Salvatore Bravo – Senza adeguata formazione assiologica e culturale, senza «urto qualitativo», la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine. La libertà è nel desiderio della qualità del vivere.

Libertà come urto qualitativo

Salvatore Bravo

L’integralismo non riconosciuto dell’Occidente

***
La libertà come urto qualitativo
La libertà come desiderio
La libertà come qualità del vivere

***

Senza una adeguata formazione assiologica e culturale
la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine.

La libertà è nel desiderio della qualità
senza il quale ogni essere umano diviene solo consumatore senza essere e senza esserci



L’Occidente si fonda sul mito della libertà trasformatasi in una vera superstizione e dunque in dogma indiscutibile. La libertà è il principio sventolato in nome del quale sono possibili i bombardamenti etici come la competizione economica senza regole: la liberà è invocata, ma mai definita. Si usa la parola libertà, ma non la si conosce. In tal modo diviene un catalizzatore mitico, in cui convogliare forze, risorse e popoli da utilizzare per la conservazione e l’imperialismo economico. La “libertà ideologica” presuppone una linea divisoria nel mondo, lungo la quale scorre il filo spinato che designa il confine tra l’impero del bene ed il male assoluto. Il semplicismo mediaticamente organizzato consente la supina accettazione di ogni azione militare in nome della libertà. La propaganda a tamburo battente demonizza la controparte per impedire che si colgano complicità ed interessi lobbistici.

Vi è davvero politica soltanto se i cittadini definiscono il significato delle parole, le interrogano per verificare la coerenza tra la definizione e la realtà storica. Una società senza il “ti estì” (il che cos’è) è senza filosofia e senza politica. La definizione non solo astrae dall’immediato, ma traccia significati, discerne e dunque definisce e crea concetti. Senza giudizio non vi è pensiero, ma solo collettivismo, e nel nostro caso collettivismo consumistico. La libertà è lo shopping presso gli ipermercati, dove rivivere la tragedia della solitudine programmata.

È la fine della politica come categoria del dialogo tra alterità. Al suo posto regna la tracotanza del pensiero unico, che tollera senza capire e capirsi: è il regno della monade-capitale. Le nuove generazioni sono formate alle “libertà-libertinaggio”: ovvero promiscuità e consumo irrazionale sono le pratiche entro cui si connota la libertà.

La libertà – nel senso autentico del concetto – necessita della mediazione del pensiero; l’azione non dev’essere irriflessa, ma consapevole, responsabile e teleologicamente tesa alla verità. La libertà è il processo dialettico che procede verso la concettualizzazione, è operare l’epochè del mondo per pensarlo, ridefinirlo e significarlo. Il neoliberismo invece, diseduca alla libertà del pensiero per favorire le semplici pulsioni: è il regno animale dello spirito. Si pensi all’ultimo iphone che consente l’acquisto immediato col riflettere il viso nello specchio magico del mezzo: acquisti sempre più veloci, sempre meno pensati. È la logica del frattale del consumo, dall’individuo, alle comunità locali, allo Stato, alle comunità di Stati associati, è il ripetersi di logiche sempre uguali: liberi, ma solo di vendere e consumare. Se la borghesia tradizionale è ormai scomparsa con le sue regole e valori, bisogna, tuttavia, ammettere che tra la borghesia finanziaria anonima ed apolide attuale e l’alta borghesia di tradizione vi è comunque un asse che ancora le unisce, malgrado le faglie, ovvero entrambe credono e praticano il progresso dell’accumulo senza limiti. Marx ed Engels avevano tematizzato il mito dell’illimitato associandolo alla grande borghesia dell’Ottocento, che oggi è massimamente sviluppato nella borghesia della finanza:

«Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato una impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo nel paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale».[1]

 

La fase imperiale del capitalismo divora la libertà, la quale è stata il vessillo da utilizzare contro le gerarchie feudali. Si assiste al rovesciamento delle logiche

 

La libertà come urto qualitativo
La libertà è conoscenza di sé, è valore maieutico, poiché nella libertà la persona rinasce e si conosce per progettare la vita, per tracciare percorsi significanti, in cui ritrovarsi. La libertà è un valore vitale che avvolge ritmicamente la vita per emanciparla dalle forme di alienazione in cui cade. La libertà è la categoria della qualità con la quale la quantità è governata e finalizzata ai reali bisogni della vita. Alla qualità si giunge, mediante il processo dialettico.
La dialettica di Fichte, con il suo lavoro quotidiano di autosuperamento, è il paradigma della libertà. La libertà è urto concettuale contro il non io, contro le rigidità superstiziosa del mondo, è prassi ed attività del pensiero:

«L’io è in tutto e per tutto attivo e puramente e semplicemente attivo, questo è il presupposto assoluto. Di qui deriva una passività del non io, in quanto esso deve determinare l’io come intelligenza; l’attività contrapposta a questa passività è posta nell’io assoluto, quale attività determinata, esattamente come quell’attività mediante cui il non io viene determinato».[2]

La Rivoluzione permanente in nome dei consumi è nel codice genetico dell’integralismo capitalistico. Ma, mentre in passato si poteva distinguere il borghese dal proletario, il proletario dal bracciante, si assiste all’omologazione totale, per cui tutti sono consumatori. L’integralismo dell’Occidente ha fondato la prima società omologata della storia dell’umanità, la differenza è data dal censo, ma tutti si ritrovano eguali sulla linea eterodiretta della post-democrazia consumistica.
La violenza integralista deturpa le coscienze, le aliena al punto che anche dinanzi alla verità lapalissiana dei fatti, si risponde con l’esiziale “Non c’è alternativa”. Pertanto l’integralismo si accompagna con il dogmatismo religioso, con l’asservimento alle merci delle persone, non più esseri umani, ma automi pronti al consumo, all’edonismo di massa. Ogni voce critica è accusata di voler impedire la libertà. Quest’ultima è intesa solo come pratica concorrenziale distruttiva ed autodistruttiva. La libertà senza cultura del dono e curvata all’economicismo è sempre più simile alla lotta per la sopravvivenza, con l’effetto di fondare la libertà sulla devastazione:

«La normalizzazione dell’informale tende a distruggere i legami sociali infranazionali e infrastatali su cui si basa il suo dinamismo. Essa introduce in effetti i fermenti più distruttivi della modernità: l’egoismo, l’individualismo e la concorrenza selvaggia. Per ciò stesso, essa corrode la base sociale della creatività endogena: le reti neoclaniche di solidarietà e di clientela. Risulterebbe così compromessa proprio il successo delle speranze di cui è portatore l’informale di un passaggio alla postmodernità».[3]

Bisogna dialettizzare il presente per ricominciare a pensare che le categorie con cui rielaboriamo i dati non sono enti naturali, ipostasi, ma sono dedotte storicamente e pertanto modificabili.

 

La libertà come desiderio
La libertà è desiderio senza rappresentazione. L’immaginario colonizzato produce desideri indotti, mentre la libertà, in quanto attività desiderante è relazione con cui il soggetto nell’urto conosce se stesso, per scoprire di sé profondità che solo successivamente può rappresentare e concettualizzare. L’attività è relazione, poiché solo la relazione duale è capace di far emergere in modo spontaneo la verità e l’individualità che si conosce nella comunione desiderante:

«Nel nostro mondo, in cui “il deserto sta crescendo” (Nietzsche) e “l’angoscia si diffonde”, specialmente a causa della “pianificazione di una felicità uguale per tutti” (Heidegger), l’esistenza dell’altro apre una breccia in un orizzonte da cui siamo oppressi come un’ombra plumbea o un crepuscolo in cui tutto diventa grigio. Tramite il desiderio risvegliato o rivitalizzato in noi, l’altro ci chiama a un al di là – per vivere e per pensare il “non-ancora”. L’altro ci consente di conservare nella nostra memoria, in tutto il nostro essere, lo spazio di un “non ancora” come speranza di un futuro. Il “non-ancora” non deve essere vissuto come un vuoto da riempire, ma come il mantenimento in noi di una disponibilità ad accogliere la verità, la bellezza, la gioia, si potrebbe dire la grazia. Ciò può salvarci da un’eventuale disperazione o melanconia che derivano dal nulla che possiamo aspettarci, un nulla che possiamo costruire diventare. Il desiderio sconvolge la nostra rappresentazione del mondo in cui sono abolite le differenze e ciò che esse possono mettere in discussione del modello che ci viene imposto. Il desiderio riemerge come la fonte che ha strutturato l’insieme del nostro universo, una fonte di cui esso non sicura e che rimane al di fuori del suo orizzonte. Il desiderio ci ricorda la natura non rappresentabile dell’origine: la nostra, quella dell’altro e del mondo. Ripristina il legame tra il dentro di noi e il fuori di noi. Ci riporta a un essere in presenza estraneo al cerchio della rappresentazione».[4]

La libertà come qualità del vivere
L’integralismo dell’Occidente si connota per essere integralismo della passività rappresentata per attività. La trappola da cui congedarsi è l’illusione della libertà. All’integralismo della passività cinetica bisogna opporre l’attività desiderante senza la quale non vi è che il regime delle passioni tristi: il potere ci vuole tristi, estranei a noi stessi per poterci colonizzare. Senza il riconoscimento di tale verità non è possibile l’esodo dall’attivismo nichilistico. La libertà è pratica della qualità, per cui è necessario porre al centro il logos con il quale significare la quantità e porla nell’ordine razionale della comunità, ancora una volta i classici ci vengono incontro e ci donano verità su cui riflette e riprogettare il presente:

«Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza. Di tutto questo, principio e bene supremo è la saggezza, perciò questa è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia saggia, bella e giusta, né vita saggia, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili».[5]

 

La democrazia è il luogo politico dove imparare ad essere liberi. Senza una adeguata formazione assiologica e culturale la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine. La libertà è nel desiderio della qualità senza il quale ogni essere umano diviene solo consumatore senza essere e senza esserci.

Salvatore Bravo

[1] K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Ousia, pag. 14.
[2] J.G. Fichte, Fondamento dell’intera dottrina della scienza, Bompiani, 2017, pag. 483.
[3] S. Latouche, Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, 2017, pag. 148.
[4] L. Irigaray, Nascere. Genesi di un nuovo essere umano, Bollati Boringhieri, 2019, pag. 71.
[5] Epicuro, Lettera a Meneceo, Ousia, pag. 4

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Erich Fromm (1900-1980) – Il «radicalismo umanistico» nel libro di Ivan Illich «Rovesciare le istituzioni» è basato su un profondo interesse per la crescita dell’uomo intesa in ogni senso, fisico, spirituale ed intellettuale.

Ivan Illich - Erich Fromm
Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni, Prefazione di Erich Fromm, Armando 1973
Erich Fromm
Prefazione al libro di
Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni. Un “messaggio” o una “sfida”
 

I testi contenuti in questo libro non hanno bisogno di alcuna presentazione, né, tantomeno, il loro autore. Se, tuttavia, Ivan Illich ha voluto invitarmi a scrivere l’introduzione del suo libro, e se io ho accettato con piacere, ciò dipende da un’unica ragione che è stata alla base di entrambi i nostri intendimenti: abbiamo pensato che questa può essere un’occasione utile per chiarire la natura di un comune atteggiamento e di una fede comune, per quanto alcuni dei nostri punti di vista differiscano tra loro, anche in modo considerevole. Del resto, le idee che lo stesso autore oggi esprime non sempre coincidono con quelle che egli manifestava al tempo in cui, in diverse occasioni ed in un arco di anni abbastanza ampio, scrisse i saggi contenuti in questo volume. Ma una cosa è quella che conta: Illich è sempre stato fedele a se stesso per quanto riguarda il nocciolo più autentico del suo approccio alla realtà ed è questo nocciolo che mi sento di condividere con lui.

Non è facile trovare il termine appropriato per definire questo nucleo essenziale. Com’è possibile, infatti, rinchiudere un atteggiamento fondamentale nei confronti della vita in un semplice concetto senza alterarlo e distorcerlo? Eppure, dal momento che non possiamo fare a meno di comunicare con parole, mi sembra che la definizione più adeguata – o meglio, la meno inadeguata – sia quella di un radicalismo umanistico.

Cosa viene a significare il termine radicalismo e cosa implica l’aggettivo umanistico legato a quel sostantivo? Quando parlo di radicalismo non intendo principalmente un certo insieme di idee radicali, quanto piuttosto un atteggiamento – come dire – un approccio alla realtà. Tanto per cominciare un simile approccio può essere caratterizzato dal motto: de omnibus dubitandum; ogni cosa deve essere posta in dubbio, ma soprattutto quel patrimonio ideologico di concetti cristallizzati che sono virtualmente assunti da ciascuno e diventano, di conseguenza, assiomi fondamentali del senso comune che nessuno oserebbe porre in dubbio.

“Dubitare”, in questo senso, non implica certo una condizione psicologica di incapacità d’arrivare a decisioni o convincimenti ben fondati, come nel caso del dubbio ossessivo, quanto piuttosto una prontezza ed una capacità di porre in discussione criticamente tutte le certezze e le istituzioni che sono diventate puri e semplici idoli chiamati senso comune, logica e tutto ciò che si presume essere naturale. Questo modo radicale di porre in discussione le acquisizioni del mondo in cui viviamo è possibile solo quando non si diano per scontati i concetti base della società in cui si vive o addirittura di un intero periodo storico, come ad esempio, l’intera cultura occidentale dal Rinascimento in poi, e ancor più, se si dilata la portata della nostra consapevolezza cercando di scoprire gli aspetti inconsci che condizionano il nostro pensiero. Il dubbio radicale è, al tempo stesso, svelare e scoprire; è il sorgere della consapevolezza del fatto che l’Imperatore è nudo e che i suoi splendidi vestiti non sono altro che il prodotto della nostra fantasia.

Il dubbio radicale significa mettere in questione; non significa necessariamente negare. È facile negare mediante la semplicistica affermazione del contrario di ciò che esiste; il dubbio radicale è dialettico dal momento che in esso si svela il processo delle contraddizioni e con esso si tende ad una nuova sintesi che nega e afferma contemporaneamente.

Il dubbio radicale è un processo, un processo di liberazione da concezioni idolatriche, un modo di ampliare la nostra consapevolezza, l’immaginazione, la visione creativa che dobbiamo avere in ordine alle nostre possibilità ed alle scelte che ci impegnano. Un atteggiamento radicale non nasce dal nulla, non prende forma nel vuoto: esso parte dalle radici, e la radice, come disse Karl Marx, è l’uomo.

Questa grande affermazione, «la radice è l’uomo», non va intesa in senso positivistico o meramente descrittivo: quando parliamo dell’uomo non lo consideriamo come una cosa, ma come un processo; parliamo, quindi, del suo potenziale creativo, della sua capacità di sviluppare ogni suo potere, il potere d’una più grande intensità di essere, il potere di una più grande armonia di vita, d’un più grande amore, d’una più grande consapevolezza.

Ma parliamo anche dell’uomo come di un essere che si può corrompere, di un essere il cui potere di agire si può trasformare nella libidine di dominare sugli altri, il cui amore per la vita può degenerare nel gusto folle di distruggere la vita.

Questo radicalismo umanistico che mette in discussione drasticamente la realtà è guidato da una chiara intuizione della dinamica della natura umana e dalla preoccupazione per la crescita e il pieno sviluppo dell’uomo. In antitesi con l’attuale concezione positivistica, esso non è obiettivo, se per obiettività si intende il teorizzare senza che il processo del pensiero sia sostentuto e nutrito da un ideale profondamente sentito. Ma è anche troppo obiettivo se ciò significa che ogni fase del processo di riflessione poggia su una evidenza criticamente scrupolosa, e soprattutto, se accetta di mettere in dubbio le premesse del senso comune.

Tutto ciò significa che il radicalismo umanistico interroga ogni idea ed ogni istituzione su di un punto essenziale, quello cioè di sapere se essa aiuti oppure ostacoli la capacità dell’uomo di raggiungere una maggiore pienezza di vita, una maggiore felicità. Non è questa la sede per dilungarsi in una esemplificazione del tipo di acquisizioni del senso comune che vengono poste in discussione, dal radicalismo umanistico. E tanto meno ciò è necessario, dal momento che gli scritti di Illich raccolti in questo libro si occupano proprio di simili esempi, come l’utilità della scuola obbligatoria per tutti o dell’attuale funzione del prete nella società. Molti altri potrebbero essere enumerati, alcuni dei quali, del resto, emergono anche dalle pagine di questo libro. Per quanto mi riguarda vorrei sottolineare appena un poco il moderno concetto di progresso, inteso come un costante aumento della produzione, del consumo, della velocità, dei livelli massimi di efficienza e di profitto, e della possibilità di calcolare ogni attività in termini economici senza alcuna considerazione degli effetti che ne derivano per la qualità della vita e della crescita dell’uomo; oppure il dogma secondo cui l’aumento dei consumi renderebbe l’uomo felice, o quello per cui l’organizzazione imprenditoriale su larga scala deve necessariamente essere burocratica ed alienante, o la concezione che ripone lo scopo della vita nell’avere (e nell’usare) e non nell’essere; l’idea secondo cui la ragione è un fatto che riguarda l’intelletto e non ha nulla a che fare con la vita affettiva; la convinzione che il radicalismo è la negazione della tradizione e che l’opposto di “legge ed ordine” è la scomparsa di qualsiasi struttura. In breve, il dogma secondo cui le idee e le categorie che si sono sviluppate con l’affermarsi della scienza moderna e dell’industrializzazione sono superiori a quelle di ogni cultura anteriore ed indispensabili per il progresso del genere umano.

Il radicalismo umanistico mette in discussione tutti questi presupposti e non teme di giungere all’espressione di idee e soluzioni che possono suonare assurde agli orecchi della gente. Io ritengo che il grande valore degli scritti di Illich consista precisamente nel fatto che essi rappresentano un radicalismo umanistico fra i più completi e carichi di immaginazione creativa. L’autore è uomo di raro coraggio, di grande vitalità, di straordinaria erudizione, brillante nello scrivere e fertile nell’immaginazione: ogni suo convincimento è basato su un profondo interesse per la crescita dell’uomo intesa in ogni senso, fisico, spirituale ed intellettuale. L’importanza del suo pensiero, quale emerge da questi e dagli altri suoi scritti, consiste nel fatto che essi hanno un effetto liberante sulla mente del lettore nella misura in cui svelano interamente nuove possibilità; essi arricchiscono il lettore aprendogli la porta dalla quale si può uscire dalla prigione delle cognizioni sterili, preconcette, frutto della routine quotidiana. Mediante uno choc creativo gli scritti di Ivan Illich comunicano un messaggio; solo chi reagisce esclusivamente con rabbia a quelle che gli sembrano semplici assurdità, non può intendere questo messaggio; per gli altri, per tutti, essi parlano la lingua della forza e della speranza che spingono a cominciare di nuovo.

 

Erich Fromm, Prefazione a Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni. Un “messaggio” o una “sfida”, Armando, Roma 1973.

 

Tratto da: www.altraofficina.it

 


Ivan Illich, Rivoluzionare le istituzioni. Celebrazione della consapevolezza, Prefazione di Erich Fromm, Mimesis, 2012

Erich Fromm (1900-1980) – La nostra è una società composta da individui in preda a stati depressivi e a impulsi distruttivi, incapaci di indipendenza.
Erich Fromm (1900-1980) – L’uomo moderno non ha raggiunto la libertà in senso positivo di realizzazione del proprio essere. Questo isolamento è intollerabile.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Sebastiano Timpanaro (1923-2000) – Troppo a lungo le classi dominanti hanno attribuito alla natura le ingiustizie e le sofferenze di cui è responsabile l’organizzazione della società, comprese certe calamità ‘naturali’ (dalle alluvioni alle epidemie a tutte le malattie sociali).

Sebastiano Timpanaro

«Troppo a lungo le classi dominanti hanno attribuito alla natura (cioè ad una traduzione laica degli imperscrutabili decreti della Divina Provvidenza) le ingiustizie e le sofferenze di cui è responsabile l’organizzazione della società, comprese certe calamità ‘naturali’ (dalle alluvioni alle epidemie a tutte le malattie sociali) che non sarebbero accadute, o avrebbero arrecato danni molto meno gravi, se la ricerca del massimo profitto e la subordinazione dei pubblici poteri agli interessi capitalistici non avessero fatto trascurare le più ovvie misure di prevenzione e, ciò che molto più importa, non avessero impedito l’adozione di un modello di sviluppo tecnico-produttivo profondamente diverso».

Sebastiano Timpanaro, Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1975 (prima edizione 1970), p. XXVI.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Nicola Arrigoni – Heidegger e pensare Dio. L’essere e la fine della metafisica. Il saggio di Carlo Carrara dedicato alla riflessione “teologica” del filosofo tedesco

Heidegger- Arrigoni

Carlo Carrara

Essere e Dio in Heidegger

ISBN 978-88-7588-234-1, 2020, pp. 200,  Euro 20 – Collana “Il giogo” [110].

indicepresentazioneautoresintesi

Nicola Arrigoni

Heidegger e pensare Dio

L’essere e la fine della metafisica. Il saggio di Carlo Carrara
dedicato alla riflessione “teologica” del filosofo tedesco

 

«L’epoca metafisica, iniziatasi con Platone, per Heidegger giunge al suo compimento con Nietzsche. La metafisica di Nietzsche, in quanto compimento della metafisica occidentale in generale e quindi – in un senso rettamente inteso – la fine della metafisica come tale». Così scrive Carlo Carrara in Essere e Dio in Heidegger, denso saggio pubblicato per l’Editrice Petite Plaisance (pp. 186, 20 euro). Già nel titolo Carrara rende omaggio all’autore di Essere e tempo, affiancando la riflessione sull’ontologia e sull’essere alla parola di Dio. Il «Dio è morto!» nicciano è il punto di partenza, è crux interpretativa, è la svolta di quel pensiero nichilista e di riflessione metafisica dell’essere nel tempo e dell’esserci. Ed in merito osserva Carlo Carrara: «Heidegger non esclude che a questa epoca segnata dalla morte di Dio, dal compimento della metafisica, dall’assenza e della mancanza del divino, poetata da Hölderlin, possa essere concesso il favore della svolta della dimenticanza dell’essere nella salvaguardia della sua essenza». In questa direzione la riflessione su Dio e l’essere nel pensiero di Heidegger portata avanti con rigore da Carlo Carrara porta alla consapevolezza che la dimenticanza dell’essere, mutandosi nella salvaguardia della sua essenza, nella disponibilità umana della custodia e dell’attesa, si presenta nel pensiero poetante che dall’essere conduce a Dio, e nel poetare pensante, che si rivolge al sacro, come una luce nel tempo di povertà «della notte del mondo», scrive Carlo Carrara. Il saggio è un percorso vertiginoso e a tratti insidioso, che pone il lettore a interrogarsi sul Dio divino che non è il Dio cristiano che si è inverato nel tempo. «Solo il Dio divino può salvare l’uomo, nel senso che può liberarlo per la sua essenza propria in quanto esser-ci, dal dominio dell’oblio dell’essere dalle conseguenze della morte di Dio», continua Carrara nel suo itinerario speculativo. In questo contesto il pensiero poetante diventa una chiave di ingresso in una dimensione dell’umano che si completa nella filosofia, sapere intorno all’uomo giorno e notte.

«La Provincia di Cremona», giugno 2020.

Recensione di Essere e Dio in Heidegger – Quotidiano La Provincia di Cremona

La questione centrale del pensiero di Martin Heidegger è la questione dell’essere, ma fin dall’inizio del suo cammino, nei sentieri percorsi, il suo pensare è aperto al problema di Dio e a ciò ad esso inerente.
Per il filosofo tedesco la metafisica occidentale, da Platone a Nietzsche, nasce e si sviluppa come oblio dell’essere, cosicché nulla ne è dell’essere stesso e della sua verità. Ne consegue che nella sua stessa essenza la metafisica è nichilismo.
Il Dio metafisico è il Dio causa sui, il Dio fondamento, ragione e supremo valore, le cui immagini e maschere costruite dall’onto-teologia lungo la storia hanno contraffatto il Dio divino, il Dio che può aver luogo secondo il suo tratto proprio solo in base, a partire ed entro l’orizzonte della verità dell’essere. Solo il Dio divino può salvare l’uomo, nel senso che può liberarlo per la sua essenza propria in quanto esser-ci, dal dominio dell’oblio dell’essere e dalle conseguenze della morte del Dio non divino.
Il favore della svolta nell’essere ancora non concesso, che la dimenticanza dell’essere si rivolti, mutandosi nella salvaguardia della sua essenza, nella disponibilità umana della custodia e dell’attesa, si presenta nel pensiero poetante, che dall’essere conduce al Dio, e nel poetare pensante, che si rivolge al sacro, come una luce nel tempo di povertà della notte del mondo, caratterizzato dall’assenza, dalla mancanza di Dio: «Quando si fa buio non vedo niente, e tuttavia (ci) vedo» (M. Heidegger).


Carlo Carrara è dottore in Filosofia e ha conseguito il Magistero in Scienze Religiose. Si occupa di filosofia contemporanea, antropologia filosofica e del pensiero di Martin Heidegger. Tra i suoi libri si segnalano: La domanda del senso dell’esistere (il nuovo me­langolo, Genova 2013); Solitudine ed esistenza. Kierkegaard, Nietzsche, Unamuno, Heidegger, Jaspers, Sartre, Camus, Marcel, Berdjaev, Abbagnano (Petite Plaisance, Pistoia 2015); In cammino verso il silenzio (Paoline, Milano 2015); L’uomo ancora non pensa. Nei sentieri di Heidegger (Petite Plaisance, Pistoia 2016).



Carlo Carrara
La domanda del senso. Per una filosofia del “ri-trovamento”

[Introduzione di Massimo Bontempelli. In appendice scritti di: Walter Kasper, Dario Antiseri, Luigi Giussani, Abraham J. Heschel, Juan Alfaro, Norbert Fischer, Bernhard Welte, Karl Rahner, Armando Rigobello, Günther Anders, Wolfhart Pannenberg, Norberto Bobbio].

ISBN 88-87296-74-X, 2000, pp. 176,

indicepresentazioneautoresintesi

Il sentiero qui percorso, muovendo i primi passi verso la necessaria chiarificazione della semantica e della polivalenza del termine «senso», seguirà la via del senso come domanda radicale, per poi proseguire sulla via del senso come problema fondamentale, per raggiungere il senso come mistero avvolgente. Tre vie con un unico intento: ri-passare la struttura ontologico-esistenziale ultima umana. Riallacciandosi poi alla situazione propria dell’uomo contemporaneo, il cammino ripercorrerà le tappe della perdita della domanda del senso, per arrivare alla mancanza del senso e all’insensatezza effettiva dominante. Tre vie con un unico intento: ri-levare l’odierna condizione umana. Gli ultimi passi volgeranno verso la ri-cerca responsabile del senso ultimo da parte di ogni singolo uomo, con la ri-proposta della domanda del senso, per un «ri-trovamento» di quanto di più umano vi sia nell’uomo. Infine, alcuni approfondimenti di noti e attuali studiosi, ricondurranno a ripercorrere in modo più particolareggiato i diversi aspetti della questione esaminata.

«[…] l’uomo contemporaneo, in genere, non sente neanche più la necessità di enunciare la scomparsa del senso ultimo, preoccupato com’è a dar vita ai «suoi» sensi; tanto è vero che il suo pensare al senso come mistero avvolgente dura per lo più quanto l’attimo di un lampo, che potrebbe comunque anche folgorarlo; il suo riflettere sul senso come problema fondamentale dura forse poco più di un’ora, giusto il tempo per supporre e dire qualcosa, per poi lasciare nuovamente il tutto sospeso nel vuoto o nel dubbio; il suo percepire il senso come domanda radicale sta invece alla circostanza che lo suscita come il sole sta a un giorno, che potrebbe tanto irradiare quanto accecare, o come la luna sta a una notte, che potrebbe tanto guidare quanto fuorviare, ma in qualunque modo stiano le cose, il domani sarà sempre un altro giorno e un’altra notte.  Per il resto del suo tempo, cioè, per tutto il tempo, l’uomo contemporaneo non fa che pensare, fare e dire «per» questo mondo, «con» questo mondo e «in» questo mondo, a se stesso, in unità con la felicità di questo mondo, da conquistare mediante la ricerca, il possesso e il godimento (per quanto frenetici, esasperati e inappagabili possano essere) di tutti quei beni che il menù del mondo gli offre (potere, denaro, successo, piaceri, divertimenti, ecc.), augurandogli “buon senso!”». «La domanda del senso rimanda al mistero della vita e del mondo che avvolge integralmente l’uomo. Non più risposte a domande, ma domande a risposte; non più soluzioni a problemi, ma problemi a soluzioni; e nemmeno tentativi di pensare qualcosa di ciò che è non ancora pensato, di aspirare a trovare qualcosa di ciò che è non ancora trovato; ma soltanto il mistero che avvolge e coinvolge l’uomo, che lo inonda con le sue imprendibili acque, tenebrose per la sua ragione, sorgente di speranza per il suo cuore» (Carlo Carrara).



Carlo Carrara, La domanda del senso dell’esistere, Il Nuovo Melangolo, 2014.

Il sentiero qui percorso, muovendo i primi passi verso la necessaria chiarificazione della semantica e della polivalenza del termine “senso”, seguirà la via del senso come domanda radicale, per proseguire sulla via del senso come problema fondamentale, per raggiungere il senso come mistero avvolgente. Tre vie con un unico intento: ripassare la struttura ontologico-esistenziale dell’uomo. Riallacciandosi poi alla situazione propria dell’esistere umano contemporaneo, il cammino ripercorrerà le tappe della perdita della domanda del senso, per arrivare alla mancanza del senso e all’insensatezza effettiva dominante. Tre vie con un unico intento: ri-levare l’odierna condizione umana. Gli ultimi passi volgeranno nella direzione di una responsabile domanda e ricerca del senso dell’esistere da parte di ogni singolo uomo.


Carlo Carrara, In cammino verso il silenzio, Paoline Editoriale Libri, 2015.

Il testo è strutturato in un centinaio di brevi pensieri sul tema dominante del silenzio. I pensieri, dal linguaggio a volte aforistico e poetico, seguono un percorso, un cammino, che parte dalla costatazione del predominio del rumore, prodotto alienante dell’odierno esistere inautentico dell’uomo, per inoltrarsi nella ricerca dell’autentico significato della parola, dell’ascolto, del dialogo e del rapporto interpersonale. Nel cammino si va via via chiarendo la molteplicità di forme e significati del silenzio, con la radicale distinzione tra le sue forme degenerative e spurie e il suo autentico e profondo significato. L’essere del silenzio si manifesta come la precondizione necessaria e imprescindibile dell’essere della parola, dell’ascolto, del dialogo e dell’altro. Il mondo del silenzio è il luogo del loro esistere autentico, nel bene e nel dono reciproco dell’amore accolto e vissuto concretamente. In questo luogo ogni singolo uomo è chiamato ad amare donandosi.



Carlo Carrara,

Solitudine ed esistenza

[Kierkegaard – Nietzsche – Unamuno – Heidegger – Jaspers – Sartre – Camus – Marcel – Berdjaev – Abbagnano]. Prefazione di Angela Ales Bello.

ISBN 978-88-7588-139-9, 2015, pp. 19

indicepresentazioneautoresintesi

Che cos’è la solitudine? Perché la solitudine è così inscindibilmente legata con l’esistenza umana? Quali e quante solitudini vive l’uomo di questo tempo? In che termini si può parlare di solitudine per l’autenticità e di isolamento dell’inautenticità? Come definire la solitudine in quanto isolamento positivo e l’isolamento in quanto solitudine negativa? Attraverso l’analisi delle opere fondamentali dei maggiori precursori e rappresentanti della filosofia contemporanea dell’esistenza, e con un linguaggio semplice e chiaro, questo libro offre la possibilità di riflettere sul problema e sull’esperienza della solitudine, profondamente connessi con le questioni del fondamento e del senso dell’esistenza umana, con la sua dimensione autentica e con quella inautentica, con il modo di essere individuale, personale, sociale e religioso dell’uomo, con la realtà della sua morte e con la verità del suo destino ultimo.



Carlo Carrara

L’uomo ancora non pensa. Nei sentieri di Heidegger.

ISBN 978-88-7588-200-6, 2016

indicepresentazioneautoresintesi

«La filosofia non è nata dal mito. Essa nasce solo dal pensiero e nel pensiero. Ma il pensiero è il pensiero dell’essere. Il pensiero non nasce. Esso è (ist) in quanto l’essere è (west)» (Il detto di Anassimandro). «Può il pensiero continuare a sottrarsi al compito di pensare l’essere, dopo che questo è rimasto nascosto in un lungo oblio e nello stesso tempo, nel momento attuale del mondo, si annuncia attraverso lo scotimento di tutto l’ente?» (Lettera sull’«umanismo»). «Il pensiero iniziale ha la sembianza della totale marginalità e dell’inutile. E tuttavia, se proprio si vuole pensare a un’utilità, che cosa è più utile della salvezza nell’essere?» (Contributi alla filosofia ‘Dall’evento’). (Martin Heidegger)

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Immanuel Kant (1724-1804)  – Ho imparato che la scienza è inutile, se non serve a mettere in valore l’umanità. Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo. Agisci in modo che ogni tuo atto sia degno di diventare un ricordo.

Immanuel Kant 025

«Io sono uno studioso e sento tutta la sete di conoscere che può sentire un uomo. Vi fu un tempo nel quale io credetti che questo costituisse tutto il valore dell’umanità; allora io sprezzavo il popolo che è ignorante. E’ Rousseau che mi ha disingannato. Quella superiorità illusoria è svanita, ho imparato che la scienza è inutile, se non serve a mettere in valore l’umanità»

 

«Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo»

«Agisci in modo che ogni tuo atto sia degno di diventare un ricordo».

Immanuel Kant, Critica della ragion pratica.


Immanuel Kant (1724-1804)  – Nell’uomo esiste un tribunale interno: è la coscienza. Egli può magari cadere in un grado tale d’abbiezione da non prestare più alcuna attenzione a questa voce, ma non può evitare di udirla
Immanuel Kant (1724-1804) – Lo studente non deve imparare dei “pensieri”, ma a “pensare”. Non lo si deve “portare” ma “guidare”, se si vuole che in seguito sia capace di camminare da solo. Rovesciando questo metodo, lo studente acciuffa una sorta di ragione prima ancora che in lui si sia formato “l’intelletto” e s’appropria d’una “scienza” posticcia che in lui è soltanto appiccicata , non maturata.
Immanuel Kant (1724-1804) – Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.
Immanuel Kant (1724-1804)  – Lettera di Kant a Marcus Herz. «Parlo dell’obiettivo di diffondere disposizioni d’animo buone, basate su princìpi solidi, e di salvaguardare queste disposizioni assicurandole fermamente nelle anime ricettive, indirizzando gli altri a coltivare i propri talenti solo in direzioni utili».
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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William Morris (1834-1896) – Qual è lo scopo della Rivoluzione? Certamente quello di rendere felici gli uomini.

William Morris, Notizie da nessun luogo

«“Qual è lo scopo della Rivoluzione? Certamente quello di rendere felici gli uomini. […] In breve, con l’assenza di coercizioni artificiali e con la libertà per chiunque di fare quello che sa fare meglio, unita alla conoscenza di ciò che vogliamo che il lavoro produca. Devo ammettere che a quest’ultima siamo arrivati lentamente e faticosamente. […] Da tutto ciò che sentiamo dire e leggiamo, appare chiaro che nell’ultimo stadio della civiltà, gli uomini si erano cacciati in un giro vizioso in materia di produzione di beni. Avevano raggiunto una straordinaria facilità di produzione, e per sfruttarla al massimo avevano gradualmente creato (o, piuttosto, lasciato sviluppare) un sistema assai complesso di compravendita, chiamato mercato mondiale; questo mercato mondiale, una volta entrato in funzione, li costrinse a continuare a produrre una quantità sempre maggiore di beni, ne avessero bisogno o no. Cosicché mentre, com’è naturale, non potevano sottrarsi alla fatica di produrre ciò che realmente era necessario, crearono una serie senza fine di bisogni falsi o inutili, che divennero, secondo la ferrea legge del suddetto mercato mondiale, di importanza pari a quella dei beni veramente indispensabili alla vita umana. Facendo questo, si accollarono un’enorme mole di lavoro, con l’unico scopo di mantenere in funzione il loro sciagurato sistema. […] Poiché si erano messi nella condizione di rimaner schiacciati sotto il terribile peso della produzione superflua divenne loro impossibile considerare il lavoro e i suoi prodotti da un punto di vista che non fosse l’incessante sforzo di impiegare la minor quantità possibile di lavoro per ogni articolo prodotto, e nello stesso tempo di produrre la maggiore quantità possibile di articoli. A questa ‘riduzione dei costi di produzione’, come era chiamata, tutto veniva sacrificato. La soddisfazione del lavoratore nel suo lavoro, anzi, i suoi bisogni fondamentali e la sua stessa salute, l’alimentazione, i vestiti, l’abitazione, il tempo libero, gli svaghi, l’istruzione – in breve, la sua vita – pesavano sulla bilancia meno di un granello di sabbia contro la crudele necessità di ‘ridurre i costi di produzione’ di merci che in gran parte non valeva nemmeno la pena di produrre. Si racconta anzi, e le prove sono tanto evidenti che, per quanto difficile, bisogna crederlo, che persino gli uomini ricchi e potenti, i padroni di quei poveri diavoli di cui vi ho parlato, si adattavano a vivere fra vedute, rumori e odori che la natura stessa dell’uomo detesta e cerca di sfuggire, pur di impiegare le loro ricchezze nel portare all’esasperazione questa suprema follia. L’intera comunità veniva gettata tra le fauci di quel mostro vorace che era la ‘riduzione dei costi di produzione’, imposta dal mercato mondiale”.
[…]
“Ma le macchine, per ridurre il lavoro?”.
“Che state dicendo? Le macchine per ridurre il lavoro? Sì, erano fatte per ‘risparmiare manodopera’ (o, per esser più precisi, energie umane) su certi prodotti perché potesse essere impiegata meglio – io direi sprecata – nella fabbricazione di altri prodotti probabilmente inutili. […] L’appetito del mercato mondiale cresceva man mano che questo ingoiava ricchezza: i paesi appartenenti alla cerchia della civiltà, cioè della miseria organizzata, venivano saturati di merci inutili e si ricorreva senza pietà alla forza e all’inganno per ‘aprire al commercio’ i paesi che si trovavano fuori di quell’area. Questo processo di ‘apertura’ appare strano a chi conosca le convinzioni degli uomini di quel periodo e non comprenda il loro modo di agire; e forse ci mostra nel suo aspetto peggiore la grande piaga del XIX secolo: l’uso dell’ipocrisia e dell’inganno per eludere la responsabilità di una ferocia praticata indirettamente. Quando il mercato mondiale dei paesi civili aveva delle mire su un paese che non fosse ancora nelle sue grinfie, si trovava qualche sfacciato pretesto […] insomma, ogni possibile trappola per catturare la preda. Poi si trovava un avventuriero audace, senza scrupoli […] e lo si pagava perché ‘creasse un mercato’ […].
Le merci che noi qui produciamo vengono prodotte perché ce n’è bisogno: lavoriamo per i nostri vicini come se lavorassimo per noi stessi, non per un astratto mercato di cui ignoriamo tutto e sul quale non abbiamo alcun controllo; poiché non c’è compravendita, sarebbe pura follia produrre merci basandosi soltanto sulla possibilità che ce ne sia richiesta: non c’è più nessuno che possa essere costretto a comprarle. Perciò tutto quello che si produce è di buona qualità e adatto all’impiego che bisogna farne. Non si può produrre nulla che non sia utile, e quindi non si produce nulla di scadente. Inoltre, come ho già detto, oggi sappiamo di che cosa abbiamo bisogno, e non produciamo più del necessario; e poiché nulla ci spinge a produrre una gran quantità di oggetti futili, abbiamo tempo e risorse a sufficienza per considerare la fabbricazione delle merci un piacere.
Tutti i lavori che sarebbe troppo noioso eseguire a mano, vengono fatti da macchine altamente perfezionate; mentre per tutti i lavori che danno piacere si fa a meno delle macchine. Non c’è difficoltà a trovare un genere di attività che corrisponda alle inclinazioni di ognuno, così nessuno è sacrificato alla volontà di un altro. A poco a poco, quando ci rendevamo conto che fabbricare qualcosa era sgradevole o presentava dei problemi, abbiamo rinunciato a fabbricarlo facendone a meno. Ora potete certamente capire che in queste condizioni ogni genere di attività che svolgiamo è un esercizio più o meno piacevole della mente e del corpo […]”».

«Sarebbe molto difficile, se non impossibile, raccontarvi tutta la storia: presa di coscienza, scontento, tradimento, defezioni, disastri, miseria, disperazione. Tutti quelli che hanno cooperato al cambiamento, perché vedevano più in là degli altri, hanno percorso queste tappe dolorose. E durante tutto quel tempo, la maggior parte della gente ha assistito, senza capire, agli avvenimenti credendoli naturali come l’alba ed il tramonto; il che in realtà era anche vero […]. Guardando il passato, ci accorgiamo che la forza che ha spinto le masse verso il grande cambiamento è stata l’aspirazione alla libertà ed all’eguaglianza».

«Guardate […] come intorno a voi degli uomini obblighino altri uomini a condurre un’esistenza che non è la loro, mentre essi stessi non hanno cura della propria […] addolcite la vostra lotta con un po’ di speranza […] sforzandovi di edificare a poco a poco, nonostante le pene e le sofferenze necessarie, questa nuova epoca di amicizia, di riposo, di felicità».

William Morris, Notizie da nessun luogo, Garzanti, Milano 1984, pp. 103 ss.

William Morris, ritratto da George Frederic Watts, 1870.

William Morris (1834-1896) – Impegnamoci a custodire il giusto ordinamento del paesaggio terrestre, per evitare di tramandare ai nostri figli un tesoro minore di quello lasciatoci dai nostri padri. Non rendiamo la terra un deserto di speranze (quale essa era una volta), ma anche una prigione disperata.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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María Zambrano (1904-1991) – L’esperienza precede ogni metodo. Ma il metodo si dà fin dal principio in una determinata esperienza, che proprio in virtù di ciò arriva ad acquistare corpo e forma, figura.

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«L’esperienza precede ogni metodo. Si potrebbe dire che l’esperienza è a priori ed il metodo è a posteriori. Ma ciò vale soltanto come indicazione, giacché la vera esperienza non può darsi senza l’intervento di una sorta di metodo. Il metodo si dà fin dal principio in una determinata esperienza, che proprio in virtù di ciò arriva ad acquistare corpo e forma, figura».

María Zambrano, Note di un metodo, trad. it. di S. Tarantino, Napoli, Filema, 2003, p. 35.


Descrizione del libro

“Note di un metodo” appartiene agli scritti dell’ultimo periodo della vita della pensatrice spagnola che ruotano intorno al problema della ragione poetica. Sono “note” proprio perché si allude al carattere frammentario, musicale del pensiero piuttosto che a quello logico-razionale. Un metodo da intendersi come ciò che apre il cammino all’esperienza umana e non semplicemente come ciò che struttura un ordine, una “forma mentis”. Una conoscenza che per Maria Zambrano deve avere le sue radici nella viva esperienza ma allo stesso tempo deve sapersi innalzare a quelle sfere in cui i desideri e i sogni fanno da materia alla nostra vita.


Maria Zambrano – La virtù della delicatezza
Maria Zambrano (1904-1991) – Il silenzio che accoglie la parola assoluta del pensiero umano diventa il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa.
Maria Zambrano (1904-1991) – Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita
María Zambrano (1904-1991 – Il punto dolente della cultura moderna è la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita.
María Zambrano (1904-1991) – L’amore è l’elemento della trascendenza umana. Originariamente fecondo, quindi, se persiste, creatore di luce, di vita, di coscienza. È l’amore a illuminare la nascita della coscienza.
María Zambrano (1904-1991) – La vita ha bisogno di rivelarsi, di esprimersi: se la ragione si allontana troppo, la lascia sola, se assume i suoi caratteri, la soffoca.
María Zambrano (1904-1991) – Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto. Se è così, non dovremmo temere che, smettendo di essere figli, smetteremo anche di essere uomini?
María Zambrano (1904-1991) – La cosa più umiliante per un essere umano è sentirsi portato, trascinato, senza possibilità di scelta, senza poter prendere alcuna decisione.
María Zambrano (1904-1991) – La violenza vuole, mentre la meraviglia non vuole nulla, le è estraneo e perfino nemico tutto quanto non persegue il suo inestinguibile stupore estatico.
María Zambrano (1904-1991) – Sogno e destino della pittura. Dal sogno la pittura ha la sua nascita. Perché essa è nata nelle caverne. I sogni hanno bisogno di salvarsi. E un sogno salvato è un sogno visibile.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – La ricerca di Luca Grecchi non solo rende palese l’assenza della metafisica nella filosofia di oggi, ma tenta di rielaborarne i fondamenti, non rinunciando alla progettualità onto-assiologica e alla verità e tracciando la via per una metafisica umanistica.

Metafisica umanistica compendio bravo
Salvatore Bravo
La ricerca di Luca Grecchi non solo rende palese l’assenza della metafisica nella filosofia di oggi,
ma tenta di rielaborarne i fondamenti, non rinunciando alla progettualità onto-assiologica
e alla verità e tracciando la via per una metafisica umanistica

Luca Grecchi, Compendio di metafisica umanistica.

ISBN 978-88-7588-201-3, 2017

indicepresentazioneautoresintesi

Necessità della metafisica
La necessità della rifondazione della metafisica è un’urgenza non procrastinabile. Il tramonto dell’Occidente coincide con la fine della metafisica.
Ma la metafisica è progettualità onto-assiologica. Una civiltà senza metafisica rinuncia ad ogni progettualità e rinuncia specialmente alla verità. Si configura una civiltà strutturalmente violenta: l’essere umano è solo nuda vita disponibile per il mercato, il quale ha come obiettivo il solo guadagno. L’economicismo diviene l’architrave della violenza che capillarmente si infiltra e si espande con l’effetto di produrre la barbarie tecno-crematistica. Nessuno spazio è lasciato alla libertà processuale umana, nessuna riflessione sui fondamenti ontologici ed etici.
L’abbandono della metafisica implica l’incapacità nel giudicare l’assetto sociale attuale. L’ostilità è specialmente di tipo ideologico, poiché l’essere umano – spogliato della sua capacità significante e metafisica – non è che vita offerta al mercato. Si è, in tal modo, servitori fedeli delle catene che obbligano ad una vita che nega il suo fondamento metafisico. La caverna oscura – con la sua buia ignoranza – è la normalità dell’Occidente senza metafisica.
L’infelicità ed il vuoto assiologico divengono acceleratori del consumo che spingono i popoli verso le passioni tristi. La “solitudine del cittadino globale” dinanzi al mercato è solitudine metafisica:

«Il mercato infatti, da solo, non è per sua natura in grado di mettere in contatto il bisogno insoddisfatto di beni/servizi di milioni di poveri, ed il bisogno insoddisfatto di lavoro, ossia di partecipazione sociale, di milioni di disoccupati. I primi, senza denaro, non possono produrre una domanda di mercato; i secondi, senza quella domanda, non possono produrre una offerta sul mercato del lavoro. Il mercato ragiona solo sul denaro e sul profitto, non sui bisogni e sulla felicità delle persone, che non riesce strutturalmente, ossia per essenza (è il fine che determina l’essenza: ed il suo fine è altro), a realizzare. Per evitare quindi che bisogni sociali importanti (cibo, medicine, ecc.) rimangano insoddisfatti, mentre – con forte stridore – milioni di persone rimangono disoccupate (o impegnate in attività futili, quando non dannose), occorre necessariamente affidarsi a modalità sociali pubbliche e comunitarie, statuali o meglio ancora sovrastatuali, che coordinino quanto è necessario produrre e come produrlo».[1]

 

La metafisica come ricerca
Luca Grecchi nel suo lavoro-ricerca di tipo filosofico ha non solo reso palese l’assenza della metafisica nella filosofia di oggi, ma specialmente ne sta rielaborando i fondamenti. La metafisica umanistica di Grecchi riconosce l’anima-razionalità umana quale fondamento onto-assiologico della natura umana. Il riconoscimento della razionalità, quale fondamento metafisico, non implica l’esclusione dall’orizzonte metafisico della trascendenza divina, ma constata che “attualmente” non abbiamo elementi che possano suffragare il fondamento divino, e che all’interno della storia metafisica tale principio primo è rimasto indimostrato.

Non si tratta né di ateismo, né di agnosticismo, ma di una postura aperta al possibile e sempre disponibile a riformulare e ridefinire il fondamento metafisico. Dove vige il dialogo filosofico i problemi non sono mai risolti in modo imperituro, ma sempre possono essere riconfigurati. L’assoluto, pertanto – nella condizione attuale –, non può che essere il logos, il quale non solo mette ordine al caos delle pulsioni, ma definisce i bisogni autentici della natura umana. Quest’ultima per natura è razionale, ovvero ha le potenzialità per calcolare le necessità autentiche dai bisogni indotti, per cui il fondamento giudica i valori, e li definisce; in tal mondo la metafisica si ricongiunge all’asse assiologico:

«Faccio qui riferimento in parte a quanto detto in precedenza circa la distinzione fra Principio e fondamento. Il Principio è quell’insieme di cause materiali, formali, finali ed efficienti, che hanno reso possibile l’essere ed il divenire del tutto. L’Uomo è il fondamento della comprensione di questo essere e divenire, l’unico ente dotato di capacità trascendentale, e pertanto il solo ente in grado di attribuire senso e valore alla realtà: in questo senso, sul piano onto-assiologico, può considerarsi l’Assoluto. Occorre però comprendere bene il significato della proposizione “L’Uomo è, sul piano onto-assiologico, l’Assoluto”, che è la prima proposizione inerente il Fondamento che mi propongo di analizzare».[2]

La realtà storica in cui si esplica la natura, si può modificare, ma non si può annichilire. La natura umana non è infinitamente modificabile, come vorrebbero gli assertori del totalitarismo del capitale. Non a caso il malessere generalizzato indotto dall’attuale sistema, induce verso desideri illimitati e dunque irrazionali non rispondenti alla natura umana:

 

«La realtà naturale, infatti, si può comprendere e – almeno entro certi limiti – modificare, ma non giudicare; la realtà sociale, invece, si può comprendere, modificare – sempre entro certi limiti, e prendendo come riferimento la natura umana –, ma soprattutto si può (e, direi, si deve) valutare. In questo senso più specifico l’Uomo è il fondamento onto-assiologico della verità dell’essere: nel senso che costituisce il solo riferimento valutativo del senso e del valore della realtà, del vero e del falso, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto».[3]


Luca Grecchi, L’umanesimo di Omero

ISBN 978-88-7588-061-3, 2012, pp. 240

indicepresentazioneautoresintesiinvito alla lettura

Tra ciclopi e lotofagi [4]
Il fondamento metafisico necessita del passaggio dalla potenza all’atto, pertanto tale passaggio dev’essere favorito dall’educazione, in primis, e dalla comunità. In tal modo la metafisica di Aristotele vive in feconda tensione con Platone: l’atto e la potenza è il binomio dinamico che pone le condizioni, affinché il soggetto possa giungere al bene, e dunque alla consapevolezza della natura veritativa. Non a caso Platone pone il bene all’apice della gerarchia delle idee: il bene è razionalità, calcolo e misura. Senza fondamento metafisico, non vi è “bene” né individuale né collettivo; al suo posto si afferma la società dei ciclopi e dei lotofagi, già descritta da Omero, creature che regrediscono a pura ferinità, dominate da appetiti senza misura e senza etica. I ciclopi ci ammoniscono sui pericoli di una civiltà senza metafisica e senza bene. Regnano, senza metafisica e senza bene, il caos e la violenza generalizzata. L’anomia, l’assenza di leggi etiche condivise, comporta il pericolo per tutti, e la condanna a vivere senza identità e senza coscienza di sé, per cui ciascuno è nessuno, ed il niente minaccia la vita di ognuno:

«Il primo incontro “violento” del viaggio di Odisseo, dopo aver lasciato il territorio dei Lotofagi (solo apparentemente però innocui, come mostreremo poco oltre), fu quello coi Ciclopi; si tratta, come noto, di figure mitiche di giganti con un solo occhio, residenti sulle pendici dell’Etna, i quali, “prepotenti e senza leggi, fidando negli dèi immortali, non piantano alberi con le loro mani, né arano la terra” (Odissea, IV, vv. 105-108). La prima caratteristica dei Ciclopi è dunque quella di non essere una comunità, né economica, né sociale, né politica; essi non praticano l’agricoltura, come invece fanno i popoli civili, ma, soprattutto, “non hanno assemblee per deliberare, né leggi, ma abitano la sommità di alti monti, in profonde spelonche; ciascuno comanda ai figli ed alla moglie, e non si curano gli uni degli altri” (Odissea, IX, vv. 112-115). La a-nomia, ossia la assenza di leggi dei Ciclopi, li rese nel tempo simpatici ai Cinici (soprattutto ad Antistene), ma non ad Odisseo che, recatosi nella loro isola in cerca di cibo, scoprì che essi erano “prepotenti e selvaggi, senza giustizia” (Odissea, IX, 174-176), antropofagi e miranti esclusivamente al loro materiale benessere».[5]

Lotofagi e ciclopi sono metafore della negazione della natura umana, la quale è razionalità etica che – per essere tale – necessita di memoria della propria storia personale e collettiva, perché la memoria e l’esperienza permettono di perfezionare la natura umana, la cui realizzazione è sempre in itinere. I lotofagi descritti anch’essi da Omero sono il simbolo della miseria dell’abbondanza: la soddisfazione degli appetiti senza misura ha l’effetto di causare la dimenticanza di sé e dei propri doveri morali.

«Le metafore qui utilizzate – ovvero quella più “contemporanea” della droga, o quella più “omerica” della morte – sono solo due possibili interpretazioni simboliche di questo mito; ve ne possono però essere diverse altre, poiché molti sono i modi con cui ci si può allontanare “volontariamente” (a causa, in realtà, della seduzione e della propria fragilità) dalla propria umanità, specie in un mondo come l’attuale che produce appunto, al contempo, seduzioni e fragilità. Pensiamo a come spesso i consumi mercificati siano simili alle droghe; pensiamo alla dipendenza dal gioco d’azzardo, o anche dai viaggi-vacanze, solo all’interno dei quali molte persone hanno l’impressione di “essere felici”: si tratta, in realtà, di forme compensative di un disagio interiore, che contribuiscono però ad acuire questo disagio e non a risolverlo, in quanto la sola soluzione di questo disagio si trova in un giusto e sensato rapporto con se stessi e con la comunità sociale. L’uomo è infatti un ente sociale che ricerca un senso per la propria vita, dato che è consapevole della propria morte; la vita apparentemente tranquilla metaforizzata dai Lotofagi può accontentare degli animali, ma non certo degli uomini. Per gli uomini, omerici e non, queste forme seduttive costituiscono soltanto delle modalità, in apparenza non violente, con cui però ci si allontana dalla propria vera umanità».[6]


Luca Grecchi, Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi più) filosofia.

ISBN 978-88-7588-116-0, 2013, pp. 48.
In copertina: Pieter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechi, tempera su tela, 1568. Museo di Capodimonte, Napoli.

indicepresentazioneautoresintesi

Filosofia e metafisica
La filosofia nell’attuale contesto sociale non è solo di ausilio, ma imprescindibile per rispondere alla tragedia etica in atto. L’educazione filosofica coniugata con la storia risponde ai bisogni umani. Il ridimensionamento della filosofia classica, la quale ha per oggetto la verità, è la spia evidente della penetrazione del nichilismo mercantile nelle aule universitarie e scolastiche asservite ai bisogni del solo mercato:

«Nell’attuale disastro della società e della scuola, solo la filosofia intesa in senso classico può fornire ai giovani quella necessaria educazione importante per essere insieme, a pieno titolo, uomini e cittadini, non semplici produttori o consumatori. Solo una educazione filosofica in senso classico, che deve essere al contempo storica – come dimostrano le opere di Platone, Aristotele, Hegel e Marx, e come dimostra per converso la pressoché totale decontestualizzazione storico-sociale della filosofia accademica contemporanea, specie anglosassone –, può infatti educare alla cura delle potenzialità onto-assiologiche presenti nella natura umana».[7]

La parcellizzazione dei saperi risponde ai bisogni specialistici del mercato e non dell’essere umano. La specializzazione dei saperi è utile ai bisogni immediati, ma non consente di fondare la progettualità comunitaria a misura di natura umana:

«Le facoltà di filosofia oggi, per come sono strutturate, impediscono la comprensione e la valutazione dell’intero. Di metafisica, ossia del sapere rivolto all’intero, si parla certamente ancora, ed anzi esso è un sapere addirittura “di moda”, dato che se ne occupano la filosofia analitica, la logica formale, la teologia, ecc. Tuttavia, tale metafisica di cui oggi l’università si occupa, concerne appunto temi “analitici”, o “formali”, o “trascendenti”, non certo contenuti onto-assiologici, ossia di senso e di valore, come invece era nella metafisica di Platone e di Aristotele».[8]

La prova più concreta della necessità della metafisica, è il silenzio che è calato su di essa negli ultimi decenni. Tale silenzio dimostra la pervasività del sistema capitale, il quale pur di inibire ogni discorso razionale sulla totalità ha asservito il mondo accademico divenuto complice della conservazione in atto:

«Le facoltà di filosofia, oggi, impediscono nella sostanza la critica ed il dialogo costruttivo, su cui si è invece forgiata la filosofia. Non, certo, che non siano ammesse pacate ed argomentate obiezioni a risultati parziali o generali di studi specialistici. Esse sono sempre benvenute, in quanto la ricerca accademica, non producendo quasi più elaborazioni onto-assiologiche dell’intero, si giustifica principalmente su questo tipo di progressi. Tuttavia, salvo eccezioni, i docenti si rivolgono agli studenti scoraggiandoli dall’affrontare il discorso filosofico nel modo in cui facevano i classici, ossia prendendo di petto il tema della totalità ed affrontandolo in maniera autonoma».[9]

La resistenza propositiva al sistema, in tale condizione storica, non può che avvenire fuori dalle aule universitarie. La filosofia in ogni epoca ha bisogno di eroi, questa è un’epoca in cui la difesa dell’umanità non può che concretizzarsi in atti e comportamenti donativi. La Filosofia è – per sua fondazione – trasgressiva e critica rispetto ai poteri costituiti. Deve pertanto tornare ad essere tale, altrimenti, rischia di perdersi nel nichilismo dei mercanti:

«Nella sua disinteressata ricerca della Verità e del Bene, la filosofia non deve essere al servizio di niente e di nessuno. Questa disinteressata ricerca, tuttavia, è per sua essenza finalizzata alla costituzione della migliore totalità sociale, ossia delle più umane modalità di vita. Questa la sua utilità pubblica, da molti oggi – politici, scienziati, intellettuali – non riconosciuta. È questo anche il problema del “senso”, così mediaticamente irriso da una generazione accademica cinica ed indifferente in larga parte dei suoi membri più influenti. Il “senso della vita”, che i giovani studiosi di filosofia solitamente ricercano, non è la mera consolazione esistenziale che la filosofia sicuramente offre, come già molti secoli fa colse Severino Boezio».[10]

Archiloco

L’umanesimo di Grecchi non si intreccia soltantoo con la metafisica, ma anche con la storia letta attraverso il paradigma veritativo. È un’operazione finalizzata a mostrare il carattere carsico della metafisica, la quale scorre attraverso civiltà e periodi storici differenti. In tal modo si dimostra la sua universalità declinata nella polisemia espressiva della storia. Si tratta di ricongiungere i sentieri interrotti che la furia della specializzazione ha rescisso:

«Per sottolineare, ancora, la continuità dell’etica greca, occorre rimarcare che anche chi sostiene che l’etica omerica fu sostanzialmente di tipo “eroico” può verificare che questo ideale, pur diversamente declinato nei secoli, fu presente quanto meno anche in tutta l’epoca classica; fecero eccezione infatti, nell’opera letteraria greca, solo affermazioni come quella di Archiloco (fr. 6 DK), il quale si vantò di aver gettato via lo scudo in guerra – azione considerata assai poco dignitosa – per fare salva la vita. L’ideale dell’eroismo si trasformò presto nell’ideale dell’aristocrazia dell’anima, rivolto alla difesa della comunità sociale. Questo il trait d’union di Omero con Platone e l’epoca classica, ottenuto coniugando l’eroismo in chiave umanistica. Per concludere, occorre rimarcare come l’etica omerica si incentri, come già rilevato in precedenza parlando dell’umanesimo omerico, sui concetti di “limite” e di “misura” (in rapporto alla potenziale sfrenatezza degli istinti e delle passioni)».[11]

Resistere significa, dunque, interrogare la storia ed i classici per tracciare nuovi percorsi che si ricongiungono con le verità che si sono rivelate nella storia. La resistenza civile ed intellettuale deve radicarsi nella tradizione senza rifiuto del nuovo per poter riportare l’umanità dove imperano la seduzione delle merci e gli automatismi senza concetto.

Salvatore Bravo

 ***

[1] Luca Grecchi, Compendio di metafisica umanistica, Petite Plaisance, Pistoia 2017, pag. 35.
[2] Ibidem, pag. 26.
[3] Ibidem, pag. 12.
[4] Lotofagi, dal greco lōtophágos, comp. Di lōtós, ‘loto’, e della radice di phageîn ‘mangiare’.
[5] Luca Grecchi, L’umanesimo di Omero, Petite Plaisance, Pistoia 2012, pag. 151.
[6] Ibidem, pag. 163.
[7] Luca Grecchi, Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia, Petite Plaisance, Pistoia 2013, pag. 21.
[8] Ibidem, pag. 26.
[9] Ibidem, pag. 26.
[10] Ibidem, pag. 35.
[11] Luca Grecchi, L’umanesimo di Omero, op. cit., pag. 95.

Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.

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Luca Grecchi – «Natura». Ogni mancanza di conoscenza, di rispetto e di cura verso la natura si traduce in una mancanza di rispetto e di cura verso la vita tutta. L’attuale modo di produzione sociale, avente come fine unico il profitto, tratta ogni ente naturale – compreso l’uomo – come mezzo, e dunque in maniera innaturale.

Luca Grecchi – Scritti brevi su politica, scuola e società

Luca Grecchi – i suoi libri (2002-2019)

Luca Grecchi – L’UMANESIMO GRECO CLASSICO DI SPINOZA. Lo scopo della filosofia non è altro che la verità.

Luca Grecchi – «Uomo» – L’uomo è il solo ente immanente in grado di attribuire senso e valore alla realtà e di porsi in rapporto ad essa con rispetto e cura.

Luca Grecchi – Insegnare Aristotele nell’Università

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Maurizio Migliori, Luca Grecchi – Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Disunitevi in nome del capitale. Il neoliberismo ha la propria visione antropologica: i suoi fondamenti sono basati nell’empirismo di Hume, per il quale l’essere umano è abitudine.

Davide Hume 01
Salvatore Bravo
Disunitevi in nome del capitale.
Il neoliberismo ha la propria visione antropologica:
i suoi fondamenti sono basati nell’empirismo di Hume, per il quale l’essere umano è abitudine

 

«Proletari di tutto il mondo unitevi». Il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels si concludeva con l’appello all’unità, alla contraddizione dialettica per superare le ingiustizie e le sperequazioni sociali. L’unità e la consapevolezza di classe scorrono carsiche in tutte le opere di Marx: i dati economici, la critica economica, la scoperta del plusvalore e del valore di scambio sono la denuncia di Marx al “sistema capitale”. La prassi esige la denuncia teorica. Questo binomio consente la prassi, ma solo se fondata sulla fiducia, solo se l’altro con cui si condivide destino sociale e consapevolezza non è percepito come una minaccia, ma come compagno di lotta con cui condividere il sudore della passione politica. Il sudore è qui utilizzato nella sua accezione biologica e simbolica. La lotta è vicinanza, è carnalità in relazione, è la singolarità che vive in tensione con il gruppo, essa è contatto visivo, tattile e olfattivo Le idee emergono dal vissuto, dalla condivisione della carne negli spazi vissuti. Senza tale realtà e verità fenomenologica non vi è che il nulla. La dialettica è il fondamento dell’unità e della consapevolezza. L’io deve incontrarsi con il tu, senza tale relazione le idee non emergono, vi è solo timore e tremore, vi è solo la creatura isolata e depotenziata. L’esperienza Covid-19 consente un giusto e razionale sospetto, ovvero che si voglia rendere non eterni i provvedimenti di distanziamento sociale, ma si voglia abituare al distanziamento sociale. Si progetta di inoculare, in modo costante, il sospetto verso l’altro. Si sta strutturando in modo definitivo l’atomismo sociale mediante l’abitudine all’isolamento.

 

L’abitudine all’isolamento
Educato l’essere umano al distanziamento, a percepire l’altro come un pericolo potenziale, il dopo Covid-19 renderà la divisione e l’isolamento un automatismo. Alla competizione agonica del liberismo si sarà aggiunto un altro livello di isolamento più profondo: l’altro è potenzialmente mortale, è portatore non di idee o di amicizia, ma di virus aggressivi da cui è necessario difendersi ponendolo a distanza. Il neoliberismo ha la propria visione antropologica che basa i suoi fondamenti nell’empirismo di Hume, per il quale l’essere umano è abitudine, pertanto la ripetizione del gesto, in questo caso del distanziamento sociale, produce comportamenti automatici duraturi:

Qualcuno forse mi domanderà se sono veramente convinto di ciò che mi affatico tanto a dimostrare, se sono realmente uno di quegli scettici che sostengono che tutto è incerto e che il nostro giudizio non ha alcuna misura del vero e del falso in nessuna cosa. Rispondo che la domanda è del tutto superflua, e che nessuno, né io né altri, è stato mai sinceramente e costantemente di quest’opinione. Per un’assoluta e irresistibile necessità, la natura ci porta a giudicare come a respirare e a sentire; né possiamo trattenerci dal considerare certi oggetti sotto una luce più forte e piena a causa della loro abituale connessione con un’impressione presente, di quel che possiamo impedirci di pensare finché siamo svegli o di vedere i corpi circostanti quando volgiamo gli occhi attorno in pieno mezzogiorno. Chiunque si è preso la pena di confutare i cavilli di questo scetticismo totale, ha in realtà discusso senza avversari e ha cercato di sostenere con argomentazioni una facoltà che la natura ha precedentemente ben radicata nello spirito e resa inevitabile. La mia intenzione nell’esporre con tanta cura gli argomenti di tale setta fantastica, è soltanto di convincere il lettore della verità della mia dottrina: che, cioè, tutti i nostri ragionamenti intorno alle cause e agli effetti derivano dall’abitudine, e che la credenza è più propriamente un atto sensitivo che un atto cogitativo della nostra natura. Io ho provato che gli stessi princípi che ci portano a giudicare di un oggetto e a correggere poi questo nostro giudizio con la considerazione delle nostre inclinazioni e capacità, dello stato della mente quando consideriamo quel soggetto: questi stessi princípi, dico, quando sono estesi e applicati ad ogni nuovo giudizio riflesso, con la continuata diminuzione dell’evidenza primitiva, devono da ultimo ridurre questa a niente e sovvertire completamente tutte le nostre credenze e opinioni. Se la credenza [belief] fosse dunque un semplice atto del pensiero, e non un modo speciale di concepire con un aumento di forza e di vivacità, essa dovrebbe infallibilmente distruggere se stessa e riuscire in ogni caso a una totale sospensione del giudizio. Ma l’esperienza convincerà facilmente chiunque volesse farne la prova, che, per quanto possa non trovare nessun errore nei precedenti argomenti, tuttavia egli continua a credere, a pensare e ragionare come al solito; se ne può cosí tranquillamente concludere che il suo ragionamento e la sua credenza sono una certa sensazione, ossia una maniera speciale di concepire, che le semplici idee e riflessioni non possono distruggere[1].

 

Si associa l’altro ad una malattia con il risultato che la passione triste diventa il sentimento che veicola il trionfo della finanza ed il tramonto dell’occidente. L’occidente non potrà creare più nulla, ma solo produrre plusvalore e beni per il mercato. La regressione umana viene istituita per DPCM.

 

Imparare il distanziamento
L’abitudine all’isolamento palesa la verità del sistema capitale, il quale è profondamento antipolitico. La politica è il luogo della comunità in cammino, è la polis alla ricerca di configurazioni comuni. Con la fine della politica muore l’Occidente fondato sull’esperienza della città e del dialogo. Nel Fedro (227a-228e) Socrate afferma che non vuole andare in campagna, ma restare in città, perché solo in città si può imparare a diventare esseri umani con l’arte del logos e della maieutica. Con il distanziamento divenuto struttura emotiva non abbiamo nulla da imparare dagli altri, perché l’altro è veicolo di malattia, di morte, per cui i contatti vengono limitati. Non vi è settore della vita sociale che non sia coinvolta nel distanziamento, ovunque si deve imparare l’abitudine alla distanza.

– In strada il distanziamento avviene con l’uso di mascherine e distanza spaziale.
– In casa l’igiene fino all’ossessione rende la casa molto simile ad un sanatorio che accoglie potenziali malati.
– In chiesa si arriva al ridicolo, non solo i fedeli sono posizionati a debita distanza, all’ingresso ci si disinfetta, al momento di distribuire l’ostia il prete si igienizza le mani, indossa i guanti e la mascherina e passa tra i banche a distribuire l’ostia in mano ai fedeli. Il corpo di Cristo simbolo e sostanza (per i credenti) di unità, è negato nella sua verità.
– Lo smart working isola i lavoratori e specialmente il lavoratore paga i costi della gestione del mezzo di lavoro e dell’ambiente in cui avviene l’uso dal proprio reddito. I contatti con i colleghi sono sostituiti dalla digitalizzazione che verte solo su pratiche lavorative.

– A scuola si ipotizza l’isolamento mediante plexiglass: a scuola si impara la condivisione come in famiglia, per cui l’attacco è palese.

– Si progetta anche la didattica ibrida, come nuova frontiera innovativa della scuola, la DaD diviene organica alla scuola.

– Nei luoghi di lavoro non ci si tocca, non ci si saluta che con un’ incomprensibile emissione di suono a causa della mascherina.

 

Tacere e non ascoltare
La mascherina isola, rende la voce e le comunicazioni incomprensibili, per cui si impara a tacere e a non ascoltare, in alternativa si usano le tecnologie dalle quali si astraggono informazioni per la sorveglianza globale che opera attraverso il controllo concreto dei singoli. L’isolamento vocale, la disabitudine ad esprimersi è, forse, l’elemento più inquietante, che in pochi hanno rilevato. La mascherina è diventata da ausilio sanitario una nuova museruola sociale per colpire il logos e ridurre l’essere umano a pura funzione biologica.
Il dopo Covid-19 dovrà affrontare tali problematiche nel silenzio di partiti e sindacati, mentre in televisione scorrono immagini che educano all’isolamento sociale esaltandone gli effetti benefici. Nessun piano di recupero della socialità è previsto, e ciò dovrebbe indurci collettivamente a riflettere sull’uso strumentale del Covid-19. Un ultimo dubbio, mentre si esalta l’economia green ed i suoi effetti, nessuno ci spiega come verranno smaltite mascherine e plastica annessa. Le industrie della plastica fanno affari e lavorano per un mondo fatto solo di plastica.

Salvatore Bravo

[1] David Hume, Trattato sulla natura umana, Libro primo, Parte quarta, Sez. prima (Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 888-889).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Insistere su certi scrittori e nutrirsi di loro, per ricavarne un profitto spirituale duraturo. Chi è dappertutto, non è da nessuna parte. Quando uno passa la vita a vagabondare, avrà molte relazioni ospitali, ma nessun amico.

Lucio Anneo Seneca 007

«Da quanto mi scrivi e da quanto sento, nutro per te buone speranze: non corri qua e là, e non ti agiti in continui spostamenti. Questa agitazione indica un’infermità interiore: per me, invece, primo segno di un animo equilibrato è la capacità di starsene tranquilli in un posto e in compagnia di se stessi. Bada poi che il fatto di leggere una massa di autori e di libri di ogni genere non sia un po’ segno di incostanza e di volubilità. Devi insistere su certi scrittori e nutrirti di loro, se vuoi ricavare un profitto spirituale duraturo. Chi è dappertutto, non è da nessuna parte. Quando uno passa la vita a vagabondare, avrà molte relazioni ospitali, ma nessun amico».

Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, I, 2, 1-2.


Seneca – De brevitate vitae. Non è breve la vita, ma tale la rendiamo
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) – Da quando il denaro ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito. Gli uomini consacrano il denaro come espressione massima delle cose umane.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Quale è la natura specifica dell’uomo? La ragione, che quando è retta e perfetta dà all’uomo la pienezza della felicità. Una tale ragione perfetta prende il nome di virtù, e altro non è che la coerenza morale.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – La filosofia non è un’arte di cui si possa fare ostentazione: essa non consiste nelle parole, ma nelle azioni. La filosofia forma e foggia l’animo, regola la vita, governa le azioni, insegna ciò che si deve fare e ciò che si deve evitare, sta al timone e dirige il corso delle navi.
A. Seneca (4 a.C. – 65) – La filosofia si divide in sapere e disposizione d’animo. chi ha imparato e compreso che cosa si deve fare e che cosa si deve evitare non è ancora saggio, se il suo animo non si è trasformato in base a quanto ha appreso
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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