Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.

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RIPENSARE LA SCUOLA

di Fernanda Mazzoli

 

Oggi, la questione prioritaria da affrontare, se ci si vuole efficacemente opporre alla deriva economicistica e mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.

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Da anni l’istruzione è al centro di un’ambiziosa campagna ideologica di segno neoliberista che ha investito significativamente organizzazione, contenuti disciplinari, modalità didattiche e finalità educative del sistema scolastico, fino alla messa in discussione dell’idea stessa di scuola, come è venuta storicamente configurandosi. L’opinione comune secondo la quale la scuola, nel nostro Paese, sarebbe la Cenerentola dell’agenda politica e delle priorità sociali è infondata: perlomeno da un ventennio essa è oggetto di pesanti attenzioni da parte dei diversi governi succedutisi, dei burocrati del MIUR, degli specialisti in Scienze dell’educazione dei Dipartimenti accademici, dei centri studi di fondazioni imprenditoriali e bancarie, delle Commissioni per la cultura europee. Tutti questi attori – politici, economici, culturali – hanno ben chiaro il carattere strategico dell’istituzione e hanno agito di conseguenza, secondo una linea di sostanziale continuità e complementarità. Azienda tra le aziende del territorio nella società di mercato, specializzata nell’erogazione di un bene formativo, alla scuola spetterebbe ormai il compito di promuovere, sin dal primo ciclo, l’educazione all’auto-imprenditorialità di uno studente dotato di quei requisiti di adattabilità, flessibilità, competitività ed efficienza operativa richiesti dalle imprese e di quelle competenze tecnologiche indispensabili alla riproduzione del sistema. La scuola è chiamata a divenire laboratorio pedagogico di un modello distopico di società ruotante intorno alla “cultura d’impresa”, fondata sul primato dell’economia e sulla sua pretesa di colonizzare ogni ambito della vita, rimodellando le condotte individuali e le politiche sociali secondo i principi dell’interesse individuale e della competizione.

Ripensare la forma scuola

Ripensare la forma scuola

Ben venga, dunque, una ricerca come quella promossa dall’IRRE Lombardia (Istituto Regionale di Ricerca Educativa) che ha visto un gruppo di docenti universitari e della Secondaria interrogarsi sui fondamenti teorici e i fini sociali di una cultura autenticamente riformatrice nella scuola, nella comune convinzione che scuola ed educazione, invece di assecondare l’attuale stato delle cose, abbiano un carattere fortemente utopico. Il testo che è nato da questo lavoro a più mani, coordinato da Eros Barone, Ripensare la forma-scuola. Analisi e proposte,[1] a più di dieci anni dalla pubblicazione ha il duplice merito di offrire un’analisi pertinente – e dall’interno – di una serie di processi che hanno trovato, poi, piena legittimazione istituzionale nella buona scuola e nella legge 107 e di proporre una nutrita e rigorosa riflessione teoretica, mai disgiunta dall’attenzione puntuale per i percorsi didattici, sui fondamenti del pensare e fare scuola. I nodi – teorici ed etici – affrontati sono ad oggi irrisolti, quando non ignorati o sottoposti a quella torsione biecamente economicistica che sta riplasmando il sistema scolastico.

I diversi saggi che compongono il libro, pur nella diversità degli approcci e dei temi, condividono lo stesso angolo visuale e lo stesso assunto di fondo che l’imperversare degli specialismi da un lato e l’appiattimento su un sapere mercificato, pronto all’uso dall’altro tendono pericolosamente a rimuovere: una più vasta prospettiva culturale e storica, la sola in grado di favorire l’insorgere di quella ragione critica che la scuola dovrebbe coltivare nello studente, a fondamento della sua crescita di uomo e di cittadino, dimensioni, peraltro, strettamente connesse, anzi necessarie l’una all’altra per la compiuta realizzazione di entrambe. Questa prospettiva non può che richiamare la specificità del ruolo dell’insegnante che si fonda sul sapere disciplinare e sulla sua capacità di inscrivere questo in una totalità, intesa come “concreto orizzonte storico”, all’interno della quale stabilire relazioni con il complesso dei saperi di un’epoca, per costruire una visione organica in cui il singolo punto di vista disciplinare si rapporti all’insieme delle discipline proposte dal curricolo, in modo da conferire a quest’ultimo un carattere autenticamente unitario.[2] L’esperienza degli ultimi anni è costretta a registare come, spesso, l’invocata interdisciplinarità sia il nome nobile dietro cui si nascondono chiacchiere vacue o, nella migliore delle ipotesi, una giustapposizione di argomenti presi in prestito da diverse materie, al di fuori di un percorso coerente, organico e fondato su rigorosi presupposti concettuali. Solo se rapportato al concetto di “totalità”, un approccio interdisciplinare può costituire un valido antidoto a quella frammentazione del sapere che è una delle più significative cifre culturali della nostra epoca. Tutto il volume è percorso da un’appassionata rivendicazione della centralità della ricerca intellettuale, a partire da una sistematica riflessione sui presupposti teorici della propria disciplina, da parte del docente e dal rifiuto della banalizzazione dell’insegnamento a semplice trasmissione di saperi o del suo svilimento in una dimensione burocratica e /o di intrattenimento (spesso le due si rivelano complementari, per quanto apparentemente contraddittorie).

Premesso che la situazione creatasi negli ultimi anni – grazie da un lato agli interventi ministeriali in favore di «una scuola leggera» e dall’altro al proliferare nei singoli Istituti di ogni genere di progetti che tendono a trasformare le scuole in «supermercati formativi» – è tale da invitare a non trascurare nemmeno la questione della salvaguardia della stessa trasmissione dei contenuti, resta che la connotazione del lavoro docente incardinata sulla ricerca intellettuale e l’approfondimento culturale definisce, oggi, la questione prioritaria da affrontare, se ci si vuole efficacemente opporre alla deriva economicistica e mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.

Docente-ricercatore, dunque, impegnato in un duplice movimento: indagare i fondamenti epistemologici e la costruzione storica della propria disciplina posta in relazione con la totalità del sapere e riflettere sulle proprie pratiche «con quadri concettuali che innescano un movimento abduttivo continuo di teorizzazione».[3]Gli insegnanti sono, infatti, ricercatori di tipo particolare che, se vogliono davvero insegnare, – vale a dire imprimere un segno – devono trovare forme, strumenti e vie per farsi «mediatori critici di cultura verso le nuove generazioni»[4] e lavorare intorno a quella «costruzione attiva di significati» che rende possibile il passaggio dal consumo di conoscenze alla loro produzione.[5] Chi scrive preferisce fare riferimento ad un’incessante rielaborazione delle conoscenze, piuttosto che alla loro produzione, ma condivide con gli autori del volume l’attenzione – che deve nutrirsi di riflessione teorica e di responsabilità pedagogica – verso il momento del passaggio e della mediazione, in quanto nesso cruciale e peculiare di quel travagliato – perché non lineare – rapporto tra materia, insegnante e studente. Non solo: di mediazione c’è particolare necessità in questi nostri tempi, se non si vogliono consegnare i giovani al moderno Minotauro, tanto insaziabile quanto accattivante, della società dei consumi e dello spettacolo. In questa lotta, sicuramente impari, ma il cui esito non possiamo dare per scontato, gli insegnanti hanno la possibilità di giocare un ruolo autonomo e non subordinato, a condizione di mantenersi fedeli all’elemento su cui si fonda la loro identità professionale: la competenza disciplinare.

Contro una visione pericolosamente distorta, ma sempre più diffusa – a livello di senso comune, ma corroborata anche da interventi legislativi e spesso condivisa dagli stessi interessati – che vede nei docenti delle figure multifunzionali pronte a ricoprire i ruoli più disparati per ovviare alle vistose falle educative aperte dalla disgregazione del tessuto sociale e familiare, Piero Romei individua con geometrica precisione tutta la portata del problema. Se rinunciano a fondare la propria «identità professionale ed istituzionale» sulle discipline di studio, i docenti si condannano all’irrilevanza: «su tutto il resto gli insegnanti della scuola entrano in competizione con chiunque, ed è una competizione spesso perdente, perché su tutto il resto non è affatto raro trovare altri che sono più bravi degli insegnanti». Un’ identità che non appoggia una volta per tutte «sulla banalità della ripetizione di una materia ossificata»,[6] ma chiede di essere alimentata da una costante investigazione intellettuale, resa indispensabile dall’attuale «condizione generalizzata di complessità degli oggetti di studio dei saperi stessi»,[7] la quale sollecita la cooperazione e il coordinamento di molti punti di vista in origine eterogenei. La medesima attenzione verso «la necessaria complementarità e l’integrazione tra una pluralità di discipline», capaci di incrociare anche «i possibili campi di esperienza», secondo una logica di «valorizzazione dei mondi vitali quotidiani» anima l’intervento di Francesco Villa.[8] Per individuare i bisogni educativi delle nuove generazioni, Mauro Ceruti opera una ricognizione dei processi che hanno investito negli ultimi decenni l’umanità : l’accelerazione, la globalizzazione e la non linearità. Uno scenario in cui si stempera la rigidità dei confini disciplinari e che impone all’individuo «mappe cognitive ampie e flessibili». La scuola rischia, invece, di «produrre idee e mappe di saperi essenzialmente statiche» che potrebbero essere smentite da successive esperienze formative, al punto da determinare, sul piano conoscitivo, una frattura tra esperienze professionali specialistiche di tipo avanzato e mappe globali fornite dalla scuola. Dunque, essa deve impegnarsi a «delineare processi educativi capaci di produrre mappe cognitive di tipo evolutivo, che incarnino un’idea di sapere aperta alla discontinuità, alla sorpresa, all’incertezza, alle sfide della scoperta e dell’innovazione».[9] La questione è delle più delicate: è proprio a partire da un rilievo di questo tipo, privo tuttavia di strumenti concettuali anche lontanamente comparabili a quelli che hanno ispirato il lavoro di Ceruti, che la buona scuola ha proclamato l’inadeguatezza del sistema scolastico italiano e ha proceduto all’attacco frontale a contenuti e programmi, soprattutto se dotati di spessore culturale e teorico, in nome di una rivisitazione ancora più radicale della Scuola delle tre I (Inglese – non quello dei grandi autori, naturalmente; Informatica – fino alla teorizzazione del pensiero computazionale come metadisciplina; Impresa – nume tutelare supremo di ogni percorso formativo). La proposta di Ceruti va in altra direzione ed poggia su altre premesse che individuano nella progettazione dei percorsi scolastici una serie di «coppie concettuali» realizzate sinora in «forma dicotomica ed esclusiva». La scommessa diventa, allora, quella di una loro «riformulazione in termini complementari» che consenta di «generare mappe in grado di produrre significati globali con il procedere delle esperienze individuali». Particolarmente interessante, per il suo carattere di principio ordinativo generale, la prima dicotomia/complementarità individuata, quella tra storia e scienza, non certo creata dalla scuola, ma che la scuola ha assunto da una più generale impostazione culturale occidentale.[10] Tuttavia, oggi si impone fortemente l’esigenza di approfondire radici storiche e condizioni culturali delle diverse teorie scientifiche e degli stessi oggetti indagati dalla scienza. Questo «circolo di fondo» tra storia e scienze fornisce alla scuola «un potente linguaggio integratore per i suoi saperi», divisi sia dalla grande dicotomia in questione, sia dalla progressiva parcellizzazione all’interno stesso dei due ambiti. Si tratta, come è evidente, di un’operazione di più vasto respiro culturale che, nella sua declinazione didattica, si prefigge di «immettere i percorsi in un quadro integrato, di fornire agli studenti la comprensione di come questi percorsi sono venuti in essere e a loro volta si trasformano e interagiscono con altri percorsi» la cui autonomia va comunque salvaguardata.[11] Ipotesi ricca di implicazioni epistemiche e di proficue possibilità di ristrutturazione dei curricoli che si incontra con l’invito formulato da Lucio Russo nel suo recente Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista a superare l’attuale «collezione di saperi disgiunti» in vista di una nuova sintesi culturale, la quale passa anche attraverso il doveroso superamento di un’artificiosa separazione tra ambito umanistico ed ambito scientifico che penalizza entrambi e favorisce l’insorgere di una preoccupante deriva irrazionalistica.[12]

La contestualizzazione storica delle scienze e della tecnologia e la collocazione dei risultati che esse hanno prodotto in un ambito concettuale più vasto che ne mostri la stretta relazione sia con gli altri saperi, sia con le dinamiche storiche, sociali ed economiche di un’epoca, oltre a qualificare un percorso di notevole spessore intellettuale e culturale, risponderebbe ad un’urgenza educativa, cui la scuola non dovrebbe sottrarsi. Potrebbe, infatti, fornire il quadro concettuale entro il quale coltivare nei giovani un approccio razionale e critico al digitale che sta colonizzando ogni sfera dell’esistenza, già a partire dai primissimi anni di vita, tanto che il pedagogista Alain Goussot non ha esitato a parlare di «massacro degli innocenti» a proposito dell’impatto sui giovani del «digitale selvaggio».[13] Come osserva pertinentemente Piero Romei, se Internet (e l’inglese) «non poggiano su tutta una piattaforma di saperi che li nobilitano, altro che istruzione, la scuola diventa uno strumento di addestramento, di preparazione di persone che escono fuori capaci di diventare immediatamente dei «buoni produttori».[14] Produttori «buoni» per assicurare, ai diversi livelli, la riproduzione dell’attuale sistema socio-economico capitalistico, non mi sembra superfluo aggiungere.

L’individuazione della dimensione storica come snodo fondamentale (e fondante sul piano di una possibile ridefinizione del curricolo) percorre anche il saggio di Giuseppe Molinari che richiama la nozione di «era del vuoto» proposta dal sociologo Gilles Lipotevsky per definire un’epoca – la nostra – che coniuga individualismo e massificazione e nella quale è andata maturando «la presentificazione dei tempi storici». «L’agire strategico-strumentale» si è impadronito «del mondo vitale», aprendo la via ad una serie di «patologie del sociale»: perdita di senso, anomia, insicurezza collettiva ed individuale. L’odierna «democrazia di mercato» è popolata da «uomini vuoti», dimidiati in una dimensione privata e narcisistica che conosce soltanto «un’etica debole e minimale» all’insegna dell’appagamento edonistico. Uno scenario preoccupante, aperto a qualsiasi deriva, che Husserl, citato da Molinari, definiva come una stanchezza propria delle epoche di crisi, nelle quali si consuma la rinuncia «a comprendere le strutture di senso immanenti negli accadimenti temporali». Una condizione che pone con urgenza il problema dell’educazione alla cittadinanza, definita dall’autore del saggio come formazione di «un cittadino responsabile titolare di diritti e di doveri, capace di pensare e di agire, di rappresentazione critica ed intervento progettuale, capace, quindi, di agire politicamente in costante comunicazione dialogica, intersoggettiva ed istituzionale».[15] Nel solco di quell’esigenza di un percorso formativo unitario che ispira tutto il volume, Molinari riprende una riflessione dello storico Giuseppe Ricuperati, auspicante la trasformazione dell’educazione civica in un’educazione civile che deve coinvolgere tutte le discipline e non solo, come da tradizione, diritto e storia. Un auspicio la cui mancata realizzazione è inversamente proporzionale al proliferare nelle scuole di ogni ordine e grado di «progetti» di educazione alla cittadinanza a cura di esperti a vario titolo che si sovrappongono artificiosamente alle lezioni e che sembrano, anzi, sancire la separazione tra formazione disciplinare ed educazione civica, con conseguente scarso impatto educativo. L’educazione civile, per non essere flatus vocis, non può che maturare sul terreno stesso dei contenuti disciplinari e della loro dimensione valoriale. Non solo: va sottolineato che, oggi, «l’educazione alla cittadinanza» proposta nelle scuole attraverso una mole crescente di progetti si risolve, nella gran parte dei casi, in «educazione all’adattamento» ai modelli sociali e culturali dominanti. Non a caso, Molinari fa riferimento alla vasta letteratura che, recentemente, ha cercato di problematizzare il tema della cittadinanza democratica. Coglie appieno la complessità della questione Francesco Germinario nel suo bel saggio sulla falsa utopia della fine della storia quando osserva che, venuto a meno l’impegno politico che aveva caratterizzato la stagione dei movimenti, contribuendo alla formazione di una coscienza civile, la scuola si è trovata investita di una funzione di supplenza per la quale non era preparata.[16]

È, questo, un esempio particolarmente significativo di quella sfida che la contemporaneità pone alla scuola e all’educazione e che rende necessario – come osserva Eros Barone nelle pagine introduttive – «per un verso, fare i conti con il carattere epocale della forma-scuola e, per un altro verso, impegnarsi nel ricercare, nel formulare e nel proporre ai giovani progetti e percorsi che siano dotati di senso e di valore, che non siano poveri e minimalistici ma densi e ricchi di spessore culturale e, perciò, atti a promuovere la loro formazione personale».[17]

Passione intellettuale e responsabilità etica come presupposti irrinunciabili della professione dell’insegnante e condizioni per elaborare quell’orizzonte unitario di valori cognitivi, in assenza del quale non si ha che trasmissione di saperi irrelati, incapace di svolgere un’autentica funzione educativa, resa tanto più necessaria ed urgente dall’imporsi di modelli culturali ed esistenziali che fanno della leggerezza, della frammentarietà , della «presentificazione» la loro cifra: questo è il quadro generale entro il quale si muove, con profondità di analisi, rigore argomentativo e ricchezza documentaria, la ricerca dell’IRRE Lombardia, uscita tredici anni fa. Nel frattempo, la scuola è andata in direzione opposta e questo è un motivo in più per riprendere, sviluppare, ma anche discutere elaborazioni teoriche e indicazioni didattiche proposte, per ripensare la forma-scuola come spazio di rottura rispetto alla società di mercato. In questa prospettiva, alcuni interventi mantengono una certa ambiguità, sospesi fra la consapevolezza che la scuola non può semplicemente rincorrere un mondo in rapida evoluzione ed una sostanziale accettazione delle sue tendenze di fondo, ciò che rischia di avvalorare, sul piano educativo, il profilo di «un cittadino che sa muoversi nel mondo, magari essendo lui una forza trainante e non soltanto un oggetto trainato».[18]A giudizio di chi scrive, l’educazione al pensiero critico dovrebbe, invece, fornire agli studenti strumenti culturali e sensibilità etica per mettere in discussione i fini sociali generali e non solo una “cassetta per gli attrezzi” utile per garantire una riuscita individuale. Anche la diffidenza per la lezione frontale[19] mi sembra ingenerosa: essa, da un lato è educazione all’ascolto e alla concentrazione in controtendenza rispetto alla dispersione e fluidità della rete e, dall’altro, contiene in sé, più di ogni altro approccio, la potenzialità di trasformarsi in autentico dialogo.

Le perplessità maggiori riguardano, tuttavia, il giudizio sostanzialmente positivo, malgrado qualche rilievo critico, attribuito alla riforma dell’autonomia scolastica varata da Berlinguer. Non è questa la sede per una sua accurata disamina, ma non è superfluo ricordare che essa suscitò, sin dal suo apparire, un vivace dibattito – culturale e politico – che vide molti docenti, dalla primaria all’Università, sindacalisti ed intellettuali impegnati a denunciare l’accelerazione dei processi di aziendalizzazione e mercificazione dell’istruzione avviata dalla riforma Berlinguer[20] e culminata nella buona scuola. Non convince nemmeno il richiamo alle politiche scolastiche europee da parte di alcuni fra gli autori di Ripensare la scuola. Certamente, i libri bianchi della Commissione europea degli anni Novanta davano voce alla legittima preoccupazione che i sistemi scolastici non potessero reggere alla sfida degli incalzanti mutamenti sociali, economici, tecnologici e che la «società della conoscenza» finisse per escludere chi non avesse un adeguato bagaglio di conoscenze. La risposta data (a partire dalla messa in discussione del titolo di studio a favore di «una tessera personale delle competenze», fino alla conclamata «riabilitazione» dell’impresa come luogo formativo e alla necessità di ridefinirne i legami con il mondo della scuola) sembra orientare l’istruzione verso un ossequente rapporto con il mercato, piuttosto che nella direzione di uno sviluppo pieno ed armonioso della personalità umana. Né c’è da stupirsene, considerati i principi costitutivi e le politiche sociali ed economiche dell’U.E., di chiara matrice neo-liberista. Bene fa Eros Barone, nell’introduzione, ad aggiustare il tiro, ricordando che la riforma della scuola intesa come riordino dei cicli e degli ordinamenti punta ad omogeneizzare la scuola italiana con quella europea, in un tentativo di razionalizzazione che prescinde sia dalle specifiche storie dei sistemi scolastici nazionali, sia dalla peculiarità dei modelli culturali: un’operazione caratterizzata da un evidente limite di economicismo, nonché di sudditanza ad una visione tecnocratica, sostanzialmente estranea ai valori cognitivi ed etici dell’attività formativa che ha come teatro la scuola.[21] Oggi, nella scuola-azienda, appellarsi a questi valori, ridefinirli in rapporto ai bisogni educativi e cercare di renderli vivi ed operanti nel quotidiano agire didattico è condizione primaria, sia per resistere al disegno di chi vuole trasformare l’educazione in addestramento, sia per continuare a coltivare la necessaria utopia di una società non asservita al mercato.

Fernanda Mazzoli

 

Note

[1] Aa.Vv., Ripensare la forma scuola. Analisi e proposte, a cura di E. Barone, Franco Angeli, Milano 2006.

[2] G. Gavianu, La lettura del Novecento: un asse culturale qualificante per i nuovi curricoli, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., pp. 221-225.

[3] P. Zanelli, Professionalità docente, riflessività sociale e formatività, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., p. 150.

[4] G. Gavianu, La lettura del Novecento, op. cit., p. 162.

[5] P. Zanelli, Professionalità docente, op. cit., pp. 145-146.

[6] P. Romei, Organizzazione scolastica e professionalità docente, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., p. 58.

[7] M. Ceruti, Educare nel tempo della complessità, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., p. 33.

[8] F. Villa, Come organizzare la ricerca e la formazione, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., pp. 81-82.

[9] M. Ceruti, Educare nel tempo della complessità, op. cit., p. 34.

[10] Le altre sono locale e globale, cittadino e professionista, esperienza e teoria, specialista e generalista.

[11] Ivi, pp. 36-39.

[12] L. Russo (in Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori, Milano 2018) si interroga sul principio unificante intorno al quale elaborare, oggi, una cultura generale di qualità e lo individua in una rivisitazione della cultura classica. Non ci sembra questa la scelta di Cerruti, il quale è, piuttosto, interessato a decostruire quelle coppie concettuali che danno forma alla progettazione dei percorsi scolastici. Importa sottolineare, al di là delle differenze, la comune tensione verso il superamento della parcellizzazione attuale del sapere che accomuna studiosi diversi per formazione, approcci teoretici e sensibilità culturale. Per il superamento della tradizionale antinomia tra discipline umanistiche/ scientifiche, rinvio, tra gli altri, al matematico Giorgio Israel, Meccanicismo. Trionfi e miserie della visione meccanica del mondo, Zanichelli, Bologna, 2015 e, dello stesso, http://gisrael.blogspot.com/, al neurobiologo Lamberto Maffei e al suo Elogio della lentezza, Il Mulino, Bologna 2014, e al filosofo Massimo Bontempelli che indica gli studi storici come asse culturale di una scuola rinnovata in Un nuovo asse culturale per la scuola italiana, Editrice C.R.T.- Petite Plaisance, Pistoia 2001.

[13] https://comune-info.net/2016/02/la-scuola-nuova-fabbrica-di-servitu/

[14] P. Romei, Organizzazione, op. cit., p. 59.

[15] G. Molinari, Formazione alla cittadinanza democratica:aspetti teorici e modelli normativi, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., pp. 235-279.

[16] F. Germinario, Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della poststoria, Asterios, Trieste 2017, p. 40.

[17] E. Barone, Introduzione in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., p.13.

[18] P. Romei, Organizzazione scolastica e professionalità docente, op. cit., p. 59.

[19] P. Zanelli, Professionalità docente, op. cit., p. 134.

[20] Fra i tanti contributi, mi sembra di particolare interesse, per esaustività e spessore intellettuale, il volume collettaneo Metamorfosi della scuola, Koiné 1-2, Pistoia 2000.

[21] E. Barone, Introduzione a Ripensare la forma scuola. Analisi e proposte, op. cit., pp. 20-21.


Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.

Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli

Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.

Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.

Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.

Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.

Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».

Fernanda Mazzoli – Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.

Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.


Vero è ciò che è conforme al fondamento.
Bene è tutto ciò che del fondamento,
ossia dell’uomo,
si prende cura.

 

 

Per una scuola vera e buona

Per una scuola vera e buona

ISBN 978-88-7588-248-8, 2018, pp. 272,  Euro 25

indicepresentazioneautoresintesi

Locandina Koinè, Per una scuola vera e buona

Locandina Per una scuola vera e buona

Logo-Adobe-Acrobat-300x293   Locandina Koinè, Per una scuola vera e buona   Logo-Adobe-Acrobat-300x293

 

Testata KoinèLogo-Adobe-Acrobat-300x293  L’unione di conoscenza e virtù costituisce la struttura portante di ogni serio modello educativo, rivolto ad una concreta ricerca della verità  Logo-Adobe-Acrobat-300x293

Testata Koinè

La scuola per essere buona deve essere prima di tutto vera.

Il libro affronta la questione della scuola pietrificata di oggi che disconosce una questione di fondo: vero è ciò che è conforme al fondamento, bene è tutto ciò che del fondamento, cioè dell’uomo, si prende cura. Qualsiasi approccio a questo tema in chiave riduttivamente economicistica o aziendalistica non consente infatti minimamente di coglierne lo spessore reale.
Né è possibile, sulla base di una concezione dell’umanità dell’uomo come semplice prassi empirica e funzionalismo sociale, capire realmente cosa è in giuoco nella scuola. Il tema della scuola rimanda infatti al significato dell’educazione umana, del rapporto tra le generazioni, della temporalità, della cultura. L’unione di conoscenza e virtù costituisce la struttura portante di ogni serio modello educativo, rivolto ad una concreta ricerca della verità.

Contributi di:

Eros Barone, Alberto G. Biuso, Salvatore A. Bravo, Giovanni Carosotti, Lucrezia Fava, Arianna Fermani, Carmine Fiorillo, Luca Grecchi, Silvia Gullino, Rossella Latempa, Claudio Lucchini, Romano Luperini, Fernanda Mazzoli, Alessandro Pallassini, Lucio Russo, Franco Toscani, Lorenzo Varaldo.

In copertina:
Marc Chagall, L’Acrobata (The Acrobat), 1914.
Per Marc Chagal l’acrobata è utopia che cerca – da una prospettiva inusuale –
un nuovo equilibrio, su un filo teso sull’orlo di un mondo alla rovescia.


 

Carmine Fiorillo – Luca Grecchi

Dalla Nota introduttiva

Luca GrecchiRingraziamo tutti gli studiosi
che a questo numero hanno partecipato,
apportando il proprio prezioso contributo di riflessione su un tema,
quello educativo,
sempre centrale e che,
anche quando non esplicitamente affrontato,Carmine Fiorillo
rimane sempre l‘implicito riferimento
di tutte le pubblicazioni
di Petite Plaisance.

 


Fernanda Mazzoli

La centralità delle conoscenze:
una bussola per uscire dalle secche dell’aziendalismo

Fernanda Mazzoli
L’educazione ai tempi del liberismo
La deconcettualizzazione dell’insegnamento
La storia negata
Il maestro negato
Una scuola forte è possibile?
Indicazioni bibliografiche sul tema


Franco Toscani

Sul senso e sul declino della nostra scuola

Scuola e panaziendalismo
L’alienazione scolasticaFranco Toscani
Don Lorenzo Milani
e l’esperienza della “scuola di Barbiana”:
una lotta per la cultura e il linguaggio,
per l’eguaglianza e la dignità delle persone
La testimonianza della ‘Scuola di Barbiana’ e la sua eredità odierna
La scuola e la “mutazione antropologica”
Maestri e allievi. Per una etica della responsabilità
Friedrich Nietzsche e gli interrogativi sull’avvenire delle nostre scuole
La Bildung e il destino della civiltà planetaria

 

 


Lucio Russo

Per una scuola in grado di trasmettere cultura

Per una scuola
in grado di trasmettere cultura,Lucio Russo
è essenziale interrogarsi
su quale cultura
si voglia trasmettere e perché


Claudio Lucchini

La merce a scuola ovvero la scuola della merce

La merce a scuolaClaudio Lucchini
ovvero la scuola della merce:
riflessioni

sulle tendenze
antropologico-sociali
sottese alla pratica scolastica attuale


Alberto Giovanni Biuso

Per la παιδεία

Scuola e politicaAlberto Biuso
Conoscenze e competenze
Socratismo e comportamentismo
Marketing e analfabetismo
Europa e παιδεία


Salvatore A. Bravo

Il freddo, implacabile strangolamento della παιδεία

L’ecolalia pedagogica
Pedagogia senza fondamento
La didattica breve e il neolinguaggio pedagogicoSalvatore Bravo
L’homo oeconomicus
La scuola azienda
Trascendere le classi per strutturare lo sradicamento
Conclusioni


Arianna Fermani

L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano
Riflessioni sulla παιδεία in Aristotele

I. Osservazioni preliminari
Originalità e attualità della riflessione aristotelica sull’educazione
II. Primo scenario educativo: l’educazione precede l’etica
II.a L’insegnabilità della virtù: limiti e caratteristiche
II.b L’emotional training e l’educazione “delle” passioniArianna Fermani
II.c Ulteriori articolazioni del modello educativo
III. Secondo scenario educativo: l’educazione è l’etica
III.a Educazione e metodo della ricerca
IV. Riflessioni conclusive


Romano Luperini

Insegnare la letteratura oggi

Ogni educazioneRomano Luperini
presuppone

una utopia,
la esige
***
Appendice


Alessandro Pallassini

Note sugli apparati riproduttivi societari, guardando alla scuola

I. Introduzione
II. Produzione e riproduzione societaria.Alessandro Pallassini
Brevi cenni
III. Mutamenti del sistema societario
e mutamenti nell’educazione latamente intesa
IV. Scuola-lavoro: possibili omologie
V. Conclusioni (molto provvisorie)
VI. Bibliografia utilizzata


Eros Barone

La crisi dei saperi socratici: una sfida per l’‘humanitas’

I. Società di mercato e saperi socratici
III. Quale rapporto tra il vero e l’utile nel sapereEros Barone
e nella formazione?
III. I “saperi che servono” fra nichilismo antisocratico
e ideologia del ‘politicamente corretto’
IV. Il riscatto dei saperi socratici: utilità, eredità, identità
IV. Futuro dell’‘humanitas’ e ‘humanitas’ del futuro


Giovanni Carosotti

L’«ideologia» della Buona Scuola

Una didattica autoproclamatasi “innovativa”
Un apparato ideologico per formare nuovi soggetti
Una dimostrazione di dissenso:
dall’Appello per la Scuola pubblica alla sua contestazione
Una critica delle ideologie rivolta al concetto di «competenza»
La scelta impositivaGiovanni Carosotti
Una salutare critica delle ideologie
La pseudo scienza delle competenze
L’azzeramento
della pluralità storiografica ed ermeneutica delle discipline
Una scuola di sorveglianti e sovergliati, misurati e misuratori
Breve riflessione sul quantitativo


Rossella Latempa

L’ossessione valutativa

Il mito dell’oggettivitàRossella Latempa
L’imbracatura ortopedica
della valutazione scolastica
Matematizzazione dell’essere umano


Lorenzo Varaldo

La posta in gioco

 

È in gioco il sapere dell’umanitàLorenzo Varaldo
La nostra Dichiarazione di oggi
***
Dichiarazione finale della Conferenza Nazionale
del 19 maggio 2018 per l’abrogazione della legge 107


Fernanda Mazzoli

Per una seria cultura generale comune

Una proposta di Lucio RussoFernanda Mazzoli
Recensione al libro
Lucio Russo,
Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista


Lucrezia Fava

Λόγος, linguaggio, tempo

Dai seminari heideggerianiLucrezia Fava
di Le Thor
Recensione
al libro
Martin Heidegger, Seminari


Silvia Gullino

Una appassionata ricostruzione della filosofia aristotelica

Alla ricerca del luogoSilvia Gullino
in cui la sapienza teoretica si radica nell’umano
Recensione al libro
Claudia Baracchi, L’architettura dell’umano.
Aristotele e l’etica come filosofia prima



Per far memoria

del nostro impegno sul tema della scuola

Metamorfosi della scuola

Metamorfosi della scuola italiana

Anno 2000, pp. 304, Euro 20

indicepresentazioneautoresintesi

 

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Testata Koinè

Contributi di:

Fabio Acerbi – Marino Badiale – Giuseppe Bailone – Fabio Bentivoglio – Piero Bernocchi – Lucio Bontempelli – Massimo Bontempelli – Paolo De Martis – Adolfo Scotto Di Luzio – Federico Dinucci – Giampiero Giampieri – Giulio Ferroni – Emanuele Narducci – Fabrizio Polacco – Costanzo Preve – Lucio Russo – Livio Sichirollo – Roberto Signorini – Lorenzo Varaldo

Sommario

Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?, di Massimo Bontempelli
La scuola sospesa, di Giulio Ferroni
Alcune osservazioni sui contenuti dell’insegnamento, di Lucio Russo
Orwell 2000, di Fabrizio Polacco
Sulle sorti della matematica e della fisica nella scuola superiore, di Fabio Acerbi
L’insegnamento delle discipline scientifiche e la storia della scienza, di Lucio Bontempelli
30 tesi contro la Scuola-Azienda e l’Istruzione-Merce, di Piero Bernocchi
La catena dei perché. Riflessioni sulle radici del “Concorso Berlinguer”, di Costanzo Preve
Autonomia didattica e libertà di insegnamento, di Federico Dinucci
Chi non sa nulla, insegna ad insegnare, di Paolo De Martis
Che buon pro facesse (e faccia) il “Verbo”, di Giampiero Giampieri
“L’agonia della scuola italiana”: un libro controcorrente, di Fabio Bentivoglio
Una lettura critica del libro “L’agonia della scuola italiana”, di Roberto Signorini
Il libro di Antonio La Penna “Sulla scuola”, di Emanuele Narducci
L’insegnante trova le sue parole. Perché un “no” ai salari di merito, di Lorenzo Varaldo
Il libro verde della Pubblica istruzione, di Giuseppe Bailone
Il Liceo classico, di Adolfo Scotto di Luzio
Il resistibile declino dell’università. Ragioni per un titolo, di Livio Sichirollo
Il nome delle libellule. Breve riflessione sulle culture popolari, di Marino Badiale


L'agonia della scuola italiana

Massimo Bontempelli

L’agonia della scuola italiana

Anno 2000, pp. 144, € 10,00

indicepresentazioneautoresintesi

La scuola italiana nel suo insieme è oggetto, per la prima volta dopo tre quarti di secolo, di una riforma complessiva ed incisiva. Le innovazioni che vi sono introdotte, però, esaminate attentamente nei loro effetti concreti, risultano tutte profondamente negative, sia sul piano della formazione educativa dei giovani, che su quello della professionalità degli insegnanti e della trasmissione di un sapere degno di questo nome. Il carattere pubblico e nazionale del sistema dell’istruzione, e la sua capacità di promuovere lo spirito critico e l’autonomia di giudizio dei giovani, ne risultano gravemente compromessi.
Questo disastro è il prodotto di una cultura dogmatica e ideologizzata dei promotori della riforma, che li rende incapaci di pensare su un piano conoscitivamente alto, ed eticamente valido, il nesso tra scuola e società. Tale cultura è peraltro funzionale alle inconfessate esigenze totalitarie di un determinato sistema di potere.
La scuola italiana, a questo punto, potrà essere salvata soltanto dalla resistenza consapevole degli insegnanti che vogliono continuare ad essere educatori.

Il libro si articola in sette capitoli:
L’innovazione distruttiva
Il didatticismo di regime
L’autonomia aziendalistica
L’educazione negata
La stupidità rivelata
La scuola del totalitarismo neoliberista
Il destino della scuola


Buoni e cattivi maestri

Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri

Anno 2003, pp. 160, Euro 15

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Testata Koinè

Contributi di:

Guido Armellini – Andrea Bagni – Antonia Baraldi Sani – Fabio Bentivoglio – Carlo Bolelli – Massimo Bontempelli – Francesco Borciani – Marcello Cini – Vittorio Cogliati Dezza – Luca Grecchi – Corrado Maceri – Fabiano Minni – Bruno Moretto – Cesare Pianciola – Gianna Tirandola – Marcello Vigli

La scuola e il fondamento, di Luca Grecchi
Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, di Francesco Borciani
Sapere di polis, di Andrea Bagni
Il quinto postulato, di Fabio Bentivoglio
Quale scuola per quale Stato?, di Marcello Vigli
L’intelligenza del tranviere, di Guido Armellini
Partiamo dalle nuove sfide, di Vittorio Cogliati Dezza
Il cappotto del professore, di Antonia Baraldi Sani
La scuola della Repubblica tra Stato, Regioni e sussidiarietà, di Corrado Mauceri
Evoluzionismo: un ponte tra due culture, di Marcello Cini
Sul sapere critico, di Carlo Bolelli
La convergenza del centrosinistra e del centrodestra
nella distruzione della scuola italiana, di Massimo Bontempelli
Il tutto e le parti, di Guido Armellini
L’esperienza del referendum in Emilia Romagna, di Bruno Moretto
Intervista immaginaria di Ignazio Olloy al Professor E. De Candi, di Fabiano Minni
L’esperienza del referendum in Veneto, di Gianna Tirondola
Lettera aperta ai partiti della sinistra sulla scuola
Venti anni di attività, di Cesare Pianciola


Il sogno di una scuola

Maria Luisa Tornesello

Il sogno di una scuola

Lotte ed esperienze didattiche negli anni Settanta: controscuola, tempo pieno, 150 ore.

Allegato il CD-ROM per Windows con l’audiovisivo Oltre il libro di testo: parole ed esperienze di opposizione nella scuola dell’obbligo degli anni Settanta,
di Maria Luisa Tornesello e Roberto Signorini.

ISBN 978-88-7588-006-4, 2006, pp. 416, Euro 27

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Si manifesta ormai da più parti l’esigenza di considerare con metodo scientifico la storia degli anni Settanta, superando sia l’urgenza della testimonianza personale che la rimozione di un materiale impegnativo e «scomodo». Questo discorso vale in modo particolare per la scuola, in quegli anni al centro dell’attenzione con analisi, pratiche, lotte, che presto e abbastanza superficialmente sono state liquidate o «demonizzate».
In realtà la scuola, e in particolare la scuola dell’obbligo, è il punto d’incontro dei problemi che in quel momento agitano la società italiana. È un vero e proprio laboratorio di idee e progetti vissuti come rivoluzionari: partecipazione democratica, non delega, autonomia e potere dal basso.
Questo libro è una prima ricostruzione di quei fermenti, caotici ma aperti e vitali. Esso si basa su una documentazione inconsueta (prese di posizione politiche e sindacali dei «nuovi insegnanti», lavori degli studenti, materiale didattico delle scuole sperimentali e dei corsi 150 ore, documenti di programmazione didattica, produzione dell’editoria didattica alternativa), in cui è possibile cogliere il profondo cambiamento rispetto al passato, la ricchezza del dibattito e delle proposte didattiche, l’impegno civile.

 

 

 


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Eraclito (535 a.C.-475 a.C.) / Ludwig van Beethoven (1770-1872) – L’armonia che unisce Eraclito a Beethoven.

Eraclito-Beethoven

 

Eraclito, olio su tavola di Hendrick ter Brugghen, 1628

Eraclito, di Hendrick ter Brugghen, 1628

«Da elementi che discordano si ha la più bella armonia».

Eraclito, Diels-Kranz 22 B 8

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Eraclito, fr. 24, in Id., I frammenti e le testimonianze, a cura di Carlo Diano, Mondadori, Milano 1993, p. 17. Il frammento corrisponde a Diels-Kranz 22 B 8.

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Particolare del viso del ritratto di Beethoven mentre compone la Missa Solemnis, eseguito da Joseph Karl Stieler, 1820

Particolare del viso del ritratto di Beethoven mentre compone la Missa Solemnis, eseguito da Joseph Karl Stieler, 1820

«Due forze, che hanno un uguale grado di certezza e di unitarietà
e nello stesso tempo sono parimenti originarie e universali,
ossia le forze di repulsione e di attrazione».

 

Autobiografia di un genio

Autobiografia di un genio

Ludwig van Beethoven, Autobiografia di un genio. Lettere, pensieri, diari, a cura di Michele Porzio, Mondadori, Milano 1966, p. 130.


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Parmenide di Elea (544 a.C./541 a.C. – 450 a.C.) – Diciamo che c’è un giusto e diciamo che c’è un bello e poi anche diciamo che c’è un vero; e nessuna mai di queste cose vedemmo con gli occhi, ma solo con la mente.

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«Diciamo che c’è un giusto e diciamo che c’è un bello
e poi anche diciamo che c’è un vero;
e nessuna mai di queste cose vedemmo con gli occhi,
ma solo con la mente».

 

Parmenide di Elea, Diels-Kranz 28 B 4, ed. it. I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di Gabriele Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1990, voI. I, pp. 271-272.


Erma di Parmenide. Museo archeologico di di Ascea marina (antica Velia)02

Erma di Parmenide. Museo archeologico di di Ascea marina (antica Velia).


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Francesca Eustacchi – C’è oggi nella cultura occidentale un silenzio che urla: quello degli intellettuali che hanno rinunciato al loro ruolo. Si può e si deve utilizzare il sapere antico per riflettere sul mondo contemporaneo.

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Per la rinascita di un pensiero critico contemporaneo. Il contributo degli antichi

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Francesca EustacchiMaurizio Migliori, Per la rinascita di un pensiero critico contemporaneo. Il contributo degli antichi, Mimesis, 2017.

Francesca Eustacchi, dottoressa di ricerca in Philosophy and Theory of Human Sciences e cultrice della materia in Storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Macerata, autrice di saggi sui sofisti e Platone, con particolare attenzione ai problemi onto-gnoseologici, etici e politici.

Maurizio Migliori, già ordinario di Storia della filosofia antica, studioso di Platone; tra le sue molte pubblicazioni Il disordine ordinato. La filosofia dialettica di Platone, 2 vv., Brescia 2013; By the Sophists to Aristotle through Plato, E. Cattanei, A. Fermani, M. Migliori eds., Sankt Augustin 2016; Platone, Brescia 2017; La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni, Pistoia, 2019.

C’è oggi nella cultura occidentale un silenzio che urla: quello degli intellettuali che hanno rinunciato al loro ruolo. Il pensiero critico appare appiattito sui luoghi comuni e sul dibattito politico immediato. Sembra scomparsa una riflessione teorica capace di affrontare la complessità dei problemi, di compiere analisi di lungo periodo, di cogliere le potenzialità e i pericoli insiti nell’attuale situazione, in sintesi, di analizzare “razionalmente” le tante questioni da troppo tempo rinviate. Questo volume riafferma la necessità di un pensiero che voglia conoscere criticamente la realtà, mostrando la ricchezza del contributo che gli antichi greci hanno offerto. Si può e si deve utilizzare il sapere antico per riflettere sul mondo contemporaneo. Si tratta di mettere in opera quell’atteggiamento critico che è la cifra della filosofia fin dalle sue origini: essa nasce dalla meraviglia, dalla sorpresa, dalla coscienza dell’instabilità che spinge ad uscire dal recinto del noto per addentrarsi senza esitazioni nell’ignoto, recuperando il valore dell’approccio razionale.


logo filosoficamenteFilosoficamente. Newsletter della Sezione di Filosofia e Scienze Umane
Dipartimento di Studi umanistici – Università di Macerata

Francesca EUSTACCHI, Πρός τι

Il problema del relativismo nei sofisti
e le argomentazioni non metafisiche di Platone

 

«Per chi intraprende cose belle, è bello anche soffrire,
qualsiasi cosa gli tocchi».
(Platone, Fedro, 274A8-B1).

***

«Io dico che bisogna operare seriamente con ciò che è serio,
con ciò che non è serio no.
Dio è per natura degno di seria attenzione,
perché in ciò consiste ogni beatitudine,
mentre l’uomo, come abbiamo detto prima,
è una specie di giocattolo costruito da dio
e il suo valore sta proprio in questo.
Di conseguenza ogni uomo e ogni donna
devono condurre la loro vita
giocando i giochi migliori,
l’opposto di ciò che si pensa oggi».
(Platone, Leggi, 803C2-8).

***

«Vincere se stesso
è la prima e più nobile di tutte le vittorie,
essere sconfitti da se stesso
è la cosa peggiore e insieme la più dannosa».
(Platone, Leggi, 626E2-4).

 

La conclusione del mio percorso di studi magistrali con una tesi in Storia della Filosofia Antica (Interferenze anima-corpo in Platone) mi aveva lasciato un senso di incompiutezza e il desiderio di approfondire quell’approccio multifocale, che da tempo a Macerata è utilizzato come chiave di lettura dei testi platonici e aristotelici e che avevo avuto modo di verificare nel corso dei miei studi. Questa visione polivoca, tesa a rendere ragione dell’evidente complessità del reale, mi affascinava e mi provocava con varie domande. Una di queste era di fondo e mi impegnava più delle altre: come evitare il relativismo e nel contempo riconoscere la coesistenza di giudizi, di verità e di prospettive diverse, a volte anche tra loro contrastanti, sulla stessa realtà? È possibile individuare una alternativa al binomio assolutismo-relativismo?
Questo interrogativo non mi sembrava lontano dal contesto dei dialoghi platonici, perché in essi il filosofo si confronta con i sofisti, generalmente considerati gli antesignani del relativismo. Da questa costatazione è nata la proposta per la ricerca: inizialmente mi ha mosso solo l’intuizione che questo dibattito del V-IV sec. a.C. poteva costituire un terreno privilegiato di indagine. In particolare, volevo approfondire quelle movenze argomentative che Platone mette in campo a livello gnoseologico, etico e politico, in risposta e contro quelle posizioni, definibili, in modo più o meno corretto, relativistiche; la scelta era quella di tralasciare la più conosciuta contrapposizione radicale basata sulla messa in campo di verità assolute o metafisiche (da qui il “non metafisiche” del titolo).
L’intento non è stato quello di paragonare antistoricamente il dibattito antico con quello contemporaneo sul relativismo, ma quello essenzialmente storico di comprendere meglio il primo. Ciò mi ha permesso poi di evidenziare nel dibattito antico anche quelle movenze teoriche che si ripropongono in quello attuale e che risultano utili per riflettere su quest’ultimo. Ho tenuto, però, presente una radicale diversità di prospettiva: il pensiero antico non è interessato, come quello moderno, a produrre paradigmi a cui il mondo fenomenico può o non può adattarsi, ma al contrario vuole spiegare la realtà, moltiplicando e arricchendo gli schemi, in modo da adattarli ad essa.
La duplice natura, storica e teoretica, della ricerca ha reso necessario un lavoro serrato sui testi, iniziato dal primo anno: i frammenti dei sofisti richiedono molta attenzione, una capacità che ho dovuto affinare, ritornando varie volte sui testi; altrettanta cura ha richiesto il contesto di riferimento (a volte non facilmente individuabile); l’uso, decisivo, della letteratura secondaria deve essere costantemente monitorato, per non correre il rischio di essere fuorviati da abitudini e/o mode interpretative.
Sul piano teoretico, è stato utile delimitare con precisione il tema del relativismo nei suoi molteplici aspetti, gnoseologici, ma anche etici e politici, affrontando alcuni snodi significativi del dibattito contemporaneo (Searle, Rorty Davidson, Kuhn, etc.). Questa indagine, che era stata pensata come operazione di chiarezza terminologica, mi ha permesso di individuare la differenza concettuale determinante, quella tra relativismo e relazione, che costituisce una delle chiavi teoretiche dell’intera ricerca. Grazie ad essa, ho potuto cogliere sia le diverse sfumature della sofistica sia l’elemento che le accomuna: la messa in gioco di molteplici relazioni a diversi livelli. Ciò ha portato a riconsiderare l’attribuzione ai sofisti della classica etichetta di relativisti e a sostenere che la maggior parte di loro non è affatto tale. L’homo mensura protagoreo non va letto, a mio avviso, come un criterio conoscitivo, ma come un anti-criterio, che, opponendosi all’assolutismo eleatico, delinea l’orizzonte umano in cui solo è possibile fare ricerca. Analogamente l’opuscolo gorgiano, Sul non essere, spazza via per autocontraddizione gli asserti dell’eleatismo, per valorizzare il terreno fenomenico.
Certo, la debolezza delle posizioni teoriche dei primi sofisti apre la strada al relativismo come possibile sviluppo, ma non come necessaria degenerazione. Il dibattito interno alla sofistica è infatti molto articolato: non solo ci sono tesi relativiste e non, ma, addirittura, posizioni anti-relativiste, ad esempio, nei Dissoi Logoi dove mai ce le aspetteremmo.
A partire da questa ricostruzione, è stato sorprendente scoprire che Platone tratta tutti i temi messi in campo dai sofisti, in un dialogo a volte esplicito, a volte solo alluso. In questa fase, soprattutto per l’interpretazione del pensiero platonico, è stato fondamentale potermi avvalere del confronto continuo con il prof. Migliori. È emerso così l’atteggiamento polivoco di Platone, che non si contrappone – esclusivamente o soprattutto sul piano metafisico – ai sofisti, ma assume posizioni differenti: critica e confuta i sofisti relativisti e immoralisti; rielabora e/o approfondisce le tesi dei grandi sofisti, a volte senza negarle, in quanto possono risultare, in una diversa contestualizzazione, accettabili.
In questo senso, la sofistica, come fucina di elementi tra loro diversi, ha prodotto molte riflessioni originali, che un filosofo dialettico come Platone ha saputo riconoscere, valutare e mettere a frutto. Il suo approccio è risultato teoreticamente esemplare da due punti di vista:

– perché attesta che al relativismo si può rispondere non tanto con la riaffermazione di posizioni rigide e assolute, quanto piuttosto con una strategia argomentativa molteplice che discute nel merito le questioni;

– perché mostra che è possibile trarre dalla valorizzazione delle strutture relazionali, messe in campo dai sofisti, un guadagno positivo per una migliore comprensione del reale.

In sintesi, questo lavoro mi ha permesso di fare un primo passo su un terreno complesso e ricco che spero di poter continuare ad approfondire negli anni prossimi.

 Francesca Eustacchi


Per dialogare con la filosofia antica


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Vincent Van Gogh (1853-1890) – Le opinioni non possono rendere più vera la verità.

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Lettere a Theo [1872-1890]

Lettere a Theo [1872-1890]

«Le opinioni possono far cambiare alcune verità acquisite tanto quanto un gallo sulla cima di un campanile può far cambiare direzione al vento. Non è il gallo che può far sì che il vento provenga dall’est o dal nord, né le opinioni possono rendere più vera la verità».

Vincent van Gogh, Lettere a Theo [1872-1890], ed. it. a cura di Massimo Cescon, Guanda, Milano 2014, p. 25l.

 

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Vincent Van Gogh (1853-1890) – Quando c’è convenzionalismo, c’è sempre la sfiducia e la sfiducia dà sempre luogo a ogni sorta di intrighi

Vincent Van Gogh (1853-1890) – Ho un grande fuoco nell’anima … qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco, e magari vi si fermerà

Vincent Van Gogh (1853-1890) – Preferisco la malinconia che aspira e che cerca

Vincent van Gogh (1853-1890) – La maggior parte della gente trova “troppo poca bellezza”. Continua sempre a camminare e ad amare la natura.


 


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Tzvetan Todorov (1939-2017) – La memoria del male, la tentazione del bene e il bisogno di metafisica. Perché il passato resti fecondo, bisogna accettare che passi attraverso il filtro dell’astrazione.

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Memoria del male, tentazione del bene

Memoria del male, tentazione del bene

 

Salvatore A. Bravo

Todorov,
la memoria del male, la tentazione del bene e il bisogno di metafisica

Il secolo trascorso ed il presente sono secoli senza metafisica: ogni limite è stato ed è trasceso in assenza di una definizione di bene e di male. Tali paradigmi sono liquidati come cianfrusaglie del pensiero, oziosi rompicapo senza soluzione. Il problema metafisico è annichilito, espulso dalle accademie, spesso pronunciato con parole appena udibili anche dalla chiesa. Le forme di totalitarismo sono proliferate in assenza di metafisica, nella loro metamorfosi, come l’essere polivoco di Aristotele, hanno un fondamento comune non riconosciuto: l’astratto. Ogni totalitarismo ambisce alla perfezione, vuole eliminare ogni differenza, la fatica del molteplice da cui rielaborare il concetto, i totalitarismi esigono la perfezione, calano sul mondo della vita una cappa astratta a cui ci si deve adattare. La perfezione non vuole dialogo, nega ogni principio ontologico fondato sulla parola, al suo posto campeggia l’ideale della perfezione, il quale si pone oltre ogni distinzione dialettica tra bene e male, è sottratto dallo spazio e dal tempo, luoghi cognitivi dove si viene a determinare il senso del bene e del male, dove l’uno ha significato nella presenza dell’altro. La perfezione non conosce dialettica, si ripiega su se stessa, si presenta nella forma dell’ipostasi dinanzi alla quale non si può che accettare senza consenso, senza concetto. Ogni totalitarismo assimila per espellere le differenze e presentarsi con il suo radicale monismo. La perfezione è nell’uno, il bene ed il male, invece, sono nella dualità perenne, vi è il bene dove vi è dualità, senza l’io che si incontra con il tu non vi è che il nulla, solo dall’incontro razionale nella dualità il bene si eleva dai singoli verso l’universale, il male resta sul fondo, lo sguardo del bene, mentre si magnifica sull’universale dev’essere puntato sul male, poiché permette la consapevolezza della differenza.

La storia e la resistenza al male
Todorov ha posto il problema del male al centro della sua storia filosofica. La storia è manifestazione della Spirito dell’umanità, nella storia l’universale si palesa nella contingenza: esperienza in movimento la storia consente di filtrare le esperienze, di cogliere nella concretezza delle vite la resistenza o il cedimento al male. Dinanzi al male si può fuggire oppure resistere. Molti hanno resistito al male, ricordare la loro testimonianza favorisce processi di identificazione e discernimento del bene e del male. La storia assume una valenza educativa e critica non sostituibile, in essa possiamo trovare e ritrovare le ragioni per resistere nell’esempio testimoniale degli eroi silenziosi, ma anche imparare, nelle differenze contestuali e dei quadri storici, a riconoscere il male:

«Mi resta qui da riunire alcune delle lezioni che ho creduto di poter trarre e domandarmi: che cosa ci insegnano sul futuro? La memoria stessa, innanzitutto. La scelta, innanzitutto. La scelta che si presenta davanti a noi non è fra dimenticare e ricordarsi perché l’oblio non deriva da una scelta, sfugge al controllo della nostra volontà ma fra differenti forme di ricordo. Non esiste dovere di memoria in sé; la memoria può essere mesa al servizio del bene come del male, utilizzata per favorire il nostro interesse egoista o la felicità altrui. Il ricordo può restare sterile, addirittura fuorviarci. Se si sacralizza il passato, ci si impedisce di capirlo e di trarne lezioni che concerneranno altri tempi e altri luoghi, che si applicheranno a nuovi protagonisti della storia. Ma se al contrario lo si banalizza, applicandolo a situazioni nuove, se vi si cerca soluzioni immediate alle difficoltà presenti, i danni non sono minori: non solo si traveste il passato, ma si disconosce anche il presente e si apre la via dell’ingiustizia. […]. Perché il passato resti fecondo, bisogna accettare che passi attraverso il filtro dell’astrazione».[1]

L’Umanesimo moderno
Nella storia ritroviamo l’effettualità del bene come del male. Riconoscere il male nella forma dell’illimitatezza razziale, sessista o economica consente un mutamento della coscienza, da quel momento nulla sarà come prima. Il male è l’illimitatezza che nega la razionalità dialogica, la negazione dell’alterità è rottura del limite, senza quest’ultimo si assimila l’altro, si mettono in pratica processi di cannibalizzazione violenta. Il bene è l’esercizio del limite, è la pratica di ascoltare la presenza dell’altro, capacità che esige la razionalità profonda in cui l’argomentazione logica si coniuga con l’empatia, con la percezione tutta carnale che lo sguardo dell’altro è su di noi e con noi:

L’Umanesimo moderno, un Umanesimo critico si distingue per due caratteristiche, senza dubbio entrambe banali, ma che traggono la loro forza dalla loro stessa compresenza. La prima è il riconoscimento dell’orrore di cui sono capaci gli esseri umani. L’umanesimo, qui, non consiste affatto nel culto dell’uomo, in generale o in particolare, in una fede nella sua nobile natura; no, il punto di partenza, qui, sono i campi di Auschwitz e della Kolyma, la prova più grande che ci sia stata in questo secolo del male che l’uomo può fare all’uomo. La seconda caratteristica è un’affermazione della possibilità del bene; non del trionfo universale del bene; non del trionfo universale del bene, dell’instaurazione del paradiso in terra, ma di un bene che conduce a prendere l’uomo, nella sua identità concreta ed individuale, a prediligerlo ed amarlo. Si rinuncia dunque a sostituirlo con un essere soprannaturale, Dio; o al contrario con le forze della natura subumana, le leggi della vita; o anche con i valori astratti scelti degli uomini, si chiamino prosperità, rivoluzione o purezza e, al di là, le leggi della storia».[2]

La testimonianza del bene
Il bene è nella storia, nei suoi innumerevoli esempi silenziosi ed eroici, Todorov tra le testimonianze presenti nel suo testo Memoria del male, tentazione del bene riporta il caso di Grossman lo scrittore di Vita e destino dedicato alla madre che dinanzi allo sterminio (Grossman era ebreo) seppe mantenere la sua umanità. È riuscita a resistere al male conservando la sua razionalità profonda, ha continuato a provare pietà anche per coloro che l’avrebbero uccisa. L’esempio della madre, il bene concreto che resiste al male, alla sussunzione, ha permesso a Grossman di continuare a credere nel bene, a resistere al male. Nella Russia sovietica ha vissuto l’esperienza della persecuzione, dell’isolamento, ma la fonte del bene è stato il ricordo della madre, ancora una volta per resistere al male è necessario ritrovare nella storia o nella nostra storia la fonte testimoniale che ci permette di resistere, perché il male per radicarsi esige il silenzio della ragione e della storia:

«Alla base della società totalitaria si trova, secondo Grossman, un’esigenza: quella della sottomissione dell’individuo. Il fine a cui aspira questa società non è infatti il benessere degli uomini che la compongono, ma l’espansione di un’entità astratta che si può designare come lo stato, e che si confonde anche con il partito, o addirittura con la polizia. Nello stesso tempo gli individui devono cessare di percepirsi come la fonte della propria azione, devono rinunciare all’autonomia e obbedire alle leggi impersonali della storia, compitate dai poteri pubblici, come alle direttive promulgate giorno dopo giorno dai vari servizi. Si può dire in questo senso che lo stato sovietico “ha come principio essenziale di essere uno stato senza libertà”». [3]

 

Il male nell’epoca della globalizzazione
Il male è sempre uguale vuole la sussunzione totale del soggetto. Oggi il male che minaccia il mondo è la globalizzazione nella forma dell’integralismo economicistico che vuole negare il destino dei popoli in nome dell’economia. L’omologazione dei popoli permette di ipostatizzare l’economia e specialmente indebolisce ogni resistenza: in assenza di sovranità nazionale il potere diffuso è divenuto impalpabile, è ovunque eppure sfugge ad ogni localizzazione, in tal modo si debilita la resistenza, si indebolisce la motivazione all’universale per favorire forme di atomismo planetario, le cui ingiustizie sono vissute come fatali, inevitabili:

«Noi ci rallegriamo del crollo dell’impero totalitario tedesco; ciò non significa che il dominio solitario degli Stati Uniti sia in sé augurabile. Il pericolo non è minore quando la superpotenza si accorge che in realtà le mancano i mezzi per giocare al guardiano della pace ovunque e che deve limitarsi a intervenire solo nelle situazioni in cui sono in gioco i suoi interessi vitali. Per queste ragioni l’equilibrio è preferibile all’unità. La globalizzazione economica a cui oggi assistiamo non deve essere seguita da una mondializzazione politica; gli stati o gruppi di stati autonomi sono invece necessari per contenere gli effetti negativi del movimento di unificazione».[4]

Il linguaggio del male
Dobbiamo imparare a riconoscere il male ed a vivere per il bene, la storia ci insegna ad individuare i sintomi del male. Todorov analizza il linguaggio del nazionalsocialismo, per comprendere come il male si diffonde mediante architetture linguistiche neutre, confondendo l’umano con il disumano:

«Un altro mezzo per dissimulare la realtà ed eliminare ogni traccia dalla memoria consiste nell’uso degli eufemismi. Presso i nazisti, essi sono particolarmente abbondanti riguardo al segreto centrale dello sterminio; il senso di certe formule celebri è ormai divenuto trasparente “soluzione finale”, “trattamento speciale”, ma anche all’epoca erano, esse erano sufficientemente suggestive (“il trattamento speciale è applicato all’impiccagione”. Non appena è conosciuto il loro senso segreto, esse chiedono di essere sostituite con nuove espressioni, ancora più neutre, che rischiano tuttavia di divenire inutilizzabili a loro volta: evacuazione, deportazione, trasporto; numerose circolari danno istruzioni precise al riguardo. Lo scopo di questi eufemismi è impedire l’esistenza di certe realtà nel linguaggio e, con ciò facilitare agli esecutori la realizzazione del loro compito».[5]

 

Il lessico del male continua ad operare, a confondere per poter veicolare con i suoi messaggi la manipolazione delle coscienze.
Il linguaggio attuale cela il male, i tagli alla spesa pubblica sono chiamati tagli lineari, gli esseri umani sono chiamati consumatori, finanche consumatori di cultura, gli alunni sono divenuti clienti, i lavoratori risorse o capitale umano, lo sfruttamento è denominato lavoro flessibile ecc. Il linguaggio quotidiano ci svela nei suoi eufemismi i processi di sottomissione cognitiva e delle coscienze, eppure malgrado il tamburellare della lingua unica, anche nel presente ci sono ragioni per resistere nell’esempio di persone anonime che resistono alla disumanità del nichilismo passivo imperante. La storia ed il presente anche hanno nei loro archivi nomi di uomini e donne che hanno resistito, non sono passati invano, per cui resistere è ricordare, ma anche capire il ripetersi di modelli simili, ma mai uguali. L’arretramento degli studi storici è un ulteriore sintomo del male che in nome della prestazione economica perfetta ed assoluta avanza ed a cui dobbiamo fare resistenza propositiva.

Salvatore A. Bravo

 

[1] Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2015, pag. 370.

[2] Ibidem, pp. 373-374.

[3] Ibidem, pag. 77.

[4] Ibidem, pag. 343.

[5] Ibidem, pag. 141.

 


Tzvetan Todorov (1939-2017) – La letteratura è pensiero e conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo. La letteratura amplia il nostro universo, apre all’infinto la possibilità di interazione con gli altri e ci arricchisce infinitamente.

 


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Jean-Paul Sartre (1905-1980) – L’essere umano non è nulla al di là del suo proprio progetto. Egli esiste solo nella misura in cui realizza se stesso.

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Existentialism an human emotions

Existentialism an human emotions

 

«L’essere umano non è nulla al di là del suo proprio progetto. Egli esiste solo nella misura in cui realizza se stesso: egli non è dunque nient’altro che l’insieme dei suoi atti, nient’altro che la sua vita».

 

Jean-Paul Sartre, Existentialism an human emotions, Citadel Press, New York 1957, p. 33.


Jean-Paul Sartre (1905-1980) – Il desiderio si esprime con la carezza come il pensiero col linguaggio. Il desiderio è coscienza. Nel desiderio e nella carezza che l’esprime, mi incarno per realizzare l’incarnazione dell’altro. Così, nel desiderio, c’è il tentativo di incarnazione della coscienza.

 


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Aldo Capitini (1899-1968) – Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste.

Aldo Capitini 02

alta passione

 Aldo Capitini scrive nel 1956

«Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste.
Piú volte fino ad oggi sono state fatte «rivoluzioni», e ci sono quelli che vogliono anche ora fare una rivoluzione. Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste. Rivoluzione vuol dire cambiamento di tutte queste cose, liberazione, rinascita come persone liberate e unite. Ma sappiamo anche che noi non possiamo far tutto e subito; possiamo incominciare, unirci con chi è d’accordo con noi, lottare, sacrificarci, ma non possiamo con tutte le nostre poche forze (anche se, unendoci, siamo piú forti) liberare il mondo da tutto il male. E allora torneremo indietro? non faremo nulla? ci faremo prendere dallo scoraggiamento? lasceremo le persone sfruttate, i vecchi trascurati, i bambini affamati, gli uomini senza lavoro diventare banditi, pazzi, malati? Niente affatto: noi faremo ciò che potremo, faremo molti passi, raccogliendo le nostre forze per andare verso la salvezza e la luce giusta per tutti. […]
Ci vengono a dire che ci sono state altre rivoluzioni, inglese, americana, francese, russa, cinese. Ma noi rispondiamo che non vogliamo qui giudicare quelle rivoluzioni né i metodi che hanno usato né i risultati che hanno raggiunto; la storia deve mutare e oggi i nostri problemi li vediamo in un’altra luce; rispondiamo che la nostra rivoluzione, oggi qui e subito, ha qualche cosa di diverso, perché è fatta insieme con tutti, con l’animo nostro unito a tutti anche se non ci sono accanto, è rivoluzione per tutti e con tutti, non escludendo e non distruggendo per sempre e non dannando in eterno nessuno: è rivoluzione corale.
Se la nostra rivoluzione corale e totale, per la liberazione di tutta la società e di tutta la realtà, non può realizzarsi con le nostre mani in un colpo, faremo tutto ciò che potremo e resteremo aperti perché il resto avvenga fuori delle nostre forze. Se noi non possiamo togliere tutto il dolore, tutto il male, tutta la morte, cominceremo con l’amare tutti non dando noi il dolore, il male, la morte e con la fede che il resto del dolore, del male, della morte scomparirà. Se ci sforzeremo di usare mezzi puri e di tenere una coscienza onesta e amorevole, questa sarà l’offerta che facciamo e la garanzia che abbiamo che avverrà una liberazione totale. Per questo non ci accontentiamo di una piccola o grande riforma parziale, perché vogliamo un cambiamento totale. Una riforma parziale sarà utile: anche un aumento di salario per chi guadagni troppo poco, anche una casa a buon prezzo per chi abita nelle grotte (come ce ne sono in Italia), sono riforme sacrosante; ma a noi non bastano, perché vogliamo una liberazione totale, siamo rivoluzionari fino in fondo. Ma se non siamo riformisti facilmente contentabili, non siamo nemmeno rivoluzionari che credono di ottenere tutto con la violenza e l’assolutismo, e poi si accorgeranno che non basta».


Aldo Capitini
Un’alta passione, un’alta visione. Scritti politici 1935-1968, a cura di Lanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte, Firenze 2016, pp. 292-294

Lanfranco Binni, responsabile del Fondo Walter Binni, e Marcello Rossi, direttore de Il Ponte la “rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei”, hanno recentemente curato una ricca e approfondita raccolta di scritti politici di Aldo Capitini – il fondatore del Movimento Nonviolento e della rivista Azione nonviolenta – che coprono un arco temporale dal 1935 al 1968, anno della sua morte, dal titolo “Un’alta passione, un’alta visione”  (Il Ponte Editore). Ne pubblichiamo qui la premessa dei due autori.

Il volume cartaceo può essere richiesto presso Il Ponte libreria, mentre il sito web del Fondo Walter Binni mette a disposizione dei lettori la versione integrale in .pdf  

Questo volume di scritti di Aldo Capitini è un percorso di attraversamento diacronico della sua esperienza rivoluzionaria, teorica e tenacemente pratica, dall’antifascismo liberalsocialista degli anni trenta agli esperimenti di democrazia dal basso nell’immediato dopoguerra, alla decostruzione dell’ideologia cattolica e alla «rivoluzione nonviolenta» negli anni cinquanta, alla puntuale teorizzazione della «compresenza», della democrazia diretta e dell’«omnicrazia» negli anni sessanta.
I temi di Capitini, rimossi e deformati già nell’immediato dopoguerra, sono oggi attuali, da conoscere, da studiare e da sviluppare. Sono da riprendere le sue ricerche sulla «complessità» della realtà, sulla «compresenza» delle molte dimensioni del reale (il presente e il passato, la vita e la morte) in ogni singola esistenza; i suoi esperimenti di «nuova socialità» per una società di massimo socialismo e massima libertà, oltre le derive stataliste-staliniste e le imposture liberal-proprietarie; la sua puntuale polemica anticattolica per liberare la dimensione spirituale-mentale dai poteri confessionali; la sua prospettiva del «potere di tutti» come orientamento politico per il presente, contro i poteri oligarchici, politici, economici e culturali.
Al centro dell’intera esperienza umana, intellettuale, poetica, pratica di Capitini c’è la politica, una concezione della politica come intreccio di etica e creazione del valore, tensione alla trasformazione, alla liberazione rivoluzionaria della realtà. Tutti gli scritti di Capitini sono intimamente politici: è politica la sua elaborazione filosofica sulla «compresenza», è politica la sua poesia che nomina la realtà liberata qui e subito, è politica la sua libera ricerca religiosa, è piú che politica la sua concezione della politica, è piú che socialista la sua concezione del socialismo, è piú che libertaria la sua concezione della libertà.
I veri maestri agiscono a distanza e nel corso del tempo. Il tempo di Capitini è ora, nella fase della crisi della «democrazia» liberale (il sintomo) e della crisi strutturale del capitalismo (la malattia), della guerra globale e della devastazione del pianeta: «democrazia diretta», «omnicrazia», «compresenza», «realtà liberata» affermano oggi la loro urgenza teorica e di orientamento per la prassi rivoluzionaria.
I testi che abbiamo scelto e montato cronologicamente non costituiscono un’antologia, ma un percorso di attraversamento del «centro» delle idee e dell’azione di Capitini, nelle loro molteplici e costanti «aperture», per sollecitare un rapporto ulteriore con le sue opere, da leggere e studiare. Il titolo è di Capitini: in un articolo dell’autunno del 1945, Allarme per i giovani, 8 denuncia il clima di restaurazione di antiche dinamiche oligarchiche e di abbandono dei giovani, passata la tempesta della guerra e della Resistenza: «Nelle città, nei paesi e nelle campagne specialmente, vedo folle di giovani e di ragazzi inerti, che non hanno canzoni, non incontrano apostoli, non sanno come salutare, che grido lanciare, che non può e non deve essere piú quello di odio a un uomo e a un regime scomparsi. O dare tutto questo, un’alta passione, un’alta visione, o non ci meraviglieremo se dilagherà la tendenza a un individualismo scettico peggiore della morte».
Il libro è di Capitini, e inizia con la sua voce: lo scritto autobiografico Attraverso due terzi del secolo, scritto nel 1968 a due mesi dalla morte. Ci limitiamo a premettere un sintetico profilo della vita e delle opere, e una doverosa insistenza sul socialismo libertario di Capitini, il cuore e l’anima della sua stessa «religione aperta».

Lanfranco Binni (Fondo Walter Binni)

Marcello Rossi (Il Ponte Editore)


Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.

 


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Stefano G. Azzarà e Andrea Bulgarelli – Intervengono all’incontro sul tema: «Esistono ancora destra e sinistra?». Riflessioni a partire dal confronto tra Domenico Losurdo e Costanzo Preve. Venerdì 1 febbraio ore 21, Libreria Comunardi, Torino.

Azzarà Preve Losurdo

Azzara Comunardi

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Venerdì 1 febbraio ore 21,

Libreria Comunardi, Via Bogino 2 , Torino.

 

Esistono ancora destra e sinistra?

Riflessioni a partire dal confronto tra

Losurdo nell'aprile 2011

Domenico Losurdo

e

Costanzo Preve

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Intervengono all’incontro

Stefano G. Azzarà (Università di Urbino)  e Andrea Bulgarelli (CIVG)

Stefano G. Azzarà – Domenico Losurdo (1941-2018), in memoriam.
Andrea Bulgarelli – «Costanzo Preve marxiano», intervista a cura di Luigi Tedeschi sul libro “Invito allo Straniamento” II.
Luigi Tedeschi intervista Andrea Bulgarelli, coautore con Costanzo Preve del libro “Collisioni – Dialogo su scienza, religione e filosofia”

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Emanuele Severino – Il capitalismo compera la tecnica per realizzare quella forma di incremento indefinito della capacità di realizzare scopi. Che è costituito dall’incremento del profitto e del denaro. Lo scopo cioè è il controllo del mezzo universale.

Emanuele Severino 01
L'identità della follia

L’identità della follia

«Sia nel capitalismo sia nella tecnica lo scopo che si vuole raggiungere è il possesso del mezzo universale, capace cioè di realizzare qualsiasi scopo. I singoli scopi che si possono realizzare col mezzo universale non sono quindi lo scopo ultimo, che è solo la capacità indefinitivamente crescente di realizzarli. Lo scopo cioè è il controllo del mezzo universale.
Mentre il denaro è il mezzo universale ma solo relativamente all’acquisizione di ciò che già esiste […] la tecnica fa crescere indefinitivamente la capacità di realizzare scopi e conduce tale capacità al di sopra della dimensione in cui la crescita del denaro si dà [ … ] Il capitalismo sa che il denaro non può comperare tutto perché non tutto ciò che vorrebbe esiste e appunto per questo il capitalismo compera la tecnica […] Il capitalismo si serve della tecnica per realizzare quella forma di incremento indefinito della capacità di realizzare scopi. Che è costituito dall’incremento del profitto e del denaro».

Emanuele Severino, L’identità della follia. Lezioni veneziane, Rizzoli, Milano 2007, p. 150.

 


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