tale metafisica di cui oggi l’università si occupa, concerne appunto temi “analitici”, o “formali”, o “trascendenti”, non certo contenuti onto-assiologici, ossia di senso e di valore, come invece era nella metafisica di Platone e di Aristotele».[8]
La prova più concreta della necessità della metafisica, è il silenzio che è calato su di essa negli ultimi decenni. Tale silenzio dimostra la pervasività del sistema capitale, il quale pur di inibire ogni discorso razionale sulla totalità ha asservito il mondo accademico divenuto complice della conservazione in atto:
«Le facoltà di filosofia, oggi, impediscono nella sostanza la critica ed il dialogo costruttivo, su cui si è invece forgiata la filosofia. Non, certo, che non siano ammesse pacate ed argomentate obiezioni a risultati parziali o generali di studi specialistici. Esse sono sempre benvenute, in quanto la ricerca accademica, non producendo quasi più elaborazioni onto-assiologiche dell’intero, si giustifica principalmente su questo tipo di progressi. Tuttavia, salvo eccezioni, i docenti si rivolgono agli studenti scoraggiandoli dall’affrontare il discorso filosofico nel modo in cui facevano i classici, ossia prendendo di petto il tema della totalità ed affrontandolo in maniera autonoma».[9]
La resistenza propositiva al sistema, in tale condizione storica, non può che avvenire fuori dalle aule universitarie. La filosofia in ogni epoca ha bisogno di eroi, questa è un’epoca in cui la difesa dell’umanità non può che concretizzarsi in atti e comportamenti donativi. La Filosofia è – per sua fondazione – trasgressiva e critica rispetto ai poteri costituiti. Deve pertanto tornare ad essere tale, altrimenti, rischia di perdersi nel nichilismo dei mercanti:
«Nella sua disinteressata ricerca della Verità e del Bene, la filosofia non deve essere al servizio di niente e di nessuno. Questa disinteressata ricerca, tuttavia, è per sua essenza finalizzata alla costituzione della migliore totalità sociale, ossia delle più umane modalità di vita. Questa la sua utilità pubblica, da molti oggi – politici, scienziati, intellettuali – non riconosciuta. È questo anche il problema del “senso”, così mediaticamente irriso da una generazione accademica cinica ed indifferente in larga parte dei suoi membri più influenti. Il “senso della vita”, che i giovani studiosi di filosofia solitamente ricercano, non è la mera consolazione esistenziale che la filosofia sicuramente offre, come già molti secoli fa colse Severino Boezio».[10]
Archiloco
L’umanesimo di Grecchi non si intreccia soltantoo con la metafisica, ma anche con la storia letta attraverso il paradigma veritativo. È un’operazione finalizzata a mostrare il carattere carsico della metafisica, la quale scorre attraverso civiltà e periodi storici differenti. In tal modo si dimostra la sua universalità declinata nella polisemia espressiva della storia. Si tratta di ricongiungere i sentieri interrotti che la furia della specializzazione ha rescisso:
«Per sottolineare, ancora, la continuità dell’etica greca, occorre rimarcare che anche chi sostiene che l’etica omerica fu sostanzialmente di tipo “eroico” può verificare che questo ideale, pur diversamente declinato nei secoli, fu presente quanto meno anche in tutta l’epoca classica; fecero eccezione infatti, nell’opera letteraria greca, solo affermazioni come quella di Archiloco (fr. 6 DK), il quale si vantò di aver gettato via lo scudo in guerra – azione considerata assai poco dignitosa – per fare salva la vita. L’ideale dell’eroismo si trasformò presto nell’ideale dell’aristocrazia dell’anima, rivolto alla difesa della comunità sociale. Questo il trait d’union di Omero con Platone e l’epoca classica, ottenuto coniugando l’eroismo in chiave umanistica. Per concludere, occorre rimarcare come l’etica omerica si incentri, come già rilevato in precedenza parlando dell’umanesimo omerico, sui concetti di “limite” e di “misura” (in rapporto alla potenziale sfrenatezza degli istinti e delle passioni)».[11]
Resistere significa, dunque, interrogare la storia ed i classici per tracciare nuovi percorsi che si ricongiungono con le verità che si sono rivelate nella storia. La resistenza civile ed intellettuale deve radicarsi nella tradizione senza rifiuto del nuovo per poter riportare l’umanità dove imperano la seduzione delle merci e gli automatismi senza concetto.
Salvatore Bravo
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[1] Luca Grecchi, Compendio di metafisica umanistica, Petite Plaisance, Pistoia 2017, pag. 35. [2]Ibidem, pag. 26. [3]Ibidem, pag. 12. [4] Lotofagi, dal greco lōtophágos, comp. Di lōtós, ‘loto’, e della radice di phageîn ‘mangiare’. [5] Luca Grecchi, L’umanesimo di Omero, Petite Plaisance, Pistoia 2012, pag. 151. [6]Ibidem, pag. 163. [7] Luca Grecchi, Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia, Petite Plaisance, Pistoia 2013, pag. 21. [8]Ibidem, pag. 26. [9]Ibidem, pag. 26. [10]Ibidem, pag. 35. [11] Luca Grecchi, L’umanesimo di Omero, op. cit., pag. 95.
Disunitevi in nome del capitale. Il neoliberismo ha la propria visione antropologica: i suoi fondamenti sono basati nell’empirismo di Hume, per il quale l’essere umano è abitudine
«Proletari di tutto il mondo unitevi». Il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels si concludeva con l’appello all’unità, alla contraddizione dialettica per superare le ingiustizie e le sperequazioni sociali. L’unità e la consapevolezza di classe scorrono carsiche in tutte le opere di Marx: i dati economici, la critica economica, la scoperta del plusvalore e del valore di scambio sono la denuncia di Marx al “sistema capitale”. La prassi esige la denuncia teorica. Questo binomio consente la prassi, ma solo se fondata sulla fiducia, solo se l’altro con cui si condivide destino sociale e consapevolezza non è percepito come una minaccia, ma come compagno di lotta con cui condividere il sudore della passione politica. Il sudore è qui utilizzato nella sua accezione biologica e simbolica. La lotta è vicinanza, è carnalità in relazione, è la singolarità che vive in tensione con il gruppo, essa è contatto visivo, tattile e olfattivo Le idee emergono dal vissuto, dalla condivisione della carne negli spazi vissuti. Senza tale realtà e verità fenomenologica non vi è che il nulla. La dialettica è il fondamento dell’unità e della consapevolezza. L’io deve incontrarsi con il tu, senza tale relazione le idee non emergono, vi è solo timore e tremore, vi è solo la creatura isolata e depotenziata. L’esperienza Covid-19 consente un giusto e razionale sospetto, ovvero che si voglia rendere non eterni i provvedimenti di distanziamento sociale, ma si voglia abituare al distanziamento sociale. Si progetta di inoculare, in modo costante, il sospetto verso l’altro. Si sta strutturando in modo definitivo l’atomismo sociale mediante l’abitudine all’isolamento.
L’abitudine all’isolamento Educato l’essere umano al distanziamento, a percepire l’altro come un pericolo potenziale, il dopo Covid-19 renderà la divisione e l’isolamento un automatismo. Alla competizione agonica del liberismo si sarà aggiunto un altro livello di isolamento più profondo: l’altro è potenzialmente mortale, è portatore non di idee o di amicizia, ma di virus aggressivi da cui è necessario difendersi ponendolo a distanza. Il neoliberismo ha la propria visione antropologica che basa i suoi fondamenti nell’empirismo di Hume, per il quale l’essere umano è abitudine, pertanto la ripetizione del gesto, in questo caso del distanziamento sociale, produce comportamenti automatici duraturi:
Qualcuno forse mi domanderà se sono veramente convinto di ciò che mi affatico tanto a dimostrare, se sono realmente uno di quegli scettici che sostengono che tutto è incerto e che il nostro giudizio non ha alcuna misura del vero e del falso in nessuna cosa. Rispondo che la domanda è del tutto superflua, e che nessuno, né io né altri, è stato mai sinceramente e costantemente di quest’opinione. Per un’assoluta e irresistibile necessità, la natura ci porta a giudicare come a respirare e a sentire; né possiamo trattenerci dal considerare certi oggetti sotto una luce più forte e piena a causa della loro abituale connessione con un’impressione presente, di quel che possiamo impedirci di pensare finché siamo svegli o di vedere i corpi circostanti quando volgiamo gli occhi attorno in pieno mezzogiorno. Chiunque si è preso la pena di confutare i cavilli di questo scetticismo totale, ha in realtà discusso senza avversari e ha cercato di sostenere con argomentazioni una facoltà che la natura ha precedentemente ben radicata nello spirito e resa inevitabile. La mia intenzione nell’esporre con tanta cura gli argomenti di tale setta fantastica, è soltanto di convincere il lettore della verità della mia dottrina: che, cioè, tutti i nostri ragionamenti intorno alle cause e agli effetti derivano dall’abitudine, e che la credenza è più propriamente un atto sensitivo che un atto cogitativo della nostra natura. Io ho provato che gli stessi princípi che ci portano a giudicare di un oggetto e a correggere poi questo nostro giudizio con la considerazione delle nostre inclinazioni e capacità, dello stato della mente quando consideriamo quel soggetto: questi stessi princípi, dico, quando sono estesi e applicati ad ogni nuovo giudizio riflesso, con la continuata diminuzione dell’evidenza primitiva, devono da ultimo ridurre questa a niente e sovvertire completamente tutte le nostre credenze e opinioni. Se la credenza [belief] fosse dunque un semplice atto del pensiero, e non un modo speciale di concepire con un aumento di forza e di vivacità, essa dovrebbe infallibilmente distruggere se stessa e riuscire in ogni caso a una totale sospensione del giudizio. Ma l’esperienza convincerà facilmente chiunque volesse farne la prova, che, per quanto possa non trovare nessun errore nei precedenti argomenti, tuttavia egli continua a credere, a pensare e ragionare come al solito; se ne può cosí tranquillamente concludere che il suo ragionamento e la sua credenza sono una certa sensazione, ossia una maniera speciale di concepire, che le semplici idee e riflessioni non possono distruggere[1].
Si associa l’altro ad una malattia con il risultato che la passione triste diventa il sentimento che veicola il trionfo della finanza ed il tramonto dell’occidente. L’occidente non potrà creare più nulla, ma solo produrre plusvalore e beni per il mercato. La regressione umana viene istituita per DPCM.
Imparare il distanziamento L’abitudine all’isolamento palesa la verità del sistema capitale, il quale è profondamento antipolitico. La politica è il luogo della comunità in cammino, è la polis alla ricerca di configurazioni comuni. Con la fine della politica muore l’Occidente fondato sull’esperienza della città e del dialogo. Nel Fedro (227a-228e) Socrate afferma che non vuole andare in campagna, ma restare in città, perché solo in città si può imparare a diventare esseri umani con l’arte del logos e della maieutica. Con il distanziamento divenuto struttura emotiva non abbiamo nulla da imparare dagli altri, perché l’altro è veicolo di malattia, di morte, per cui i contatti vengono limitati. Non vi è settore della vita sociale che non sia coinvolta nel distanziamento, ovunque si deve imparare l’abitudine alla distanza.
– In strada il distanziamento avviene con l’uso di mascherine e distanza spaziale. – In casa l’igiene fino all’ossessione rende la casa molto simile ad un sanatorio che accoglie potenziali malati. – In chiesa si arriva al ridicolo, non solo i fedeli sono posizionati a debita distanza, all’ingresso ci si disinfetta, al momento di distribuire l’ostia il prete si igienizza le mani, indossa i guanti e la mascherina e passa tra i banche a distribuire l’ostia in mano ai fedeli. Il corpo di Cristo simbolo e sostanza (per i credenti) di unità, è negato nella sua verità. – Lo smart working isola i lavoratori e specialmente il lavoratore paga i costi della gestione del mezzo di lavoro e dell’ambiente in cui avviene l’uso dal proprio reddito. I contatti con i colleghi sono sostituiti dalla digitalizzazione che verte solo su pratiche lavorative.
– A scuola si ipotizza l’isolamento mediante plexiglass: a scuola si impara la condivisione come in famiglia, per cui l’attacco è palese.
– Si progetta anche la didattica ibrida, come nuova frontiera innovativa della scuola, la DaD diviene organica alla scuola.
– Nei luoghi di lavoro non ci si tocca, non ci si saluta che con un’ incomprensibile emissione di suono a causa della mascherina.
Tacere e non ascoltare La mascherina isola, rende la voce e le comunicazioni incomprensibili, per cui si impara a tacere e a non ascoltare, in alternativa si usano le tecnologie dalle quali si astraggono informazioni per la sorveglianza globale che opera attraverso il controllo concreto dei singoli. L’isolamento vocale, la disabitudine ad esprimersi è, forse, l’elemento più inquietante, che in pochi hanno rilevato. La mascherina è diventata da ausilio sanitario una nuova museruola sociale per colpire il logos e ridurre l’essere umano a pura funzione biologica. Il dopo Covid-19 dovrà affrontare tali problematiche nel silenzio di partiti e sindacati, mentre in televisione scorrono immagini che educano all’isolamento sociale esaltandone gli effetti benefici. Nessun piano di recupero della socialità è previsto, e ciò dovrebbe indurci collettivamente a riflettere sull’uso strumentale del Covid-19. Un ultimo dubbio, mentre si esalta l’economia green ed i suoi effetti, nessuno ci spiega come verranno smaltite mascherine e plastica annessa. Le industrie della plastica fanno affari e lavorano per un mondo fatto solo di plastica.
Salvatore Bravo
[1]David Hume, Trattato sulla natura umana, Libro primo, Parte quarta, Sez. prima (Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 888-889).
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Da quanto mi scrivi e da quanto sento, nutro per te buone speranze: non corri qua e là, e non ti agiti in continui spostamenti. Questa agitazione indica un’infermità interiore: per me, invece, primo segno di un animo equilibrato è la capacità di starsene tranquilli in un posto e in compagnia di se stessi. Bada poi che il fatto di leggere una massa di autori e di libri di ogni genere non sia un po’ segno di incostanza e di volubilità. Devi insistere su certi scrittori e nutrirti di loro, se vuoi ricavare un profitto spirituale duraturo. Chi è dappertutto, non è da nessuna parte. Quando uno passa la vita a vagabondare, avrà molte relazioni ospitali, ma nessun amico».
ISBN 978-88-7588-263-1, 2020, pp. 272, Euro 30 – Collana “Il giogo” [120]
A cura di Elena Bartolini, Andrea Ignazio Daddi, Alessandra Filannino Indelicato
Atti del Convegno di Studi «Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo», Università degli studi di Milano Bicocca, 27-28 Marzo 2019. Moderatori: Claudia Baracchi, Luca Grecchi
Questo volume, curato da Elena Bartolini, Andrea Ignazio Daddi, Alessandra Filannino Indelicato, raccoglie gli Atti del Convegno di Studi «Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo», promosso dall’Università degli studi di Milano Bicocca, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, e dalla Associazione «Philo. Pratiche filosofiche», il 27-28 Marzo 2019. Moderatori: Claudia Baracchi, Luca Grecchi.
Si evidenziano i relatori e i temi trattati:
Daniele Guastini Inattualità e attualità della paideia poetica
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Angelo Tonelli «La Sapienza greca tra Oriente e Occidente. Dioniso, Eleusis, Parmenide, le Upanishad e il “Mongolo di Taranto”
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Alberto Jori Ippocrate ‘filosofo’: dal sapere ontologico alla scienza funzionale
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Arianna Fermani ”In ogni caso si deve filosofare”. Aristotele e l’attualità della filosofia
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Maurizio Migliori Platone. Amico di Socrate, l’uomo più giusto del suo tempo
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Giulio A. Lucchetta «Quale rischio corre Dione a Boristene? Un bilancio della cultura greca in età ellenistico-imperiale
Elena Bartolini – Andrea Ignazio Daddi – Alessandra Filannino Indelicato
Premessa
Il presente volume raccoglie gli interventi proposti nel corso del convegno Il futuro dell’antico, svoltosi il 27 e 28 Marzo 2019 presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca: due giornate di studio volte ad esplorare, nel passato, potenzialità e insegnamenti ancora da pensare, dunque contemporanei. Studiosi importanti si sono incontrati per offrire agli studenti e alla cittadinanza l’occasione di un incontro con il pensiero antico, troppo spesso trascurato, soprattutto nelle sue connessioni con il presente, nonché nei suoi slanci verso un futuro inesplorato. Dell’antico si sono così messe in luce la densa e ancora contemporanea vitalità, nonché le conseguenti suggestioni e implicazioni sul piano formativo, etico e politico. Coordinatori scientifici del convegno sono stati la Prof.ssa Claudia Baracchi e il Dott. Luca Grecchi, il cui precipuo interesse, insieme al comitato organizzativo rappresentato dagli stessi curatori degli atti (Dott.ssa Elena Bartolini, Dott. Andrea Ignazio Daddi e Dott.ssa Alessandra Filannino Indelicato), è da sempre quello di mantenere vivo e vitale il contributo sapienziale filosofico-antico nel suo nesso con l’analisi della vita quotidiana, in tutti i suoi molteplici aspetti. Come vedremo, l’antico risulta costantemente carico di “novità”, per cui i contributi qui presentati, pur differenti nell’impianto generale per contenuti e per approcci, hanno questo in comune: l’effervescente afflato, sentito con prioritaria urgenza, di vivere il contemporaneo non indifferenti all’amore per la saggezza che nell’antico trova origini e sviluppi ancora tutti da riscoprire e da esplorare. Quella che, allora, attraversa i vari testi come un filo rosso, potrebbe essere una sola grande domanda: quale futuro per l’antico?
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Il primo saggio è presentato da Daniele Guastini, che offre un’analisi della paideia poetica nei suoi aspetti di inattualità ed attualità. Con l’espressione “paideia poetica” egli intende riferirsi ad una formazione dell’essere umano declinata attraverso gli elementi caratterizzanti dell’epos, delle arti visive, della pittura, della scultura e dell’architettura secondo i canoni dell’antichità classica. Fin da subito l’autore ci avverte di evitare di sovrapporre o equiparare paideia poetica ed educazione estetica, considerando quest’ultima secondo i criteri imposti dal neoclassicismo. Guastini evidenzia che la maggiore distanza tra queste due prospettive si riscontra, più che nella mancanza di centralità dell’arte nel contesto contemporaneo, nel tipo di esperienza che si ha rispetto agli oggetti indicati dalla teoria estetica come “opere d’arte”. Il momento cruciale in cui si avvera la divergenza tra queste due diverse possibilità esperienziali sarebbe da trovare nella proposta estetica di Hegel, convinto sostenitore della storicità del concetto di arte e del necessario superamento di questa da parte di religione e filosofia, e in quella di Kant, secondo cui l’arte viene a identificarsi con la creatività del genio. È con Kant che si sancisce l’inutilità pratica dell’esperienza estetica e dell’arte in genere, così come la contenuta delimitazione gnoseologica a cui questa può aspirare. Oltre ad esporre le dinamiche di tale divergenza, Guastini ne approfondisce i motivi storico-filosofici, ripercorrendo le vie teoriche che ne hanno permesso lo sviluppo. Infine, nella terza e ultima parte del suo scritto, egli ci fornisce spiegazione circa le ragioni che portavano i greci a considerare la paideia poetica propedeutica non solo alla formazione ma soprattutto al sapere, intravedendone risvolti propositivi per la contemporaneità.
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Con incisività, il saggio di Angelo Tonelli, dal titolo quanto mai esaustivo, conduce il lettore verso l’immediata e provocatoria comprensione del debito contratto da una inesistente – al singolare – “grecità”, nei confronti del tutt’altro-che-occidentale. Grecità bastarda, meticcia, spuria, mostrata nella sua irriducibilità non soltanto al logos che facendo parola già tradisce il mondo, ma anche al duale e al dicotomico. “Grecità” ereditata e rifratta dalle complessità dello sciamanesimo iperboreo mongolico-siberiano e trace, ma anche egiziano, iranico, persiano; riverberata nell’occulto di antichissimi echi di un Oriente taoista e upanishadico e, ancora, in radicale fusione con le inattingibili origini del pensiero. E dunque, la nascita della filosofia, pure nella forma logico-razionale contemporanea, è chiamata a cum-prehendere la vita come pratica quotidiana contemplativa e partecipativa di sat, l’intero-verità, del cosmo-cuore, dell’immanentismo-panico. Dioniso, Eleusi e Parmenide sono tra le più nitide testimonianze di questo immenso movimento di radicamento nel panorama straniero, slancio altro e invito a rieducare lo sguardo all’antico e a riconsiderare il circolo di trasmissione-ricezione del passato. Sicuramente Tonelli ha il coraggio di mostrare il futuro incerto, assieme alla violenta brutalità e all’ostilità perpetrata da un contemporaneo ladro, dimentico – più che altro per brame di potere o per necessità storico-politiche – della forza trasformativa dell’intuito (nòos) e della necessità di una vita nel segno di quest’ultimo praticata. Per quanto oggettificato, strumentalizzato, peraltro morente – un resto, insomma, una scoria non meglio individuata del soma psichico-cosmico – nòos ci attraversa e ci compone, in quanto organo di connessione umano-divino, e ancora ci interroga sul rapporto tra essere e apparire, illuminando la via sapienziale che è occidentale e orientale insieme. E tutto questo soggiace a null’altra legge se non a quella che è protetta dal non dicibile, difesa dal silenzio di un’umanità in cammino nella direzione dello sprofondamento oscuro e totalizzante del tò eón, che è anche rinascita verso un futuro dove sia possibile ereditarsi nella propria interezza s-confinata e con-fusa di mondi, tutti quelli che ci compongono.
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Alberto Jori analizza l’epistemologia ippocratica, prima testimone e promotrice del passaggio fondamentale, e rivoluzionario su più livelli – culturale prima di tutto -, tra il modello essenzialista (o ontologico-strutturale) e il modello funzionale (o storico-evolutivo). Il primo, in linea con la mitopoiesi e dominato dalla ricerca delle archai operata soprattutto dalla prima filosofia naturalista, utilizza il metodo genetico come una forma riduzionistica del concetto di storicità – forma caratterizzata da linearità, staticità, reversibilità e perenne ripetizione degli eventi e dunque implicante una temporalità intesa nella sua astoricità o antistoricità. Il secondo invece, prevalente nel Corpus Hippocraticum e sviluppatosi inizialmente in stretta opposizione al primo, si impone con il postulato metodologico secondo cui l’uomo è prima di tutto produttore e prodotto storico e culturale, differenziandosi dalle bestie per la produzione dei suoi propri strumenti. Questo modello, che presenta per Jori echi marxisti, non soltanto ruota attorno all’asse temporale diacronico, attribuendo alla storicità il compito di investire integralmente il piano ontologico ed epistemologico, rendendoli perfettamente sintonizzati, ma vuole anche “garantire la condizione di possibilità dell’itinerario storico-culturale che traccia, nel segno del progresso”. Per questo motivo, la iatrikè va salvaguardata da possibili sconfinamenti disciplinari – come per esempio la scienza medica della nutrizione e dell’alimentazione va differenziata dalla cucina, che pure veniva considerata una proto-medicina – e va ribadito fortemente il primato di quella su qualsiasi scienza, anche della natura. In conclusione, Jori mostra come sia proprio nel passaggio dalla vana investigazione archeologica delle essenze all’indagine strutturale delle relazioni – passaggio testimoniato anche da Platone, che nel Fedro supporterà questo nuovo modello – che si gioca la vera grande provocazione di Ippocrate, provocazione che viene lasciata ai posteri in forma di eredità da riscoprire e che non allontana il medico dalla via sapienziale ma, al contrario, ne riconferma il talento di grande filosofo.
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Arianna Fermani conduce il lettore alla ri-scoperta del versante prettamente pedagogico-formativo del filosofare aristotelico, troppo spesso ignorato, sottolineando come la dimensione della paideia sia, per lo Stagirita, un elemento cruciale ai fini della piena “fioritura dell’umano”. Se, infatti, più in generale, la filosofia greca si pone, sin dalle origini, come una “teoria generale dell’educa zione”, è in particolare con Aristotele che formazione ed etica finiscono col fondersi inscindibilmente. Esaminando soprattutto gli scritti etici e politici, allora, la studiosa tratteggia i due diversi scenari che questo rapporto costitutivo assume nel pensiero del filosofo: l’educazione è, da un lato, la “precondizione dell’etica” e in quanto tale ha nell’acquisizione della virtù – cui la stessa prepara attraverso la relazione tra il soggetto in crescita e la figura del maestro e la conseguente imitazione di un modello – il suo esito; d’altro canto, essa al contempo coincide con l’etica quale continua “attività dell’anima secondo virtù”, che sola è “garante di pienezza e felicità” per l’individuo ormai adulto. Questo attento riesame delle posizioni etico-pedagogiche aristoteliche, quindi, ci mostra come già il filosofo avesse inaugurato la prospettiva, oggi diffusa, dell’educazione permanente e ci consente di cogliere l’attualità, tutta inattuale, di un messaggio che ammonisce la contemporaneità a non recidere troppo sbrigativamente i legami tra pratiche formative e ricerca della vita buona. Una particolare attenzione viene, inoltre, attribuita al ruolo che Aristotele riserva alle passioni e al desiderio nell’ambito dello stesso processo educativo attestando, in tal modo, una misurata consapevolezza del coinvolgimento di tutto lo psichismo nell’attività di formazione dell’umano che precede di molto le elaborazioni freudiane. Infine Fermani rileva, con Aristotele, la costitutiva ambivalenza dell’apprendere e dell’educare che molto spesso si danno più come necessaria “correzione dolorosa” che come piacevole esperienza ludica, per quanto lo Stagirita, nuovamente precorrendo i tempi, inviti ad adottare pratiche formative attente a non snaturare le diverse specificità soggettive o, come diremmo oggi, individualizzate.
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Maurizio Migliori si sofferma sulla relazione amicale che intercorre tra Platone e Socrate, “l’uomo più giusto del suo tempo”, portandola ad esempio della filosofia platonica nel suo insieme. Il passaggio su cui l’autore si sofferma è tratto dalla Lettera VII, in cui si fa riferimento anche al processo che ha visto coinvolto Socrate. La figura di Socrate, tuttavia, non viene mai definita con gli stessi termini lusinghieri negli altri testi platonici; anzi, la presenza e la caratterizzazione di Socrate trovano spazio nei dialoghi solo alla luce del “gioco” dialettico cui Platone invita il lettore – un gioco in cui via via la figura socratica va scomparendo. Migliori evidenzia come, in un certo senso, i primi dialoghi platonici siano da considerarsi una genuina derivazione rispetto all’indagine socratica, preminentemente incentrata sul «che cos’è (tì êsti)»: in tali testi, Platone si concentra sulla differenza che intercorre tra l’incertezza propria del mondo diveniente e l’ordine stabile delle idee. Altro è il Socrate del Simposio che, dopo esser stato maestro di Agatone, apprende da Diotima quale sia la vera natura di Eros e quale l’ascesa verso il vero sapere, in un intreccio altalenante di sapienza ed ignoranza. L’autore si sofferma poi sia sul Fedro che sul Fedone, esempi del filosofare giocoso che permettono a Platone di manifestare quelli che lui ritiene essere i limiti della filosofia socratica. In questo modo viene accentuato l’aspetto di ricerca insito nel sapere filosofico, ma viene anche accennato il rimando al mondo altro delle idee. L’amicizia tra i due, perfetto emblema dei rapporti in cui si declina la philia greca, non significa completa sovrapposizione di pensiero, ma coesione nella ricerca, accettando i rischi che questa richiede.
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Il volume si chiude con il contributo di Giulio A. Lucchetta che ci porta sulle tracce di Dione di Prusa, di ritorno dalla lontana Boristene, e offre una reinterpretazione della sua Orazione XXXVI. Se il retore, celebre per abilità e moderazione, narra le difficoltà con cui si è scontrato una volta giunto all’estremità dell’ecumene, e ammette il fallimento della sua strategia comunicativa presso un uditorio apparentemente fuori dal tempo, è per denunciare i limiti del logos ellenistico che, ormai “abusato e rinsecchito” da una “razionalità astratta e inconcludente”, può ben poco di fronte al riemergere di quanto, di una grecità arcaica ancora in dialogo con l’Oriente, sembrava andato perduto: di fronte all’irrompere del numinoso e dell’immaginifico, di fronte all’esperienza del thaumàzein, il dire scientifico-razionale cede il passo al silenzio oppure di metafore atte a ornare il logos”. E il mito può osare l’altrimenti indicibile. L’incontro tra Dione e la comunità boristenita, fieramente greca dai tratti ancora omerici e al contempo profondamente influenzata dalle popolazioni barbariche che la circondano, è, allora, l’esito di un viaggio che il sofista compie tanto nello spazio quanto nel tempo e il suo racconto, lungi dall’essere un mero argomento di interesse storiografico, costituisce per noi, oggi, un monito a restare aperti all’Alterità: a quella che ci circonda e a quella che ci in-forma, ci abita, dice della nostra provenienza non meno che del nostro destino.
Il convegno si è rivelato una preziosa occasione di condivisione e confronto, un vitale momento di dialogo costruttivo all’interno della comunità filosofica. Nel rendervi testimonianza, dando spazio alla pluralità di voci coinvolte così come alla diversità di approcci, questo testo vuole essere un invito a guardare l’antico con occhi nuovi, disincantati, scevri da giudizi precostituiti, per immergersi nel non ancora pensato che lì trova la sua inesauribile sorgente.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
José Ortega y Gasset ci aiuta a riscoprire la concentrazione, il «theoretikós bíos» dei greci, la theoría. Così l’uomo si sottrae alla pervasività dell’eccesso di stimoli, ritorna a vivere la pienezza del tempo del pensiero, ad immergersi nel mondo per agire in esso secondo un progetto
Differenza nell’unità Siamo ad un bivio nella storia dell’umanità: è in atto una mutazione antropologica. L’essere umano è creatura progettante, storicamente teleologica, la cui vita è segnata dal passaggio dalla potenza (dynamis) all’atto (enérgheia ed entelécheia), oggi è minacciata dall’inautenticità afasica. Ogni esistenza autentica si intreccia alla comunità, luogo in cui aristotelicamente «l’albero diviene fiorito», è possibile l’esplicarsi dell’umanità. L’umanità è condizione ontologicamente processuale. Si diventa umani se la comunità tutta accoglie la vita, partecipando alla sua libera realizzazione. Il bene del singolo è dunque speculare al bene della comunità. Sono due volti della stessa medaglia, olisticamente l’uno speculare all’altro. Ciascuno è portatore di un talento irripetibile, anche semplice, ma prezioso per lui/lei stesso/a e per la comunità vivente tutta. La vita è differenza nell’unità, e la comunità è l’epifenomeno e fondamento di tale condizione ontologica. Tale dimensione, sempre ideale ed in itinere, necessita del pensiero, della vita attiva, del tempo del pensiero. L’autenticità presuppone la comunità che ha posto l’attività del pensiero, quale suo fondamento. L’autenticità dell’esistenza ha una precondizione imprescindibile, la possibilità di sottrarsi ai cicli della produzione (i quali sono il mezzo e non il fine), per poter creare strutture di pensiero autonome attraverso le quali definire il progetto vitale personale e comunitario. La riflessione sottratta alla stimolazione perenne muove alla domanda, che è anche un imperativo etico ineludibile di ogni essere umano “Conosci te stesso”. Il detto iscritto sul tempio di Delfi, indicava agli uomini la ricerca di sé attraverso la consapevolezza del limite.
Pensiero ed umanità La concentrazione sottrae gli esseri umani alla pervasività dell’eccesso di stimoli, per riportarli a vivere la pienezza del tempo del pensiero. La contemporaneità invece ci mette dinanzi ad una mutazione inquietante: la concentrazione è ritenuta un limite negativo, positivo è solo l’uomo del fare fine a se stesso. Da ogni parte politica si fa appello all’uomo del fare, mai all’uomo che pensa. Il pensiero mette in una condizione di paura, lo si ostracizza. Le riforme nell’ambito dellascuola si abbattono sulla formazione curvandola al solo fare automatico. Risuonano – nella mistificazione della neolingua – gli inni al concreto inteso in senso meramente pragmatico. Tale mutazione antropologica si esplica nella logica dell’azienda estesa ad ogni settore: dalla scuola alla sanità. La comunità stessa dovrebbe avere come obiettivo il pareggio di bilancio, non l’accoglienza degli esseri umani, i quali fungono da mezzo per la parità di bilancio. In tale contesto di attivismo vitalistico-nichilistico, l’essere umano deve rinunciare alla rappresentazione mediata della dialettica, per essere corpo meccanico in attività perenne.
Ortega Y Gasset e la scimmia Ortega Y Gasset, ha ben colto la mutazione in atto. Il filosofo spagnolo riporta l’esempio della scimmia. Guarda in uno zoo le scimmie. Esse sono in perenne attenzione ad ogni stimolo, vivono in un fuori perenne, pronte a cogliere ogni messaggio, ma sono contenitori passivi; tra lo stimolo e la risposta è assente la mediazione del pensiero. La loro vita si esplica in un perenne atto meccanico, che non lascia loro tregua, sempre in difesa o in attacco a seconda dello stimolo. Ad Ortega Y Gasset sembra che l’umanità, sotto l’effetto del fare, della stimolazione tecnica, stia regredendo, poiché sta rinunciando a ciò che la distingue dalle scimmie, a ciò che con fatica ha acquisito durante l’evoluzione biologica: la concentrazione. Le scimmie vivono in uno stato di continua alterazione. L’umanità, all’epoca del prometeo scatenato, del turbocapitalismo sta diventando sempre più simile alle scimmie. La comunità intera invita, incita, spinge all’uso. La comunità – che non è più tale – è un immenso potentato economico, in cui l’essenziale è vendere per usare e consumare, in un eterno ciclo. Questa nuova forma di totalitarismo non riconosciuto, sta delineando un nuovo essere umano: la scimmia tecnologica, in perenne attività oculo-manuale. Si guardino le nostre strade. Ovunque giovani e non, anche in uno spazio pubblico, si esibiscono nell’uso delle tecnologie. Non si guarda veramente, non si fa attenzione allo sguardo dell’altro, alla povertà materiale ed alle miserie morali che sono sempre più palesi. Si vede senza guardare, l’attenzione percettiva è orientata su dettagli ed automatismi, e pertanto la verità si ritira dall’orizzonte cognitivo. Passeggiare è sempre stato il momento meditativo con se stessi e con gli altri. Si pensi al peripato, come alla scuola pitagorica. Ora invece, è il luogo dove il mondo scompare, al suo posto vi è lo schermo del desktop. L’attenzione è nella risposta immediata allo stimolo, in tal modo il logos è sostituito dall’automatismo. Naturalmente il “γνῶθι σαυτόν”(Conosci te stesso) è il vero nemico assoluto del turbocapitalismo. Esso spinge verso la “scimmia”. Occorre cominciare ad interrogarsi collettivamente, se si è per le tecnologie o esse per noi. L’animale è consegnato alla servitù delle cose, mentre l’essere umano – tramite la concentrazione – sospende la signoria delle cose per pensarsi e pensarle; è questa la sfida antropologica del nostro presente e che segnerà il futuro di tutti. Dobbiamo scegliere se essere “umani o nuove scimmie”:
«L’uomo si trova, non meno dell’animale, consegnato al mondo, alle cose intorno, alla circostanza. All’inizio la sua esistenza differisce appena da quella zoologica: anche lui vive governato da ciò che lo circonda, inserito fra le cose del mondo come una di esse. Senza dubbio non appena gli esseri intorno gli lasciano un po’ di respiro, l’uomo facendo uno sforzo gigantesco, ottiene un attimo di concentrazione, si mette dentro se stesso, vale a dire mantiene a fatica la sua attenzione fissa sulle idee che spuntano dentro di lui, idee che le cose hanno suscitato e che si riferiscono al loro comportamento, a ciò che poi il filosofo chiama “la sostanza delle cose”. Si tratta intanto di una idea molto grossolana sul mondo, che però permette di abbozzare un primo piano di difesa, una condotta prestabilita. Ma né le cose intorno gli consentono di rimanere a lungo in questo stato di concentrazione, né, anche se quelle lo consentissero, sarebbe capace quest’uomo primitivo di prolungare più di alcuni secondi o minuti quella torsione speculativa, questa attenzione fissa sugli impalpabili fantasmi che sono le idee. Questa attenzione verso l’interiorità, che è l’ensimismamiento, è il fatto più antinaturale ed extrabiologico. L’uomo ha tardato millenni e millenni nell’educare un po’ ‐ niente più che un po’ ‐ la sua capacità di concentrazione. Quello che gli riesce naturale è sviarsi, sviarsi verso ciò che è l’esterno, come la scimmia nella selva e nella gabbia dello zoo. Il Padre Chevesta, esploratore e missionario, che è stato il primo etnografo specializzato nello studio dei pigmei, probabilmente la varietà di uomini ‐ come si sa ‐ più antica che si conosca e che è andato a cercare nelle selve tropicali più nascoste, il Padre Chevesta, che ignora completamente la dottrina da me ora esposta e si limita a descrivere ciò che vede, dice nella sua ultima opera del 1932, riguardo ai nani del Congo: “Manca loro totalmente la facoltà di concentrarsi. Sono sempre assorbiti dalle impressioni esteriori, il cui continuo cambiamento, impedisce di raccogliersi in se stessi, che è la condizione inevitabile per ogni apprendistato. Metterli a sedere al banco di una scuola, sarebbe per questi ometti un tormento insopportabile, perciò il lavoro del missionario e del maestro si fa particolarmente complicato” [Bambutti, die Zwerge des Congo]. Però, sebbene istintivo e rozzo questo primitivo atto di concentrazione va a separare radicalmente la vita umana dalla vita animale, perché ora l’uomo, questo uomo primigenio, va ad immergersi di nuovo nelle cose del mondo contrastandole senza consegnarsi a loro completamente. Ha un piano contro di loro, un progetto di relazione con loro, di manipolazione delle loro forme, che produce una minima trasformazione intorno a lui, quanto basta perché lo opprimano un po’ meno e di conseguenza, gli permettano più frequenti e profondi aumenti di concentrazione… e così via. Sono dunque tre momenti differenti che ciclicamente si ripetono nel corso della storia umana in forme ogni volta più complesse e l’uomo con uno sforzo energico si ritira nella sua intimità, per formarsi idee riguardo le cose e il loro possibile dominio; è la concentrazione, la vita contemplativa, di cui parlavano i romani, il theoretikós bíos dei greci; la theoría; l’uomo torna ad immergersi nel mondo, per agire in esso secondo un piano prestabilito; è l’azione, la vita activa, la praxis».[1]
Un mondo di scimmie
Un mondo di “scimmie” perennemente in attività, estranee all’attività del pensiero è un mondo senza politica e senza speranza: solo attività senza concentrazione. La società della sorveglianza, con i suoi inesauribili meccanismi di condizionamento – dalla neuro-economia alle neuroscienze – cela il sogno distopico: eliminare dalla storia la variabile incontrollabile della coscienza, addomesticarla per renderla organica al sogno (incubo) di una società umana sempre più simile ad un mondo di insetti gerarchizzato per funzioni. La morte di dio, metaforicamente della verità, comporta il facile trionfo delle scimmie, poiché se non vi è verità, regnano i mezzi che vampirizzano l’essere umano. La sorveglianza digitale isola, atomizza, ed impedisce il pensiero, in quanto l’esperienza della solitudine, del ritirarsi dal chiasso del mondo per concettualizzare, è ostacolata dalla continua invasione mediatica:
«Le attività mentali e, come si vedrà in seguito, in primo luogo il pensare – il dialogo senza voce dell’Io con se stesso – possono essere comprese come l’attuazione di quella dualità o scissione originaria tra me e me stesso che è inerente alla coscienza».[2]
La coscienza pone la storia, la devia, la rende imprevedibile, e pertanto inquieta il totalitarismo del nuovo capitalismo che racchiude nel suo grembo la perversa religione del controllo. Solo mutando gli esseri umani in scimmie tecnologiche, il nuovo capitalismo può aspirare a realizzare il “suo sogno”. Pertanto più fortemente bisogna opporre alla barbarie tecnologica che avanza la trasgressione della coscienza. La resistenza civile contro il disumano che avanza è l’imperativo a cui non ci si può sottrarre.
Salvatore Bravo
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[1] Ortega Y Gasset, Ensimismamiento y alteración, Obras completas, Alianza, Madrid 1987, traduzione di Alessandra Costa .
[2] Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 2009, pag. 157.
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