Derek Walcott (1930-2017) – Mappa del mondo nuovo. Rendi il cuore a se stesso, allo straniero che ti ha amato per tutta la tua vita.

Derek Walcott

Omeros

Omeros

***

Mappa del mondo nuovo

Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo
proprio specchio,
e ognuno sorriderà
al benvenuto dell’altro,
e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero
che era il tuo Io.
0ffH vino. 0ffH pane.
Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero
che ti ha amato
per tutta la tua vita,
che hai ignorato
per un altro che ti sa
a memoria.
Dallo scaffale tira giù
le lettere d’amore,
le fotografie, le note
disperate,
sbuccia via dallo specchio
la tua immagine.
Siediti. È festa: la tua vita
è in tavola.

Derek Walcott

 

Isole

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Prima luce

Prima luce


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Giacomo Leopardi (1798-1837) – «Dialogo della Moda e della Morte». La moda appartiene perciò a quel tipo di fenomeni che tendono a un’estensione illimitata. Cara Morte, mostri di non conoscere la potenza della Moda, perché ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva.

Leopardi Giacomo 031

dialogodellamodaedellamorte

«Ogni crescita la [la moda] conduce alla morte perché elimina la diversità. La
moda appartiene perciò a quel tipo di fenomeni che tendono a un’estensione
illimitata e a una realizzazione perfetta, ma che con il conseguimento di
questa meta assoluta si contraddirebbero distruggendosi da sé» (G. Simmel,
La moda, a cura di L. Perucchi, Milano, SE, 1996, pp. 26-27).

 

 

«Maraviglioso potere è quel della moda: la quale, laddove le nazioni e gli uomini sono tenacissimi delle usanze in ogni altra cosa, e ostinatissimi a giudicare, operare e procedere secondo la consuetudine, eziandio contro ragione e con loro danno; essa sempre che vuole, in un tratto li fa deporre, variare, assumere usi, modi e giudizi, quando pur quello
che abbandonano sia ragionevole, utile, bello e conveniente, e quello che abbracciano, il contrario» (G. Leopardi, Operette 283-84)

 

Fino a Leopardi, la letteratura italiana si è occupata della moda essenzialmente come bersaglio di un discorso satirico. Ma è soltanto con l’autore delle “Operette morali” e dello “Zibaldone” che la letteratura inizia davvero a “pensare” la moda, il suo linguaggio, te sue potenzialità. La riflessione estetica avviata da Leopardi abbonda di soluzioni che torneranno nei massimi teorici della moda del secolo seguente, da Simmel a Flugel, da Benjamin a Baudrillard attraverso Barthes: su tutte, l’intuizione che la moda sì vada costituendo come una “retorica della modernità”, una retorica in cui sarà molto arduo separare le coppie vestizione/restrizione, libertà/vessazione, travestimento/blindatura. Siamo all’interno di una crisi dell’Umanesimo che Leopardi scopre – anche – come disparità insanabile tra moda e filosofia, tra la coesione del costume antico e la minaccia, espressamente moderna, di un’inarrestabile deriva simbolica promossa dalia moda, dal suo parlare essenzialmente per cataloghi: grotteschi, folli, autoreferenziali.

Fabrizio Patriarca, Leopardi e l'invenzione della moda, Gaffi editore, 2008

Fabrizio Patriarca, Leopardi e l’invenzione della moda, Gaffi editore, 2008

Francesco Patriarca nel suo saggio Leopardi e l’invenzione della moda (Roma, Gaffi, 2008) ricorda che il Dialogo in questione fu il primo testo leopardiano tradotto in una lingua straniera nel febbraio del 1830 e fa di Leopardi l’anticipatore delle riflessioni novecentesche sulla moda. Se ne richiamano Walter Benjamin nell’esergo di Passagen-Werk, (I «passages» di Parigi) e Rainer Maria Rilke, nelle Elegie duinesi, dove viene evocata una modista chiamata allusivamente Madame Lamorte che nella capitale della Moda, Parigi, avvolge nastri senza fine e inventa “gale, fiori, coccarde, finti frutti/ sempre in colori falsati- per gli scadenti/ cappellini invernali del destino” (Quinta Elegia, traduz. di A.L. Giavotto Künkler, in Poesie, II, Einaudi-Gallimard, 1995). Se per Rilke la rivelazione della bellezza è l’evento terribile che ci scuote ma ci salva, facendo di noi stessi un mistero e non un individuo spersonalizzato dalla società borghese, Madame Lamorte è il simbolo di quell’assurdo meccanismo che avvolge i nostri destini di bellurie artificiose e banali, costringendoci a una vita inautentica, votata alla fugacità e all’impermanenza.



Il Dialogo della Moda e della Morte

è stato composto da Giacomo Leopardi

a Recanati tra il 15 e 18 febbraio 1824

 

operetteleopardi

 

Il giovane e la morte, 1318, affresco, Pinacoteca Civica Palazzo Volpi di Como

Il giovane e la morte, 1318, affresco, Pinacoteca Civica Palazzo Volpi di Como

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Moda. Madama Morte, madama Morte.

Morte. Aspetta che sia l’ora, e verrò senza che tu mi chiami.

Moda. Madama Morte.

Morte. Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai.

Moda. Come se io non fossi immortale.

Morte. Immortale? Passato è già più che ‘lmillesim’anno che sono finiti i tempi degl’immortali.

Moda. Anche Madama petrarcheggia come fosse un lirico italiano del cinque o dell’ottocento?

Morte. Ho care le rime del Petrarca, perché vi trovo il mio Trionfo, e perché parlano di me quasi da per tutto. Ma in somma levamiti d’attorno.

Moda. Via, per l’amore che tu porti ai sette vizi capitali, fermati tanto o quanto, e guardami.

Morte. Ti guardo.

Moda. Non mi conosci?

Morte. Dovresti sapere che ho mala vista, e che non posso usare occhiali, perché gl’Inglesi non ne fanno che mi valgano, e quando ne facessero, io non avrei dove me gl’incavalcassi.

Moda. Io sono la Moda, tua sorella.

Morte. Mia sorella?

Moda. Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità?

Morte. Che m’ho a ricordare io che sono nemica capitale della memoria.

Moda. Ma io me ne ricordo bene; e so che l’una e l’altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu vadi a questo effetto per una strada e io per un’altra.

Morte. In caso che tu non parli col tuo pensiero o con persona che tu abbi dentro alla strozza, alza più la voce e scolpisci meglio le parole; che se mi vai borbottando tra’ denti con quella vocina da ragnatelo, io t’intenderò domani, perché l’udito, se non sai, non mi serve meglio che la vista.

Moda. Benché sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si usi di parlare per essere uditi, pure perché siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi rispetti, parlerò come tu vuoi. Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v’improntino per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in America e in Asia; storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l’amore che mi portano. Io non vo’ dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani e il petto con quei di tela, e fare di ogni cosa a mio modo ancorché sia con loro danno.

Morte. In conclusione io ti credo che mi sii sorella e, se tu vuoi, l’ho per più certo della morte, senza che tu me ne cavi la fede del parrocchiano.’ Ma stando così ferma, io svengo; e però, se ti dà l’animo di corrermi allato, fa di non vi crepare, perch’io fuggo assai, e correndo mi potrai dire il tuo bisogno; se no, a contemplazione della parentela, ti prometto, quando io muoia, di lasciarti tutta la mia roba, e rimanti col buon anno.

Moda. Se noi avessimo a correre insieme il palio, non so chi delle due si vincesse la prova, perché se tu corri, io vo meglio che di galoppo; e a stare in un luogo, se tu ne svieni, io me ne struggo. Sicché ripigliamo a correre, e correndo, come tu dici, parleremo dei casi nostri.

Morte. Sia con buon’ora. Dunque poiché tu sei nata dal corpo di mia madre, saria conveniente che tu mi giovassi in qualche modo a fare le mie faccende.

Moda. Io l’ho fatto già per l’addietro più che non pensi. Primieramente io che annullo o stravolgo per lo continuo tutte le altre usanze, non ho mai lasciato smettere in nessun luogo la pratica di morire, e per questo vedi che ella dura universalmente insino a oggi dal principio del mondo.

Morte. Gran miracolo, che tu non abbi fatto quello che non hai potuto!

Moda. Come non ho potuto? Tu mostri di non conoscere la potenza della moda.

Morte. Ben bene: di cotesto saremo a tempo a discorrere quando sarà venuta l’usanza che non si muoia. Ma in questo mezzo io vorrei che tu da buona sorella, m’aiutassi a ottenere il contrario più facilmente e più presto che non ho fatto finora.

Moda. Già ti ho raccontate alcune delle opere mie che ti fanno molto profitto. Ma elle sono baie per comparazione a queste che io ti vo’ dire. A poco per volta, ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte. E quando che anticamente tu non avevi altri poderi che fosse e caverne, dove tu seminavi ossami e polverumi al buio, che sono semenze che non fruttano; adesso hai terreni al sole; e genti che si muovono e che vanno attorno co’ loro piedi, sono roba, si può dire, di tua ragione libera, ancorché tu non le abbi mietute, anzi subito che elle nascono. Di più, dove per l’addietro solevi essere odiata e vituperata, oggi per opera mia le cose sono ridotte in termine che chiunque ha intelletto ti pregia e loda, anteponendoti alla vita, e ti vuol tanto bene che sempre ti chiama e ti volge gli occhi come alla sua maggiore speranza. Finalmente perch’io vedeva che molti si erano vantati di volersi fare immortali, cioè non morire interi, perché una buona parte di sé non ti sarebbe capitata sotto le mani, io quantunque sapessi che queste erano ciance, e che quando costoro o altri vivessero nella memoria degli uomini, vivevano, come dire, da burla, e non godevano della loro fama più che si patissero dell’umidità della sepoltura; a ogni modo intendendo che questo negozio degl’immortali ti scottava, perché parea che ti scemasse l’onore e la riputazione, ho levata via quest’usanza di cercare l’immortalità, ed anche di concederla in caso che pure alcuno la meritasse. Di modo che al presente, chiunque si muoia, sta sicura che non ne resta un briciolo che non sia morto, e che gli conviene andare subito sotterra tutto quanto, come un pesciolino che sia trangugiato in un boccone con tutta la testa e le lische. Queste cose, che non sono poche né piccole, io mi trovo aver fatte finora per amor tuo, volendo accrescere il tuo stato nella terra, com’è seguito. E per quest’effetto sono disposta a far ogni giorno altrettanto e più; colla quale intenzione ti sono andata cercando; e mi pare a proposito che noi per l’avanti non ci partiamo dal fianco l’una dell’altra, perché stando sempre in compagnia, potremo consultare insieme secondo i casi, e prendere migliori partiti che altrimenti, come anche mandarli meglio ad esecuzione.

Morte. Tu dici il vero, e così voglio che facciamo.

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Raul Bruni, Dialogo della Moda e della Morte di Giacomo Leopardi

 


Giacomo Leopardi – Cos’è la lettura per l’arte dello scrivere
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La felicità non è che la perfezione, il compimento della vita.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Un sorriso e una poesia possono aggiungere un filo alla trama brevissima della vita, accrescendo la nostra vitalità.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomo s’innalza per mezzo di essa come al di sopra di se medesimo.

 


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Antonino Buttitta (1933-2017) – L’unica via per uscire dalle secche mortali del formalismo, è quella di considerare unitamente ai problemi del significato dei fenomeni studiati anche quelli del loro senso.

Antonino Buttitta
Mito fiaba rito

Mito fiaba rito, Sellerio

Veicolo fondamentale di mito, rito, fiaba, è la memoria. Interesse teorico e immaginario popolare attraverso i saggi di Antonino Buttitta. Un racconto rigoroso e godibilissimo che propone un senso al percorso storico e culturale della nostra società.


Semiotica e antropologia

Semiotica e antropologia, Sellerio


Dei Segni e dei miti

Dei Segni e dei miti, Sellerio

La cultura è qualcosa di meno e qualcosa di più di quanto compreso nella ben nota, e sostanzialmente condivisa, definizione di Edward Burnett Tylor: «La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società». È qualcosa di meno perché se assunta in chiave metodologica esclude dallo studio dei fatti culturali i loro aspetti non semiotici, in realtà inesistenti in quanto culturali. È qualcosa di più perché non solo individua nel significare il tratto distintivo della cultura, ma in questo fa consistere la realtà stessa dell’uomo. Il compito di una antropologia che studi la cultura come insieme di sistemi semiotici è quello di non fermarsi all’analisi interna dei fenomeni considerati col fine di coglierne il significato. Se esclusivamente in questa direzione dovessero orientarsi i suoi sforzi, avremmo una delle tante asettiche discipline accademiche. L’unica via per uscire dalle secche mortali del formalismo, è quella di considerare unitamente ai problemi del significato dei fenomeni studiati anche quelli del loro senso. Per senso di un fenomeno culturale è da intendere il particolare significato che esso assume in relazione al contesto di fruizione, la concreta funzione, al di là del significato interno che talora può essere addirittura opposto, da esso assolta nell’universo culturale e sociale degli individui che ne sono produttori e consumatori.


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Mario Vegetti – Il lettore viene introdotto a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente.

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«Ci sono parecchie cose che il letrore non troverà in queste pagine. Non troverà un commento analitico dei testi antichi condotto secondo le intenzioni d’aurore e l’ordine delle argomentazioni: un lavoro questo imprescindibile, ma che va compiuto in altra sede. Non troverà neppure una storia delle idee politiche sviluppata secondo le sequenze cronologiche di autori e di testi, per la quale si può rinviare a ottimi strumenti di consultazione. Di conseguenza, non troverà una bibliografia disciplinare organica: le indicazioni  contenute nelle note sono suggerimenti di lettura senza alcuna pretesa sistematica.
Mi sono proposto invece di introdurre il lettore a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente, che fu attivo in Atene nel secolo che va all’incirca dal 430 al 330 a.c. Utilizzando le idee e i testi via via prodotti in questo laboratorio, si è allestita la messa in scena di un dibattito a più voci, che coinvolge filosofi, srorici, poeti, politici, intorno alle domande decisive su che cosa sia il potere e come possa venire legittimato o giustificato. Nella rappresentazione che ne viene offerta, questo dibattito è stato articolato intorno a cinque assi tematici principali (la maggioranza, la legge, la forza, la virtù, il sapere) che, com’è naturale, si intrecciano e interagiscono reciprocamente. Per il senso comune politologico, il confronto tra le idee politiche prodotte in questo laboratorio riserva qualche sorpresa: persino un regime rassicurante come la democrazia maggioritaria viene messo radicalmente in discussione, e d’altra parte un potere esecrabile come quello tirannico riscuote talvolta consensi significativi. D’altra parte, testi noti possono acquistare un rilievo e un significato inattesi per la vulgata storiografica. Ma non ho affatto inteso mostrare chi ha ragione e chi ha torto, oppure chi vince e chi perde.
Gli aspetti che davvero interessano sono la forza teorica, la spregiudicatezza intellettuale, la radicalità di approccio che caratterizzano la discussione qui rivisitata. Vi troviamo, da un lato, un modello insuperato di come la riflessione politica possa andare al fondo dei problemi, magari non per risolverli ma per renderli almeno più chiari nei loro presupposti e nelle loro implicazioni; dall’altro, una strumentazione concettuale che certo appartiene a un mondo lontano, ma che forse non ha del tutto esaurito la sua capacità di offrire stimoli e prospettive che ancora oggi sarebbe sbagliato ignorare».

Mario Vegetti, Chi comanda nella città. I Greci e il potere, Carocci editore, 2017, pp.7-8.

Risvolto di copertina

Il libro introduce il lettore  a una sorta di visita guidata  in uno dei più straordinari laboratori  di pensiero politico nella storia  d’Occidente, che fu attivo in Atene  nel secolo che va all’incirca  dal 430 al 330 a.C.  Si è allestita la messa in scena  di un dibattito a più voci,  che coinvolge filosofi, storici,  poeti, politici, intorno  alle domande decisive su che cosa  sia il potere e come possa venire  legittimato o giustificato.  Si confrontano così le ragioni  della maggioranza, della legge,  della forza, del capo carismatico,  della competenza scientifica,  su temi che ancor oggi risultano  attuali quando ci si interroga  sulla crisi della democrazia  e sulle sue alternative decisioniste.  Il testo si rivolge tanto agli studiosi  del pensiero antico quanto a chiunque  sia interessato ai problemi  della politica contemporanea.


 

Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .

Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.

 


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Koinè – Quale progettualità? Cerchiamo di percorrere, in maniera umanisticamente fondata, l’orizzonte progettuale per delineare le strutture di base di un futuro modo di produzione comunitario non più incentrato sulla privatezza e sulla mercificazione dei rapporti umani.

Quale progettualità invito

Lorenzo Dorato, Antonio Fiocco, Luca Grecchi,  Claudio Lucchini, Alessandro Monchietto,
Alessandro Pallassini, Giacomo Pezzano


Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.
Karl Marx

 

Quale progettualità

Quale progettualità?

indicepresentazioneautoresintesi


Koiné, Periodico culturale, Anno XXIII – NN° 1-4 Gennaio-Dicembre 2016, Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo. Direttore: Luca Grecchi.


Hanno contribuito e reso possibile la pubblicazione di questo numero di Koiné:

Olivia Campana, Francisco Canepa, Stella Maria Congiu, Lorenzo Dorato, Antonio Fiocco, Carmine Fiorillo, Luca Grecchi, Claudio Lucchini, Alessandro Monchietto, Alessandro Pallassini, Giacomo Pezzano, Giancarlo Paciello, Ilaria Rabatti, Emilia Savi


Intenzioni

Questo numero della rivista Koinè si occupa di affrontare il tema oggi più importante sul piano filosofico politico: il tema della progettualità. Da oltre un secolo a questa parte la critica all’attuale modo di produzione sociale, pur nelle sue molteplici e mutevoli modalità, è stata nella sostanza effettuata. Ciò che resta ancora da fare è cercare di percorrere, in maniera umanisticamente fondata (ossia basandosi sulla natura umana), l’orizzonte progettuale, ossia delineare le strutture di base di un futuro modo di produzione comunitario finalizzato alla buona vita di tutti, non più incentrato sulla privatezza e sulla mercificazione dei rapporti umani. Senza uno sguardo realistico su come il nostro mondo può essere, difficilmente, infatti, si potranno condividere modifiche radicali delle nostre modalità di vita. Ciò richiede, oltre a competenze specifiche, educazione filosofica e capacità dialettica: quanto questo numero della rivista vorrebbe contribuire a formare.

Koinè


Indice

 

Luca Grecchi, Sulla progettualità

Alessandro Monchietto, Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi

Claudio Lucchini, La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano

Antonio Fiocco, Difendere in tutti i modi la progettualità

Alessandro Pallassini, Note marginali per la progettazione di un comunismo della finitezza a partire da Spinoza

Luca Grecchi,, Perché la progettualità

Claudio Lucchini, Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

Lorenzo Dorato,, La progettualità come necessaria riflessione

sui destini collettivi e sociali

Giacomo Pezzano,, Commento all’articolo di Luca Grecchi “Sulla progettualità”

Commento all’articolo di Luca Grecchi “Perché la progettualità?”

Luca Grecchi, Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano

Giacomo Pezzano, Il vero punto filosofico da scavare è che cosa si voglia intendere con “progettualità”

Luca Grecchi, Una prima conclusione sulla progettualità


Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere

Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo. Occore poi uno stimolo, un impulso capace di attivare sensibilità intelletuali, offrendo prospettive culturali capaci di intercettare le autentiche domande di senso e di tentare risposte originali e pertinenti. Per cercare di costruire nuovi orizzonti di senso occorre in primo luogo non accettare quanto sostengono i profeti dell’avvento di un mondo senza Spirito, un mondo cioè di individui non più formati dalla memoria di tradizioni e culture anteriori, e perciò in totale balìa dell’immediatezza degli eventi, senza un’identità etica e sociale ed una struttura morale a cui riferirli. Mentre lavoriamo intorno alla definizione di ogni numero di Koinè, impariamo abbastanza da trovarla insufficiente. Impariamo quanto sia inadeguato oggi anche il più vasto sapere se rimane esclusivamente specialistico. In ogni libro è racchiusa una scommessa contro l’oblio, una sfida contro il silenzio.


Il bisogno di progettare, nell’uomo,

non è un fatto accidentale, ma essenziale,

in quanto corrisponde alla sua originaria natura

«Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità […] L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio. […] Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario […] è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino».

Cosimo Quarta

 


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Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.

Bravo Salvatore 04

271 ISBN

L’epoca del PILinguaggio

indicepresentazioneautoresintesi

Salvatore Antonio Bravo, L’epoca del PILinguaggio.

ISBN 978-88-7588-191-7, 2017, pp. 96, formato 130×200 mm., Euro 12 – Collana “Divergenze” [59]. In copertina: Kumi Yamashita, Light and Shadow.

Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità. L’epoca attuale destina ricchezza materiale ai pochi e povertà linguistica ai molti: povertà lessicale, manomissione dei significati delle parole, riduzione della parola a funzione calcolante, aggressione culturale imperialistica alle lingue nazionali. La povertà lessicale non è semplicemente una forma di regressione culturale legittimata dalla cultura del fare, della didattica breve, del problem solving, ma trova la sua ragion d’essere nel liberismo globale, per il quale ogni riflessione eccedente i bisogni dell’economia è già un limite per le logiche mercantili. La lingua deve tracciare il suo senso nella sola produttività, nell’immediatezza della sua spendibilità, dev’essere funzione dell’illimitatezza della valorizzazione. Ogni linguaggio non immediatamente spendibile è stigmatizzato come inutile. Diviene così funzione, calcolo per previsioni consumistiche, diventa la pietra di confine conficcata nella terra dei consumi oltre la quale vi è il nulla. Novello Crono, il capitale divora – con i figli – le parole, al fine di colonizzare ogni comunità e renderle atomizzate e dominabili. La comunità politica è sostituita dal modello azienda, ed ha il suo centro nella competizione.

La neolingua si struttura nell’atomizzazione dei pensieri, delle frasi, che si articolano in modo da perdersi nell’emozione dell’immediato della compravendita delle pseudo relazioni virtuali. Il nichilismo di massa è alimentato e vive attraverso l’incompetenza linguistica che derealizza la realtà in monconi fonetici. Il riduzionismo politico filosofico si sostanzializza attraverso un linguaggio la cui articolazione logica arretra per lasciare spazio unicamente alla naturalizzazione del solo presente.



Salvatore Antonio Bravo

Potere e alienazione in Foucault

238 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

Gli scritti di Foucault testimoniano un’attenzione rara alla vita che scorre ai margini: folli, mendicanti, prostitute, omosessuali, oziosi popolano molti dei suoi saggi, in particolare Storia della follia e Sorvegliare e punire.

Vi è uno spostamento della prospettiva attraverso cui leggere il potere; tradizionalmente il potere risiede in una figura (ad es. il sovrano), una classe, un’istituzione. L’analisi tradizionale del potere individua il soggetto attivo depositario del potere, si pensi al Principe di Macchiavelli, ed un soggetto che ne subisce l’azione: il suddito.

Il potere è studiato mediante la ‘posizione della rana’, affermazione del filosofo. Il potere è analizzato da Foucault nel suo costituirsi, non dal vertice ma dalle forze interagenti dal basso il cui effetto è il potere.

 


Salvatore Antonio Bravo

Foucault e la razionalità debole

 

250 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

 

Il modello di razionalità è parte integrante della prassi di una comunità, la riflessione su di esso è necessaria per un’operazione “archeologica” di consapevolezza, ovvero le strutture cognitive sono segnate nella lingua come nei modelli di comprensione. La pastorale dell’incontro, tanto in voga riesce solo parzialmente a portare nuova vita nell’atto del pensare, tale operazione dev’essere completata con un’analisi-riflessione dei fondamenti del pensiero. L’interrogativo a cui dovremmo rispondere è il perché tanto sapere critico abbia prodotto risultati tanto parziali, finanche a volte reazionari.


 

 

Salvatore Antonio Bravo

L’ultimo uomo

 

257 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

 

L’opera di Nietzsche è spesso associata al superuomo dannunziano o all’oltreuomo di Vattimo, letture che rischiano d’essere limitate e strumentali. Col presente saggio si vuole riattualizzare una figura lasciata di sfondo e che poco è stata evocata nella storia della filosofia: l’ultimo uomo. La produzione filosofica su Nietzsche è stata sterminata, ma titoli che trattino specificatamente dell’uomo più inquietante sono pressochè assenti.

La consapevolezza dell’importanza dell’ultimo uomo per decodificare un pensatore così complesso è stata rilevata da Costanzo Preve, che ha spostato l’asse interpretativo dell’opera nietzscheana dal superuomo all’ultimo uomo. Nella letteratura come nella filosofia il superuomo ha trovato una facile spendibilità ed accoglienza in un secolo segnato da un autentico delirio di grandezza imperialistico e genetico.  Ne è conseguito il dibattito sull’identità del superuomo ed il suo successo mediatico è stato rafforzato dal facile accostamento al nazionalsocialismo ed ai fascismi in generale.

Inoltre l’operazione per ‘ritrovare’ il Nietzsche autentico è stata complessa (vedasi traduzione e la ricostruzione filologica di Colli e Montinari); pertanto, nel tentativo di dare autenticità interpretativa al superuomo, notevole ne è stata la fama ed il successo che ne è conseguito. Quest’operazione ha comportato un ridimensionamento di molti e più interessanti aspetti del filosofo.

L’ultimo uomo, come rileva Costanzo Preve, con la sua forza simbolica critica e dirompente verso il sistema ne è una testimonianza.

Si è cercato quindi di focalizzare l’azione di ricerca su questa figura inquietante al fine di coglierne la validità interpretativa rispetto all’attualità. L’ultimo uomo ci proietta nella mediocre quotidianità dell’integralismo capitalistico esprimibile con le parole di Musil («il vuoto dinamismo dei giorni»). Il vuoto produttivo e calcolante è la forma e la sostanza dell’ultimo uomo. La sostanza che per sua natura è pienezza ontologica si alligna nel vuoto del nichilismo disperato e ripetitivo.


Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.
Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

 

 


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Marco Penzo – «Attimi». Poesie. Sei la misura del mio cuore, l’attimo della mia passione.

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Coperta Attimi

Marco Penzo, Attimi

 

 

Marco Penzo

Attimi.

ISBN 978-88-7588-189-4, 2017, pp. 80, formato 130×200 mm., Euro 10.
In copertina: Marco Sallese, Venature, foto a Bagno Vignoni (Siena), 2016.
indicepresentazioneautoresintesi

 

 

 

 

Pagine

che riflettono in versi

le vibrazioni poetiche dell’autore:

emerge il tema della speranza

come attimo di bene,

momento germinale di una progettualità

che aspira a vivere in una società che davvero assuma i valori universalistici

nel palpito condiviso

di autentiche relazioni umane

 

Marco Sallese, Venature, foto a Bagno Vignoni (Siena), 2016

Marco Sallese, Venature, foto a Bagno Vignoni (Siena), 2016.


Marco Penzo

La nostra libertà

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Nicola Capogreco – L’arte ci parla di ciò che è stato, di ciò che avrebbe potuto essere, ma anche di ciò che potrebbe essere per la soggettività umana.

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«L’arte non è un’esperienza della trascendenza, ma non è neanche un libero gioco della fantasia. Più esattamente, l’arte ci parla di ciò che manca […] di ciò che l’uomo ha “innescato” nella storia, ma che lì ha dimenticato o non ha saputo completare […]. L’arte ci parla di ciò che è stato, di ciò che avrebbe potuto essere, ma anche di ciò che potrebbe essere per la soggettività umana».

N. Capogreco, Simbolo, mito e memoria nella comunicazione musicale, Tesi di laurea, Università di Bologna [1990, p. 5r].

 

Cfr., anche, Arte e razionalità nella “nuova musica” di Amold Schonberg, in M. Bristiger, N. Capogreco e G. Reda (a cura di), Il pensiero musicale degli anni Venti e Trenta (Atti del Convegno di Arcavacata di Rende, 1-4 aprile 1993), Centro editoriale librario, Università degli studi della Calabria, Rende, 1996, pp. 183-93.

 


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Sigmund Freud (1856-1939) – Per la musica sono quasi incapace di godimento. Una disposizione razionalistica o forse analitica si oppone in me a ch’io mi lasci commuovere senza sapere perché e da cosa.

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«Siamo assolutamente pronti a riconoscere che un “sentimento oceanico esiste in molte persone, e propendiamo a ricondurlo a una prima fase del sentimento dell’Io».

 S. Freud, Disagio della civiltà [1929, trad.it. in Opere , vol. X, p. 564].
«Intendo dire questo: se si eseguono un paio di battute e qualcuno, come avviene nel Don Giovanni, dice “E’ dalle Nozze di Figaro di Mozart”, tutt’in una volta fluttuano in me ricordi, dei quali però, un attimo dopo, niente di isolato può giungere alla coscienza. La frase significativa serve da punto di irruzione, a partire dal quale viene posto contemporaneamente in eccitazione tutto un complesso. Potrebbe non succedere diversamente nel pensiero inconscio».
S. Freud, L’interpretazione dei sogni, 1900. Trad.it. in Opere, vol. III, p. 455.
«Premetto che in fatto d’arte non sono un intenditore, ma un profano. Ho notato spesso che il contenuto di un’opera d’arte esercita su di me un’attrazione più forte che non le sue qualità formali e tecniche, alle quali invece l’artista attribuisce un valore primario. Per molte manifestazioni e per più d’un effetto che l’arte produce mi manca invero l’esatta comprensione […].
Le opere d’arte esercitano tuttavia una forte influenza su di me, specialmente la letteratura e le arti plastiche su di me, più raramente la pittura. Sono stato indotto perciò a indugiare a lungo di fronte ad esse quando mi se ne è presentato l’occasione, con l’intento di capirle a modo mio, cioè di rendermi conto per qual via producano i loro effetti. Nel caso in cui ciò non mi riesce, come per esempio per la musica, sono quasi incapace di godimento. Una disposizione razionalistica o forse analitica si oppone in me a ch’io mi lasci commuovere senza sapere perché e da cosa.
La mia attenzione è caduta così sul fatto, apparentemente paradossale, che proprio alcune delle creazioni artistiche più meravigliose e travolgenti sono rimaste oscure alla nostra comprensione. Le ammiriamo, ci sentiamo sopraffatti dalla loro grandezza, ma non s appiamo dire che cosa rappresentano». [1913]

Sigmund Freud, Der Moses des Michelangelo, in Gesammelte Schriften, voI. X, Internationaler psychoanalytischer Verlag, Leipzig 1924, pp. 257-86 (trad . it. Il Mosé di Michelangelo, in Id., Opere complete, Bollati Boringhieri, Torino 1975, voi. VII, p. 299).


Angelo Villa, Pink Freud. Psicoanalis della cansone d'autore da Bob Dylan a Van De sfroos, Mimesis

Angelo Villa, Pink Freud. Psicoanalis della cansone d’autore da Bob Dylan a Van De sfroos, Mimesis


Gabriele Scaramuzza, Hegel e la musica


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François Hartog – Col canto e con l’arco Ulisse ritrova la propria identità, la coincidenza di sé con se stesso, trasformandosi, per una volta, in aedo davanti al popolo dei Feaci.

François Hartog
Memoria di Ulisse

Memoria di Ulisse

 

Omero Racconta:

«Quando ebbe alzato e osservato in ogni sua parte il grande arco, come un uomo esperto di cetra e di canto, che senza sforzo tende la corda intorno al bischero nuovo, attaccando ai due estremi il budello ritorto di pecora, così, senza sforzo, Odisseo tese il grande arco. Prese e saggiò con la destra la corda: essa cantò pienamente, con voce simile a rondine»

 (Odissea, XXI, 405-411).

Presso i Feaci, «uomini dei limiti», che beneficiano del particolare status di essere vicini agli dèi e di aver conservato alcuni tratti dell’età dell’oro, ma di essere al tempo stesso mortali tra i mortali, Odisseo, rifiutandosi di gareggiare nel tiro con l’arco, spiegava ad Alcinoo:

«Con gli uomini del tempo passato non voglio contendere, o con Eracle o con Eurito di Ecalia, i quali sfidavano anche gli immortali nell’arco. Perciò il grande Eurito morì presto e non arrivò alla vecchiaia nelle case: lo uccise Apollo adirato perché lo sfidava a tirare con l’arco» (Odissea , VIII, 223-28).

Odisseo conosceva bene quell’arco, perché egli stesso, partito per Troia, lo aveva fatto custodire nella stanza più remota, l’ultima, del palazzo di Itaca: vi teneva i tesori del re, bronzo, oro e ferro lavorato con molta fatica; v’erano l’arco flessibile e la faretra portasaette con molte frecce funeste: glieli donò un suo ospite che lo incontrò a Lacedemone, Ifito figlio di Eurito, simile agli immortali (Odissea, XXI, 9-14).

Nella società degli «ultimi» uomini»,

«che ignorano la violenza e la guerra, dove non esistono né eroi né kleos e dove, secondo Alcinoo, la morte di tanti guerrieri davanti a Troia è stata mandata dagli dèi agli uomini solo per fornire argomenti ai canti degli uomini che verranno […] Odisseo prova la dolorosa esperienza della non-coincidenza di sé con se stesso, […] l’esperienza dell’alterità radicale, rimettendo in discussione le frontiere, e attraverso la confusione delle categorie che separano gli uomini, le bestie, gli dèi»

François Hartog, Memoria di Ulisse. Racconti sulla frontiera nell’antica Grecia, trad. di Antonia Tadini, Einaudi.

 

Lodato Demodoco «al di sopra di tutti i mortali: o ti ha istruito la Musa, figlia di Zeus, o Apollo» (Odissea, VIII, 487-88), e avendogli chiesto di cantare il progetto del cavallo di legno ch’egli stesso aveva portato sull’acropoli di Troia, Odisseo piange nella sala delle danze e dei canti che procurano gioia, all’ascolto delle proprie imprese celebrate alla terza persona, e ritrova la propria identità, la coincidenza di sé con se stesso, solo trasformandosi, per una volta, in aedo della propria gloria, lodato a sua volta da Alcinoo: «Hai esposto con arte, come un aedo, il racconto, le tristi sventure di tutti gli Argivi e le tue» (Odissea, XI, 368-69). Il racconto o il canto svolgono la medesima funzione dell’arco: giunto a Itaca, per mezzo dell’arco di Eurito, di Ifito e infine suo, Odisseo ritrova la propria identità e la manifesta anche a tutti altri.

Risvolto di copertina

Al principio c’è Ulisse, l’uomo-frontiera, colui che ha visto tutto fino ai confini dei confini, il viaggiatore errante fra cultura e barbarie, fra i mondi degli dèi, degli animali e degli uomini. Ma altri poi lo seguono, forti del suo esempio, viaggiatori veri o fittizi, che ci conducono in Grecia, a Roma, in parti lontane del mondo. Tuttavia nessuno di loro sembra interessarsi veramente alle “saggezze straniere” considerate nel loro proprio contesto, nella loro vera essenza, nella lingua che le esprime. Il loro viaggio è sempre sulla falsariga di quello dell’Odissea. Un ritorno all’isola natia, un compiacimento del Medesimo, in fondo un disconoscimento dell’Altro. Compiacersi, ritornare, Hartog legge cosí l’avventura di Ulisse, che testimonia in una sola volta l’aprirsi e il richiudersi della civiltà greca. Eppure viaggio dopo viaggio, racconto dopo racconto, i Greci si interrogano sulla propria identità. Raccontando l’altro, facendogli visita, scoprendo il sapere egizio o assistendo al trionfo di Roma, i Greci si confermano o dubitano di sé, pur restando i padroni del gioco. Ambasciatori di certezze, ma anche propagatori di dubbi, questi viaggiatori rappresentano l’inquietudine di una identità oscillante e condividono la ricerca di una piú profonda conoscenza di sé attraverso l’interminabile confronto con l’altro e gli altri.

«In queste pagine si parlerà di antropologia e di storia della Grecia antica, o meglio di una storia culturale di lunga durata, che prende come punti di riferimento ed elegge a guide alcune figure di “viaggiatori”. Cominciando dal primo e piú famoso: Ulisse, l’eroe che “a lungo errò [¿] di molti uomini le città vide e conobbe la mente”. Altri lo seguiranno, richiamandosi a lui, viaggiatori veri o fittizi, portandoci in Egitto, nel cuore della Grecia, a Roma, o in giro per il mondo. Ulisse è colui che ha visto, che sa perché ha visto, e ci indica immediatamente un rapporto con il mondo che è al centro della civiltà greca: il privilegio dell’occhio come modo della conoscenza. Vedere, il vedere in se stesso, e sapere, sono “tutt’uno”. “Infatti noi preferiamo, per cosí dire, la vista a tutte le altre sensazioni, dice Aristotele. “E il motivo sta nel fatto che questa sensazione, piú di ogni altra, ci fa acquistare conoscenza e ci presenta con immediatezza una molteplicità di differenze”».

François Hartog


Immagine in evicenza: Ulisse alla corte di Alcinoo è un dipinto a olio su tela (350×580 cm) del pittore italiano Francesco Hayez, realizzato tra il 1814 e il 1816 e conservato al museo nazionale di Capodimonte, a Napoli.


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