Piera De Piano – Per una definizione del tempo in Aristotele. Il libro di Luigi Ruggiu «Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo»

Piera De Piano 01

Tardoantichi

Koinonia, 42, 2018

KOINΩNIA, 42, 2018

 

Coperta 283

Luigi Ruggiu

Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo. Prefazione di Emanuele Severino

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Recensione al libro di Luigi Ruggiu, Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo. Prefazione di Emanuele Severino, Petite Plaisance, Pistoia 2017.

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Nel 1970 Luigi Ruggiu, professore emerito di Storia della filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, dava alle stampe un’imponente monografia su Aristotele e la concezione del tempo di cui il volume qui recensito rappresenta una ristampa riveduta e corretta, con un aggiornamento bibliografico posto in appendice. A quella pubblicazione seguirono, dello stesso Ruggiu, una monografia interamente dedicata a Parmenide (1975) e, un ventennio dopo, la traduzione e il commento della Fisica di Aristotele (1995). Sono stati proprio questi studi, come dichiara l’Autore stesso, a trasformare negli anni il suo orientamento teoretico e ad allontanarlo da quella che era stata la sua «linea maestra», e cioè la prospettiva nichilista dell’interpretazione del testo aristotelico, prospettiva manifestamente dichiarata nel sottotitolo del volume ed ereditata direttamente da Emanuele Severino e dal suo saggio Ritornare a Parmenide del 1964. Tuttavia, la necessità di rendere fruibile le sue ancora stimolanti interpretazioni del testo aristotelico hanno convinto l’Autore a ristampare l’opera, diventata ormai introvabile, rinunciando ad una nuova edizione che avrebbe significato, ammette Ruggiu, riscrivere completamente la terza parte del volume e rivedere stilisticamente le prime due (pp. VII-X).

Tre, dunque, sono le parti che compongono la monografia: le prime due (La concezione del tempo e dell’istante e Coscienza e autocoscienza in relazione all’essere) sono dedicate più propriamente alle pagine aristoteliche del quarto libro della Fisica. La terza e ultima parte (Il tempo come fondamento della determinazione del senso dell’essere), invece, ha natura più speculativa e manifesta più evidentemente l’orientamento teoretico dell’autore, orientamento da subito dichiarato proprio da Emanuele Severino, che firma la prefazione al volume: il senso autentico dell’essere è quello di opporsi al nulla e quindi ogni filosofia che ammetta che l’essere possa non essere, cioè essere nulla, deve dirsi nichilistica; il primo filosofo ad aver teorizzato i tratti fondamentali della nientità dell’ente sarebbe stato – secondo Ruggiu – proprio Aristotele, affermando che è necessario che l’essere sia, quando è, e che il non essere non sia, quando non è (pp. 5-7). Il luogo proprio nel quale si realizzerebbe tale nientificazione dell’ente, secondo Ruggiu, è quello dell’analisi aristotelica del concetto di tempo, ed è illuminando questo snodo teorico che le quasi cinquecento pagine del volume acquistano senso e profondità.

Una difficoltà di queste pagine è legata alla scrittura dell’Autore, il quale non sempre distingue in modo chiaro la citazione del testo dall’interpretazione di esso. Sebbene l’aspetto più propriamente speculativo si sviluppi, infatti, nella terza parte del volume, fin da subito si ha l’impressione che l’esito dell’interpretazione condizioni troppo, fin dal principio, la lettura della pagina aristotelica. Considerato il valore d’indagine che conservano le prime due parti, ancora di indubbia utilità per il lettore moderno, su queste, e in particolar modo sulla prima, si concentreranno le note che seguono.

La problematicità della riflessione sul tempo proposta da Aristotele sta nel fatto che essa si inserisce pur sempre in un’ontologia «che determina il significato dell’essere sulla base della presenza, anche se quest’ultima può essere interpretata in diversi modi […]. Se il tempo viene ad essere sostanzializzato e considerato come disteso in linea retta nello spazio, passato e futuro o sono ricondotti al nulla oppure devono identificarsi con il presente» (p. 28). Se l’essere esiste solo nella presenza, e quindi nello spazio, come può esistere il tempo se esso ora è passato, ora è futuro?

Una prima soluzione dell’aporia si trova nel ricondurre l’ontologia del tempo a quella di una qualsiasi unità il cui essere è un durare. In tal senso si rende molto perspicua l’analogia tra la natura del tempo in quanto durata e la melodia: il nulla del passato e il nulla del futuro non sono un non-essere in senso assoluto; essi sono un niente di ora, dunque un «determinato nulla», non l’assoluta privazione dell’essere. Il fenomeno più facilmente percepibile in tal senso, secondo Ruggiu, è proprio quello della melodia: questa non può essere còlta semplicemente come composizione di una pluralità di suoni, ma come un tutto di cui fanno parte non solo il suono presente, ma anche quello passato; anzi senza quest’ultimo la melodia non sarebbe nemmeno più una melodia, risultando invece solo una serie di suoni irrelati l’uno rispetto all’altro (p. 30). La fisicizzazione del tempo e un’ontologia che riduce l’essere alla presenza portano a due conseguenze: o il passato e il futuro si possono pensare come frutto di semplice immaginazione, oppure il tempo si può pensare come un tutto che può legittimamente comprendere in sé parti riconducibili al non essere (p. 32).

Una seconda soluzione dell’aporia fa riferimento alla coscienza (è con questo termine che Ruggiu traduce il greco ψυχή). Ciò che si muove nel tempo, e quindi il non essere del passato e del futuro, si salva perché a esistere e non esistere non è – in questa prospettiva – il contenuto, ma la percezione del contenuto che si ha nella coscienza. Tale soluzione – si chiede però Ruggiu – riesce a tenere completamente lontano il tempo dal nulla? È a partire da questa domanda che lo studioso interroga il testo aristotelico soffermandosi sulla relazione tra tempo e movimento. Tempo e movimento sono fortemente intrecciati. La rappresentazione che ne abbiamo è che non esista tempo senza movimento né viceversa. Ma Aristotele dimostra anche come essi siano assolutamente distinti e separati. Ciò che è legato al movimento è piuttosto il tempo inteso in senso matematico, come unità di misura del prima e del dopo, ma non il tempo inteso in senso ontologico e metafisico. Ruolo importante in questa distinzione è quello rivestito, ancora una volta, dall’anima, che diventa così il ὑποκείμενον in senso primario, perché il fondamento in senso secondario è il contenuto della coscienza. Non esiste mutamento se non si ha coscienza del contenuto che muta e solo la coscienza consente di cogliere l’unità del flusso. Non esiste un tempo oggettivo. «Senza la presenza del mutamento nella coscienza, non si dà tempo, in quanto la presenza permane immutata e quindi, mancando il divenire dei contenuti della presenza, non può nemmeno esservi una percezione del tempo, che si costituisce come percezione di un flusso, cioè di un passato, dell’intervallo che intercorre tra passato e presente, del distinguersi vicendevole di questi diversi momenti» (p. 49). Tempo e movimento non s’identificano, ma non si dà tempo senza movimento (phys. 218b9 – 219a2). Il tempo è qualcosa del movimento: è quando percepiamo un ente che muta che percepiamo la successione insita nel divenire dell’ente, e quindi il tempo.

Accanto all’analisi testuale, Ruggiu non manca di discutere una ricca bibliografia critica. Sulla questione del rapporto tra tempo e movimento, per esempio, lo studioso prende le distanze tanto da Hamelin (Aristote, Physique II, traduction et commentaire, Paris 1931), che affronta sempre la questione in termini ontologici, quanto da Moreau (L’espace et le temps selon Aristote, Padova 1965), sostenitore invece di una prospettiva più precisamente psicologica, spostando invece la questione su un piano che egli definisce fenomenologico.

Il tempo non è una sostanza, cioè un τόδε τι, ma è un πάθος o una ἕξις del movimento (phys. 8, 1, 251b28; 4, 14, 223a 18). Ciò non significa però che il tempo sia una determinazione del movimento e che quindi esista in funzione di esso. Il tempo e il movimento hanno qualcosa in comune e questo qualcosa in comune è il τόδε τι, il ὑποκείμενον, il sostrato. Chiave di volta dell’interpretazione di questo nodo teorico è l’inserimento nel discorso del concetto di continuo come costitutivo di spazio, tempo e divenire. Il prima e il dopo (πρότερον καὶ ὕστερον) vengono evidentemente definiti in base a qualcosa che funge da principio, e quindi il punto nello spazio, l’istante nel tempo, il τόδε τι o τὸ κινούμενον nell’ente in movimento (cfr. Arist., met. 5, 11, 1018b 10). C’è qualcosa che ritorna ogni volta che ci si avvicina alla definizione ultima di tempo, sia quando si è dovuto ammettere che esso deve comunque in un certo qual modo sganciarsi dalla necessità di essere sempre qualcosa, sia quando ci si è avvicinati alla comprensione del divenire che è nel movimento. Questo qualcosa è la continuità esistente tra identico e differente, l’unità che esiste tra le parti e il tutto. Il tempo ha a che fare con ciò che sta a metà, che tiene unito ciò che è separato, che rende simili le cose dissimili. Ruggiu si sofferma molto su questa idea e costruisce di essa una lettura davvero stimolante, soprattutto considerando la temperie culturale in cui essa è stata formulata. Il divenire di un ente implica anche il permanere di quell’ente. Un soggetto che diviene, che muta, deve pur sempre conservare qualcosa, deve pur sempre rimanere, in relazione a qualcosa, identico a se stesso; altrimenti non ci sarebbe un divenire di quell’ente; non ci si accorgerebbe di un ente che muta, se di quell’ente che muta non permanesse qualcosa che lo rende riconoscibile in quanto «quell’ente che muta». Ecco perché il tempo è una successione, una durata, è la relazione anteriore-posteriore, πρότερον καὶ ὕστερον. Evidentemente bisogna che ci sia un principio, un punto di riferimento rispetto al quale far esistere il prima e il dopo. L’istante è il μεταξύ di questa durata, è il principio dell’anteriore e del posteriore e a questo punto riacquista la centralità del suo ruolo la coscienza: solo la coscienza può far sì che il divenire dell’ente sia percepito come tale e cioè come un permanere dell’ente che muta, che contiene in sé quel τόδε τι che lo identifica e che rimane uguale a se stesso nel mutamento. «La coscienza è la dimensione in cui l’ente nel suo passare permane, come memoria di ciò che non compare più nell’intramondano e come attesa di ciò che non è ancora fenomenologicamente comparso come ente intramondano» (p. 90). La coscienza quindi non è solo ratio cognoscendi del tempo ma anche sua ratio essendi: solo la coscienza può sapersi come identica e differente, può porre come identici e differenti i diversi contenuti della presenza.

Al di fuori della coscienza, diversità e identità sono senza significato. Prima e dopo esistono solo in quanto relazione della coscienza col contenuto fenomenologicamente presente: «è l’identità dell’autocoscienza che rivela il mutare delle determinazioni del τόδε τι e parallelamente le dimensioni del tempo in cui tale divenire si manifesta» (p. 91). A questo punto Ruggiu può arrivare alla definizione aristotelica del tempo quale:  ριθμὸς κινήσεως κατὰ τὸ πρότερον καὶ ὕστερον (phys. 4, 11, 219b 1), «determinazione dell’anteriore-posteriore del divenire». Tale definizione in qualche modo compendia tutti gli elementi emersi nei due capitoli precedenti: il divenire, lo spazio incluso nel divenire, il rapporto di anteriore-posteriore, la coscienza come fondamento della determinazione (numero) del divenire nei suoi momenti costitutivi, il πρότερον e il ὕστερον.

Il terzo capitolo è allora dedicato alla concezione del tempo quale numero. Due sono le interpretazioni correnti di tale definizione: da una parte quella epistemologico-matematica, sostenuta tra gli altri da Moreau (op. cit.) e Guthrie (A History of Philosophy, 1962), che intende  ριθμός come numero puro e quindi pensa al tempo come a una determinata unità di misura; dall’altra quella ontologica, secondo la quale con il concetto di numero attribuito al tempo Aristotele intenderebbe affermare l’atto del porre in rapporto le diverse fasi del movimento, proprio dell’operare dell’anima. Se la prima, secondo Ruggiu, riduce arbitrariamente il numero a un’unità di misura astratta, la seconda, che ha in Hamelin (Le système d’Aristote, 1931) uno dei suoi principali esponenti, ha portato l’attenzione sulla natura relazionale del numero, per cui il numero è sempre numero di qualcosa, predicato di qualcosa, e sulla funzione numerante dell’anima. Una posizione intermedia è quella di Wieland (Die aristotelische Physik, 1960), autore di una interpretazione di «tipo operativo», come la definisce Ruggiu: il tempo non è un principio ontologico del reale, ma il modo o lo strumento con cui l’anima si rapporta al divenire. Nel suo rapportarsi al divenire l’anima ha bisogno di unità di misura, che individua nei moti della sfera celeste.

L’obiettivo di Ruggiu è invece mostrare come il numero svolga nell’anima la funzione teoretica di ricongiungimento del molteplice al tutto, uno e continuo che forma la realtà del tempo. Il numero non ha alcun significato matematico; esso è numero di cose e ha come oggetto un continuo successivo. Tale conclusione è ciò che più tiene legato l’Autore, per sua stessa ammissione, alle conclusioni del suo scritto di anni addietro. È proprio la considerazione del movimento in successione la chiave di volta dell’interpretazione di Ruggiu. Il numero è lo strumento con cui il molteplice viene unificato. Ciò è vero in qualsiasi numerazione degli enti; qual è però la peculiarità della numerazione rispetto al tempo? Mentre nel molteplice che coesiste nello spazio la relazione che introduce il numero non ha un senso e una direzione determinati, per cui il qui può essere pensato come il colà e viceversa, nel caso del molteplice successivo la direzione deve essere conservata nella relazione di separazione e di connessione che il numero introduce. Il numero matematico è la relazione del molteplice all’uno ma non determina se questo sia un molteplice di coesistenti o un molteplice di successivi. L’inserimento del numero nella definizione del tempo è importante perché è proprio il numero a portare con sé la presenza dell’anima: il numero per Aristotele esiste solo in relazione alle cose di cui è numero e in relazione all’anima che numera. Conoscere per l’anima è attualizzare, cioè porre ogni contenuto nell’attività della presenza della coscienza. Quando la coscienza si relaziona a un contenuto che diviene, a un ente che si offre come continuamente altro da sé, allora essa deve numerare una successione. Momento fondamentale di tale successione è l’esser-ora, l’istante, a cui Ruggiu dedica non poche interessanti riflessioni, nel quarto capitolo di questa prima parte. L’istante è privo di sostanza, non è un τόδε τι, dal momento che esso è numero ed è, come il tempo, sempre predicato di qualcosa. Vi è inoltre una stretta relazione, anzi una interdipendenza, tra tempo e istante, per cui l’uno esiste solo se esiste l’altro: Φανερὸν δὲ καὶ ὅτι εἴτε χρόνος μὴ εἴη, τὸ νῦν οὐκ ἂν εἴη, εἴτε τὸ νῦν μὴ εἴη, χρόνος οὐκ ἂν εἴη (phys. 4, 11, 219 b 33). Non è possibile considerare, alla maniera zenoniana, il tempo come una molteplicità di istanti indivisibili, configurati come unità minime di tempo. Ciò presupporrebbe una priorità ontologica dell’istante rispetto al tempo, concepito come da questo indipendente, ma anche, paradossalmente, a fondamento della concettualizzazione di esso. Ne consegue la definizione dell’istante non più come parte del tempo ma come suo limite. In quanto limite, l’istante è presente nella realtà temporale solamente in modo potenziale. «Tale potenzialità può attuarsi solo per opera dell’atto astrattivo della coscienza che, determinando l’esser ora dell’ente mosso, distingue nel tutto uno continuo della successione del mobile, un momento temporale – l’istante – che non è realtà per sé stante, ma emerge come distinto dal tempo per il tramite dell’atto di determinazione della coscienza» (p. 138). La natura dell’istante è una natura aporetica, in quanto esso è identico e diverso al tempo stesso. Rispetto al suo «esser-ora», l’istante è sempre in atto, non si altera; ciò che varia è il contenuto di cui l’«esser-ora» si predica e quindi la rappresentazione che ne ha l’anima, la quale non percepisce soltanto il variare del contenuto, ma anche il variare continuo del νῦν che si predica nella successione del prima e del dopo e quindi dei momenti-limite del mobile nel suo divenire. Nell’istante ci sono, per così dire, un momento di identità e permanenza e un momento di differenza e variazione: il molteplice della variazione, nell’istante, corrisponde al variare delle determinazioni che ineriscono al mobile nel divenire, ma i diversi modi della variazione ineriscono all’unità e permanenza dell’esser-ora: «v’è quindi un unico istante che si succede e che si manifesta come presente, passato e futuro» (p. 189). In quanto l’istante divide, cioè in quanto si determina come inizio e fine delle determinazioni dell’essere mosso, esso è sempre in potenza; in quanto esso unifica, invece, è sempre in atto.

La seconda parte del libro è interamente dedicata al tema del rapporto tra tempo e ψυχή, in realtà già protagonista nelle pagine precedenti. Qui l’analisi prende avvio dalla dichiarazione aristotelica secondo la quale dal momento che niente può numerare se non la coscienza (ψυχή), e di essa l’intelletto (νοῦς), e visto che il tempo è propriamente il numero dell’anteriore e posteriore del divenire, allora non può esistere tempo se non esiste la coscienza (cfr. phys. 223 a 25-29).

Non è possibile affrontare qui dettagliatamente tutti gli approfondimenti che Ruggiu opera sul testo aristotelico; basterà dar conto brevemente delle discussioni condotte dall’Autore sulle diverse interpretazioni critiche di τοῦτο ὅ ποτε ὂν ἔστιν ὁ χρόνος (cfr. phys. 223a 27), che Aristotele ammette come esistente anche indipendentemente dalla coscienza. Lo studioso dimostra come tale espressione non si riferisca a una parte del tempo, ma al sostrato del tempo, al contenuto di cui il tempo è numero e cioè al divenire, oggetto di numerazione. Ciò che Ruggiu traduce come sostrato del tempo (τοῦτο ὅ ποτε ὂν ἔστιν ὁ χρόνος) è dunque ciò che deve essere determinato come tempo, ma non è per sé tempo. Perché quell’indeterminato sia determinato come tempo è necessario che esso si manifesti all’anima e che quindi venga numerato; senza la coscienza, che è la sola a svolgere l’attività numerante, non c’è tempo, c’è solo divenire. Tuttavia, Aristotele ammette che questo sostrato esiste al di fuori della coscienza perché il divenire non dipende ontologicamente dalla coscienza, esiste indipendentemente da essa, da essa non è creato, sebbene allo stesso tempo dipenda da essa perché in essa si manifesta: «la coscienza è quindi manifestativa, non tetica» conclude Ruggiu a p. 219. Definite tali premesse, Ruggiu prosegue dimostrando come la coscienza temporalizzi il divenire attraverso la sensibilità, tanto da precisare la natura del tempo come struttura della sensibilità, e anzi, più potentemente, come struttura del senso comune (κοινὴ αἴσθησις: p. 258). «Non è sulla base del senso dell’essere che viene a strutturarsi il significato del tempo ma, al contrario, è in base al tempo che si delinea lo stesso essere dell’ente» (p. 285): questo l’assunto di base della terza parte del libro. L’essere per eccellenza, l’ὄντως ὄν, spiega Ruggiu, è l’essere che trascende il tempo, che si sgancia dal processo di successione e si afferma dunque come assoluta permanenza. Tuttavia l’ente in quanto presente si lega al tempo, alla necessità di essere ora e non poter non essere ora, e, relazionandosi al tempo, finisce per porsi come momento del divenire. Ciò manifesta il legame tra il tempo e il nulla, dal momento che il divenire è «passaggio dal non-essere all’essere o dall’essere al nonessere» (p. 284). Su tale posizione Ruggiu in realtà ritornava già nella seconda edizione della sua traduzione della Fisica (2007), parlando del divenire come essere e riprendendo l’analisi del significato del non essere in Aristotele. Potenza e atto rappresentano per lo studioso uno dei molteplici significati dell’essere che egli passa in rassegna nel séguito del capitolo: l’essere come categoria, l’essere come accidente, l’essere nel significato di vero e falso e l’essere, appunto, come atto e potenza. Definito il significato strutturale che il tempo riveste nella determinazione del senso dell’essere, Ruggiu si occupa dell’analisi aristotelica del concetto di «essere nel tempo» (pp. 335-352) leggendo le pagine di phys. 4, 12, 220b 32-222a 10, da cui risulta che l’essere è significante non come non-essere nulla, ma come «perdurare nella presenza»: la temporalità diventa senso dell’essere. Ciò che è degno di nota è che tale analisi pone definitivamente in crisi ogni analisi del tempo di tipo epistemologico-matematico che non metta invece in relazione la concezione aristotelica del tempo con la dimensione ontologica delle cose.

È impossibile ripercorrere nel dettaglio l’intera analisi di quest’ultima parte dell’opera, che invece veniva sviscerata nella bella recensione di Enrico Berti («Una recente indagine sul rapporto tra essere e tempo in Aristotele», in Rivista di filosofia neo-scolastica, I-II, 1971, pp. 152-163), che, senza cedere a un tono troppo polemico, non esitò a confrontarsi direttamente su spinose questioni interpretative al centro del dibattito ontologico su cui lo studioso era chiamato in causa dallo stesso Autore. Considerando che molte delle conclusioni qui prospettate sono state superate da Ruggiu, come da lui stesso dichiarato fin dalla premessa, basti presentare in questa sede l’esito dell’argomentazione, che configura una dettagliata analisi del principio di non contraddizione, passaggio obbligato della riflessione ontologica, principio della scienza dell’ente in quanto ente. Esso, commenta Ruggiu, è legge dell’esperienza e in quanto tale non può essere posto in antitesi con nulla che appartenga a quella totalità, che è appunto l’orizzonte ontologico in cui quel principio vive e in relazione al quale esso ha significato. Pertanto, se la totalità entra in conflitto con l’esperienza, essa entrerà in conflitto anche con il principio, o, se il principio viene negato, entrerà in crisi anche la totalità dell’esperienza.

È così che si conclude questa voluminosa trattazione di uno degli argomenti più avvincenti della filosofia aristotelica e in generale del pensiero occidentale, qual è quello del tempo e della sua relazione con l’individuo e con le cose, che tanto rilievo assumerà poi nel pensiero tardoantico e cristiano (si pensi ad Agostino). È doveroso segnalare che, nonostante la presenza di numerosi refusi che, per la consistenza della loro frequenza, finiscono, a volte, per mettere a disagio il lettore, questa di Ruggiu è un’opera che conserva un’indiscutibile utilità e molti spunti di riflessione, soprattutto nella parte dedicata alla lettura del testo aristotelico. Notevoli sono anche la ricca bibliografia, aggiornata con testi pubblicati sull’argomento dopo il 1970, e gli indici, tematico e dei nomi, che corredano il volume. Nelle prime pagine, infine, dopo una sintetica presentazione dell’autore, si offre al lettore una riproduzione della copertina e del frontespizio del volume originario.

 

PIERA DE PIANO

 

 

 


Luigi Ruggiu

Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele

Saggio sulle origini del nichilismo.

Prefazione di Emanuele Severino

ISBN 978-88-7588-186-3, 2017, pp. 496, formato 170×240 mm., Euro 35

indicepresentazioneautoresintesi

 

 

Aion Ostia nuova

Mosaico dello zodiaco e delle Quattro Stagioni. Ostia Antica, Magazzini.
Dalla Necropoli di Porto all’Isola Sacra, Tomba 101.

 

L’attualità di un testo si riconosce dalla centralità del tema, dalla novità nell’impostazione, dalla fecondità dei risultati. Non si tratta solo della conoscenza storica dell’autore, Aristotele, ma della penetrazione di una ricerca resa nuovamente disponibile per la sua capacità di interloquire con i problemi di metodo e di merito. Anche sul versante non direttamente filosofico della scienza, in particolare della fisica moderna e contemporanea. Il tempo analizzato nella Fisica è stato indagato iuxta propria principia. È quindi capace di sprigionare tutta la forza sintetica di penetrazione di un tema così impenetrabile e sfuggente.

«La parte del testo relativa alla trattazione del tempo si presenta come lo svolgimento sistematico più profondo ed articolato della tesi per cui il tempo viene costituito dall’anima attraverso l’atto di numerazione che esercita in rapporto al divenire, ed è quindi necessariamente relato ad essa. Questa grande sintesi operata da Ruggiu, che ricomprende tutti i contributi precedenti sulla definizione del tempo secondo Aristotele costituisce, sia per il rigore dell’argomentare che per la consistenza dell’impianto teoretico che assume come presupposto un confronto critico indispensabile per ogni interpretazione che da essa si differenzia; in questo senso rappresenta, insieme al testo di Conen, l’interpretazione attuale più interessante della dottrina aristotelica del tempo» (A. Giordani).

Il filo nascosto della indagine aristotelica è costituito dal ruolo che l’anima dell’uomo riveste nella physis. Attraverso una magistrale fenomenologia della coscienza del tempo, nella quale si mostra l’unità inscindibile di tempo e movimento, Aristotele mostra l’irriducibilità del tempo al movimento, ma anche la necessità del suo rapporto. Il “numero” che quindi compare nella definizione del tempo, non è il numero astratto, il numero matematico, ma il numero concreto, il numero numerato. Attraverso un’analisi penetrante dell’ora (νῦν) lo Stagirita mostra la necessità dell’identità e permanenza e insieme la struttura del differenza che è propria dell’istante e quindi del tempo. È l’istante che costituisce l’unità e la continuità del tempo, ma insieme anche la sua distinzione. Il tempo non si dà senza l’anima, cioè senza la chiamata in causa della memoria, della presenza e dell’attesa.

Nella contemporaneità, a lungo questa problematica è parsa monopolio della fisica, con le sue esplorazioni nel mondo dell’infinitamente piccolo e della fisica dei quanti. Ma qui il tempo con i suoi caratteri di irreversibilità e di ekstaticità scompare. La fisica conclude infine che il tempo è nulla, il prodotto di una semplice illusione, come ebbe a dire Einstein in una celebre lettera inviata ai familiari del suo amico Michele Besso: «Per tutti coloro che credono nella fisica, la divisione tra presente, passato e futuro ha solo il valore di un’ostinata illusione».

Oggi tuttavia assistiamo ad un ribaltamento di queste tesi. «La sintesi fra il tempo di Aristotele e quello di Newton è il gioiello dei pensieri di Einstein» (C. Rovelli). Se al livello più fondamentale “non c’è variabile tempo” e quindi non esiste differenza tra passato e futuro, esiste anche un movimento di ritorno (Nostos!) per comprendere come da questo mondo senza tempo possa emergere il tempo a noi familiare. Alla nostra scala, esiste anche la variabile tempo. Con una espressione alla Borges, si conclude che «il tempo siamo noi».

Ma quale Aristotele e soprattutto: quale tempo?

A questo interrogativo, il volume di Ruggiu fornisce una risposta convincente. Perciò oggi viene qui riproposto nella sua piena attualità.



Luigi Ruggiu è professore emerito di storia della filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Già consigliere di amministrazione della Biennale di Venezia (1978-1986) e direttore della rivista di cultura e politica Il Progetto (1982-1992), a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Venezia. Nel 2000 è stato insignito della medaglia d’oro del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi dei “Benemeriti della scienza e della cultura”.

Le principali linee della sua ricerca sono:

I.

La problematica della temporalità nella storia della filosofia

Tempo Coscienza Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichi-lismo, Brescia 1970; Il tempo in questione. Paradigmi della temporalità nel pensiero occidentale, a cura di L. Ruggiu, Guerini e Associati editore, Milano 1997; Filosofia del tempo, a cura di L. Ruggiu, Bruno Mondadori Editore, Milano 1998; Tempo della fisica e tempo dell’uomo: Parmenide, Aristotele, Agostino, Editrice Cafoscarina, Venezia 2006. Aristotele, Fisica. Testo greco a fronte. Saggio introduttivo, traduzione, note e apparati di L. Ruggiu, nuova edizione, Mimesis, Milano 2007; Tempo delle scienze, tempo della filosofia, in Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia, a cura di U. Curi, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 101-135; Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel, Mimesis, Milano 2013; Parmenide e il tempo, in Parmenide. Nostos, L’essere e gli enti, Edizione rivista e ampliata, con testo e traduzione dei frammenti, e con un saggio: Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 455-512.

II.

Il problema dell’agire pratico e poietico

Teoria e prassi in Aristotele, Napoli 1973; La scienza ricercata. Economia politica e filosofia. Studi su Aristotele e Marx, Treviso 1978.

III.

Filosofia e economia

Genesi dello spazio economico. Il labirinto della ragione sociale: filosofia societá e autonomia dell’economia, Guida, Napoli 1982.

IV.

Parmenide e la genesi dell’ontologia

Parmenide, Venezia-Padova 1975; Parmenide, Il Poema sulla natura, introd., traduzione di G. Reale; saggio introduttivo e commento di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991; Parmenide di Elea, in Le radici del pensiero filosofico. I – La filosofia greca: dai presocratici ad Aristotele, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1993; Parmenide. Nostos, L’essere e gli enti, Edizione rivista e ampliata, con testo e traduzione dei frammenti, e con un saggio: Mimesis, Milano-Udine 2014.

V.

La filosofia di Hegel

L. Ruggiu – I. Testa (a cura), Hegel contemporaneo. La ricezione americana di Hegel a confronto con la tradizione europea, Guerini e Associati, Milano 2003; L. Ruggiu – J. M. Cordon (cura), La crisi dell’ontologia. Dall’idealismo tedesco alla filosofia contemporanea, Guerini e Associati, Milano 2004; L’assoluto come nulla e la ragione come negare: Hegel a Jena, in Hegel e il nichilismo, a cura di F. Michelini e R. Morani, Franco Angeli editore, Milano 2003, pp. 21-40; Intersoggettività e universale della comunicazione, in L’Universale ermeneutico, a cura di G. Nicolacci e L. Samonà, Biblioteca del Giornale di Metafisica, Tilgher, Genova 2003, pp. 13-28; Spirito assoluto, intersoggettività, socialità della ragione, «Giornale di Metafisica», nuova serie, XXV (2003), pp. 393-418; Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel, Mimesis, Milano 2013.

VI.

Questioni di storia della storiografia

Il presente del passato. La ripresa del pensiero classico nella filosofia contemporanea, in L’oggetto della storia della filosofia. Storia della filosofia e filosofie contemporanee, a cura di R. Racinaro, La Città del Sole Editore, Napoli 1998, pp. 173-222; La ripresa dell’antico in Giordano Bruno, in Giordano Bruno: destino e verità, a cura di D. Goldoni – L. Ruggiu, Marsilio, Venezia 2002, pp. 185-224.


Aristotele, Fisica. A cura di L. Ruggiu

Aristotele, Fisica. A cura di L. Ruggiu

 

Aristotele, Fisica. Nuova edizione

Aristotele, Fisica. Nuova edizione

Genesi dello spazio economico

Genesi dello spazio economico

 

Il tempo in questione occidentale Paradigmi sulla temporalità nel pensiero occidentale

Il tempo in questione. Paradigmi sulla temporalità nel pensiero occidentale

 

Lo spazio sociale della ragione. Da Hegel in avanti

Lo spazio sociale della ragione. Da Hegel in avanti

 

Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel

Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel

 

Logica Metafisica Politica. Hegel a Jena

Logica Metafisica Politica. Hegel a Jena

 

Parmenide. Nostos. L'essere degli enti

Parmenide. Nostos. L’essere degli enti

 

Parmenide. Poema sulla Natura

Parmenide. Poema sulla Natura

 

Parmenide

Parmenide

 

Tempo della fisica e tempo dell'uomo. Parmenide, Aristotele, Agostino

Tempo della fisica e tempo dell’uomo. Parmenide, Aristotele, Agostino

 

Teoria e prassi in Aristotele

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Horacio Cerutti Guldberg – L’utopico, essenza dell’utopia, si configura come la stessa fonte della capacità critica. Se il concetto di utopia viene rimosso, tutta l’impalcatura del pensiero filosofico rischia di crollare, perché la dimensione utopica rimanda ad un «bisogno della ragione», un protendersi verso il futuro come possibile presente.

Horacio Cerutti Guldberg 01
De varia utòpica. (Ensayos De Utopìa III)

De varia utópica. (Ensayos De Utopía III)

 

 

America Latina. Democracia, Pensamiento y Accion. Reflexiones de Utopia

America Latina. Democracia, Pensamiento y Accion. Reflexiones de Utopia

 

«L’utopico, essenza, dell’utopia, si configura come la stessa fonte della capacità critica. Se il concetto di utopia viene rimosso, tutta l’impalcatura del pensiero filosofico rischia di crollare, perché la dimensione utopica rimanda ad un “bisogno della ragione”, un protendersi verso il futuro come possibile presente».

Horacio Cerutti Guldberg, De varia utópica. Ensayos De Utopía, III, UAEM, Toluca, 1989, p. 9.

Cfr.: Stefano Santasilia, “El no-lugar del hombre. L’u-topia nella riflessione di Horacio Cerutti Guldberg“, «Rocinante», 7, 2012-2013, pp. 133-141.

 

Stefano Santasilia, Introduzione alla filosofia latinoamericana, Mimesi, 2017.

Stefano Santasilia, Introduzione alla filosofia latinoamericana, Mimesis, 2017.

 

 

Scrive Stefano Santasilia: «U-topico perché non avente una collocazione topo-grafica, ma pur sempre presente perché correlato all’attualità in maniera ineludibile. Cerutti, infatti, ricorda la duplice etimologia del termine “utopia”: ou-topos, non-luogo, luogo che non c’è, ma, allo stesso tempo, anche eu-topos, mondo felice, luogo massimamente desiderabile. Per il filosofo argentino, al di là della possibile interpretazione, l’utopia rimanda sempre alle dimensioni dell’immaginario e del simbolico. Immaginario e simbolico, però, sono pertinenti all’ambito del sociale solo se esso viene considerato nella sua capacità di svilupparsi e modificarsi. Per tale ragione, essi rimandano alla relazione con il futuro della società, il futuro di ogni singolo uomo, inteso come capacità di relazione con gli altri uomini. La dimensione temporale che, dunque, ricopre il ruolo di protagonista nella “dinamica utopica” è quella futura, non però come ciò che non è ancora ed è quindi indefinibile, ma nel suo ineludibile legame col presente, “nel” e “grazie al” quale si origina e al quale dona vita. Nella riflessione di Cerutti, il “momento utopico” si delinea come il momento stesso della possibilità futura, intesa come possibilità di modifica dell’attuale in base alla capacità di “criticare” il presente. L’utopico, essenza dell’utopia, si configura, perciò, come la stessa fonte della capacità critica, non allontanamento dalla realtà, bensì capacità di porsi a distanza da essa per evidenziarne le componenti destinate a venir meno. L’utopico costituirebbe, in tal caso, la prospettiva che apre all’alternativo; prospettiva che radica il suo nascere nell’immaginario e nel simbolico. Solo attraverso uno spazio immaginario (non-luogo), che differisca il nostro essere sociale rispetto alla stessa società in cui questo si esplica, è possibile lo sviluppo di una capacità critica a partire dalla stessa storicità, connotazione chiave dell’umana esistenza. Tale distanza, in fondo, è lo spazio della filosofia in quanto possibilità di un atteggiamento critico. Per questa ragione, Cerutti può affermare: “se il concetto di utopia viene rimosso, tutta l’impalcatura del pensiero filosofico rischia di crollare». Cerutti parla della filosofia latinoamericana intesa come critica dello stato di dipendenza. La filosofia latinoamericana è, allora, costitutivamente pensiero utopico perché autentico pensiero critico. Nella riflessione di Cerutti, dunque, l’utopia viene intesa come un “concetto operativo”, un esercizio razionale che si basa su due momenti: la realtà concreta e il mondo morale verso il quale la realtà va orientata. Il praticare la riflessione utopica avrà, allora, sempre due momenti: quello negativo, inteso come critica rispetto alla realtà, e quello positivo, ossia l’impegno di lottare per la libertà e per l’autonomia».

Stefano Santasilia, Introduzione alla filosofia latinoamericana, Mimesis, 2017, pp. 192-193.


 

Horacio Cerutti Guldberg

è professore di Storia delle idee e Filosofia politica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Universidad Nacional Autónoma de Mexico e Direttore di «Pensares y Quehaceres. Revista de Políticas de la Filosofía». Tra le sue recenti pubblicazioni: Hacia una metodología de la historia de las ideas (filosóficas) en América Latina (México 1997); Filosofar desde Nuestra América. Ensayo problematizador de su modus operandi (México 2000); Experiencias en el tiempo (Morelia 2001); Historia de las ideas latinoamericanas (et al., México 2003); Configuraciones de un filosofar sureador (Veracruz 2005); Democracia e integración en Nuestra América (Mendoza 2008).

 

 

Altri libri di
Horacio Cerutti Guldberg

Doscientos anos de pensiamento filòsofico Nuetroamericano

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Filosofando y con el mazo dando

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Filosofar desde nuestra America. Ensayo problematizador de su modus operandi

Filosofar desde nuestra America. Ensayo problematizador de su modus operandi

Filosofia de la liberaciòn Latinoamericana

Filosofia de la liberación Latinoamericana

Historia de las ideas latinoamericanas. discopina fenecida

Historia de las ideas latinoamericanas: ¿discopina fenecida?

Ideologia y pensamiento utopico libertario en America Latina

Ideologia y pensamiento utopico libertario en America Latina

Posibilitar otra vida trans-capitalista

Posibilitar otra vida trans-capitalista

Presagio y topica del descubrimiento, 1992

Presagio y topica del descubrimiento, 1992

Resistencia popular y ciudadanìa restringida

Resistencia popular y ciudadanìa restringida

Resistencia, democracia y actores sociales en América latina

Resistencia, democracia y actores sociales en América latina

Y seguimos filosofando

Y seguimos filosofando


Piezas-24 – Entrevista Horacio Cerruti

Horacio Cerutti Guldberg, filósofo de la liberación (Argentina)

Horacio Cerutti: ¿Qué significa filosofar desde Nuestra Amércia?


Filosofía de la Liberación Latinoamericana

A tres décadas del surgimiento de la filosofía de la liberación, las constataciones cotidianas muestran el aumento exponencial de las desigualdades e injusticias sociales que le dieron origen. Por si hubiera dudas, allí están los datos duros de las estadísticas para mostrar, sin ir más lejos, que la “copa de champagne” no sólo no se derrama, sino que tiene cada vez bases más delgadas. Esta progresión geométrica de la explotación pareciera justificar por sí sola una insistencia creciente en la necesidad de liberación.Junto con estas constataciones también se cierne abrumadoramente la sensación de caminos cerrados, de imposibilidades que se presentan como cuasi insuperables, las cuales mitigan la esperanza y enardecen los ánimos, colocando no ya a la vida, sino a la mera sobrevivencia de las grandes mayorías de la humanidad en primerísimo plano.Con todo, parece atisbarse, si se quiere en espasmódicas manifestaciones, un renovado ciclo de organización de la resistencia de grandes segmentos de población a nivel regional y mundial. Representana aquellos que no están dispuestos a someterse y pugnan por mantener viva la esperanza, alimentan su rebeldía y trabajan en la construcción de otro mundo posible y deseable.Esta compleja y abigarrada situación sobreexige a la labor intelectual, y particularmente a la filosófica, para que esté a la altura de lascircunstancias y se ponga en condiciones de hacer un aporte que coadyuve al avance exitoso del proceso de liberación o, cuando menos, colabore en su desempantanamiento y participe en (re)impulsarlo creativamente.

Urge Filosofar desde Nuestra América

Pensar la realidad a partir de la propia historia crítica y creativamente para transformarla. Este enunciado parece condensar una respuesta mínima, y seguramente todavía insuficiente, a la inquietante pregunta acerca de cómo es posible filosofar desde Nuestra América para el mundo, por supuesto. Pregunta y respuesta constituyen la primera y muy provisional manifestación de un modo sugerente de enfocar estas enigmáticas cuestiones, casi siempre trivializadas en consideraciones sin trama epistemológica y el cual, poco a poco, va patentizando su fecundidad teórica.La recuperación de la expresión martiana Nuestra América no se realiza, por cierto, sin precisar alcances. Como mínimo cabe señalar que nuestra alude a las grandes mayorías apartadas progresiva y crecientemente de los beneficios de la vida colectiva o que nunca los han disfrutado. Mucho menos han podido sentirse participantes integrados a procesos comunes o a conjuntos de ciudadanos responsables con capacidad de decisión en aquello que les concierne de modo directo. La expresión conlleva fuertes connotaciones utópicas en su referencia a una Nuestra América que, en rigor, todavía no es nuestra en plenitud. Tiene, por ello, la virtud de explicitar cabalmente la tensión no resuelta entre una realidad cotidianamente experimentada como indeseable (no es éste el mejor de los mundos posibles, ni siquiera uno medianamente bueno o aceptable) con ideales largamente acariciados, organizados en un horizonte axiológico de realizaciones difícilmente apreciables en su posibilidad de concreción, aunque por de pronto valiosos en cuanto objetivos anhelados que brindan mucho a acciones e imaginarios individuales y colectivos.La realidad a pensar –y desde la que se piensa– se constata como constitutivamente compleja, fragmentante, diversificada, heterogeneizante y, sobre toda otra consideración, atravesada o estructurada por una conflictividad social creciente. Y es que la peyorativamente descalificada como decimonónica cuestión social, ya no parece invisibilizable fácilmente. Ya no reclama siquiera ser objeto de un existencialista compromiso para intelectuales, como a mediados del siglo pasado. Constituye un fenómeno ineludible –con compromiso o sin él–, envolvente, asfixiante. Tampoco comporta ningún mérito político o humanista aceptar que se parta de esa constatación. Crece día a día y no resta más que tomar posición frente a su inexorabilidad.Por ello, cabe renovar esfuerzos para no reaccionar sólo con simplismos trivializando el fenómeno o procurando neutralizarlo con salidas mecanicistas o maniqueísmos esterilizantes. Está invitando a un gran esfuerzo intelectual, a renovar el ingenio, a redoblar enfoques probables, a incrementar la calidad y vigor de las aproximaciones reiteradas.Está en juego –nada menos– la supervivencia de la especie y del planeta e, incluso, de todo aquello que merezca el nombre de vida. No es exagerar para nada y cuanto antes se admita, más rápido y eficazmente se pondrán en marcha energías creativas suficientes. Se está contra reloj. Por otra parte, conviene enfatizar que no hay tarea compartible más mundial, global, universalizable que ésta.En este contexto (escenario y tarea) la filosofía (el filosofar activo, propositivo, riguroso y pertinente) reencuentra rumbos clásicos y novedades sin cuento. Articular saberes –con visión epistemológica abierta y amplia, controlada racionalmente– se presenta como un procedimiento fecundo y pasible de rectificación continua para ejercer creativamente la crítica a situaciones indeseables y activar grietas de desarrollos alternativos, los cuales hagan efectivas las transformaciones anheladas. No basta con constatar que todo cambia, para romper inercias y pasividades cómplices. La recreación de lenguajes, estilos, procedimientos, enfoques y aproximaciones forma parte de un generalizado proceso de reconceptualización y de readecuación de la percepción, para afinar capacidades humanas compartibles y acumular fuerzas sugerentes y propositivas. Una renovada consideración analítica de los modos en que se ha ejercido la filosofía en muy diversos marcos institucionales socioculturales, permitiría atisbar funciones y tareas complementarias pendientes o vislumbradas, no sólo en los espacios académicos, insoslayables, sino también en otros ámbitos de la vida colectiva plenos de sugerencias, virtualidades y, aunque parezca difícil de aceptar, saberes. Es el caso de la renovada atención que se está prestando a la vigencia del pensamiento de los pueblos originarios a nivel mundial, con aprecio por la energía creativa que de ellos mismos surge al confrontar cosmovisiones aparentemente congeladas.Es el caso de la revolución epistémica insoslayable que ha aportado la insistencia de reconocimiento de las diferencias enriquecedoras específicas por parte de colectivos de mujeres desde muy diversas situaciones a lo largo de historias y geografías diversas.Quizá así, enfrentando la cuestión axial del poder, el quehacer filosófico (el filosofar) alcanzará cotas de excelencia y sintonizará (¿al fin?) con esfuerzos muy apreciables que se impulsan desde otras latitudes con entusiasmo contagioso. Con sus preguntas y esbozos de respuesta un filosofar renovado y accesible se requerirá y apreciará por más amplios conjuntos de jóvenes; aportará, quizá, con mayor pertinencia a los procesos de investigación en curso dentro de las instituciones académicas y justificará su presencia y extensión creciente como parte de la formación cultural amplia exigible a nivel de la enseñanza media superior y también de los medios masivos de comunicación.En una coyuntura internacional que semeja la hollywoodense deformación caricaturesca del Far West puede que apostar por ingeniosas políticas de la filosofía acerque al obstinado ideal de una democracia radical en la calle, en la casa y en la cama, tal como es anhelada crecientemente a nivel mundial.

 

 

 

Mis Libros

  • 2005 Configuraciones de un filosofar sureador, México, Ayuntamiento de Orizaba, Veracruz, 210 pp.
  • 2003 En coautoría con Mario Magallón Anaya, Historia de las ideas latinoamericanas ¿disciplina fenecida?. México, Universidad de la Ciudad de México / Casa Juan Pablos, 181 pp.
  • 2001 Experiencias en el tiempo. (Colección Fragmentario), Morelia, Jitanjáfora, 109 pp.
  • 2000 Filosofar desde Nuestra América. Ensayo problematizador de su modus operandi. Prólogo Arturo Andrés Roig, (Colección Filo-sofía de Nuestra América), México, Miguel Ángel Porrúa/ CCYDEL, CRIM, UNAM, 202 pp.
  • 1997 Filosofías para la liberación ¿liberación del filosofar? Pró-logo Ar-turo Rico Bovio, Toluca, Universidad Autónoma del Estado de México, 221 pp.
  • 1996 Memoria comprometida. Prólogo Eduardo Saxe-Fernández, (Cua-dernos Prometeo, 16), Heredia, Costa Rica, Universidad Nacio-nal, 170 pp
  • 1996 Lecturas críticas. (Cuadernos del Instituto Michoacano de Ciencias de la Educación, 13), Morelia, IMCED, 165 pp.
  • 1991 Presagio y tópica del descubrimiento. (Colección 500 Años Des-pués, 4), México, UNAM, 156 pp.
  • 1989 De varia utópica (Ensayos de utopía III). Presentación Luis Enrique Orozco, (Pensamiento Latinoamericano, ICELAC, 7), Bogotá, Universidad Central, 239 pp.
  • 1989 Ensayos de utopía (I y II). Toluca, Universidad Autónoma del Estado de México, 150 pp.
  • 1986 Hacia una metodología de la historia de las ideas (filosóficas) en América Latina. (Colección Ensayos Latinoamericanos, 1), Gua-dalajara, Universidad de Guadalajara, 174 pp.
  • 1983 Filosofía de la liberación latinoamericana. Presentación Leo-poldo Zea, (Colección Tierra Firme), México, Fondo de Cul-tura Eco-nómica.
  • 1981 Pensamiento idealista ecuatoriano. Estudio introductorio, se-lec-ción de textos, (Biblioteca Básica del Pensamiento Ecuato-riano, 8), Quito, Banco Central del Ecuador y Corporación Editora Nacio-nal, 553 pp.

Enlaces


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Anticitera. Lontano dai luoghi comuni – Il principale obiettivo che ci poniamo è quello di contribuire alla riattivazione del pensiero critico.

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ANTICITERA

Lontano dai luoghi comuni

 

 

Contenuti

 

A. Rodin, Il pensatore.

A. Rodin, Il pensatore.

PERCHÉ QUESTO SITO

 

Siamo arrivati al punto da non pensare quasi più, in nessun ambito, se non prendendo posizione «pro» o «contro» un’opinione e cercando argomenti che, secondo i casi la confutino o la supportino.

Con queste parole Simone Weil descriveva, poco prima di morire, la condizione di chi, entrando a far parte di un “partito”, accetta posizioni che perlopiù ignora o quantomeno non ha esaminato razionalmente. In altre parole di chi si colloca nella confortevole posizione di non dover pensare.
L’estensione di tale condizione alla gran parte degli ambiti della vita è a nostro avviso un aspetto importante della grave crisi culturale che stiamo attraversando, che si traduce non solo in un generale impoverimento intellettuale, a tutti i livelli sociali, ma, in modo interdipendente, anche in una sorta di anestesia che imbriglia il pensiero in una rete di luoghi comuni di cui sembra sempre più difficile acquisire consapevolezza critica, non fosse che per l’enorme velocità con la quale l’omologazione veicolata dalle nuove tecnologie sopravanza la produzione di idee e di cultura nuova.
Collocarsi lontano dai luoghi comuni costa fatica, nella misura in cui comporta la riattivazione del pensiero vivo e della razionalità.
Usando il termine «razionalità» non intendiamo qui riferirci a un dato biologico, magari espresso da qualche modulo cerebrale prodotto dal processo di adattamento cognitivo della specie umana alle condizioni di vita risalenti all’Età della pietra. Intendiamo invece riferirci ad un particolare aspetto culturale che ha le proprie radici nella civiltà greca e che prende le mosse dall’assunzione consapevole della dimensione relazionale della natura umana. E più specificamente a quel metodo, formatosi con lo sviluppo dell’antica retorica, che a partire dal “discorso” (logos) ha generato prima l’argomentazione filosofica e poi la dimostrazione scientifica. Vale sottolineare, per altro, che solo intendendo “razionalità” in questa accezione si può comprendere che gli strumenti della scienza e della tecnica, pur essendo un suo prodotto, non possono fondarla né garantirla. Detto altrimenti, l’esercizio della razionalità non è affatto assicurato dall’impiego automatico di alcuni suoi derivati e può essere abbandonato, come è accaduto più volte e come sembra accadere in larga misura anche oggi, quando l’argomentazione razionale appare relegata all’interno di alcune delle mille schegge in cui si trova frammentato il sapere specialistico, mentre invece nel contesto della cultura di massa si preferisce adottare una gamma di tecniche alternative maggiormente adattabili alla comunicazione mediatica: dalla propaganda affabulatoria, basata sulla libera associazione d’idee, fino al “marketing cognitivo” e al “neuromarketing”, che rovesciano la tradizione dell’antica retorica usando raffinate conoscenze scientifiche per ottimizzare l’efficacia di tecniche di persuasione in cui è assente l’argomentazione razionale. Inoltre, l’uso della razionalità viene sempre più spesso contestato in modo aperto: ad esempio da parte di coloro che vedono in essa un inutile ostacolo all’accoglimento del “nuovo che avanza” con l’istantaneità che esso richiede.
A nostro parere, l’esercizio della razionalità è semplicemente irrinunciabile per capire davvero il mondo in cui viviamo. In modo particolare di fronte alla vistosa contraddizione tra l’immagine del “progresso” e i fenomeni di degenerazione culturale cui assistiamo quotidianamente, resi opachi dal fatto che la nostra cultura tende a rendere automatiche non solo le attività sterili e servili, ma anche, e in misura sempre crescente, anche quelle creative e “liberali”.
È solo un apparente paradosso, ad esempio, che pur trovandosi sempre più immersi in un ambiente plasmato dagli esiti dell’attività tecnico-scientifica, si è persa la capacità di giudicare il valore della scienza, in vari sensi e a diversi livelli.
Da un lato, i dispositivi tecnologici che condizionano in modo sempre più potente la nostra esperienza individuale e sociale sono vissuti perlopiù come potenze magiche, e ciò non soltanto per la progressiva semplificazione dei loro protocolli di utilizzo ma soprattutto per la crescente estraneità della quasi totalità della popolazione alla razionalità scientifica che ha prodotto i principi del loro funzionamento. La perdita del controllo intellettuale e materiale su quanto ci circonda favorisce inoltre il diffondersi dell’idea, riduttiva e fuorviante, che l’alfabetismo scientifico consista nel sapere chi sono gli esperti e come ottenere i loro responsi. Sono facce della stessa medaglia. Gli stessi risultati scientifici, o meglio la loro banalizzazione giornalistica, vengono somministrati con profusione crescente come vettori di stupefazione acritica, e ciò non solo ad uso e consumo di quella poltiglia indistinta a cui è ridotta oggi la cultura popolare, ma anche, e in forme sempre più penetranti, nei luoghi dell’educazione e della formazione, determinando una crescente assuefazione all’accettazione passiva di una pseudo-cultura impossibile da capire e quindi solo da consumare.
È importante peraltro sottolineare che una battaglia culturale per rivitalizzare l’esercizio della razionalità, anche al fine di poter giudicare criticamente il valore dei suoi stessi derivati, trova nel campo avverso numerosi esponenti nello stesso mondo scientifico. La parcellizzazione del sapere in innumerevoli “saperi” tra loro non comunicanti e coltivati da distinte consorterie di specialisti, ciascuna pronta a legittimare tutte le altre pur di evitare interferenze nel proprio settore, produce infatti un abbassamento drammatico delle barriere in grado di arginare il dilagare dell’irrazionalismo, anche tra gli stessi scienziati. Il lavoro del “ricercatore” è divenuto una specializzazione professionale come le altre, operante in un campo generalmente molto ristretto di specialisti, reso omogeneo dalle riviste sulle quali pubblica, dai protocolli standardizzati, dai linguaggi e dai software adottati. In altre parole, il ricercatore non è più, generalmente, un intellettuale, e non appena esce dal suo microsettore di competenza, egli è preda dell’affabulazione mediatica precisamente come l’uomo della strada.
In senso generale, la “cultura” sta dunque perdendo la capacità di giudicare la società e proporre strumenti di sintesi e interpretazione del mondo, per divenire un settore compartimentato e amministrato da regole comunicative interne: un territorio al tempo stesso privilegiato e inoffensivo.
La battaglia culturale che vorremmo promuovere comprende la possibilità di cogliere la situazione finora esposta in una dimensione storicamente sensata. Un effetto particolarmente preoccupante dell’omologazione culturale in cui siamo immersi consiste infatti nella perdita della dimensione del tempo storico, che induce l’azzeramento della stessa intuizione che ci possa essere qualcosa da sottoporre a giudizio in termini razionali.
Così, ad esempio, ciò di cui abbiamo davvero bisogno per riattivare un serio dibattito sul significato e l’utilità della cultura scientifica è innanzitutto una riflessione critica sul metodo che ha reso possibili le acquisizioni della scienza medesima. In questa prospettiva una disciplina come la storia della scienza, uscendo dal suo residuale alveo specialistico, può acquisire una rilevanza di primo piano come banco di prova delle diverse concezioni della scienza oggi in circolazione e come bussola per orientarsi nelle scelte attuali. E non solo questo. Poiché il metodo scientifico è uno dei frutti più nutrienti prodotti dalla civiltà classica, la sua indagine in chiave storico-critica fornisce un viatico naturale per il superamento della tradizionale divisione tra le “due culture”, lungo il quale la nostra stessa cultura classica può uscire dal suo attuale ruolo di anticaglia inutile per tornare ad essere un patrimonio vivo cui attingere creativamente. Ci sembra che su questo terreno si possa incontrare più di un’occasione per ripensare l’unità, e dunque la sopravvivenza, della cultura e riportare in tal modo il dibattito su istituzioni come scuola e università sul piano culturale loro proprio, sottraendolo agli specialisti del nulla che troppo spesso se ne sono occupati.

Anticitera prende le mosse dalle considerazioni precedenti. I suoi contenuti si articolano in cinque categorie principali: cultura, società, istruzione, ricerca, lingua italiana. Oltre a brevi saggi, recensioni e interviste scritti specificamente per Anticitera, vorremo offrire al lettore una raccolta di testi anche non recenti di vari autori, inclusi gli scriventi, che reputiamo interessanti ma di non banale reperibilità. Con tutto ciò vorremmo provare a dare un contributo alla riflessione pubblica su questioni ampiamente dibattute, o in altri casi richiamare l’attenzione su temi a nostro parere ingiustamente trascurati o dimenticati, nella convinzione che se c’è qualcosa che non si dovrebbe temere è proprio di non essere “attuali”.
In tutti i casi, il principale obiettivo che ci poniamo è quello di contribuire, almeno in piccola misura, alla riattivazione del pensiero critico. Siamo coscienti che si tratta di un tipo d’impegno culturale che deve procedere attraverso una comunicazione intensa, senza fretta, che talora può apparire faticosa, ma che comunque privilegia la cosa da comunicare rispetto alla potenza del canale di comunicazione, l’esigenza di fornire una rappresentazione critica della realtà rispetto all’obiettivo di modificarla. Nel contesto storico in cui ci troviamo, mantenere una distinzione tra gli strumenti e le visioni del pensiero e la loro possibilità di imporsi nella concreta vita sociale non ci appare necessariamente un segno d’irresolutezza, quanto piuttosto un sano antidoto contro la confusione attivistica.

Gli autori

Alessandro Della Corte – alexdc1979@libero.it

Stefano Isola – stefano.isola@gmail.com

Lucio Russo – lucio.russo@tiscali.it


Raccolte di testi

In questa sezione sono raccolti testi che riteniamo utili sia come strumenti di riflessione generale che come pietre di paragone per giudicare la nostra stessa cultura. Comprende testi di varia natura: oltre ad alcuni scritti inediti o di difficile reperibilità degli stessi artefici di questo sito, una serie di testi che riteniamo importanti ma la cui esistenza è spesso segnalata solo nelle bibliografie.


La macchina di Anticitera
Il frammento principale della macchina di Anticitera-Museo archeologico nazionale di Atene

Il frammento principale della macchina di Anticitera. Museo archeologico nazionale di Atene.


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Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) – Quando si discute intorno alla libertà del volere o del libero arbitrio, non si domanda se l’uomo possa fare ciò che vuole, bensì se nella sua volontà vi sia sufficiente indipendenza.

Nuovi saggi sull'intelletto umano

Nuovi saggi sull’intelletto umano

 

 

«[…] quando si discute intorno alla libertà del volere o del libero arbitrio, non si domanda se l’uomo possa fare ciò che vuole, bensì se nella sua volontà vi sia sufficiente indipendenza».

 

Gottfried Wilhelm von Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, II, 21.

 


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Salvatore A. Bravo – Senza progettualità, in un mondo senza virtù e nell’epoca della normalità del male, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete.

David Foster Wallace 05

Ci sono due giovani pesci che nuotano
e a un certo punto incontrano un pesce anziano
che va nella direzione opposta,
fa un cenno di saluto e dice:
– Salve ragazzi. Com’è l’acqua? –
I due pesci giovani nuotano un altro po’,
poi uno guarda l’altro e fa:
– Che cavolo è l’acqua?
David Foster Wallace, Questa è l’acqua

[clicca qui per leggere la pagina di Wallace]

Salvarore A. Bravo

L’epoca della normalità del male

 

***

Sommario

***

I pesci di David Foster Wallace

Dialettica spazio-tempo

L’ipostasi merce e la natura consumante dell’uomo nichilista

Cura maniacale del corpo e pornografia di se stessi

L’antiumanesimo del sistema Capitale

Un mondo senza virtù

Genealogia del Capitale e dello stato presente

La prima domanda da porre

Lottare contro la “normalità” e non contro la “banalità” del male

La perenne tensione dell’ostilità predatoria

L’economicismo è la negazione del libro (dell’umanesimo)

Senza modelli progettuali,
non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete

 

*******
*****
***
*

I pesci di David Foster Wallace

Ci sono totalitarismi impliciti – e dunque non riconosciuti – che agiscono capillarmente con modalità pervasive, difficilmente identificabili. Il problema è il percorso per riconoscere il totalitarismo implicito e l’integralismo in cui siamo immersi, come pesci in acqua. In genere, non si è capaci di discernere la qualità ambientale ed ideologica che si respira e ci trasforma, in una parte di un tutto, poiché la normalità, l’abitudine all’indifferenza come al parossismo del valore di scambio congela ogni attività critica domandante. L’animale è parte integrante dell’ambiente, è specializzato e funzionale al suo contesto di sopravvivenza, non lo cambia, non può trasformarlo, perché in assenza del linguaggio e della rappresentazione non può agire su di esso per riconfigurarlo, e quindi ne è passivamente parte, come il pesce nell’acqua che non può rappresentarsi l’acqua e di conseguenza non può immaginare un altro modo di vivere. La tecnocrazia, nella stessa maniera, sempre più persuade che lo stato attuale è l’unico mondo possibile, dunque siamo come pesci in acqua, senza linguaggio per ripensare l’ambiente socioeconomico in cui siamo gettati.

***

Dialettica spazio-tempo

Non è necessario organizzare squadre di pompieri pronte a bruciare libri ed a proibire la lettura come in Fahrenheit 451. Il potere economico ha assimilato il potere politico: oggi utilizza mezzi meno palesi, fa appello all’esemplificazione, ai processi di alienazione, alle miserie dell’abbondanza per lobomotizzare l’essere umano, per sottrarre all’ente generico (Gattungswesen) le sue potenzialità, il suo essere un animale simbolico. Aldo Capitini definiva il totalitarismo consumista una forma di “americanismo-pompeiano”: l’eccesso, la dismisura è la legge dell’integralismo economico. La spazializzazione contro la temporalità vissuta ed in quanto tale storica e dotata di senso, è la dialettica che sostanzia il totalitarismo economico. Per Kant è il tempo l’intuizione che dà senso allo spazio, per il totalitarismo economico, lo spazio deve assimilare lo spirito (Geist).

***

L’ipostasi merce e la natura consumante dell’uomo nichilista

La spazializzazione agisce in modo da occupare gli spazi per sottrarre con la stimolazione delle immagini, degli idola-merce, ogni possibilità di prassi del soggetto che sottoposto al “bombardamento etico” del libero mercato, abdica ad ogni valutazione critica sul senso e sulla congruità del contesto in cui è disperso. Lo spazio pervade i tempi della mente sottoponendola ad un’accelerazione osmotica di desideri, riducendola ad un porto nel quale le merci sono scaricate e caricate. La spazializzazione della vita è dinanzi ai nostri sguardi, ma come il pesce nell’acqua, non ci rappresentiamo il mondo merce, non lo nominiamo: eppure esso c’è , è l’ipostasi e noi siamo l’accidente. Il processo di animalizzazione dell’essere umano, a questo punto, non necessita di squadre di pompieri pronte ad incenerire, con i libri, i pensieri autonomi e disfunzionali al sistema capitale, ma agisce riempendo gli spazi di merce sottraendo al libro, alla sospensione della valorizzazione, ogni possibilità di diventare reale.
Le grandi librerie si riempiono di oggetti di ogni genere, di conseguenza gli imprenditori delle multinazionali del libro, non sono antitetici al sistema capitale, ma complementari, al punto che il potenziale lettore trova in una libreria, non solo libri, ma anche carabattole, stoviglie, mezzi multimediali: la distrazione dal libro, dal pensiero critico, è così organizzato all’interno degli spazi nei quali invece, si dovrebbe organizzare e riorganizzare l’apparato simbolico: il fine è solo vendere, per cui il libro è reso eguale a qualsiasi merce.
Non è necessario che vi siano i pompieri ad inibire la lettura, si agisce per la dimenticanza del libro, della coscienza oppositiva e critica, ostruendo i canali nutritivi della temporalità, inaridendo la natura umana generica per definirla nei termini di natura consumante, ed osservante agli obblighi della legge del libero scambio.

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Cura maniacale del corpo e pornografia di se stessi

Il passo ulteriore dell’asfissia-merce è l’adattarsi dell’essere umano alle leggi del mercato, al punto di percepire se stesso come “capitale umano”: una merce un po’ speciale, da immettere nel mercato delle competenze e della competizione previa ostentazione della merce in oggetto. La pornografia di se stessi. La spazializzazione è la messa in vendita sul mercato della “cura di sé” che – a dispetto dell’ultimo Foucault – non è affatto la messa in atto di liberi processi di soggettivizzazione, ma è unicamente cura maniacale del corpo, tentativo di ridurlo a corpo morto, a pura spazializzazione ben tornita, cartina di tornasole per rendere più vendibili le proprie competenze comprate nel circuito della “offerta formativa”.

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L’antiumanesimo del sistema Capitale

Il modo di produzione capitalistico nega la natura degli esseri umani, pone la persona sullo stesso livello degli animali non umani: questi ultimi si caratterizzano per essere specializzati in una particolare funzione; il capitalismo specializza l’essere umano rendendolo funzione in una particolare attività produttiva. È negata la polisemia simbolica dell’essere umano: nel capitalismo assoluto l’essere umano è sempre più consumatore senza limiti, piuttosto che produttore. È opportuno rammentare la lezione di Marx, che a soli ventisei anni, aveva compreso gli effetti antiumanistici del sistema capitale:

«La creazione pratica d’un mondo oggettivo, la trasformazione della natura inorganica è la riprova che l’uomo è un essere appartenente ad una specie e dotato di coscienza, cioè è un essere che si comporta verso la specie come verso il suo proprio essere, o verso se stesso come un essere appartenente ad una specie. Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; produce solo sotto l’impero del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente difronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno della specie, a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza». [1]

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Un mondo senza virtù

Marx descrive un mondo senza virtù, senza aretè (ἀρετή), parola greca in italiano poco traducibile, perché la virtù per i Greci era la realizzazione di sé. Essa è bellezza, perché generativa (Platone, Simposio), è l’umano nella forma finalistica: ciascuno ha un’indole, un dono/virtù (cristianamente: i “talenti”), che deve affinare e formare, affinché la sua vita sia degna di essere vissuta; divenendo se stesso, l’essere umano si stacca dallo stato ferino, dall’immediatezza dei bisogni riordinandoli in una dimensione universale. Pertanto Aristotele può affermare[2] che lo sviluppo virtuoso dell’intelletto india, rende simili alla divinità. Giustizia e felicità coincidono nella visione greca: la Politeia (Πολιτεία) di Platone presuppone non solo la giustizia, ma anche la felicità, poiché ogni cittadino occupa un ruolo che corrisponde alla propria natura e pertanto è felice. Senza la dimensione temporale non vi è telos (τέλος), ma solo il bieco meccanicismo che riduce l’essere umano ad un ente gettato in uno spazio senza tempo e dunque sottratto alla storia. La lotta personale e collettiva è tenere in vita il proprio senso, la fedeltà al proprio destino contro l’integralismo economico meccanicistico. Naturalmente non è sufficiente. Perché la prassi sia parte del quotidiano, si deve elaborare un progetto collettivo a più voci. Ma senza questa prima forma di resistenza non vi alcun inizio, alcun agere, ma solo l’ipostasi mercato, che curva le parole, le espressioni dialogiche nella forma merce, e dunque il dispositivo (Gestell) si installa per parlare per noi, i posseduti dall’economia di mercato.

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Genealogia del Capitale e dello stato presente

L’emancipazione dal capitalismo assoluto non può prescindere dalla conoscenza critica. Massimo Bontempelli, filosofo e storico, nel suo scritto L’ Agonia della scuola italiana chiarisce che sapere critico è quel sapere capace di mettere in discussione i fini, mentre la tecnocrazia didattica si sofferma sulle abilità tecniche per giungere a fini già prestabiliti ed indiscutibili. L’emancipazione necessita di una messa in discussione dei fini, mediante i processi archeologici-genealogici della Filosofia. Il metodo processuale tipico della Filosofia – e strutturatosi in particolare con Rousseau, Marx e Foucault – rimette in discussione l’ipostasi mercato rimappando dati e necessità che invece, attraverso di esso, appaiono nella loro umanità, non più un destino senza destinazione, ma potenzialità interne alla storia umana. Un nuovo asse culturale è dunque imprescindibile al fine della prassi, altrimenti si sarà condannati a vivere nell’eterna ripetizione del presente, esposti alla precarietà come al male di vivere come fosse una necessità ontologica.

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La prima domanda da porre

Bisogna, dunque, reimparare a domandare, ed in ciò la Filosofia è un ausilio non sostituibile:

«Le domande da porre non sarebbero: Quali tipi di sapere volete squalificare dal momento che chiedete: è una scienza? Quali soggetti parlanti, discorrenti, quali soggetti d’esperienza e di sapere volete dunque “minorizzare” quando dite: “Io che faccio questo discorso, faccio un discorso scientifico, e sono uno scienziato”? Quale avanguardia teorico-politica volete intronizzare per staccarla da tutte le forme circolari e discontinue del sapere?».[3]

La prima domanda da porre è “Chi parla?”. Abbiamo smesso di chiedercelo. I libri, come la Storia, muovono a questa domanda che desostanzializza i feticci per porre la verità della Storia: lo Spirito umano. Senza la domanda fondamentale “Chi parla?”, il mercato continuerà a parlare, a decidere, ad imperare sui sudditi e sugli esecutori. Si narra che l’imperatore che decise la costruzione della grande muraglia fece bruciare tutti i libri, tranne i libri di medicina. A chi gli chiedeva perché avesse bruciato anche i libri di Storia, l’imperatore rispose che sono sempre un pericolo per il governo in corso.

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Lottare contro la “normalità” e non contro la “banalità” del male

Anche oggi libri e Storia sono minacciati dal potere economico che – per eternizzarsi – deve rimuovere dallo spazio i libri e ridurre la Storia a semplice successione temporale, a semplice presenza nel curriculum scolastico. Il potere si sottrae, così, al giudizio, poiché per la Storia insegna a riconoscere il male e dunque non lo rende “normale”, al punto da non riconoscerlo. Lo Spirito del mondo (Weltgeist), la prassi che porta verso l’emancipazione e la libertà si ritira dall’umanità: al suo posto non resta che il tempo privato dalla sua teleologia. La normalità del male, per George Mosse, è la condizione per l’affermarsi dei totalitarismi, e non la banalità del male della Arendt:

«Non mi pare dunque adeguato parlare della banalità del male, come fa Hannah Arendt. Trovare un’altra espressione è difficile, ma io parlerei della normalità di un male che minaccia in forme estreme il nostro secolo […] Che cosa c’era nella mente? Innanzitutto questo pensiero chiaramente espresso in un famoso discorso di Himmler: abbiamo visto tutti questi cadaveri, e tuttavia restiamo forti. Ritengo che Hannah Arendt non sia nel giusto parlando di banalità del male».[4]

***

La perenne tensione dell’ostilità predatoria

La normalità del male è la precarizzazione della vite oggetto dei capricci del mercato e della legge del profitto. Il paradigma del nuovo ordine mondiale è l’utile che si concretizza nell’individuo astratto, avulso dalla comunità che usa tutto e tutti al fine di ottenere il massimo risultato possibile. La condizione della normalità del male è simile allo stato di natura descritto da Hobbes nel Leviatano. Ogni individuo nello stato di natura vive perennemente la tensione dell’ostilità predatoria, è come se il cielo minacciasse continuamente tempesta, per cui lo stato di precarietà è presente anche nei periodi brevi di calma:

«Infatti la guerra non consiste soltanto in una battaglia od in una serie di operazioni militari, ma in un periodo di tempo in cui appare chiara la volontà di combattere, e perciò l’elemento tempo deve essere considerato come compreso nella natura della guerra, così come lo è nella natura delle mutazioni atmosferiche. Infatti come la natura di una burrasca non consiste soltanto in uno o due scrosci di pioggia, ma nella inclinazione al cattivo tempo per molti giorni insieme; così la natura della guerra non consiste nei suoi particolari episodi, ma in un atteggiamento ostile, durante la durata del quale non vien data requie al nemico».[5]

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L’economicismo è la negazione del libro (dell’umanesimo)

Libri e prassi sono filologicamente legati, sono il luogo dove lo Spirito dell’umanità prende forma per simbolizzare dialetticamente il tempo. La glorificazione dell’economicismo ha il suo puntello adamantino nella negazione del libro e della lettura. Ogni resistenza deve iniziare dall’attività pratico-teoretica della lettura. Contro il nichilismo economico e dello spettacolo il libro può essere una fenditura nel sistema, un diniego silenzioso dello stato presente. Senza la cultura del libro e della mediazione razionale consustanziale ad essa, non resta che l’incultura dell’immediato, la quale, mentre promette e lusinga con le sue aspettative, forgia le catene del nichilismo, il cui tempo è contenuto nella guerra di tutti contro tutti, nella condizione di spettatore dinanzi agli effetti della globalizzazione.

***

Senza modelli progettuali, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete

Per ricostruire un’azione politica, è necessario lo studio in cui trovare modelli mediati razionalmente nella presente storia: senza modelli progettuali, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che ripete se stesso. I modelli progettuali, in modo comparativo, dispongono al pensiero. La pedagogia del nichilismo, la distruzione dei contenuti – a favore della tecnodidattica che pone i libri in uno stato di minorità – è il germe che veicola la tirannia dell’economia sulla politica, è la negazione della cittadinanza. Contro tutto questo, sono possibili soluzioni plurali, ma rimane la centralità del pensiero teoretico/pratico.

 

[1] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, paragrafo XXIV.

[2] Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b30-31.

[3] M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi Torino 1977, p. 170.

[4] G. Mosse, Intervista sul nazismo, Laterza, Bari 1997, pp. 72-73.

[5] T. Hobbes, Leviatano, Utet Torino, pp. 158-159.

 

 


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Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866 -1944) – Si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra. Oppure si apre la porta: si esce dall’isolamento; ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi.

Si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra. Oppure si apre la porta: si esce dall'isolamento; ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi.
Punto linea superficie

Punto linea superficie

 

 

L’artista deve formare non solo l’occhio,
ma anche la sua anima.
V. V. Kandinskij

L’arte oltrepassa i limiti
nei quali il tempo vorrebbe comprimerla,
e indica il contenuto del futuro.
V. V. Kandinskij

 

«Ogni fenomeno può essere vissuto in due diverse maniere. Queste due maniere non sono arbitrarie, ma legate ai fenomeni – esse vengono derivate dalla natura dei fenomeni, da due loro proprietà:

Esterno- Interno.

 

Si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra: i rumori ne vengono attutiti, i movimenti diventano fantomatici e la strada stessa appare, auraverso il vetro trasparente, ma saldo e duro, come una entità separata, che pulsi in un “al di là”.

Oppure si apre la porta: si esce dall’isolamento; ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi.

[…]

L’opera d’arte si rispecchia sulla superficie della coscienza. Essa sta al di là e si dilegua dalla superficie, senza lasciar traccia, appena scomparso lo stimolo. Anche in questo caso c’è una specie di vetro trasparente, ma saldo e duro, che rende impossibile il diretto rapporto interno. Anche qui abbiamo la possibilità di entrare nell’opera, di divenirne parte attiva e di vivere con tutti i sensi la sua pulsazione».

Vasilij Vasil’evič Kandinskij, Punto Linea Superficie, Adelphi, Milano 1968, pp. 7-8.

 


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Salvatore A. Bravo – La prudenza è virtù che coniuga qualità e misura dando un significato alla quantità, determinandola. La società dell’imprudenza si concretizza nella forma del nichilismo economicistico.

Prudenza–Salvatore Bravo 032

Salvatore A. Bravo

La Prudenza al tempo della categoria della quantità

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Il sistema merce rimuove le categorie di qualità e di misura

La società dell’imprudenza si concretizza nella forma del nichilismo economicistico: in assenza di un asse ontologico ed assiologico, l’essere umano – non più soggetto attivo di scelte e deliberazioni – è parte di un enorme sistema in cui la vita è sostituita con la sopravvivenza aumentata: non si vive che per la quantità, mentre la qualità e la misura sono categorie rimosse dal sistema merce, perché antieconomiche.
Nella Scienza della logica di Hegel le categorie che strutturano ontologicamente l’ente per determinarlo sono: quantità, qualità e misura. Il nichilismo appare nell’infinita produzione di merci e varianti per assimilare tutto in un’unica categoria: la quantità. Quest’ultima è il paradigma mediante il quale ogni esperienza umana è ridotta a pura astrazione, resa su un piano orizzontale senza differenze qualitative e misura. Ciascuna esistenza è ridotta sul piano della matematizzazione: gli esseri umani sono classificati per età, reddito, capacità di prestazione e resistenza. La qualità e la misura non compaiono in alcuna indagine demoscopica quali fattori imprescindibili della condizione umana.
Il pensiero critico – il suo affinamento, la sua formazione – è considerato una pietra d’inciampo nella corsa verso la quantità. Lo stato presente della globalizzazione è nel segno della quantità. La quantità è in ogni gesto, è il metro di misura con cui ci si relaziona, è – e si vorrebbe fosse sempre di più un meccanismo attuantesi in modo automatico – parte della psiche, dei processi di valutazione e giudizio. Si è perso il bivio in cui il deliberare implicava la chiarezza dell’universale, del bene da perseguire; al suo posto regna la quantità e la competizione deregolamentata: l’unica valutazione che viene effettuata è il risultato finale. Ognuno è come gli altri, ma nel contempo lotta contro tutti.
La quantità – senza qualità e misura – si rende visibile nello smantellamento della virtù della prudenza, espressione non solo della responsabilità soggettiva, ma specialmente del discernimento prudenziale, che presupponeva il cercare la differenza tra il bene ed il male. Se la quantità è l’unico paradigma di valutazione, ogni giudizio sulle conseguenze di un’azione come sul valore in sé di una scelta è reso nulla. Tutto si valuta in astratto, il necessario diviene l’accumulo a prescindere dal senso e dalla qualità. La quantità forma alla fredda triste passione dell’alienazione da sé e dalle alterità.

 

Piero del Pollaiolo, Prudenza (1470)

Piero del Pollaiolo, Prudenza (1470)

Metafora della prudenza

Non è un caso che la prudenza, virtù che coniuga qualità e misura dando un significato alla quantità, determinandola, è raffigurata con l’immagine-metafora di una donna seduta in trono che regge con la mano destra uno specchio e con la mano sinistra un serpente. Lo specchio non allude alla vanità, ma alla necessità di conoscersi, non vi è prudenza senza conoscenza di sé, e dunque del bene e del male. È l’anima umana a dare la misura alla quantità non senza aver deliberato sui bisogni autentici. Affinché ciò possa avvenire è indispensabile esperienza, capacità di guardarsi con l’occhio dell’anima, di serbare memoria di sé, degli altri e della comunità. Il serpente è parte dell’immagine della prudenza, poiché con le sue spire annodate ben rappresenta a memoria ed il tempo. Solo la chiarezza delle finalità etiche, della gerarchia dei valori consente la pratica della prudenza:

«Il providens dalla cui contrazione si ottiene prudens è chi è in grado di evitare pericoli o danni. Si tratta, dunque, della virtù deliberativa per eccellenza, che pone la pratica in condizione di discernere il bene dal male, ma anche di prepararsi per il futuro a partire da un presente che ha fatto tesoro degli insegnamenti del passato».[1]

Senza la prudenza non vi è concordia, non vi è giustizia, non vi è comunità, ma solo il caos della lotta, senza trascendenza.
La prudenza è virtù che rende manifesto il fondamento umano della realtà: l’essere umano non solo fonda la realtà, ma specialmente dà ad essa senso mediante la valutazione delle circostanze, la relazione tra mezzi e fini, e quindi introduce la qualità e la misura, non consente all’opacità delle quantità di sovrechiare qualità e relazione:

«Alla radice dell’ampia trattazione di questa virtù si colloca soprattutto il sesto libro dell’Etica Nicomachea di Aristotele. In cui la prudenza (phronesis) è posta in contrasto con la scienza (episteme). Mentre la prima si riferisce alla capacità di giudicare e valutare, in base a norme flessibili, ciò che muta “ciò che può essere diversamente da ciò che è”, la seconda ha a che fare con l’immutabile, come nel caso degli enti matematici o dei movimenti degli astri».[2]

 

 

Giotto, Prudenza, 1306

Giotto, Prudenza, 1306

Declino della prudenza

Il declino della prudenza, la sua manipolazione fino a renderne perverso il significato, passa attraverso il nichilismo dell’onnipotenza. Con l’affermarsi degli Stati nazionali, con il delinearsi della potenza acquisitiva, la prudenza perde il suo senso ontologico per divenire azione di potenza che utilizza ogni mezzo per affermare la potenza nullificatrice della quantità. A questo punto la qualità e la misura si eclissano per lasciare spazio alla prudenza nella forma della scaltrezza, in funzione nichilistica ed acquisitiva: ogni limite adesso naufraga a favore della dismisura, della quantità che pur di espandersi utilizza qualsiasi mezzo, in vista del fine. Ogni equilibrio tra mezzo e fine per salvaguardare l’universale è scisso:

«La prudenza a questo punto non è più la virtù che insegna a scegliere tra il bene ed il male. Venendo a mancare i criteri indiscutibili della scelta (perché vengono da Dio), il male è necessario a conservare il potere. I mezzi sono indifferenti quel che conta è il conseguimento dei fini. Del resto, in quel tempestoso periodo della storia, l’indebolimento degli Stati e delle Chiese scarica più pesantemente sugli individui il peso delle decisioni rischiose, non più garantite da norme riconosciute ed unanimemente condivise». [3]

Cesare Ripa, Prudenza

Cesare Ripa, Prudenza

Democrazia e politica senza prudenza

La democrazia ridotta ad atomistica delle solitudini, la coazione a ripetere del modo di produzione capitalistico è svuotata di ogni senso e significato, perché è nei fatti il regno della quantità, della prudenza-scaltrezza che ha come fine gabbare l’altro. La prudenza asservita alla quantità, al successo, al narcisismo primario, resa perversa nel suo agire fonda la tragedia dell’epoca attuale, in assenza del fondamento veritativo. La prudenza nella forma della scaltrezza finalizzata alla quantità divora ogni alterità, assimila nella forma della quantificazione violenta:

«L’impresa anche oggi non è agevole, perché la deviazione dell’idea di prudenza verso quella di cautela, di astuzia, di simulazione e dissimulazione è penetrata in profondità nel senso comune a causa della diffusione capillare delle teorie della ragion di Stato tra Cinquecento e Seicento. Teorie discusse, secondo i contemporanei, perfino nei negozi di barbiere o nelle chiacchiere, in cui si citano continuamente Tacito e Machiavelli. La democrazia fatica perciò ancora oggi a dissipare i sospetti allora seminati e a riprendere come virtù propria anche la prudenza quale strumento per passare dai valori ultimi che, politicamente o religiosamente, ciascuno in Europa aveva cercato di imporre con la violenza, ai “valori penultimi” che creano uno spazio comune di confronto».[4]

 

Carpaccio, Prudenza

Carpaccio, Prudenza

Prudenza e coraggio

Senza prudenza autentica anche le altre virtù sono sminuite nel loro valore. L’anomia della società globale, del capitalismo assoluto, è nella forma di un piano liscio dove tutto avviene semplicemente. La virtù della fortezza, del coraggio consapevole, della prassi trasformatrice è obliata; al suo posto non vi è che l’azione rapace dei mercati, in assenza di un fondamento veritativo che possa distinguere il bene dal male, non resta che l’apeiron della violenza travisata in coraggio. La virtù del coraggio, invece, dev’essere mediata anch’essa dalla conoscenza di sé,. Risuona ancora una volta “Conosci te stesso”, l’ascolto di sé. Senza la conoscenza di sé, non si conoscono le paure personali e collettive che si addensano nell’animo di ognuno per impedire quelle resistenze che ogni agire creativo e non conformistico producono. Il coraggio è sguardo rivolto alla propria identità: non vi è prudenza senza coraggio. La comunità è viva quando le istituzioni formano al coraggio ed alla prudenza, virtù senza le quali non vi è che la violenza della sudditanza. L’essere umano ridotto alla passività, alla bestialità negatrice diviene veicolo di violenza. Ogni democrazia viva ed autentica non può che formare alla fortezza ed alla prudenza, virtù senza le quali non vi è partecipazione, ma solo mobilitazione coatta ed indifferenza:

«In sintesi, il coraggio consiste, nel nominare la paura, nel riconoscerla; in un secondo momento, nel trovare il modo di attraversarla; e, infine, nel trovare i mezzi e la possibilità per agire, nonostante si continui ad avere paura. Perché non è vero che, mentre si agisce, la paura è solo un ricordo». [5]

Il coraggio, affermava Dante nel libro quarto (capitolo XVII) del Convivio, è la consapevolezza della paura e la capacità di tenerle testa. Non vi è umanesimo e formazione all’umano senza la riflessione sulle virtù. Tale Bildung non può avvenire che con la formazione classica e con gli studi umanistici: senza di essi siamo destinati al regno ferino, alla regressione collettiva.

Senza prudenza e fortezza non c’è trasformazione. L’economicismo, con il suo integralismo, rafforza se stesso con il declino di ogni virtù, della verità, con la riduzione a pura quantità di ogni differenza, perché l’opposizione esige il coraggio e la prudenza per riportare l’umanità nella condizione di soggetto della Storia.

 

Salvatore A. Bravo

 

 

Le virtù cardibnali

Le virtù cardibnali

 

[1] Remo Bodei, Giulio Giorello, Michela Marzano, Salvatore Veca, Le virtù cardinali, Laterza, Bari 2017, pag. 5.

[2] Ibidem, pag. 6.

[3] Ibidem, pagg. 12-13.

[4] Ibidem, pag. 17.

[5] Ibidem, pag. 49.


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Maurizio Migliori – La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni. Platone è l’incontro con la grande bellezza e ci insegna che la filosofia è la scienza degli uomini liberi

Maurizio Migliori 02

Dedico questa raccolta alle allieve e agli allievi
che ho incontrato nell’arco di cinquant’anni,
nella scuola e nell’Università,
e a tutti coloro che hanno avuto la pazienza
di leggermi e di ascoltarmi,
dando un ulteriore senso
al mio lavoro di ricerca con l’amato Platone.

M. M.

coperta 315Questa è l’affermazione che considero come la formula sintetica
di quello che Platone pensa
della realtà cosmica e del suo “disordinato ordine”
(Maurizio Migliori, Uni-molteplicità del reale e dottrina dei Principi):

Οὐκοῦν εἰ μὴ τοῦτο, μετ’ ἐκείνου τοῦ λόγου ἂν ἑπόμενοι βέλτιον λέγοιμεν ὡς ἔστιν, ἃ πολλάκις εἰρήκαμεν, ἄπειρόν τε ἐν τῷ παντὶ πολύ, καὶ πέρας ἱκανόν, καί τις ἐπ’ αὐτοῖς αἰτία οὐ φαύλη, κοσμοῦσά τε καὶ συντάττουσα ἐνιαυτούς τε καὶ ὥρας καὶ μῆνας, σοφία καὶ νοῦς λεγομένη δικαιότατ’ ἄν.

«Sarà quindi meglio affermare, come più volte abbiamo detto, che nell’universo c’è molto illimitato (ἄπειρόν) e sufficiente (ἱκανόν) limite, e, al di sopra di essi, una causa non da poco, la quale, ordinando e regolando gli anni, le stagioni e i mesi, può, a buon diritto, essere chiamata sapienza e intelligenza» (Platone, Filebo, 30 C 3-7).

***

Maurizio Migliori

La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni

ISBN 978-88-7588-247-1, 2019, pp. 592, Euro 38

indicepresentazioneautoresintesi

 

Locandina M. Migliori – La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni

Questo testo mette a disposizione del lettore importanti studi, alcuni proposti qui per la prima volta in italiano, altri ormai quasi introvabili. Migliori, studioso di Platone internazionalmente riconosciuto, svolge una trattazione che parte da Eraclito e, attraverso la sofistica, raggiunge il filosofo ateniese, che è oggetto di una serie di contributi di assoluto interesse. Molti dialoghi risultano scandagliati in modo approfondito, soprattutto il Fedro e tutti i dialoghi dialettici (Parmenide, Sofista, Politico e Filebo). In effetti, Migliori ha un particolare interesse per la dialettica, il che spiega gli studi su Eraclito e Gorgia. La dialettica è alla base della filosofia platonica, qui ricostruita in modo chiaro e profondo. Le tesi proposte, originali, ma mai svolte per il gusto della novità, manifestano una testarda fedeltà al testo. Lo prova la abbondanza di citazioni presenti in questi articoli, che costituiscono una delle ricchezze offerte al lettore interessato. Anche quando affronta un tema particolarmente dibattuto, come la scrittura filosofica di Platone, Migliori non si limita ad evidenziare l’importanza decisiva del “gioco protrettico” proposto nel Fedro, ma offre una serie di esempi testuali che mostrano nel concreto le tecniche utilizzate dal filosofo.
Tra questi saggi non mancano trattazioni etiche e politiche, al cui interno l’Autore affronta anche tematiche rischiose, come l’analisi del libro X della Repubblica. Mentre vari studiosi vorrebbero quasi espungerlo, Migliori si impegna a mostrare le ragioni che lo rendono utile e necessario per completare questo grande dialogo. Ciò gli dà anche la possibilità di demolire una serie di diffusi luoghi comuni, ad esempio sulla condanna dell’arte, sulle Idee e sull’anima. Quest’ultimo tema è poi affrontato in un saggio, che evidenzia la differenza tra la concezione dell’anima, una delle più grandi “invenzioni” greche, e la visione biblica, centrata sulla resurrezione.
Infine, Migliori fa una proposta ermeneutica e filosofica di fondo, che definisce “approccio multifocale”. Questo paradigma consente, da una parte di capire il pensiero classico che pratica normalmente questo tipo di lettura della realtà, dall’altra di avere una visione che rispetta le relazioni e la complessità del nostro mondo, senza cadere nelle trappole logiche e pratiche del relativismo.


Indice

 

Introduzione di Luca Grecchi

***

Note sulla dialettica in Eraclito
Premessa
La presenza assente del logos
Il contenuto del logos
L’esito finale dell’eraclitismo

***

Gorgia quale sofista di riferimento di Platone
Il problema del rapporto tra Gorgia e Platone
Un primo nesso tra Gorgia e Protagora
Gorgia retore e sofista
Il Gorgia
Il Parmenide
Il Teeteto e il Sofista
Conclusioni

***

La filosofia dei sofisti: un pensiero posteleatico
Diversi possibili itinerari di ricerca
Il quadro descrittivo del Sofista
Il problema del non essere
Il riferimento a Gorgia
Il rapporto filosofico con Protagora
Intreccio e differenze nell’uso dei due sofisti

***

Come scrive Platone.
Esempi di una scrittura a carattere “protrettico”
Alcune premesse di metodo
Un errore volontario
Una maturità precoce?
Il rinvio della trattazione del Bene
Un esercizio infinito
Una necessaria diffidenza
L’architettonica di un dialogo
Allusioni e inserimenti “estemporanei”
Il (cauto) utilizzo di altri dialoghi
L’utilità del metodo proposto

***

La struttura polifonica del Fedro
Una situazione paradossale
Elementi introduttivi alla lettura del dialogo
Un incontro particolare
La struttura del dialogo
Il motivo dominante: la tecnica di comunicazione orale e scritta
e la responsabilità di colui che comunica
Il centro tematico dell’opera: il vero tra filosofia e mania
Il tema più importante: l’anima e il rapporto uomo-Dio
Conclusioni

***

L’unità della Repubblica
come esempio di scrittura platonica: il libro X
Prologo
Alcune riflessioni di valore generale
La fine del libro IX e il collegamento con il libro X
La condanna dell’arte mimetica
Primo punto
Secondo punto
Terzo punto
Il problema delle Idee
Le Idee dei manufatti
Primo problema
Secondo problema
La divinità e la produzione delle Idee
Il problema dell’anima
La partizione dell’anima
Immortalità dell’anima e sopravvivenza
Il mito di Er
Conclusione

***

Dialettica e Teoria dei principi
Nel Parmenide e nel Filebo di Platone
Prologo
Alle fonti della dialettica
Dialettica e filosofia
L’identità unomolti
Un sistema di postulati risolutivi
Originarietà della dialettica
La dialettica come metodo
Natura del metodo dialettico
L’indicazione metodica
I passaggi metodici
Una metodologia complessa
La dialettica come filosofia
Necessità della struttura polare. La negazione dell’UnoUno
Due processi per una sola realtà
La Polarità originaria
Uno e Non Uno
Limite e Illimitato
Polivalenza funzionale dei Principi
Limite, Uno e Bene
La Misura
La visione dialettica del reale
Tutto è Misto
Misto e Idee
Essere e tempo, divenire e atemporalità.
L’inutilità della dialettica dell’Essere senza Uno
Il Divenire e l’Istante
L’articolazione della dialettica platonica: Tutto e parte
Un rapporto dialettico, ma non paritetico
Conseguenze della dialettica interoparte
Dialettica e aporie delle Idee
La dialettica platonica
Una dialettica né binaria né trinaria
Metodo dialettico e Principi primi

 ***

 Alcune riflessioni su misura e metretica
(il Filebo tra Protagora e Leggi, passando per il Politico e il Parmenide)
Prologo
Una premessa di metodo. lo scritto platonico come “gioco”
La trattazione metafisica del Filebo
Prima parte del dialogo: Processo ontogonico e Causa
Premessa: la realtà è uni-molteplice
Le radici metafisiche di questa realtà uni-molteplice
LApeiron
Il Peras
Il misto
La causa
Conseguenze e conferme sul piano cosmo-ontologico
Ordine e disordine del Cosmo alla luce del Politico
La causalità ideale alla luce del Parmenide
Prime conclusioni
Seconda parte del dialogo: il Bene e la Misura
Premessa: la trattazione del Bene è necessaria

  1. Alcune “anticipazioni” sul Bene
  2. Le “allusioni” alla natura del Bene
  3. Il segno del Bene-Misura
  4. Le due trattazioni a confronto
  5. La metretica
  6. La metretica nelle prime opere
  7. Le due metretiche del Politico
  8. L’applicazione della “misura” nell’azione del politico
  9. Un breve riferimento alle Leggi

La vita buona e misurata

Due tipi di uguaglianza
L’importanza del modello trinario

Appendice I
Le Idee sono composte da altre Idee
Appendice II
La trattazione di cause e concause
Fedone
Politico
Timeo

Due brevi osservazioni finali

 ***

 Cura dell’anima.
L’intreccio tra etica e politica in Platone
La natura bivalente della politica
L’intreccio tra etica e politica
Il parallelo tra anima e polis
Potere politico e dominio di sé
Elementi di antropologia platonica
L’anima
Beni e virtù
Due “Idee” di piacere
Il Bene
L’azione del politico
Il ruolo ordinatore delle leggi
Le responsabilità dei soggetti politici
Centralità dell’impianto educativo
Politica e retorica
Il fine della politica: ordine e felicità
Il Bene come fine
Due modelli di vita a confronto
Il piacere e i beni umani
Virtù e felicità
Un necessario approdo escatologico

***

Polivalenza strutturale della filia in Platone
La semanticità di filia nei dialoghi
La funzione sociopolitica dell’amicizia
L’esempio dei conviti
Due specifiche applicazioni
Critone o dell’amicizia
Il rinvio al Primo amico
Una riflessione finale

***

La domanda sull’immortalità e la resurrezione.
Paradigma greco e paradigma biblico
Prologo
L’evoluzione del paradigma greco
La tradizione orfica e il suo sviluppo filosofico
Platone
Una duplice valutazione
Una riflessione razionale sull’anima
Le prove dell’immortalità dell’anima
Tripartizione dell’anima e sua sopravvivenza
Anima e corpo in Aristotele
Immortalità dell’anima ed etica
Immortalità dell’anima ed opere essoteriche
La concezione ebraica
Una visione mitica
Una visione unitaria dell’essere umano
La condizione dopo la morte
Lo stacco tra immortalità dell’anima e resurrezione
Socrate e Cristo
L’incontro nell’ellenismo e nel cristianesimo
Filone di Alessandria
Il primo cristianesimo
Conclusioni

***

Un paradigma ermeneutico
per la storia della filosofia antica: l’approccio multifocale
Una situazione straordinaria
Il senso e le ragioni di una scelta diversa
L’emergere del multifocal approach
Il contributo della sofistica
L’esperienza platonica
L’elaborazione aristotelica
Il valore attuale di questa visione dell’antico

 


In copertina: Vasilij Kandinskij, Verso l’alto (Empor), 1929, olio su cartone. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. L’energia del pensiero nella ricerca della bellezza si protende verso l’alto (empor). Le forme geometriche astratte disegnano il volto di profilo di una persona: il personaggio è sorretto – in un punto di equilibrio ideale – da un trapezio e da una lettera E (empor). L’occhio, lo sguardo, è rivolto verso un’altra grande E a destra, in alto.


Alcuni dei suoi lavori

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Maurizio Migliori – Non c’è opera e non c’è argomento trattato in cui Aristotele non si misuri con i suoi predecessori.

Maurizio Migliori, Uni-molteplicità del reale e dottrina dei Principi


Maurizio Migliori su Youtube

 

Maurizio Migliori: La felicità (Platone) – Università di Macerata

Maurizio Migliori: Introduzione a Platone – Università di Macerata

Maurizio Migliori: La virtu dei greci, realizzazione di se stessi

Maurizio Migliori: Platone, dialettica e complessità del piacere

Maurizio Migliori: Fare un mestiere bellissimo e impossibile, lo storico della filosofia antica

Maurizio Migliori – Platone: Un pensiero della dialettica

Maurizio Migliori: La libertà non è star sopra un albero

Maurizio Migliori – La crisi e la speranza

Maurizio Migliori: Il contributo degli antichi

Maurizio Migliori: La felicità

Maurizio Migliori: Platone, il disordine ordinato

Maurizio Migliori: Il De generatione et corruptione di Aristotele: una base per l’ontologia del sensibile. Parte Prima

Maurizio Migliori: Il De generatione et corruptione di Aristotele: una base per l’ontologia del sensibile. Parte Seconda


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N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


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Margherita Guidacci (1921-1992) – Chi ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo.

Margherita Guidacci 011
M. Guidacci, Le poesie

M. Guidacci, Le poesie

[…]  se uno
ha veramente a cuore la sapienza,
non la ricerchi in vani giri,
come di chi volesse raccogliere le foglie
cadute da una pianta e già disperse dal vento,
sperando di rimetterle sul ramo.
La sapienza è una pianta che rinasce
solo dalla radice, una e molteplice.
Chi vuol vederla frondeggiare alla luce
discenda nel profondo, là dove opera il dio,
segua il germoglio nel suo cammino verticale
e avrà del retto desiderio il retto
adempimento: dovunque egli sia
non gli occorre altro viaggio.

Margherita Guidacci, Le poesie, a cura di Maura Del Serra, Le Lettere, Firenze 1999, p. 420. Ora in: Margherita Guidacci, Sibille, a cura di Ilaria Rabatti, Petite Plaisance, Pistoia 2019.


Margherita Guidacci (1921-1992) – Il nostro mondo.

Margherita Guidacci, Margherita Pieracci Harvell – «Specularmente. Lettere, studi, recensioni». A cura di Ilaria Rabatti

Margherita Guidacci (1921-1992) – Voi, guardie e doganieri, perché non chiedete il passaporto al tordo e al colombaccio? Si faccia dunque un bando rigoroso perché ogni uccello resti confinato nel proprio cielo territoriale. Fino a quel giorno anch’io, con tutti gli uomini, rifiuterò le frontiere.


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Stefano G. Azzarà – Domenico Losurdo (1941-2018), in memoriam.

Stefano Azzarà - Domenico Losurdo
Losurdo nell'aprile 2011

Domenico Losurdo nell’aprile 2011

Domenico Losurdo

(1941-2018), in memoriam

di Stefano G. Azzarà

Università di Urbino

 

Sinistrainrete

 

A chi, per lusingarlo o con sincera ammirazione, gli faceva notare quanto originale e personale fosse il suo modo di pensare, Hegel rispondeva che se mai fosse stato presente qualcosa di esclusivamente personale nel suo sistema, questa cosa sarebbe stata senz’altro sbagliata. È un episodio che Domenico Losurdo era solito raccontare spesso ai propri allievi, per spiegare quale fosse il giusto atteggiamento conoscitivo degli studiosi e in particolare degli storici della filosofia. Ma è anche una citazione che sintetizza in maniera assai efficace il modo di praticare il lavoro filosofico al quale Losurdo stesso ha sempre cercato di attenersi. A differenza di molti altri intellettuali, i quali anche quando parlano del mondo finiscono in realtà per parlare in primo luogo di se stessi e della propria distinzione nei suoi confronti, in Losurdo era infatti assolutamente preminente il rigore dell’oggettività. La volontà pervicace, cioè – radicata in una scelta argomentata sul piano teoretico in favore della “via hegeliana” rispetto alla “via fichtiana” – di concepire tale lavoro come uno sviluppo il più possibile coerente delle determinazioni inscritte nell’oggetto, ovvero nella cosa stessa. L’idea che il movimento storico, la cui comprensione era ciò che gli stava più a cuore, scaturisse non dall’attività produttiva della coscienza che incontra il reale e se ne appropria o lo risolve in se stessa, oppure se ne tiene a distanza e lo deplora per specchiarsi nella propria superiore immacolatezza, ma da una contraddizione che è inscritta già nell’oggettività. In un tessuto ontologico, cioè, che è intrinsecamente lacerato, scisso. Agitato da una conflittualità immanente che con la sua trama tragica costituisce il presupposto del dolore del negativo e che, trasmettendosi semmai al soggetto che se ne fa carico nella relazione, chiama sempre di nuovo all’appello la fatica del concetto.

Sebbene lui stesso si sarebbe con ogni probabilità sottratto a questo genere di considerazioni, c’è però, a guardar bene, qualcosa di decisamente personale che possiamo comunque richiamare, a proposito di questo lavoro di ricerca giunto all’improvviso a conclusione dopo cinquantun anni (al 1967 risalgono la sue prime pubblicazioni); qualcosa cioè che può assumere un valore generale che vada al di là dell’esperienza soggettiva di un singolo. Losurdo, infatti, ha dovuto faticare e lottare con enorme determinazione per il riconoscimento delle proprie posizioni, sia in ambito accademico che in altri contesti. Ma questo sforzo necessario non è stato il marchio del suo percorso individuale, bensì la presa di coscienza del fardello che era ricaduto su un’intera generazione di intellettuali costretti dalla storia a fare i conti con il tramonto di un’epoca e di un intero mondo etico. E destinati ad affrontare questa crisi in maniere profondamente diverse e ad uscirne lungo percorsi che alla fine si riveleranno divergenti.

Da hegeliano e da marxista, Losurdo era assolutamente convinto della politicità intrinseca della filosofia: la filosofia è in primo luogo il nostro tempo appreso nel concetto e proprio per questo motivo la politica ne costituisce il primo e più importante banco di prova. Non certamente nel senso che questa disciplina debba limitarsi a una mera descrizione del mondo, o addirittura a una sua giustificazione, come sempre gli rimproveravano gli interpreti malevoli del motto di Hegel su reale e razionale: anche volendo, questo non sarebbe possibile perché la filosofia, quando è realmente tale, conserva sempre una missione di trascendenza che è la conseguenza inevitabile della sua potenza discorsiva universalistica. Lo è, piuttosto, nel senso che il giudizio politico è il vero experimentum crucis della ragione. E la capacità di esercitarlo in maniera corretta può al limite falsificare intere filosofie, fino a dimostrare, spesso, la meschinità delle costruzioni teoriche anche più grandiose.

Enorme è stata ad esempio la profondità filosofica di Nietzsche nel confrontarsi con i conflitti della propria epoca e nel rivelare l’ipocrisia dei sentimenti morali e dello spirito del progresso, dietro i quali si cela spesso nient’altro che una diversa forma di volontà di potenza, per quanto priva del coraggio e della buona coscienza di chi sa riconoscere la necessità della forza e persino della schiavitù. Oppure quella di Heidegger nel denunciare nel cuore della metafisica soggettocentrica della modernità e nello sviluppo della tecnica e delle forze produttive capitalistiche un progetto che ha i caratteri del dominio. Oppure ancora la lucidità di Schmitt nel mettere a nudo le aporie di quel pacifismo idealistico wilsoniano e liberale dietro il quale, ancora ai nostri giorni, si muove l’idea di un nuovo ordine mondiale tipicamente imperiale; un ordine che supera in una direzione globale ogni localizzazione e ha già posto fine all’ordinamento eurocentrico della terra per sostituirlo con un ordinamento diverso ma non meno aggressivo. Tuttavia, nel momento in cui questi intellettuali dalla statura gigantesca sono stati posti dagli eventi davanti alla necessità del giudizio politico, alla scelta di fronte al corso del mondo, ecco che proprio la loro pretesa di trascendenza filosofica è venuta immediatamente meno. E alle molteplici contraddizioni dell’universalismo, nella cui esplosione si annunciava già all’epoca la crisi della modernità, non sono riusciti a contrapporre nient’altro che una miserevole apologia del particolarismo. Ragion per cui, concludeva Losurdo, «nonostante la sua radicalità e gli straordinari risultati conoscitivi che permette di conseguire», la loro dirompenza decostruttiva, e cioè «la distruzione dei fiori immaginari» esercitata da quelle celebrate filosofie, finiva in realtà «col rinsaldare le catene della schiavitù salariata e della schiavitù vera».[1] Così che quei potenti dispositivi si rivelavano essere una critica dell’ideologia raffinatissima ma di natura tutta reazionaria.

La politica come “dissacrazione” del discorso filosofico e riconduzione alla sua sostanza, dunque. O forse meglio: come quella sua mondanizzazione che, facendola scendere dal cielo delle idee alla terra del conflitto secolare, esalta semmai, anche richiamandola al suo compito, le potenzialità umanistiche di questa forma di sapere, la sua natura progettuale. «Se Hegel ha insegnato l’ineludibilità della situazione storica», insomma, «Marx insegna l’ineludibilità in essa dei conflitti politico-sociali» e in questo modo definisce da quel momento «la qualità nuova del discorso filosofico»;[2] il quale adesso, di fronte a tali conflitti, è obbligato in quanto tale – e non in virtù delle sue eventuali ricadute morali – a prendere posizione. Ebbene, poiché ha praticato in prima persona questo «engagement oggettivo» in tempi che per la politica erano divenuti assai difficili – in tempi di riflusso nei quali ogni possibilità di trasformazione del mondo era stata negata e il lavoro intellettuale veniva sempre più ad essere concepito come apologia, edificazione, consolazione e supplemento d’anima rispetto alla mera amministrazione di ciò che è esistente –, a Domenico Losurdo come ad altri intellettuali della sua generazione questo prendere posizione è spesso valso le diffidenze e i sospetti di chi, dietro ogni ragionamento che non occulti la propria politicità militante, avverte subito il sentore della propaganda. Di una propaganda fuori luogo e fuori tempo massimo, oltretutto, visto che alle sue spalle – e cioè in quel campo filosofico-politico che a lungo si era richiamato all’emancipazione del genere umano – si poteva riconoscere non il fragore di un’avanzata trionfale ma il tono sordo di un esercito in rotta che nella sua fuga dal marxismo (ma anche dalla storia stessa) si andava disperdendo in mille direzioni.

Proprio per questo allora, proprio perché teneva sempre unite filosofia e politica in un’epoca che aveva voltato le spalle alla rivoluzione, proprio perché, dato lo spirito dei tempi, l’accusa di parzialità o partigianeria sarebbe stata sempre dietro l’angolo non meno di quella di giustificazionismo, Losurdo sapeva che per farsi riconoscere sul terreno accademico avrebbe dovuto essere assolutamente impeccabile proprio su quel presunto piano filosofico “puro”, e in apparenza asettico rispetto ad ogni conflitto, del quale i suoi critici interlocutori culturali – sempre pronti a denunciare l’ideologia ovunque tranne che presso se stessi – si ergevano a custodi. Solo in questo modo, solo anticipando ogni obiezione e scavando minuziosamente tra le fonti, solo padroneggiando a menadito gli autori di cui si occupava – e senza sottrarsi alle questioni teoretiche più sottili – poteva permettersi di portare la filosofia sul terreno di una politica intesa come la trasposizione sul terreno culturale della contesa tra emancipazione e de-emancipazione. Anche grazie a una cultura sterminata, va aggiunto, che gli consentiva di spaziare lungo due millenni e più di una storia universale che al suo sguardo abbracciava anche quel mondo negletto e misconosciuto che sta al di là dei confini dell’Occidente. Ecco, allora, che coloro che prima ancora che le posizioni particolari ne mettevano in discussione il metodo raramente hanno avuto il coraggio di sfidarlo in pubblico, ben sapendo che chi lo aveva fatto ne era uscito per lo più con le ossa rotte. Ecco, ad esempio, che anche i più rinomati specialisti di Hegel, e soprattutto quelli più risoluti nel rinchiudere il discorso del filosofo tedesco in una dimensione conservatrice e prevalentemente coscienzialista, ne rispettavano il giudizio e si dimostravano improvvisamente concilianti quando gli capitava di confrontarsi con lui.

Torniamo sul terreno dell’oggettività, allora, dal quale abbiamo preso le mosse. Losurdo è stato uno degli studiosi italiani più noti e tradotti al mondo. Si è confrontato anzitutto con la filosofia classica tedesca sulla scorta dell’eredità di Arturo Massolo e Pasquale Salvucci e del loro impianto hegelo-marxiano e di quel periodo storico e filosofico ha cambiato per sempre la nostra conoscenza.

Con Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant ha sottratto il filosofo tedesco alla «rispettabilità borghese e filistea»[3] consacrata dalla storiografia filosofica e cioè all’ambito del conservatorismo o del moderatismo politico nel quale era stato inscritto dalla tradizione degli studiosi liberali ma anche, nonostante Engels, da quella degli studiosi marxisti: in realtà, la «negazione del diritto di resistenza» in Kant rispondeva certamente all’opportunità di «rassicura[re] le corti tedesche» ma era soprattutto una mossa che «permetteva di affermare l’irreversibilità della Rivoluzione francese e quindi di condannare i tentativi di restaurazione».[4] Contro le insorgenze reazionarie come la Vandea e contro ogni tentativo di riscossa feudale, perciò, il filosofo tedesco continuerà ad essere “giacobino” perché continuerà ad aspettarsi, persino con troppa ingenuità, che «in seguito alla trasformazione prodotta da alcune rivoluzioni [nach manchen Revolutionen der Umbildung] sorga finalmente quello che è il fine supremo della natura, cioè un generale ordinamento cosmopolitico, che sia la matrice, nella quale vengano a svilupparsi tutte le originarie disposizioni della specie umana».[5]

Con saggi come Fichte, la rivoluzione francese e l’ideale della pace perpetua,[6] oppure Fichte, la resistenza antinapoleonica e la filosofia classica tedesca[7] o ancora Fichte e la questione nazionale tedesca,[8] Losurdo ha scandagliato poi la dialettica che ha animato la parabola filosofico-politica di una figura chiave della storia culturale e politica tedesca ma, più in generale, dell’ideologia europea: se in un primo momento «alla Francia rivoluzionaria, Fichte guarda […] come al paese che non solo avrebbe potuto o dovuto aiutare la Germania a scuotere il giogo del feudalesimo e dell’assolutismo monarchico, ma che avrebbe anche contribuito in modo decisivo alla realizzazione di una pace duratura o perpetua in Europa e nel mondo», ecco che con l’invasione napoleonica e i Befreiungskriege, al modificarsi della situazione concreta, si produce un mutamento netto. Un mutamento all’insegna della gallofobia e della teutomania, però; un mutamento che lo porterà lontano da ogni equilibrio critico e a respingere in toto, assieme all’inviso napoleonismo, anche lo spirito del 1789 in un primo momento esaltato. E a contestare dunque la rivoluzione politica ma soprattutto quell’universalismo filosofico che ne era alla base, e che dagli esiti della rivoluzione era stato tradito, dando vita in tal modo alla lunga stagione del particolarismo culturale tedesco, con le sue drammatiche ripercussioni tra le due guerre mondiali.

Ed eccoci a Hegel, infine, studiato in testi come Hegel, questione nazionale, Restaurazione,[9] Tra Hegel e Bismarck,[10] La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel,[11] Hegel e la libertà dei moderni[12] e infine Hegel e la Germania:[13] non solo per questo grande filosofo «La libertà della persona è un diritto inalienabile e imprescrittibile e non c’è positivo ordinamento giuridico che possa annullarlo»,[14] farà notare Losurdo, ma questa posizione andrà anche molto al di là del contrattualismo dell’epoca. Già nelle lezioni sulla Filosofia del diritto, per Hegel «Il Notrecht [era] diventato il diritto del bisogno estremo, dell’affamato che rischia ti morire d’inedia e che pertanto non solo ha il diritto, ma “il diritto assoluto”» di rubare il pezzettino di pane capace di assicurargli la sopravvivenza, “il diritto assoluto” di violare il diritto di proprietà, la norma giuridica che condanna comunque il furto».[15] Lungi dall’essere il difensore filosofico della Restaurazione e l’ispiratore del militarismo prussiano, dobbiamo riconoscere in lui, in questa prospettiva, lo scopritore di un continente filosofico e politico interamente nuovo, un continente che va molto al di là del liberalismo e che toccherà poi a Marx, non per caso, esplorare a fondo.

Ma proprio con il liberalismo, ossia con le posizioni culturali che sono risultate vincitrici alla fine di quella ulteriore guerra mondiale che è seguita alla Seconda guerra dei Trent’anni, Losurdo andava affrontando nel frattempo un corpo a corpo che si sarebbe rivelato ultracedennale. A metà degli anni Novanta ne Il revisionismo storico sottolineava l’emergere di una «gigantesca rilettura del mondo contemporaneo» il cui obiettivo era in realtà «la liquidazione della tradizione rivoluzionaria dal 1789 ai giorni nostri» e che rappresentava dunque una «svolta storiografica e culturale epocale»[16] che era al contempo anche una svolta interna al liberalismo stesso. Il quale, assorbito «il radicale mutare dello spirito del tempo nel passaggio dalla grande coalizione antifascista alla Guerra fredda» e maturata «la conseguente elaborazione di un’ideologia “occidentale”»,[17] si liberava adesso delle componenti democratizzanti acquisite nel corso del suo confronto storico con il movimento radicale e con quello socialista per tornare al proprio passato e riorientarsi in chiave nettamente conservatrice. Quando dieci anni più tardi questo percorso sarà compiuto, e cioè quando l’affermazione del neoliberalismo si sarà consolidata, ecco allora la Controstoria del liberalismo, un testo con il quale viene definitivamente confutata la classica definizione del liberalismo come teoria della libertà e dei diritti individuali: il liberalismo rappresenta semmai sul piano culturale «un’auto- designazione orgogliosa, che ha al tempo stesso una connotazione politica, sociale e persino etnica».[18] Con esso, cioè, «Siamo in presenza di un movimento e di un partito che intende chiamare a raccolta le persone fornite di un’”educazione liberale” e autenticamente libere, ovvero il popolo che ha il privilegio di essere libero, la “razza eletta”[…] la “nazione nelle cui vene circola il sangue della libertà”». La teoria liberale è dunque in primo luogo l’autocoscienza della comunità dei liberi, dei «ben nati»,[19] la quale crea uno spazio sacro che distingue uomini e sottouomini a partire da precise clausole d’esclusione fondate sul censo, sull’etnia, sul genere.

Ecco allora che proprio la tanto celebrata «limitazione del potere» consente alla società civile di sfuggire alla mediazione dello Stato o di neutralizzare quella sua universalità formale che, per quanto spesso posta a copertura di un blocco di interessi di classe, è comunque diversa dal mero nulla. E si configura perciò come la mossa politica che sollecita nel sistema dei bisogni l’«emergere di un potere assoluto senza precedenti», invitando a una delimitazione della comunità dei liberi che si contrappone a quella dei servi non solo sul piano filosofico ma anche sul piano concretamente materiale e geografico. E fungendo infine da legittimazione di una conquista coloniale che attraversa tutta l’età moderna e che con le sue pratiche di sterminio liquida ogni pretesa liberale di “individualismo”.

Proprio la volontà pervicace di limitare la dignità umana al solo Occidente e l’incapacità di pensare il concetto universale di uomo, tra l’altro, è il terreno filosofico che Losurdo mostrerà accomunare il liberalismo e il pensiero reazionario, del quale si è occupato una prima volta con La comunità, la morte e l’Occidente e una seconda con il suo monumentale Nietzsche, il ribelle aristocratico. Con la sua «polemica contro la modernità e il presente»,[20] il filosofo considerato a lungo “inattuale” si collocava in realtà inizialmente in tutto e per tutto sul terreno del liberalismo europeo e della sua denuncia, oggi ignorata o rimossa, dell’avanzata massificante dei movimenti socialisti e democratici, e si identificava con la concomitante esaltazione liberale del primato dei popoli europei sui sottouomini delle colonie, destinati ad essere sottomessi e a erogare lavoro servile. E saranno semmai la pavidità e la debolezza del liberalismo stesso, ormai in difficoltà e disposto al compromesso di fronte alla rivolta dei barbari proletari e alle loro grida rivoluzionarie, a spingerlo, sul finire della sua vita cosciente, al «radicalismo aristocratico» e all’ideazione di quel «partito della vita» che, per la salvezza della civiltà occidentale, arriverà ad auspicare l’«annientamento di milioni di malriusciti»[21] e delle «razze decadenti». Ma anche il pensiero di Heidegger, del resto, non può minimamente essere compreso senza far riferimento a quel «pathos dell’Occidente»[22] che all’epoca della Prima guerra mondiale si accompagnava all’esaltazione della Gemeinschaft, della Entscheidung e della morte e che era condiviso da entrambe le «ideologie della guerra» in campo. Né la sua duratura adesione al nazismo può essere spiegata senza tener conto di come quel movimento fosse anzitutto la prosecuzione, radicalizzata e proiettata sul continente europeo, della lunga avventura coloniale dell’Europa stessa, con le sue pratiche di de-umanizzazione e di sterminio fondate sulla riduzione del genere umano a una mera specie zoologica già su un piano che pretendeva di essere filosofico.

Non possiamo che ricostruire per sommi capi qui una produzione intellettuale gigantesca, che ha scandagliato i più diversi aspetti della tradizione filosofico-politica europea (31 sono le monografie pubblicate, altrettanti i volumi da Losurdo curati, 200 i saggi usciti su rivista, come attesta la bibliografia che egli stesso aveva approvato e che riportiamo in appendice a questo testo). Rimane però fermo – e ci sarà modo in futuro di precisarlo meglio – che in tutto questo lavoro l’impegno principale della sua esperienza intellettuale è stato dedicato a quel momento di questa tradizione che certamente più gli stava a cuore e cioè all’auto-critica e alla ricostruzione del materialismo storico. Se la storia del marxismo è la storia di un’ininterrotta catena di “crisi” che inizia già con Marx e che più volte si sono manifestate nel corso del Novecento, muovendo da posizioni e con intenzioni ed esiti diversi Losurdo e la sua generazione si sono scontrati infatti con la più importante di queste crisi, con la crisi ultima e forse definitiva. Perché la loro riflessione sulla tradizione storica e culturale del movimento operaio è avvenuta quando questo movimento e i suoi apparati intellettuali erano ormai a pezzi e non sembrava sensato né produttivo avventurarsi per quella via: dopo cioè la sconfitta di sistema intervenuta dalla fine degli anni Ottanta del Novecento.

Losurdo lo ha fatto in numerosi libri: Marx e il bilancio storico del Novecento,[23] Utopia e stato d’eccezione,[24] Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico,[25] Fuga dalla storia?,[26] La lotta di classe[27] e infine Il marxismo occidentale,[28] oltre che in ancor più numerosi saggi. E lo ha fatto, soprattutto, evitando la strada consolatoria e auto-assolutoria di chi, la maggioranza, spiegava le ragioni di un fallimento scaricando le colpe su un unico individuo (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera)[29] e scegliendo semmai – scandalosamente – di andare al cuore del problema, dissodando in maniera impietosa i limiti interni al marxismo stesso, senza risparmiarne i fondatori.

Losurdo ricorderà più volte, di fronte al nichilismo e alla autofobia che dilagavano a sinistra dopo la fine dell’Unione Sovietica – e che rendevano anche questo campo non meno ostile alle sue tesi di quanto non fosse il campo liberale –, quanto l’esperienza del marxismo e del comunismo storico avessero cambiato in profondità le sorti del mondo e dello stesso Occidente capitalistico, costringendo quest’ultimo a un percorso di democratizzazione che aveva in parte dovuto accogliere persino il programma del Manifesto comunista.[30] Tuttavia, non esitava a riflettere sulle ragioni di una sconfitta inequivocabile, le cui radici andavano individuate nell’incapacità del marxismo di farsi istituzione e di dar vita, nel consenso più ampio possibile, a quella stabilizzazione che sarebbe stata indispensabile per una normalità socialista e per un suo funzionamento rispettoso degli stessi diritti individuali. Animato da un insormontabile afflato messianico, desideroso di una palingenesi totale del mondo, il marxismo novecentesco non aveva in realtà tagliato i ponti sino in fondo con l’anarchismo. E, nel suo sogno di una società completamente “altra” rispetto a quella esistente, aveva immaginato la fine delle nazioni, del mercato, del denaro, del potere, lo svanire del conflitto stesso, rivelandosi – ogni volta che l’utopia sognata si scontrava infine con le durezze della storia e del conflitto – incapace di fuoriuscire da un perpetuo stato d’eccezione e di farsi Stato all’insegna del governo della legge, conciliando comunità e individuo. Non sarà sufficiente, in questo senso, la rivoluzione filosofica e politica operata da Lenin, il quale porterà per la prima volta il marxismo fuori dai propri limiti eurocentrici coniugando la lotta di classe del proletariato europeo con le lotte di emancipazione nazionale dei paesi colonizzati dall’Occidente e comprendendo al tempo stesso la complessità di un processo rivoluzionario che, in un mondo tanto ostile, continuava in forme nuove anche dopo la conquista del potere.

Da qui la scelta di Losurdo di andare controcorrente anche rispetto ai propri compagni, sfidando con caparbietà il rischio dell’isolamento fino, alla lunga, a sconfiggerlo. La scelta di criticare a fondo il marxismo occidentale, a partire da quella insuperata subalternità nei confronti del liberalismo che si esprimeva in maniera macroscopica nella sua crescente indifferenza verso la questione coloniale e che aveva costretto l’intera sinistra a rendersi ad un certo punto «assente». Da qui soprattutto, anche alla luce del diverso esito dell’esperienza del socialismo cinese (da lui sempre rispettato e osservato con attenzione simpatetica) rispetto a quello russo e occidentale, la necessità di ripensare integralmente i fondamenti del marxismo. A partire da una rilettura della lotta di classe che fosse capace di oltrepassare lo schematismo binario e economicistico di chi, ad ogni livello, vede un’unica e sola contraddizione, quella di un proletariato mai ben definito contro una borghesia non meno malintesa, per riproporla invece come una teoria generale del conflitto che presiede ad ogni processo di emancipazione (e che ha a che fare in primo luogo con la lotta per il riconoscimento della propria dignità umana da parte dei gruppi esclusi e discriminati). Una teoria in grado di illuminare le grandi crisi storiche, inoltre, quelle accelerazioni nelle quali non c’è mai un’unica dimensione ma sempre la compresenza di una pluralità di contraddizioni oggettive. E in grado di comprendere, da questa prospettiva, l’intreccio indissolubile tra questione sociale e questione nazionale, o questione di genere, come quello tra universale e particolare, alla ricerca di un universalismo concreto che consenta di pensare la comune umanità fuori da ogni astrattezza irenistica.

La durezza del conflitto di classe, ma anche quella della guerra civile europea o internazionale e dello stato di guerra mondiale permanente che aveva accompagnato il processo di decolonizzazione, avevano inevitabilmente esaltato e cristallizzato la dimensione religiosa e messianica del marxismo, quella componente che pure si era rivelata indispensabile nei processi di mobilitazione delle masse necessari in quella lunghissima fase. A lungo persuasi dell’imminenza di una rottura rivoluzionaria che sarebbe presto dilagata in tutto il pianeta a partire dai punti alti dello sviluppo industriale, e ancora più a lungo accerchiati sul piano geopolitico ma anche su quello culturale e psicologico dalla potenza egemonica del mondo capitalistico, i marxisti avevano perduto il senso della storia e disimparato la dimensione dei tempi lunghi che sono propri dei movimenti reali. Il fatto cioè che la trasformazione non ha la struttura temporale dell’attimo e non conduce a un’immediata coincidenza tra il corso degli eventi e il loro significato, a una totale riappropriazione, trasparenza e pienezza di senso, ma è essa stessa il percorso di una faticosa catena di contraddizioni, fatta di conquiste e retrocessioni legate ai rapporti di forza e in cui ogni tappa non è mai assicurata una volta per tutte. Negli auspici di Losurdo, alla luce del bilancio storico del XX secolo e delle sue tragedie, il marxismo doveva affrontare perciò un processo di secolarizzazione complicato e non indolore, per proseguire quel passaggio dall’utopia alla scienza (intesa come la Wissenschaft hegeliana) che era stato indicato da Engels ma si era interrotto per via delle urgenze del conflitto permanente dell’età contemporanea. Per riscoprire, cioè, quella forma di coscienza che al suo sorgere ne aveva rappresentato la radicale novità: quel peculiare e quasi miracoloso equilibrio tra critica e legittimazione del moderno che nessun’altra tendenza filosofico-politica è mai riuscita sinora ad elaborare.

Pensiero dialettico significa comprensione della processualità della storia e della conoscenza umana. Ma è anche comprensione della loro natura strutturalmente conflittuale e perciò è anche consapevolezza della totalità sempre lacerata alla quale il conflitto allude. È per questo che l’Aufhebung toglie e conserva a un tempo, integrando ad un nuovo livello e in una nuova posizione anche quella parte di verità che è sempre presente persino presso il nemico assoluto. Marxismo, alla luce di questa considerazione e cioè come materialismo storico, non significa rifiuto indeterminato della realtà ma, a partire dalla comprensione della dimensione strategica e razionale della sua struttura più profonda, è negazione sempre determinata. Enormi e a volte indicibili sono le contraddizioni della modernità e del progresso, a partire dal dominio totale espresso già nell’accumulazione originaria, passata per la brutale de-umanizzazione di intere classi sociali e di interi popoli e sfociata non di rado nello sterminio, e inaccettabile è ancora oggi l’ingiustizia dell’ordine borghese all’interno e al di fuori della metropoli. Tuttavia, questa stessa modernità è l’epoca che ha scoperto il concetto universale di uomo e che persino nel dolore del diventare-astratto di ogni rapporto sociale o persino semplicemente umano, ha saputo distillare quel progresso che consiste nel superamento dei vincoli di dipendenza personale e diretta dell’uomo sull’uomo, lasciandosi alle spalle il feudalesimo e mettendo in discussione la schiavitù. Quell’epoca che ha sviluppato le forze produttive materiali integrali del genere umano, spezzando la ristrettezza dei bisogni ma anche delle soggettività e dando vita a un’ininterrotta circolazione delle idee.

Non si torna indietro rispetto ad essa. La critica della modernità, come comprensione delle sue condizioni di possibilità e dei suoi limiti, è dunque possibile solo a partire dal riconoscimento delle sue conquiste. Dall’eredità, cioè, dei punti alti di una tradizione che ha certamente a che fare con l’orrore ma che è anche quella civiltà che, attraverso i suoi esponenti più lungimiranti, ha saputo vedere il proprio orrore e denunciarlo. Muovendo dalla conoscenza di queste contraddizioni, ma anche di quelle che accompagnano la storia del marxismo e del comunismo storico, bisogna perciò intraprendere un percorso di apprendimento che tagli definitivamente i ponti con il dogmatismo degli assoluti senza al contempo cadere nel relativismo del postmoderno e della sua impotente negazione ermeneutica di ogni oggettività e cioè della politica e della trasformazione del mondo.

Domenico Losurdo – al quale dobbiamo tra l’altro l’ispirazione iniziale che ha dato vita a questa rivista e che di “Materialismo Storico” presiedeva il Comitato scientifico – ci ha lasciati nel momento più difficile. Nel momento cioè in cui la crisi della democrazia moderna in Occidente e nel resto del mondo sembra piegare in direzione di una inquietante ridefinizione delle forme politiche che promuove nuove modalità di esclusione e discriminazione, all’interno di ciascun paese come su scala internazionale. In un’epoca nella quale la ricolonizzazione del pianeta, che parla nei termini di quel Linguaggio dell’impero[31] da lui così accuratamente decostruito e che ha fatto seguito alla delegittimazione della rivoluzione anticoloniale, fa svanire sempre più in lontananza le speranze di un’epoca di pace espresse in un libro come Un mondo senza guerre.[32] Ci ha lasciati però con gli strumenti migliori e più affilati per fronteggiare questo mondo a partire dai suoi conflitti cruciali e per criticarlo, ovvero per comprenderne le ragioni, le condizioni di possibilità. E per contrapporgli infine uno scenario diverso, per quanto sempre fondato nell’oggettività di ciò che è reale e e razionale non nei sogni e nei desideri di chi pensa di potersi permettere di ignorare la durezza del mondo: come scriveva Marx a Ruge – un’altra citazione molto amata da Losurdo –, «Noi non anticipiamo il mondo ma dalla critica del mondo vecchio vogliamo trovare quello nuovo».

C’era un’ultima cosa che Losurdo ripeteva spesso ai suoi allievi, citandola criticamente come esempio negativo di intimismo, di soggettivismo narcisistico e «ipocondria dell’impolitico».[33] È una celebre poesia scritta da Ungaretti nel 1916, in piena guerra mondiale, dal titolo San Martino sul Carso:

Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanto
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca.
È il mio cuore
Il paese più straziato.[34]

Ebbene, il nostro cuore oggi è straziato ma, come già ai tempi del poeta, assai più gravi di quelli della nostra coscienza sono gli strazi che abbiamo attorno a noi: le guerre che continuano a dilaniare il pianeta, la sopraffazione imperialistica che non cessa, l’odio razziale che monta, il rischio di una crisi radicale di civiltà e del riemergere di pulsioni che ci eravamo illusi fossero state superate per sempre. Di fronte a questi pericoli non possiamo certo far rivivere Domenico Losurdo. Ma anche grazie a questa piccola rivista, alla quale tanto teneva, possiamo far durare ancora – e a lungo – il suo pensiero, cercando di esserne all’altezza.

Stefano Azzarà, Università di Urbino

[1] Domenico Losurdo, Le catene e i fiori. La critica dell’ideologia tra Marx e Nietzsche, «Hermeneutica» 6, 1987, p. 108.

[2] Domenico Losurdo, L’engagement e i suoi problemi, in G. M. Cazzaniga, D. Losurdo, L. Sichirollo, Prassi. Come orientarsi nel mondo, Urbino, QuattroVenti (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), 1991, p. 128.

[3]Domenico Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici/Bibliopolis, Napoli 1983, p. 14.

[4] Ivi, p. 31.

[5] Immanuel Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht [1784], tr. it.: Idea per una storia universale in prospettiva cosmopolitica. Testo tedesco a fronte, Mimesis, Milano 2015, citato in Domenico Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, op. cit., p. 27

[6] Domenico Losurdo, Fichte, la rivoluzione francese e l’ideale della pace perpetua, «Il Pensiero», pp. 131-78.

[7] Domenico Losurdo, Fichte, la resistenza antinapoleonica e la filosofia classica tedesca, «Studi storici» 1/2, pp. 189-216.

[8] Domenico Losurdo, Fichte e la questione nazionale tedesca, «Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici» 1-2, pp. 53-79.

[9] Domenico Losurdo, Hegel, questione nazionale, Restaurazione. Presupposti e sviluppi di una battaglia politica, Pubblicazioni dell’Università, Urbino 1983.

[10] Domenico Losurdo, Tra Hegel e Bismarck. La rivoluzione del 1848 e la crisi della cultura tedesca, Editori Riuniti, Roma 1983.

[11] Domenico Losurdo, La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel, Guerini, Milano 1987.

[12] Domenico Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, Editori Riuniti, Roma 1992.

[13] Domenico Losurdo, Hegel e la Germania. Filosofia e questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Guerini – Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Milano 1997.

[14] Domenico Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, op. cit., p. 74.

[15] Ivi, p. 115. Cfr. Domenico Losurdo, cura e trad. di G. W. F. Hegel, Le filosofie del diritto. Diritto, proprietà, questione sociale, Leonardo/Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Milano 1989.

[16] Domenico Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 7.

[17] Ivi, p. 18.

[18] Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 242.

[19] Ivi, p. 238.

[20] Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 326.

[21] Friedrich Nietzsche, citato in Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, op. cit., p. 644.

[22] Domenico Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’«ideologia della guerra», Torino, Bollati Boringhieri 1991, p. 89.

[23] Domenico Losurdo, Marx e il bilancio storico del Novecento, Bibliotheca, Roma 1993.

[24] Domenico Losurdo, Utopia e stato d’eccezione. Sull’esperienza storica del «socialismo reale», Laboratorio politico, Napoli 1996.

[25] Domenico Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico, Gamberetti, Roma 1997.

[26] Domenico Losurdo, Fuga dalla storia? Il movimento comunista tra autocritica e autofobia, La Città del Sole, Napoli 1999.

[27] Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013.

[28] Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma- Bari 2017.

[29] Domenico Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008.

[30] Cfr. Domenico Losurdo, Introduzione e traduzione (in collaborazione con Erdmute Brielmayer) di K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari 1999.

[31] Domenico Losurdo, Il linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana, Laterza, Roma-Bari 2007.

[32] Domenico Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, Roma 2016.

[33] Domenico Losurdo, Ipocondria dell’impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi, Milella, Lecce 2001.

[34] Giuseppe Ungaretti, San Martino sul Carso, in Id., Vita d’un uomo. 106 poesie 1914-1960, Mondadori, Milano 1992, p. 36; ed. orig. In II Porto Sepolto, Stabilimento tipografico friulano, Udine, dicembre 1916.



Alcuni libri
di Domenico Losurdo

 

La catastrofe della Germania e l'immagine di Hegel

La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel

Editore: Guerini e Associati, 1988

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La comunità, la morte, l'Occidente

La comunità, la morte, l’Occidente

Editore: Bollati Boringhieri , 1991

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Democrazia o bonapartismo

Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale

Editore: Bollati Boringhieri, 1993

Descrizione

Tormentata è la storia del suffragio universale, ostacolato, ancora in pieno Novecento, dalla discriminazione di censo, di razza, di sesso, che si è rivelata particolarmente tenace proprio nei paesi di più consolidata tradizione liberale. Un nuovo modello di democrazia sembra voler divenire il regime politico del nostro tempo. Gli Stati Uniti costituiscono il privilegiato paese-laboratorio del “bonapartismo-soft” che ora si affaccia anche in Italia e di cui ci parla Losurdo.

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La seconda Repubblica

La seconda Repubblica. Liberismo, federalismo, postfascismo

Editore: Bollati Boringhieri, 1994

Descrizione

Nonostante i toni spesso trionfalistici, la Seconda Repubblica è l’espressione di una crisi profonda: se revisionismo storico e postfascismo cancellano l’identità nazionale del nostro paese, le riforme elettorali e istituzionali in atto, sancendo il peso immediatamente politico della grande ricchezza e del potere multimediale, bandiscono ogni idea di democrazia intesa come partecipazione di massa. L’odierna crociata neoliberista mira a liquidare i “diritti economici e sociali”, promuovendo in pratica una sorta di redistribuzione del reddito a favore dei ceti più ricchi. Nei paesi a forti squilibri regionali tale redistribuzione passa attraverso l’autonomia “federale”. Liberismo, federalismo e postfascismo si mescolano così in una miscela esplosiva.

 

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Antonio Gramsci, dal liberalismo al ...

Antonio Gramsci, dal liberalismo al «Comunismo critico»

Editore: Gamberetti , 1997

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Dai Ffatelli Spaventa a Gramsci

Dai fratelli Spaventa a Gramsci.
Per una storia politico-sociale della fortuna di Hegel in Italia

Editore: La Città del Sole, 1997

 

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1997 - Nietsche e la critica della modernità

Nietzsche e la critica della modernità. Per una biografia politica

Editore: Manifestolibri, 1997

 

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2006 - Controstoria derl liberalismo

Controstoria del liberalismo

Editore: Laterza, 2006

 

Descrizione

Il liberalismo sottolinea il valore positivo della libertà individuale, l’autonomia del singolo, l’opposizione al conservatorismo sociale. Sorto come una giustificazione teorica della necessità della limitazione del potere statale, il liberalismo non è però riuscito a declinare in termini universalistici il suo discorso ideologico. Come per ogni movimento storico, si tratta di indagare sì i concetti ma anche in primo luogo i rapporti politici e sociali in cui esso si è espresso. E la storia dei paesi in cui il liberalismo ha gettato radici più profonde risulta inestricabilmente intrecciata con la storia della schiavitù e dello sfruttamento.

 

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2007 - Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant

Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant

Editore: Bibliopolis, 2007

Descrizione

Considerato da non pochi dei suoi contemporanei come un “democratico radicale “, Kant è stato in seguito stilizzato da una radicata e composita tradizione interpretativa a teorico dell’obbedienza all’autorità costituita, e questo a causa della sua negazione del diritto di resistenza. Punto di partenza della presente ricerca è proprio tale negazione: essa, mentre rassicurava le corti tedesche, al tempo stesso permetteva di affermare l’irreversibilità della Rivoluzione francese. Emerge qui con chiarezza la ricercata “ambiguità “, la ” doppiezza” di Kant, costretto ad un logorante esercizio di autocensura, ad una continua dissimulazione, tormentosa anche sul piano morale, per sfuggire al controllo delle autorità di censura e del potere politico. In questo quadro si procede ad una rilettura del pensiero politico di Kant; che, se è sufficientemente noto il difficile rapporto del filosofo con la censura, non sembra sia stata finora indagata la connessione tra “persecuzione e arte dello scrivere”; ma forse è solo questa indagine che può permetterci di sbarazzarci dell’oleografia tradizionale, per collocare Kant in una luce nuova, più umanamente drammatica e inquietante.

 

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2007 - Il peccato orginakle del Novecento

Il peccato originale del Novecento

Editore: Laterza, 2007

 

 

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2010 La non-violenza

La non-violenza. Una storia fuori dal mito

Editore: Laterza, 2010

 

Descrizione

Dopo un secolo tragicamente carico di violenza e di terrore, l’ideale della non-violenza esercita un fascino crescente sulle coscienze di donne e uomini. Ma quali sono stati i primi movimenti ad agitare questo ideale e quali difficoltà essi hanno dovuto affrontare in un periodo storico particolarmente ricco di guerre e rivoluzioni? Dalle organizzazioni cristiane che nei primi decenni dell’Ottocento si propongono negli Usa di combattere congiuntamente e in modo pacifico i flagelli della schiavitù e della guerra, fino ai protagonisti della non-violenza: Thoreau, Tolstoj, Gandhi, Capitini, Dolci, M.L. King, il Dalai Lama o i più recenti ispiratori delle ‘rivoluzioni colorate’. Costante è il confronto tra il movimento non-violento e il movimento anticolonialista e antimilitarista di ispirazione socialista e sono prese in considerazione anche le posizioni di illustri teologi cristiani (R. Niebuhr e D. Bonhoeffer) e filosofe di diverso orientamento ma entrambe autrici di importanti contributi sul problema della violenza, come Simone Weil e Hannah Arendt.

 

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2011 - Hgel e la libertà dei moderni

Hegel e la libertà dei moderni

Editore: La Scuola di Pitagora, 2011

 

Descrizione

Hegel legittima le rivoluzioni che hanno segnato la nascita del mondo moderno e rende omaggio alla rivoluzione francese quale “splendida aurora”; nel momento in cui la schiavitù fiorisce negli Usa e nelle colonie, egli condanna tale istituto come il “delitto assoluto”. Da un lato il filosofo sottolinea la centralità della libertà individuale, dall’altro teorizza i “diritti materiali” e il “diritto alla vita”, paragona ad uno schiavo l’uomo che rischia la morte per inedia ed esige l’intervento dello Stato nell’economia, in modo da porre fine a questa nuova configurazione del “delitto assoluto”. Alla luce di tutto ciò come appare ridicola la lettura di Hegel quale teorico della Restaurazione. Tradotto in più lingue e apparso anche negli Usa e in Cina, il libro di Losurdo analizza il contributo decisivo che il grande filosofo tedesco fornisce alla comprensione della libertà dei moderni e, misurandosi con le interpretazioni di Bobbio, Popper, Hayek, mette in evidenza i limiti di fondo del liberalismo vecchio e nuovo.

 

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2012 -Fuga dalla storia?

Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi

Editore: La Scuola di Pitagora, 2012

 

Descrizione

Nel 1818, in piena Restaurazione e in un momento in cui il fallimento della rivoluzione francese appariva evidente, anche coloro che inizialmente l’avevano salutata con favore prendevano le distanze dalla vicenda storica iniziata nel 1789: era stata un vergognoso tradimento di nobili ideali. In questo senso Byron cantava: “Ma la Francia si inebriò di sangue per vomitare delitti/ Ed i suoi Saturnali sono stati fatali/ alla causa della Libertà, in ogni epoca e per ogni Terra”. Dobbiamo oggi far nostra questa disperazione, limitandoci solo a sostituire la data del 1917 a quella del 1789 e la causa del socialismo alla “causa della libertà”? Confutando i luoghi comuni dell’ideologia dominante, Losurdo analizza e documenta l’enorme potenziale di emancipazione scaturito dalla rivoluzione russa e dalla rivoluzione cinese. Quest’ultima, dopo aver liberato prima dal dominio coloniale e poi dalla fame un quinto dell’umanità, mette oggi in discussione al tempo stesso l'”epoca colombiana” e il modo tradizionale di intendere la lezione di Marx.

 

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2014 - La sinistra assente

La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra

Editore: Carocci , 2014

Descrizione

Le promesse del 1989 di un mondo all’insegna del benessere e della pace non si sono realizzate. La crisi economica sancisce il ritorno della miseria di massa anche nei paesi più sviluppati e inasprisce la sperequazione sociale sino al punto di consentire alla grande ricchezza di monopolizzare le istituzioni politiche. Sul piano internazionale, a una “piccola guerra” (che però comporta decine di migliaia di morti per il paese di volta involta investito) ne segue un’altra. Per di più, all’orizzonte si profila il pericolo di conflitti su larga scala, che potrebbero persino varcare la soglia del nucleare. Più che mai si avverte l’esigenza di una forza di opposizione: disgraziatamente in Occidente la sinistra è assente. Come spiegarlo? Come leggere il mondo che si è venuto delineando dopo il 1989? Attraverso quali meccanismi la “società dello spettacolo” riesce a legittimare guerra e politica di guerra? Come costruire l’alternativa? A queste domande l’autore risponde con un’analisi originale, spregiudicata e destinata a suscitare polemiche.

 

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2015 - Il revisionismo storico

Il revisionismo storico. Problemi e miti

Editore: Laterza , 2015

 

Descrizione

Più volte ristampata e tradotta in un numero crescente di paesi, quest’opera è una rilettura originale della storia contemporanea, dove l’analisi critica del revisionismo storico – a cominciare dalle tesi di Nolte sull’Olocausto e di Furet sulla rivoluzione francese – si intreccia con quella di una serie di fondamentali categorie filosofiche e politiche come guerra civile internazionale, rivoluzione, totalitarismo, genocidio, filosofia della storia. Questa edizione ampliata analizza le prospettive del nuovo secolo. Da un lato il revisionismo storico continua a riabilitare la tradizione coloniale, com’è confermato dall’omaggio che uno storico di successo (Niall Ferguson) rende al tramontato Impero britannico e al suo erede americano, dall’altro vede il ritorno sulla scena internazionale di un paese (la Cina) che si lascia alle spalle il “secolo delle umiliazioni”. Sarà in grado l’Occidente di tracciare un bilancio autocritico o la sua pretesa di essere l’incarnazione di valori universali è da interpretare come una nuova ideologia della guerra?

 

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2015 - La lotta di classe

La lotta di classe. Una storia politica e filosofica

Editore: Laterza, 2015

 

Descrizione

La crisi economica infuria e si discute sempre più del ritorno della lotta di classe. Ma siamo davvero sicuri che fosse scomparsa? La lotta di classe non è soltanto il conflitto tra classi proprietarie e lavoro dipendente. È anche “sfruttamento di una nazione da parte di un’altra”, come denunciava Marx, e l’oppressione “del sesso femminile da parte di quello maschile”, come scriveva Engels. Siamo dunque in presenza di tre diverse forme di lotta di classe, chiamate a modificare radicalmente la divisione del lavoro e i rapporti di sfruttamento e di oppressione che sussistono a livello internazionale, in un singolo paese e nell’ambito della famiglia. A fronte dei colossali sconvolgimenti che hanno contrassegnato il passaggio dal XX al XXI secolo, la teoria della lotta di classe si rivela oggi più vitale che mai a condizione che non diventi facile populismo che tutto riduce allo scontro tra umili e potenti, ignorando proprio la molteplicità delle forme del conflitto sociale. Domenico Losurdo procede a una originale rilettura della teoria di Marx ed Engels e della storia mondiale che prende le mosse dal Manifesto del partito comunista.

 

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2015 - Rivoluzione d'Ottobre e democrazia nel mondo

Rivoluzione d’ottobre e democrazia nel mondo

Editore: La Scuola di Pitagora, 2015

Descrizione

“Se per ‘democrazia’ intendiamo quantomeno l’esercizio del suffragio universale e il superamento delle tre grandi discriminazioni (di genere, censitaria e razziale), è chiaro che essa non può essere considerata anteriore alla rivoluzione d’ottobre e non può essere pensata senza l’influenza che quest’ultima ha esercitato a livello mondiale”.

 

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2015 - Stalin

Stalin. Storia e critica di una leggenda nera

Editore: Carocci , 2015

Descrizione

C’è stato un tempo in cui statisti illustri – quali Churchill e De Gasperi – e intellettuali di primissimo piano – quali Croce, Arendt, Bobbio, Thomas Mann, Kojève, Laski – hanno guardato con rispetto, simpatia e persino con ammirazione a Stalin e al paese da lui guidato. Con lo scoppio della Guerra fredda prima e soprattutto col Rapporto Chruscev poi, Stalin diviene invece un “mostro”, paragonabile forse solo a Hitler. Darebbe prova di sprovvedutezza chi volesse individuare in questa svolta il momento della rivelazione definitiva e ultima dell’identità del leader sovietico, sorvolando disinvoltamente sui conflitti e gli interessi alle origini della svolta. Il contrasto radicale tra le diverse immagini di Stalin dovrebbe spingere lo storico non già ad assolutizzarne una, bensì a problematizzarle tutte. Ed è quanto fa Losurdo in questo volume, analizzando le tragedie del Novecento con una comparatistica a tutto campo e decostruendo e contestualizzando molte delle accuse mosse a Stalin. Con un saggio di Luciano Canfora.

 

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2016 - Un mondo senza guerre

Un mondo senza guerre.
L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente

Editore: Carocci , 2016

Descrizione

Nel 1989, la realizzazione di un mondo senza guerre sembrava a portata di mano; oggi, oltre al terrorismo e ai conflitti locali, torna a incombere il pericolo di una terza guerra mondiale. Come spiegare tale parabola? Losurdo traccia una storia inedita e coinvolgente dell’idea di pace dalla rivoluzione francese ai giorni nostri. Da questo racconto, di cui sono protagonisti i grandi intellettuali (Kant, Fichte, Hegel, Constant, Comte, Spencer, Marx, Popper ecc.) e importanti uomini di Stato (Washington, Robespierre, Napoleone, Wilson, Lenin, Bush Sr. ecc.), emergono i problemi drammatici del nostro tempo: è possibile edificare un mondo senza guerre? Occorre affidarsi alla non violenza? Qual è il ruolo delle donne? La democrazia è una reale garanzia di pace o può essa stessa trasformarsi in ideologia della guerra? Riflettere sulle promesse, le delusioni, i colpi di scena della storia dell’idea di pace perpetua è essenziale non solo per comprendere il passato ma anche per ridare slancio alla lotta contro i crescenti pericoli di guerra.

 

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2017 - Il marxismo occidentale

Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere

Editore: Laterza, 2017

 

Descrizione

Nato nel cuore dell’Occidente, con la Rivoluzione d’Ottobre il marxismo si è diffuso in ogni angolo del mondo, sviluppandosi in modi diversi e contrastanti. Contrariamente a quello orientale, il marxismo occidentale ha mancato l’incontro con la rivoluzione anticolonialista mondiale – la svolta decisiva del Novecento e ha finito col subire un tracollo. Ci sono oggi le condizioni per una rinascita del marxismo in Occidente?

 

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2018 - Marxismo e comunismo

Marxismo e comunismo

Editore: Affinità Elettive Edizioni, 2018

Descrizione

“La storia del movimento comunista è stata un grande capitolo di storia per abolire la schiavitù coloniale e per l’affermazione di un’autentica morale capace di rispettare ogni uomo”.



Alcuni libri
di
Stefano G. Azzarà

 

2006- Pensare la rivoluzione conservatrice

Pensare la rivoluzione conservatrice.
Critica della democrazia e «Grande politica» nella Repubblica di Weimar

Editore: La Città del Sole, 2006

 

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2011 - L'imperialismo dei diritti universali

L’ imperialismo dei diritti universali.
Arthur Moeller van den Bruck, la rivoluzione conservatrice e il destino dell’Europa

Editore: La Città del Sole, 2011

 

La fine della Prima guerra mondiale si accompagna alla perdita del potere per l’establishment liberalconservatore in Germania, nonostante il fallimento in extremis della rivoluzione comunista. In condizioni politiche ed economiche molto difficili, segnate dal forte condizionamento del Paese da parte delle potenze vincitrici, si tratta adesso di fronteggiare l’affermazione definitiva della società di massa e l’avvento del metodo democratico nella sfera pubblica. Comincia una riflessione tormentata, che costringerà le classi dirigenti e intellettuali tradizionali ad una rottura “rivoluzionaria” con il proprio passato e con ogni nostalgia verso la monarchia e la società agraria. Poco noto in Italia, Arthur Moeller van den Bruck è stato tra i principali ispiratori di un rinnovamento di categorie e forme politiche che porterà la destra tedesca – ma anche quella europea – a contendere alle sinistre rivoluzionarie come a quelle riformiste il terreno della politica di massa.

 

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2011 - Un Nietzsche italiano

 

Un Nietzsche italiano.
Gianni Vattimo e le avventure dell’oltreuomo rivoluzionario

Editore: Manifestolibri, 2011

 

Se il primo incontro di Gianni Vattimo con Nietzsche intendeva soprattutto denazificare il filosofo tedesco e recuperarlo in chiave esistenzialistica, ben più originale è la lettura degli anni Settanta, quando il padre dello Zarathustra assume le vesti tutte politiche di un autore libertario e “rivoluzionario”, diventando punto di riferimento per la sinistra. Il volume ripercorre criticamente la storia dell'”oltreuomo” dionisiaco, mettendola in relazione con l’uso pubblico che di Nietzsche è stato fatto nel periodo della contestazione sessantottina, dell’Autonomia e infine del terrorismo e del riflusso. Emerge in controluce la storia di una parte dell’intellighenzia critica italiana, alla ricerca di una via d’uscita “individualistica” dalla dialettica e dalla crisi del marxismo anche attraverso autori che, pur collocati a destra, mettevano in evidenza i limiti della società borghese e del pensiero universalistico. Con il rischio, però, di favorire quella mentalità neoliberale che costituisce oggi il più grave rischio per la democrazia moderna. Con un’intervista a Vattimo su “Nietzsche, la rivoluzione, il riflusso”.

 

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2014 - Friedrik Nietzsche

Friedrich Nietzsche.
Dal radicalismo aristocratico alla rivoluzione conservatrice.
Quattro saggi di Arthur Moeller van den Bruck

Editore: Castelvecchi, 2014

 

È la stessa cosa leggere Nietzsche quando è ancora vivo il ricordo della Comune di Parigi e leggerlo quando la lotta di classe cede il passo al conflitto tra la Germania e le altre potenze europee? Ed è la stessa cosa leggerlo dopo la guerra, quando una sconfitta disastrosa ha mostrato la fragilità del Reich? Questo libro ricostruisce le interpretazioni nietzscheane di Arthur Moeller van den Bruck, padre della Rivoluzione conservatrice e precursore di Spengler, Heidegger e Junger. Moeller ridefinisce la filosofia di Nietzsche adattandola ai salti della storia europea tra gli ultimi decenni del XIX secolo e la fine della Prima guerra mondiale. Il Nietzsche artista e profeta che tramonta assieme all’Ottocento rinasce così nel passaggio di secolo come il filosofo-guerriero di una nuova Germania darwinista; per poi diventare, nella Repubblica di Weimar, l’improbabile teorico di un socialismo mistico e spirituale. Tre diverse letture emergono perciò da tre diversi momenti della storia europea e stimolano il passaggio dal pensiero liberalconservatore alla Rivoluzione conservatrice. In appendice, la prima traduzione italiana dei quattro saggi di van den Bruck su Nietzsche.

 

 

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2014- Democrazia cercasi

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Democrazia cercasi.
Dalla caduta del muro a Renzi:
sconfitta e mutazione della sinistra,
bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia

Editore: Imprimatur, 2014

Possiamo ancora parlare di democrazia in Italia? Mutamenti imponenti hanno favorito una forma neobonapartistica e ipermediatica di potere carismatico e hanno relegato molti cittadini nell’astensionismo o nella protesta rabbiosa. In nome dell’emergenza economica permanente e della governabilità, gli spazi di riflessione pubblica sono stati sacrificati al primato di un decisionismo improvvisato.

 

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2017- Nonostante Laclau

Nonostante Laclau.
Populismo ed egemonia nella crisi della democrazia moderna

Editore: Mimesis, 2017

È il populismo di sinistra la risposta giusta alla crisi della democrazia? La decostruzione postmoderna delle identità storiche apre una nuova stagione di libertà e pluralismo oppure finisce per accettare un terreno di gioco regressivo, nel quale viene già precostituita l'”egemonia” delle tendenze più particolaristiche e la produzione di appartenenze naturalistiche? Stefano G. Azzarà si interroga sui conflitti del nostro tempo, tra neoliberalismo e ricerca di un nuovo orizzonte di progettualità politica.

 

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2018- Comunisti, fascisti e questione nazionale

Comunisti, fascisti e questione nazionale.
Fronte rossobruno o guerra d’egemonia?

Editore: Mimesis, 2018

Dopo decenni di entusiasmo per la globalizzazione e l’unificazione europea, l’emergere dei movimenti sovranisti e populisti in un’epoca di crisi organica sembra rendere di nuovo attuale la questione nazionale ed evoca la suggestione di un blocco trasversale di contestazione del capitalismo neoliberale e apolide che unisca tutti i “ribelli” della società borghese, lasciandosi alle spalle l’alternativa tra destra e sinistra. Anche nella Germania degli anni Venti, ai tempi delle riparazioni di guerra e dell’occupazione della Ruhr, questi temi erano all’ordine del giorno. L’appello di Karl Radek per un fronte unito dei lavoratori, aperto ai ceti medi e alla piccola borghesia patriottica e capace di difendere l’indipendenza del Paese dall’imperialismo straniero, non era però la proposta di un’alleanza totalitaria degli opposti radicalismi estremistici ma la dichiarazione di una furibonda guerra d’egemonia. Uno scontro ideologico che puntava semmai a bruciare il terreno sotto i piedi al fascismo nascente e a candidare la classe operaia tedesca, sulla scorta dell’esperienza bolscevica e del dibattito aperto nel Komintern da Lenin, alla guida della nazione e della sua rinascita. La disputa dei comunisti con Arthur Moeller van den Bruck e la Rivoluzione conservatrice tedesca sfata il mito dell’estraneità del materialismo storico agli interessi nazionali. Tuttavia, al contrario degli odierni equivoci eurasiatisti e socialsciovinisti, attesta l’insuperabile incompatibilità filosofica – prima ancora che politica e morale – tra il particolarismo naturalistico delle destre, con le loro persistenti pulsioni discriminatorie di stampo coloniale, e l’universalismo concreto del marxismo e del suo sogno di un mondo senza guerre.

 


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