Herbert Marcuse (1898-1979) – Né ritirarsi né adattarsi, ma imparare come sviluppare con la nuova sensibilità una nuova razionalità, per sostenere il lungo processo dell’istruzione.

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La dimensione estetica

La dimensione estetica

«Bertolt Brecht ha osservato che viviamo in un periodo in cui sembra un crimine parlare di un albero. Da allora, le cose sono molto peggiorate. Oggi, sembra un crimine solamente parlare di un cambiamento mentre la società è trasformata in un’istituzione di violenza […]. Il puro e semplice potere di questa brutalità non è immune contro la parola pronunciata e scritta che lo accusa? E la parola che è diretta contro i professionisti di questo potere non è la stessa che usano per difendere il loro potere? C’è un livello al quale sembra giustificata persino l’azione priva di intelligenza contro di loro. Perché l’azione spezza, anche se solo per un momento, l’universo chiuso della soppressione. L’escalation è costruita dentro il sistema e accelera la controrivoluzione a meno che sia fermata in tempo. Eppure, c’è un tempo per la conversazione e un tempo per l’azione anche in questo sistema, e questi tempi sono definiti (segnati) dalla concreta costellazione sociale delle forze. Dove l’azione radicale di massa è assente, e la sinistra è incomparabilmente più debole, la sua azione deve essere autolimitante. Ciò che è imposto alla ribellione dalla repressione intensificata e dalla concentrazione di forze distruttive nelle mani della struttura di potere deve diventare il terreno per il raggruppamento, il riesame. Devono essere sviluppate strategie che sono adattate a combattere la controrivoluzione. Il risultato dipende, in larga misura, dalla capacità della generazione giovane non di ritirarsi né di adattarsi, ma di imparare come raggrupparsi dopo la sconfitta, come sviluppare, con la nuova sensibilità una nuova razionalità, per sostenere il lungo processo dell’istruzione, il prerequisito indispensabile per la transizione a un’azione politica su larga scala. Perché la prossima rivoluzione sarà la preoccupazione di generazioni, e “la crisi finale del capitalismo” può durare quasi un secolo.».

Herbert Marcuse, La dimensione estetica. Un’educazione politica tra rivolta e trascendenza, a cura di Paolo Perticari, Guerini e Associati, 2002, p. 266.


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Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.

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«[…] il genere Homo si caratterizza, fin dalle origini, per la sua inquietudine, per la ricerca di nuove possibilità […], dimostrando così la sua capacità di non fermarsi al puro dato sensibile, ossia di andare oltre la percezione immediata, e quindi di pre-vedere quel che ancora non è fisicamente visibile, cioè percepibile dai sensi. L’inquietudine e l’angoscia sono legate […] alla scoperta della libertà, alla possibilità di scegliere tra due o più comportamenti.
Ma il prevedere – che è un’attitudine propria della ragione – implica la coscienza del tempo, o meglio, la temporalità, la quale […] rende possibile il  costituisce cioè la conditio sine qua non del progettare. Sullo spazio aperto dalla previsione s’innesta così […] la progettualità, che è un fatto specificamente ed essenzialmente umano. E poiché l’uomo non è un individuo isolato, ma, in quanto coessere, nasce, vive e opera sempre in un determinato contesto storico-sociale, ecco che il suo progettare si carica di storicità, di socialità, di politicità, caratterizzandosi, immediatamente, come utopico, dal momento che l’utopia può essere definita come il progetto della storia, come progetto e impegno di costruire la “società giusta”; quella società, cioè, in cui a ciascuno venga finalmente riconosciuto il proprio diritto: il diritto dell’uomo in quanto uomo. Da ciò discende che l’utopicità non è un fatto accidentale e transeunte, ma un carattere essenziale della specie umana» .

«Lo dimostra il fatto che, ancora oggi, l’uomo si presenta come l’essere che, per sua natura, si protende e proietta verso il suo dover essere. E ciò perché è in gioco l’originaria potenzialità della persona, il suo oscillare tra il nulla e il tutto, la sua capacità di costruire liberamente (dunque, anche sbagliando) quel se stesso che ancora non è. Il progetto […] non è una delle tante opzioni, ma costituisce l’opzione fondamentale, poiché solo per mezzo di esso il genere Homo attinge quella che viene chiamata dignità umana.
Senza il progetto, cui si connette il dover essere e quindi il vincolo etico – che lo obbliga a realizzare, per quanto è possibile pienamente, l’umanità che è in lui – l’uomo decade a bestia. Ciò che rende la vita umana degna di essere vissuta è anzitutto quest’opera […] che richiede l’impegno e lo sforzo di tutta una vita, proprio perché l’uomo, in quanto essere finito, è soggetto alla caduta e allo scacco, ma è anche capace, ogni volta, di rialzarsi, per riprendere il cammino […].
Ora, questo impulso a protendersi verso il dover essere,  […] questa profonda aspirazione a diventare quel che non è ancora fanno, appunto, dell’uomo un essere essenzialmente progettuale, cioè utopico. In altre parole, l’utopicità è un carattere che ha segnato l’uomo in maniera indelebile. È il carattere distintivo per eccellenza, da cui tutti gli altri derivano, compreso, forse, lo stesso attributo di sapiens. La “sapienza”, infatti, non è un dono, bensl una dura conquista […]. Ma non vi sarebbe sapienza senza il desiderio, o meglio, il bisogno di conoscere, […] ricerca di nuove possibilità […]» (pp. 50-51).

«Il progetto utopico […] nasce da una profonda coscienza etica, la quale spinge l’uomo a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente, ritenuto ingiusto e insostenibile. Il progetto utopico, quindi, non è solo un modello teorico, bensì, in quanto è proteso, per sua natura, alla realizzazione, richiede un forte impegno anche sul piano della prassi. Lungi dall’essere qualcosa di “astratto”, esso è estremamente concreto […]. Invero, ogni progetto, per sua natura, nasce da un bisogno, ossia dal bisogno di mutare la realtà che, così com’è, risulta carente, inadeguata a soddisfare le esigenze dei singoli o della società in generale.  […] Storicamente è accaduto che le società e le epoche maggionnente dinamiche sono state quelle che hanno espresso un maggiore bisogno di progettualità e quindi un maggiore bisogno di utopia. In questo senso, si può dire che l’utopia si rivela come il motore della storia» (pp. 56-57).

«L’affievolirsi della tensione utopica deve essere considerato come un campanello d’allarme per l’umanità. […] Senza utopia non v’è progettazione, non v’è immaginazione, non v’è speranza e, quindi, non v’è futuro. […] In altre parole, privare l’uomo dell’utopicità significa privarlo della sua stessa umanità» (pp. 58-59).

«Il progetto utopico nasce anzitutto dalla consapevolezza che le condizioni storiche di fatto esistenti (a livello sociale, politico, economico, ecc.) sono profondamente ingiuste; donde l’istanza delle trasformazioni sociali. […] Alle origini del progetto utopico v’è dunque, in primo luogo, la presa di coscienza critica sulla realtà di fatto […].
La coscienza utopica sarebbe però irrimediabilmente monca, se si configurasse solo nella duplice dimensione critico-progettuale. La progettazione, infatti, perché possa dirsi autenticamente utopica, deve essere orientata verso il bene, ossia deve essere sorretta da una volontà di bene, la quale ha come suo fondamento la coscienza etica.
A generare l’utopia è quindi una profonda spinta morale, che si manifesta concretamente non solo come “ansia del giusto” […], ma anche come volontà di pace, di libertà, di uguaglianza, di solidarietà, di amore fraterno. Senza la coscienza etica, che è anche coscienza del limite, la progettazione finirebbe con il degenerare nella hyhris, nell’arroganza, nel delirio di onnipotenza, si trasformerebbe, in altri termini, in volontà di male, ossia in distopia. […] Ecco perché la coscienza morale è una dimensione essenziale, fondamentale della progettazione utopica.
La coscienza etica svolge un ruolo importante, decisivo, non solo nella fase critico-progettuale, ma anche nel momento realizzativo dell’utopia; infatti, è proprio grazie alla vigilanza morale che l’utopia evita di degenerare nel suo opposto, evita cioè di cadere nella
distopia. Il dovere di realizzare il fine, ossia il progetto della “società buona e giusta”, deve essere sempre sotteso dall’impegno di ricercare e scegliere i mezzi, che siano non solo efficaci, ma anche “buoni”, cioè rispettosi della dignità umana e dell’intera ecosfera.
Quando nella coscienza umana comincia a farsi strada l’idea che un fine buono, come ad esempio la giustizia, può essere realizzato compiendo ingiustizie, sopraffazioni e ogni altro genere di violenza, allora si può essere certi che si è abbandonata la strada lunga, stretta e faticosa dell’utopia, per imboccare quella più corta e ampia, ma assai più pericolosa, della distopia.  […] E ciò accade, appunto, per una carenza di spirito utopico, da cui l’uomo spesso rifugge, perché la realizzazione del fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Concepita in tal modo, l’utopia […] riesce a dar conto della straordinaria ricchezza e complessità della progettazione sociale […]» (pp.65-67).

Cosimo Quarta, Homo utopicus. La dimensione storico-antropologica dell’utopia,
edizioni Dedalo, 2015.

 

 

Risvolto di copertina

L’utopia non è solo un concetto letterario, come spesso erroneamente si pensa, bensì un carattere originario ed essenziale della specie umana: analizzandone per la prima volta la dimensione storica e antropologica, questo libro ci consente di capire che l’uomo non è solo sapiens, ma anche utopicus. L’utopia alimenta la speranza progettuale ed è una potente forza di mutamento sociale che, sia pure in forme diverse, è sempre presente nella storia umana.  Attraverso un’analisi originale della genesi della parola e un confronto puntuale con alcu­ni concetti similari (come mito, paradigma, ideale, ideologia) si arriverà a una definizione dell’utopia e del suo rapporto con alcuni tra i più importanti fenomeni socio-storico-culturali, come la rivoluzione, la scienza, la religione e l’ecologia. In questa nuova luce, si vedrà quindi come l’utopia possa costituire un valido antidoto culturale alle paure e al nichilismo del nostro tempo.

Indice del volume

Introduzione - I. IL FONDAMENTO ANTROPOLOGICOE STORICO DELL’UTOPIA - Capitolo 1 - L’utopia: una storia di fraintendimenti - 1. L’utopia non coincide con il fatto letterario - 2. Equivoci derivanti dall’assimilazionedell’utopia al fatto letterario - 3. Ulteriori fraintendimenti - Capitolo 2 -Homo utopicus. L’utopia come carattereoriginario della specie umana - 1. Sulla presunta fine dell’utopia - 2. L’utopia come fenomeno umano originario - 3. Homo utopicus - Capitolo 3 -Utopia e storia - 1. Genesi e prime forme dell’utopia storica - Il bisogno di cambiamento - 2. L’utopia delle origini: la preistoria, il mito - 3. Utopia e storia nel mondo antico - 4. L’utopia storica nel Medioevo cristiano - II. L’UTOPIA: IL TERMINE E IL CONCETTO - Capitolo 4 -Utopia. La genesi straordinaria e complessadi una parola-chiave - 1. La lunga gestazione: l’ipotesi di un Elogio della saggezza - 2. Il problema del nome: da Abraxa a Nusquama - 3. Da Nusquama a Utopia - 4. Il nesso ou-topia/ eu-topia - 5. L’utopia come coscienza critico-progettualee tensione storico-realizzativa - Capitolo 5 -Delucidazione concettuale I:paradigma, ideale, utopia - 1. Sul concetto di paradigma - 2. Sul concetto di ideale - 3. L’utopia - Capitolo 6 -Delucidazione concettuale II:ideologia e utopia - 1. Il contributo (e la responsabilità) di Karl Mannheim - 2. Capitalismo e marxismo versus utopia - 3. Per un risveglio della coscienza utopica - III. IL RUOLO DELL’UTOPIA IN ALCUNI TRA I PIÙ IMPORTANTIFENOMENI SOCIO-STORICO-CULTURALI - Capitolo 7 -Utopia e rivoluzione - 1. La rivoluzione - 2. Utopia e rivoluzione - 3. L’istanza utopica della rivoluzione non violenta - Capitolo 8 -Scienza e utopia - 1. Scienza versus utopia? - 2. La scienza nell’utopia letteraria - 3. Utopia e scienza in dialogo - Capitolo 9 -Utopia e trascendenza - 1. Sul rapporto utopia-trascendenza - 2. Homo utopicussivetranscendens: la scoperta dell’«oltre» - 3. Dall’utopia alla Trascendenza - Capitolo 10 -Ecologia e utopia - 1. Crisi ambientale e modernità: dalla Weltanschauungmeccanicistica all’esplosione dei consumi - 2. Carattere utopico della progettualità ecologica - Indice dei nomi

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Karl Marx (1818-1883) – La sensibilità soggettiva si realizza solo attraverso la ricchezza oggettivamente dispiegata dell’essenza umana.

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Opere filosofiche giovanili

Opere filosofiche giovanili

«Soltanto attraverso la ricchezza oggettivamente dispiegata dell’essenza umana vi è la ricchezza della umana sensibilità soggettiva (l’orecchio musicale, l’occhio per la bellezza della forma – in breve, i sensi capaci di umana gratificazione, sensi che affermano se stessi come poteri essenziali dell’uomo) sia essa coltivata o prodotta».

Karl Marx, Manoscritti economico-filsoflci del 1844, tr. il. G. Della Volpe, in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 229.


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Herbert Marcuse (1898-1979) – Ciò che si definisce “utopico” non è più qualcosa che “non accade” e non può accadere nell’universo storico, bensì qualcosa il cui prodursi è impedito dalla forza delle società stabilite.

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La dimensione estetica

La dimensione estetica

«Finora uno dei principali criteri guida della teoria critica della società (e in particolare della teoria marxiana) è stato quello di trattenersi da ciò che si può ragionevolmente chiamare speculazione utopica. Si presuppone che la teoria sociale sia tenuta ad analizzare le società esistenti alla luce delle loro funzioni e delle loro capacità, e a identificare le tendenze dimostrabili (nel caso ve ne siano) che possono condurre al superamento della situazione in atto deducendo logicamente dalle istituzioni e dalle condizioni prevalenti. La teoria critica può anche essere in grado di determinare i fondamentali cambiamenti istituzionali che costituiscono i prerequisiti per il passaggio a un livello più alto di sviluppo: “più alto” nel senso di un più razionale e più equo utilizzo delle risorse, di una riduzione dei conflitti distruttivi e di un allargamento del governo della libertà.
Ma la teoria critica della società non si è avventurata oltre questi limiti per paura di perdere il suo carattere scientifico. lo ritengo che questa concezione restrittiva debba essere revisionata e che tale disamina sia suggerita, e persino resa necessaria, dalla reale evoluzione delle società contemporanee. La dinamica della loro produttività priva la nozione di “utopia” del suo tradizionale contenuto di irrealtà: ciò che si definisce “utopico” non è più qualcosa che “non accade” e non può accadere nell’universo storico, bensì qualcosa il cui prodursi è impedito dalla forza delle società stabilite».

Herbert Marcuse, Sagio sulla liberazione. Dall’«uomo a una dimensione» all’utopia, in Id.,  La dimensione estetica. Un’educazione politica tra rivolta e trascendenza, a cura di Paolo Perticari, Guerini e Associati, 2002, p. 106.


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Herbert Marcuse (1898-1979) – Il presupposto fondamentale della rivoluzione, la necessità di un cambiamento radicale, trae origine dalla soggettività degli individui stessi, dalla loro intelligenza e dalle loro passioni, dai loro sensi e obiettivi. La soggettività liberatrice si costituisce nella storia interiore degli individui. Solo come straniamento l’arte svolge una funzione cognitiva. Essa comunica verità non comunicabili in nessun altro linguaggio: essa contraddice.

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La dimensione estetica

La dimensione estetica

«Se l’ideologia diventa mera ideologia […] si attua una svalutazione dell’intero regno della
soggettività, una svalutazione non solo del soggetto in quanto ego cogito, il soggetto razionale, ma anche dell’interiorità, delle emozioni e dell’immaginazione. La soggettività degli individui, la loro stessa coscienza e l’inconscio tendono a essere dissolti nella coscienza di classe.
In tal modo viene minimizzato un presupposto fondamentale della rivoluzione, cioè il fatto che la necessità di un cambiamento radicale debba trarre origine dalla soggettività degli individui stessi, dalla loro intelligenza e dalle loro passioni, dai loro sensi e obiettivi. La teoria marxista dovette soccombere a quella stessa reificazione che aveva denunciato e combattuto nel complesso della realtà sociale. La soggettività divenne un atomo dell’oggettività; persino nella sua forma ribelle si arrese a una coscienza collettiva. La componente deterministica della teoria marxista non consiste nella relazione tra esistenza sociale e coscienza, ma nel concetto riduttivo di coscienza che neutralizza il contenuto specifico della coscienza individuale e, con ciò, il potenziale soggettivo per la rivoluzione.
[…] La soggettività liberatrice si costituisce nella storia interiore degli individui – la loro storia personale, che non s’identifica con la loro esistenza sociale. È la storia particolare dei loro incontri, delle loro passioni, gioie e sofferenze, esperienze che non traggono necessariamente origine dalla loro condizione di classe e che non sono nemmeno comprensibili in questa prospettiva. Certo, le manifestazioni concrete della storia degli individui sono determinate dalla loro condizione di classe, ma tale condizione non è il fondamento del loro destino, di quello che accade loro. Specialmente nei suoi aspetti non materiali essa infrange la cornice sociale. È troppo facile relegare amore e odio, gioia e dolore, speranza e disperazione nell’ambito della psicologia, escludendoli cosÌ dalla sfera della prassi politica radicale. Per la verità, in termini di economia politica potrebbero non essere “forze produttive”, ma per ogni essere umano questi aspetti sono decisivi e costituiscono la realtà.
Anche tra i suoi esponenti più illustri l’estetica marxista ha partecipato alla svalutazione della soggettività. Da qui la preferenza per il realismo come modello di arte progressiva, la denigrazione del romanticismo in quanto semplicemente reazionario, la condanna dell’arte
“decadente! in generale, l’imbarazzo nel valutare le qualità estetiche di un’opera in termini diversi dalle ideologie di classe.
La tesi che mi accingo a discutere è la seguente: le qualità radicali dell’arte, vale a dire la denuncia della realtà costituita e l’evocazione della bella immagine (schöner Schein) della liberazione, si fondano precisamente nella dimensione in cui l’arte trascende la propria determinazione sociale e si emancipa dall’universo dato del discorso e del comportamento, conservando tuttavia la sua presenza schiacciante. In tal modo l’arte crea il regno in cui diventa possibile il sovvertimento dell’esperienza che le è proprio: il mondo da essa forgiato è riconosciuto come una realtà soffocata e distorta nella realtà data. Questa esperienza culmina in situazioni estreme (di amore e di morte, di colpa e di fallimento, ma anche di gioia, di felicità e di soddisfazione) che fanno esplodere la realtà costituita in nome di una verità solitamente negata o neppure ascoltata. La logica interna dell’opera d’arte sfocia nell’emergere di un’altra ragione, di un’altra sensibilità, che sfidano la razionalità e la sensibilità incorporate nelle istituzioni sociali dominanti.
In nome della legge della forma estetica, la realtà data è necessariamente sublimata: il contenuto immediato è stilizzato, i “dati” vengono rimodellati e riordinati secondo le esigenze della forma artistica, secondo la quale persino la rappresentazione della morte e della distruzione evocano il bisogno della speranza, un bisogno radicato nella nuova coscienza incorporata nell’opera d’arte.
La sublimazione estetica promuove la componente affermativa, riconciliante dell’arte, nonostante sia allo stesso tempo veicolo della funzione critica, di negazione dell’arte. La trascendenza della realtà immediata manda in frantumi l’oggettività reificata dei rapporti sociali costituiti e apre una nuova dimensione dell’esperienza: la rinascita della soggettività ribelle. Così, sulla base della sublimazione estetica, si attua una desublimaziane nella percezione degli individui, dei loro sentimenti, giudizi, pensieri; un’invalidazione delle norme, dei bisogni e dei valori dominanti. Con tutte le sue caratteristiche di ideologia e di conferma, l’arte permane una forza del dissenso.
Possiamo provvisoriamente definire la “forma estetica” come il risultato della trasformazione di un dato contenuto (fatto di cronaca o storico, personale o sociale) in un tutto autosufficiente: una poesia, un lavoro teatrale, un romanzo ecc. L’opera è così “sottratta“ al processo incessante della realtà e assume un significato e una verità che le sono proprie. La trasformazione estetica si attua mediante un rimodellamento del linguaggio, della percezione e della comprensione volto a svelare l’essenza della realtà nella sua apparenza: le potenzialità represse dell’uomo e della natura. In questo modo l’opera d’arte ri-presenta la realtà mentre la denuncia.
La funzione critica dell’arte, il suo contributo alla lotta per la liberazione, risiede nella forma estetica. Un’opera d’arte è autentica o vera non in virtù del suo contenuto (cioè della rappresentazione “corretta” delle condizioni sociali), né della forma “pura”, ma per opera del contenuto che è diventato forma.
Così, se è vero che la forma estetica tiene lontana l’arte dalla realtà della lotta di classe – dalla realtà pura e semplice – ed è ciò che costituisce l’autonomia dell’arte vis à vis con il “dato”, questa dissociazione tuttavia non produce “falsa coscienza” o mera illusione, ma piuttosto controcoscienza: la negazione della mentalità realistico-conformista.
Forma estetica, autonomia e verità sono interdipendenti. Ciascuna di esse è un fenomeno storico-sociale e ciascuna trascende l’arena storico- sociale. Mentre quest’ultima limita l’autonomia dell’arte, non invalida però le verità transstoriche espresse nell’opera. La verità dell’arte consiste nella sua capacità di infrangere il monopolio della realtà costituita (cioè di coloro che l’hanno costituita) e di definire che cosa è reale. In questa rottura, che è la conquista della forma estetica, il mondo fittizio dell’arte appare come la vera realtà.
L’arte si affida a quella percezione del mondo che aliena gli individui dalla loro esistenza funzionale e dalla prestazione fornita nella società – si affida a un’emancipazione della sensibilità, dell’immaginazione e dell’intelligenza a tutti i livelli della soggettività e dell’oggettività.
L’elaborazione estetica diventa veicolo di inquisizione e di denuncia. Ma questa conquista presuppone un grado di autonomia che sottrae l’arte al potere mistificante del dato e la libera all’espressione della propria verità. Dal momento che uomo e natura si costituiscono
entro una società non libera, le loro potenzialità represse e distorte possono essere rappresentate solo in forma estraniante. Il mondo dell’arte è quello di un altro principio di realtà, dello straniamento, e solo come straniamento l’arte svolge una funzione cognitiva. Essa comunica verità non comunicabili in nessun altro linguaggio: essa contraddice».

Herbert Marcuse, La dimensione estetica. Un’educazione politica tra rivolta e trascendenza, a cura di Paolo Perticari, Guerini e Associati, 2002, pp. 15-18.


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David Le Breton – Il mondo reale è mutato in immagini, e le immagini diventano esseri reali ed efficienti motivazioni di un comportamento ipnotico.

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Il sapore del mondo

Il sapore del mondo

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«L'età dell'informazione si incarna nell'occhio».
I. Illich, La Perte des sens,
Fayard, Paris, 2004, p.221.

 

«Laddove il mondo reale si muta in semplici immagini, le semplici immagini diventano esseri reali ed efficienti motivazioni di un comportamento ipnotico. Lo spettacolo, come tendenza a far vedere attraverso differenti mediazioni specializzate il mondo che non è più direttamente afferrabile, trova normalmente nella vista il senso umano privilegiato, che in altre epoche fu il tatto; il senso più astratto, più mistificabile, è punto focale dell’astrazione generalizzata della società attuale».

David Le Breton,
Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi,
Raffaello Cortina Editore, 2007, p. 29.


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Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Ma le notti Amore mi vuole intento a opere diverse: vedo con occhio che sente, sento con mano che vede.

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Gothe, Tutte le poesie

«Ma le notti Amore mi vuole intento a opere diverse:
se divento dotto a metà, doppio è il piacere che provo.
E non mi erudisco mentre spio le forme dell’amabile
seno, guido la mano giù per i fianchi?
Solo allora intendo il marmo; penso e raffronto,
vedo con occhio che sente, sento con mano che vede».

Johann Wolfgang von Goethe, Elegie romane,
tr. it. in Tutte le poesie, Mondadori, 1989, I, p. 309.

 

 


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David Le Breton – La carezza è il tentativo di abolire la distanza avvicinandosi all’altro in una reciprocità che si vuole immediata. La carezza non è un semplice sfiorare: ma un foggiare.

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Il sapore del mondo

Il sapore del mondo

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«L'altro in quanto altro non è qui oggetto che diventa nostro
 o che finisce per identificarsi con noi;
esso, al contrario, si ritira nel suo mistero.
 
EMMANUEL LÉVINAS, Il tempo e l'altro

«La carezza non significa prendere possesso dell’altro, bensì coincidere con lui o con lei in un avvicinamento senza fine. Il tatto è il senso principale dell’incontro e della sensualità, è il tentativo di abolire la distanza avvicinandosi all’altro in una reciprocità che si vuole immediata. In questo intreccio, nessuno tocca che non sia a sua volta toccato; nell’erotismo, la carezza è la mutua incarnazione degli amanti. Ciascuno si rivela a se stesso modellandosi sul corpo dell’altro. La reciprocità della mano e dell’oggetto trova qui la sua compiuta misura: la mano tocca nel momento stesso in cui è toccata. Essa incarnatutta la potenza creativa che le è propria. Scrive Sartre: “La carezza non è un semplice sfiorare: ma un foggiare. Carezzando l’altro, io faccio nascere la mia carne con la mia carezza, sotto le mie dita. La carezza fa parte delle cerimonie che incarnano l’altro; […] il desiderio si esprime con la carezza, come il pensiero con il linguaggio. E la carezza rivela la carne dell’altro proprio come carne a me e all’altro” (J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, 1984, pp. 476-477).  La carezza è virtuosa soltanto se è accettata da colui o colei che la riceva: se non è desiderata, è una forma di violenza. Il medesimo movimento, a seconda del modo in cui è ricevuto, può essere uno stupro o un’offerta. Imposto con la forza o l’intimidazione, è intollerabile. La dolcezza infinita di una carezza concerne in primo luogo la significazione». (pp- 226-227).

«La pelle è rivestita di significati. Il tatto non è solamente fisico: è al tempo stesso semantico. Il vocabolario del tatto predilige metaforizzare la percezione e la qualità del contatto con l’altro, oltrepassando il mero riferimento tattile per esprimere il significato dell’interazione. […] La pelle funge da metafora del soggetto quand’egli ci tiene ancora, alla sua pelle. Comprendere rinvia a prendere insieme con l’altro mirando a un’impresa comune. Si tende la mano a chi è in difficoltà, oppure lo si lascia cadere. La corrente passa o non passa. Il fatto di sentire rinvia immediatamente alla percezione
tattile e all’ambito dei sentimenti. Avere tatto consiste nel limitarsi a sfiorare l’altro in merito a questioni delicate, usando la giusta discrezione che preserva chi agisce senza tenerlo all’oscuro di un’informazione essenziale. Tanta delicatezza testimonia il senso della distanza che – lo si intuisce – è necessario conservare nei confronti di qualcuno il cui temperamento è importante tenere nel massimo riguardo. Una formula tocca nel segno o tocca la corda sensibile. Si ha il senso del contatto, si percepiscono bene determinate cose grazie a una sensibilità a fior di pelle. E, allora, si va sul velluto, il percorso è liscio come l’olio.
Concedere la mano indica la parte per il tutto. Ma essere nelle mani di un altro significa perdere la propria autonomia, specie ove si tratti di persona capace di tenerci in pugno quando, magari, non vuole addirittura passare alle mani. […] Vi è chi si sente toccato, ma talvolta anche manipolato da una testimonianza commovente. Si lusinga qualcuno lisciandogli il pelo, oppure ci si sforza di trattarlo con i guanti per non urtarlo; altri, invece, vanno presi con le pinze […]. Se dobbiamo avanzare un’offerta sul cui buon esito nutriamo qualche dubbio, cominciamo con il tastare il terreno. E siamo punti sul vivo o ce ne abbiamo a male in presenza di un discorso indisponente o di un contatto che ci fa rizzare i capelli in testa o ci dà sui nervi; ancora, ci rendiamo conto di essere troppo sensibili ogni volta che abbiamo reazioni epidermiche. Una battuta acida ferisce, urta, fa sudare quando addirittura non scortica vivi. Una parola è capace di far venire i brividi alla schiena, la pelle d’oca o l’orticaria, oppure scalda il cuore. Allevia o irrita. L’imbarazzo copre di rossore. Una scena colpisce, prende alla gola. Il seduttore cerca di fare colpo. Una relazione è ardente, tenera, dolce, tiepida, piccante. Una persona è untuosa, pungente, appiccicosa; altri sono duri, persino carogne, oppure dei mollaccioni; altri ancora, calorosi o glaciali. Quando siamo in pericolo, rischiamo la pelle.
Tutti questi termini ricorrono al vocabolario del tatto per esprimere le diverse modalità degli incontri. Alcuni verbi, che coinvolgono la mano, servono a descrivere i nostri atti nei confronti dell’altro: prendiamo parte al suo dolore o prendiamo le sue parti, ci appoggiamo su di lui oppure siamo noi obbligati a dargli una mano o a sostenerlo poiché non ha fiducia in se stesso; afferriamo ciò che ha da dirci o lo comprendiamo, ma talvolta si rende necessario strappargli una confessione o toccare la corda dei sentimenti per onenerne un favore. La persona amata la portiamo nel cuore e l’accogliamo a braccia aperte: quella che detestiamo, invece, ci fa venire la pelle d’oca o rizzare il pelo o, ancora, suscita in noi repulsione. Alcuni vorrebbero fare la pelle ai nemici o conciarli per le feste. La qualità del rapporto con il mondo è anzitutto una questione di pelle» (pp.223-225).

David Le Breton,
Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi,
Raffaello Cortina Editore, 2007.


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Karl Marx (1818-1883) – Noi non siamo dei comunisti che vogliono abolire la libertà personale. In nessuna società la libertà personale può essere più grande che in quella fondata sulla comunità.

Marx 012 copia

Manifesto dei comunisti

«Noi non siamo dei comunisti che vogliono abolire la libertà personale e fare del mondo una grande caserma o una grande officina. Vi sono comunisti che se la prendono comoda e che negano e vogliono sopprimere la libertà personale, che secondo loro ostacola la via all’armonia; ma  noi non abbiamo nessuna voglia di comprare l’eguaglianza a prezzo della libertà. Siamo convinti [..] che in nessuna società la libertà personale può essere più grande che in quella fondata sulla comunità».

K. MarxF. Engels,
Manifest der Kommunistischen Partei,
tr. it. di D. Fusaro, Manifesto e principi del comunismo,
Bompiani, Milano 2009,  p. 265.

 

 

Risvolto di copertina
Pubblicato nel febbraio del 1848, sotto un cielo oscurato dalle nubi della rivoluzione, il Manifesto del partito comunista nasce dall’esigenza di spiegare al proletariato il vero movimento della storia per indurlo così ad abbracciare la missione di “seppellitore” del moderno mondo borghese, stregone ormai incapace di controllare le forze infere da lui stesso evocate. In questo modo, il terrifico «spettro del comunismo» poteva materializzarsi, trasformandosi in “forza oggettiva” capace di eseguire gli ordini della storia. Nelle pagine di questa breve ma densissima opera che non fa pace con il mondo, oltre le facili speranze e gli indubbi errori di valutazione, batte il cuore del progetto marxiano di redenzione dell’umanità: la speranza in un mondo senza classi né sfruttamento e la critica radicale del “modo di produzione capitalistico”, hegelianamente inteso come totalità contraddittoria e in movimento verso il proprio “superamento”. Grazie alla “buona novella” installata nel corso stesso degli eventi della storia umana, ed enunciata con un rigore scientifico pari solo al tono profetico, questa “Bibbia politica” andò incontro a un successo strepitoso che la rese il testo politico più diffuso e famoso di tutti i tempi. Un testo che racchiude tutt’ora schegge capaci di identificare e di colpire al cuore l’odierno “spirito del capitalismo”, contraddittoriamente in bilico – oggi come ieri – tra ricchezza e povertà, tra magnificenza e miseria, tra libertà e asservimento. La presente edizione offre al lettore italiano anche i Princìpi del comunismo di Engels, bozza originaria a partire dalla quale Marx compose il Manifesto del partito comunista, successivamente firmato a doppio nome dai due autori.

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John Donne (1572-1631) – Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è una parte del tutto. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.

John Donne copia
La casa di John Donne a Pyrford

La casa di John Donne a Pyrford

«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te».

 

John Donne,
Da Meditazione XVII
in Devozioni per occasioni d’emergenza,
Editori Riuniti, Roma, 1994, pp. 112-113.

John Donne ritratto da un anonimo, 1595 circa, National Portrait Gallery, Londra

John Donne ritratto da un anonimo, 1595 circa, National Portrait Gallery, Londra

 


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