Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.

Attila József
La statua di Attila Jozsef a Budapest

La statua di Attila Jozsef a Budapest.

 

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***
 Attila József

Con libera mente non recito la parte
sciocca e volgare del servo

a cura di Fernanda Mazzoli


Il testo completo di 12 pagine scaricabile in PDF

Attila József

 


 

Nel 1937, poco prima di mettere fine alla sua breve vita, gettandosi sotto un treno, Attila József allegò alla domanda in cui sollecitava un impiego nella speranza di allontanare, almeno per un poco, lo spettro della povertà che lo accompagnava dalla nascita, un curriculum vitae che, in mano sua, si trasformò nel racconto poetico della sua travagliata esistenza.

 

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Il poeta ungherese ricorda la sua infanzia difficile: nato nel 1905 a Budapest, a tre anni la Protezione per l’Infanzia lo inviò a Öcsöd, presso genitori adottivi, dopo che il padre aveva abbandonato la famiglia per emigrare. Là visse alcuni anni, lavorando in campagna a badare i maiali come tutti i bambini poveri. Al compimento del settimo anno, la madre lo riportò a Budapest e lo iscrisse alla seconda elementare. Lei faceva la lavandaia e le pulizie per mantenere Attila e le sorelle. A lei dedicò tanti suoi versi, operando quella perfetta e mai banale saldatura tra vissuto personale e dimensione sociale che conferisce alla sua lirica un carattere unico. La poesia che segue fu salutata da Benedetto Croce, critico esigente, come «grande, infinita e sublime». Correva l’anno 1942 e il poeta ungherese era, in Europa, pressoché sconosciuto.

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MIA MADRE
Una domenica sera mia madre è tornata
fra le mani recando due pentolini:
sorrideva in silenzio e s’è fermata
un po’ nella penombra.
Nelle pentole c’erano gli avanzi
della cena dei nostri padroni;
anche a letto, dopo, io pensavo
che quelli ne mangiano pentole piene.
Mia madre, esile, scarna, è morta giovane:
le lavandaie muoiono presto.
Le gambe non reggono ai carichi,
la testa duole dallo stirare.
Ed è il bucato la loro montagna!
Per allietanti giochi di nuvole,
il denso vapore, e per cambiare aria
le lavandaie hanno, su, la soffitta.
La vedo: sta con il ferro da stiro.
Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo;
si fece sempre più striminzita
– pensateci, proletari.
Si aggobbì per lavare:
ed io non sapevo che era ancora giovane.
Sognava di avere un grembiule pulito
e allora il postino la salutava.
(trad. di Folco Tempesti)

 

 

In terza elementare scoprì delle storie interessanti su Attila, il leggendario re degli Unni, che gli piacquero non solo perché portavano entrambi lo stesso nome, ma perché i genitori adottivi avevano deciso che il nome Attila non esisteva e, quindi, lo avevano chiamato Pista (diminutivo di István) e, in questo modo, era come se avessero messo in dubbio la sua stessa esistenza. József attribuì alla scoperta dei racconti su re Attila un influsso decisivo sul suo orientamento, fino a vedervi la probabile origine sia della sua passione per la letteratura, sia della sua abitudine a riflettere, ad ascoltare l’opinione degli altri, passandola, però, al vaglio dell’esperienza personale: «un individuo che risponde se lo chiamano Pista fino a quando non ha potuto accertare quello che pensa nel profondo di se stesso,vale a dire che il suo nome è Attila».
Gli anni della prima guerra mondiale lo vedono mobilitato in una lotta per la sopravvivenza che lo porta, ancora bambino, a fare mille mestieri per aiutare la madre: venditore di acqua al cinema Világ e di giochi di carta colorata, portatore di ceste al mercato, ladro di legna e carbone alla stazione ferroviaria di Ferencváros. Gli capitava di fare la coda alle nove di sera davanti ad una drogheria e, arrivato il suo turno dieci ore dopo, di sentirsi dire che lo strutto era finito… La fine della guerra non gli portò un tempo migliore: la madre si era ammalata di un tumore, soldi non ce n’erano e lui vendeva giornali e pane e trafficava in francobolli. Il giorno di Natale del 1919 sua madre morì e l’Associazione orfani nominò come suo tutore il cognato. Malgrado avesse trascorso mesi a lavorare a bordo dei rimorchiatori della Compagnia Atlantica e non avesse potuto seguire i corsi scolastici, superò l’esame di quarta ginnasio e il cognato-tutore lo inviò a studiare in collegio dove si distinse per il profitto, nonostante i ripetuti tentativi di suicidio. «Non avevo in quel periodo, come del resto prima, nessuna persona accanto a me che mi facesse da amico e guida». La prestigiosa rivista Nyugat (Occidente) aveva già pubblicato alcune sue liriche: «Mi consideravano un bambino prodigio, ero invece soltanto un orfano». Un orfano in un mondo di orfani, affamati e senza speranza di placare la propria fame, espropriati di se stessi – senza più pelle, né vista, o parola – e persino del cielo, dove risplende ormai un tallero d’oro.

 

Gridiamo a Dio

Gridiamo a Dio

GRIDIAMO A DIO

A te, Dio,
noi gridiamo: sii la nostra
calda, sensibile pelle,
ché ci hanno scorticato: dal dolore
ciechi, ormai,invano,
invano a tentoni avanziamo, senza
più sentire delle cose altro
che questo:orribilmente fanno male.

Se siamo ciechi è inutile sapere
che in noi s’infiammano i germogli a primavera, che
il nostro braccio vale più della stanchezza, che il cervello
è più esplosivo d’ogni dinamite. La parola
nostra non avvolge e non riscalda
più nessuno, come lana bruciacchiata
lentamente si consuma in fumo
amaro che il vento trascina. Da ciascuno di noi
trabocca l’anima come da vasi
forati dalla ruggine il latte che cagliamo con l’amore
perché ne resti almeno per i figli. Ora puoi veramente
tu stesso strapparti dalle stelle: è più efficace in terra
e duratura la luce dei quattrini.
Nessuno che ci accolga alla sua tavola- mastichiamo
radici di grotte montane- in cielo, non il sole
ma un tallero d ‘oro risplende, sui prati
nemmeno l’euforbia matura.

Oh, sii tu dunque la nostra pelle sensibile e calda,
che il dolore scivoli su di noi
come l’acqua sulle piume delle oche. Che una volta infine noi possiamo
scolpire la statua di marmo e intagliare nel legno
il giaciglio: che non resti lavoro domani –
già sulle acque le nubi sono a picco,
le ombre si moltiplicano, e noi
con l’opera incompiuta rincasiamo, a passare la notte sotto gli occhi
tuoi che si chiudono.

(traduzione di S. Badiali)

 

Abbandonò la scuola dopo il primo anno di liceo, spinto dall’irrequietezza e da un oscuro senso di colpa («mi sentivo come uno scioperato: non studiavo perché subito dopo la spiegazione degli insegnanti sapevo già la lezione») e riprese i suoi vagabondaggi, passando da un mestiere all’altro. Su consiglio di due insegnanti che gli si erano affezionati, si preparò all’esame di maturità, recuperando in tre mesi i due anni perduti. In ungherese prese appena la sufficienza: la sua poesia Lázadó Kristus (Cristo ribelle) pubblicata nel 1923 – e che gli valse un’accusa di bestemmia (da cui, poi, venne assolto) – gli aveva alienato le simpatie del professore.
A vent’anni affida ai versi di Tiszta szívvel (Con cuore puro) un autoritratto all’insegna di un sentimento esacerbato di mancanza che, lungi dal rispondere ad un facile cliché di poeta maledetto, sgorga direttamente da un’autentica esperienza esistenziale segnata, sin dai primissimi anni, da miseria e abbandono e da un sentimento di istintiva rivolta di fronte all’indifferenza del mondo.

 

Non ho padre, né madre,
né dio, né patria,
né culla, né sepolcro,
né bacio, né amata.
Da tre giorni non mangio,
né molto, né poco.
Vent’anni la mia forza,
i miei vent’anni li vendo.
Se non servono a nessuno,
allora che il diavolo se li prenda.
Con cuore puro rubo,
se occorre ucciderò.
Che mi catturino e impicchino,
mi ricoprano di terra benedetta
e nascerà dal superbo mio cuore
un’erba mortale.

Rappresentante di libri a Budapest, contabile in una banca privata, collaboratore di diverse riviste, decise che avrebbe fatto lo scrittore, «cercando di trovare un’occupazione borghese in stretto rapporto con la letteratura». Si iscrisse dunque alla facoltà di Lettere e Filosofia di Szeged, mantenendosi precariamente agli studi con gli onorari delle sue poesie. Superò brillantemente gli esami, finché non si imbatté nel professore di linguistica ungherese Antonio Horger che, alla presenza di due testimoni, dichiarò che , finché lui fosse vissuto, József non sarebbe mai divenuto professore di scuola media. Mostrandogli il giornale Szeged, gli disse che «a un individuo che scrive versi simili non si può affidare l’educazione delle generazioni future». Si trattava proprio di Tiszta szívvel, una poesia che – ricorderà ironicamente il poeta – sarebbe divenuta piuttosto famosa, considerata da noti critici letterari come «il documento di tutta la generazione postbellica» e «l’emblema della nuova poesia».

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L’anno seguente lasciò il suo paese per Vienna; qui prese alloggio in «un orribile stamberga, dove per quattro mesi non ebbi neanche un lenzuolo»); si iscrisse all’università e, per mantenersi, vendette giornali e fece le pulizie nell’Accademia Ungherese della capitale austriaca, finché il direttore, venuto a conoscenza delle sue condizioni economiche disperate, non gli procurò un posto come precettore in una ricca famiglia. Raggranellato un po’ di denaro, il poeta partì per Parigi, dove si iscrisse alla Sorbona e poi rientrò a Pest, studente della locale Università. Rinunciò a sostenere l’esame di laurea, convinto – dopo l’esperienza a Szeged – che per lui non ci sarebbe stata, comunque, la possibilità di insegnare. La sua buona padronanza del francese gli valse, finalmente, un posto di corrispondente franco-ungherese presso il neonato Istituto per il Commercio estero, ma ben presto dovette lasciare l’impiego per uno stato di profonda prostrazione psico-fisica che lo condusse in sanatorio. Redattore della rivista Szép Szó (da lui fondata nel marzo del 1936 insieme a due importanti critici letterari, contava sulla collaborazione di scrittori di diverso orientamento politico, accomunati da un forte sentimento antifascista ), da allora visse dei proventi delle sue pubblicazioni.
Da sempre lo seguiva come un’ombra che gli consumava le energie vitali il senso irrimediabile di una sofferenza universale che non risparmiava alcuna creatura vivente, incalzata da una fame insaziabile, condannata alla solitudine, mentre Dio si è nascosto e «urla invano il poeta, sciacallo / che alle stelle vomita grida».

 

 

IL CANE

Così arruffato e fradicio,
era il suo pelo di fiamma gialla
magro di fame
scarnito dalle voglie
ed al suo fianco
triste sventolava
il fresco della notte.
Correva,gemeva;
gli occhi suoi, cattedrali
gremite di sospiri;
croste di pane
e rifiuti cercava.

Ebbi pietà di lui
da me stesso quasi scaturito
povero cane vivo.
Ed ogni cosa al mondo
vidi corrosa dai vermi.

E bisogna dormire,
la sera ci costringe
e la stanchezza
da ultimo ci culla.
Ma prima di dormire
come la città giacendo
sotto la fresca e silenziosa volta
della stanchezza così pura,
balza ad un tratto
dal suo diurno nascondiglio
in noi stessi
così arruffato e fradicio
affamato quel cane
che di Dio
brani e rifiuti
va cercando.

(traduzione di Sandro Badiali)

 

Ciò di cui il poeta non poteva parlare nel suo curriculum era la militanza politica. Negli anni universitari aveva preso contatto con il partito comunista clandestino, dichiarato illegale dopo la violenta repressione che aveva travolto nel 1919 la repubblica Sovietica d’Ungheria, guidata da Béla Kun. Una scelta che scaturiva con naturalezza dalla sua stessa condizione di vita e dal rifiuto istintivo dell’ingiustizia e dell’ ipocrisia della società borghese, così come di una funzione consolatoria dell’arte. Nella poesia Ars poetica (1937), rivendica di non cercare «il latte della favole» e di dissetarsi, piuttosto, «al mondo reale, con spuma / di cielo all’orlo». Lascia agli altri poeti l’esibizione di una finta ebbrezza; lui ha deciso di andare oltre «questa moderna osteria, / fino alla ragione e più in là; / con libera mente non recito la parte / sciocca e volgare del servo».
Dunque, la sete inesausta che tormenta il suo spirito irrequieto si immerge nella profondità del mondo e da essa attinge una forza nuova che si nutre di amore e ragione e della piena consapevolezza del suo destino di uomo e di poeta. E la consapevolezza matura necessariamente attraverso la condivisione del dolore con tutti gli altri uomini, vilipesi, umiliati e respinti, quegli uomini di cui József coglie, con un’immagine superba per evidenza e intensità, l’essenza di una condizione di espropriazione sociale che diventa alienazione esistenziale: non la loro parte di gioia ricevono , ma solo un salario. La cifra peculiare dell’opera di József consiste proprio nell’incontro tra sofferenza personale e rivolta collettiva e nella loro assunzione ad una dimensione universale, mai astratta , ma sempre radicata nell’autenticità e nella concretezza della vita offesa nella sua aspirazione alla verità e al bene da un ordine sociale profondamente inumano, dove «tutti quanti / han barattato speranza contro denaro».
È in questo radicamento che si rielaborano e sublimano le diverse implicazioni letterarie cui il poeta fu sensibile, dal simbolismo, all’espressionismo al surrealismo, per non parlare di François Villon, suo frère humain in infelicità e incapacità a vivere.
Il mondo da cui József attinge la materia e quasi il ritmo palpitante della sua poesia è fatto di povere periferie urbane, di davanzali grigi, di denso fumo di ciminiere, di treni che fischiano nella notte triste e pesante dei poveri, dove «tessono / cupe le macchine gli sfatti / sogni delle tessitrici», di prati sterili ed erbe strappate, ma anche di zolle bruciate, di vecchie montagne «nodose / come mani di antico, pesante lavoro», di fattorie dove rincasano contadini spezzati dalle fatiche dei campi. Un mondo reale, certo, ma «con spuma di cielo all’orlo»: non solo per l’irrompere improvviso, fra tante brutture, dell’irriducibile, pura, fragile bellezza delle cicogne sui camini, dei pini profumati, dell’«eterna impassibile pioggia», o del «muschio che dolce respira», ma per il bagliore di sapore vagamente messianico di una palingenesi radicale che proietterà sulla «fabbrica oscura» «la rossa stella dell’Uomo».
È, insomma, un mondo inscritto nella storia – l’Ungheria fra le due guerre – e nella geografia, quella «dei paesi della miseria» – le zone d’ombra della metropoli –, ma anche la sterminata pianura attraversata dal «grande, torbido e saggio» Danubio e che da tali determinazioni trae la sua valenza universale. Come osservò György Lukács, nella sua lirica le immagini di paesaggio possono comunicare sentimenti rivoluzionari.

 

 

BALLATA DEL SALARIATO

Portiamo ceste scricchiolanti, zappiamo
la tenera tremante insalata. Per farne
case impastiamo l’argilla, il vestito
per la signora alla moda cuciamo, stacchiamo
il lardo dai fianchi del porco,
sciogliamo lo strutto, ingozziamo le oche:
se la sera diffonde il suo regno fluttuante, non la nostra
parte di gioia ci è data, ma solo un salario.

Muri invano alziamo, a costruire
la caserma del nostro destino: nostro figlio
per strada, dalla vetrina guarderà
il suo gioco delle costruzioni, e a nostra figlia, se chiede
a noi che tessiamo
il vestito per la bambola, il desiderio resterà
sulle labbra serrate. Non la nostra
parte di gioia ci è data, ma solo un salario.

Davanti ai nostri occhi solo cinghie che scorrono,
facciamo vagoni e rotaie,
in terra, sopra e sotto la terra piantiamo
l’albero del mondo, ecco
raccolto il grano dei campi e non possiamo
nemmeno esserne fieri -lo bruciano,
lo scagliano in acqua. Non la nostra
parte di gioia ci è data, ma solo un salario.

Crescono sì le patate, se le zappiamo!
E’ giusto per noi lavorare, ma non è questo
che ci tormenta. Non la nostra
parte di gioia ci è data, ma solo un salario.

(trad. di S. Badiali)

 

 

Grande e commovente era la fiducia di József nella «catena di montaggio della storia» dove «gli operai /nella lotta di classe vestiti di ferro» preparano il nuovo mondo, lottando contro i miasmi esalati dalla «gialla bocca del capitale».
Eppure, tanta fede non valse a risparmiargli l’accusa di “deviazionismo” e la conseguente espulsione dal Partito comunista nel 1934. Troppo disperato e troppo attento alle proprie voci interiori, probabilmente, per un partito che si stava allineando alla “normalizzazione” staliniana imposta al movimento comunista internazionale proprio in quegli anni. È doveroso, qui, ricordare che in pieno stalinismo, Lukács affermò, proprio riferendosi a lui, che il vero poeta, anche di partito, deve potere esprimere la propria disperazione, poiché della libertà poetica è parte anche la libertà della disperazione del singolo.

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Thomas Mann e Attila József.

 

L’allontanamento dal partito non poté che accentuare la solitudine del poeta, ma non ne esaurì certamente l’ispirazione rivoluzionaria, né la militanza antifascista o la collaborazione alla stampa di orientamento socialista. Il 13 gennaio 1937 fu tra gli organizzatori della conferenza di Thomas Mann a Budapest e per tale occasione scrisse una poesia (Saluto a Thomas Mann), la cui lettura fu vietata dalla polizia, nella quale il grande scrittore tedesco «solo europeo fra uomini bianchi» assurgeva a simbolo della libertà e dell’umanità calpestati «dall’orrore di sogni mostruosi».
Sul finire dell’anno, il poeta, sempre più disperato, solo, dopo il fallimento di diverse relazioni sentimentali e malato (gli era persino stata diagnosticata una forma di schizofrenia, né gli aveva giovato il trattamento psicanalitico cui si era sottoposto), trovò la morte sui binari della stazione di Balatonszárszó.
Suicidio – versione dai più accreditata, visto l’aggravamento delle sue condizioni psichiche – o incidente, come sostennero alcuni, resta comunque sconcertante la premonizione che una quindicina di anni prima, ragazzo già segnato precocemente dalla durezza del vivere, aveva messo in versi.

 

UBRIACO SUI BINARI

Un ubriaco giace sui binari, stringe
nella sinistra la bottiglia e russa
dormendo fresco come l’alba.
Trotta lontano la notte sulla strada.

Di steli ha ornato i suoi capelli
a poco a poco il vento della notte. Il cielo
pietoso copre di rugiada.
Non si muove, solo il petto è vivo.

Ha duro il pugno come trave di binari. E dorme
come nel seno della vecchia madre;
a brandelli il vestito; ancor giovane, ragazzo.

Sorge il sole, il cielo rompe in colori di cenere:
un ubriaco giace sui binari, da lontano
trema la terra lentamente.

(trad. di S. Badiali)

 

Chissà se Attila József ha trovato nel piccolo paese sul lago Balaton in cui un treno mise fine ai suoi difficili giorni quella terra accogliente dove il suo nome “senza errori scriverà/chi mi vorrà seppellire”, riappropriandosi nella morte della sua tormentata identità.
Malgrado che la letteratura di ispirazione civile non goda oggi dei favori del pubblico e della critica, il potere continua a mantenere un certo fiuto e sa individuare nella sua poesia un corpo estraneo, non assimilabile e non smette di accanirsi ottusamente su di lui, riconoscendone paradossalmente la vitalità: nel luglio del 2013, il governo autoritario guidato da Orbán ha deciso di rimuovere da una piazza centrale di Budapest la statua di Attila József. In migliaia sono accorsi per impedire questo scempio, facendo del poeta, ancora una volta, un simbolo di libertà e resistenza.

Poesie

Poesie

 

BIBLIOGRAFIA:
Attila József, Gridiamo a Dio. Poesie, a cura di Sandro Badiali e Gilberto Finzi, Guanda, Parma 1963.
F. Tempesti, Le più belle pagine della letteratura ungherese, Nuova accademia, Milano 1957.
József Attila, Poesie scelte, ed. Lithos, Milano 2005.


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Bertolt Brecht (1898-1956) – Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.

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bertolt-brecht76766   «Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili».

Bertolt Brecht, In morte di Lenin,

in Poesie e Canzoni, Antologia dell’opera poetica di Bertolt Brecht, con una scelta di poesie postume. Versioni di Ruth Leiser e Franco Fortini. Prefazione di Franco Fortini, Einaudi, 1967.


Bertolt Brecht (1898-1956) – Gli amanti costruiscano il loro amore conferendogli alcunché di storico, come se contassero su una storiografia. L’attimo non vada perduto
Bertolt Brecht (1898-1956) – Il commercio non è mai pacifico. Parole come «commercio pacifico» nella storia non hanno un posto. I confini che le merci non possono superare, vengono superati dagli eserciti.

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Nicanor Parra (1914-2018) – Cos’è l’uomo si domanda Pascal: una potenza di esponente zero. Nulla paragonato al tutto. Tutto se si paragona al nulla …

Nicanor Parra

Cos’è l’uomo
si domanda Pascal:
una potenza di esponente zero.
Nulla
paragonato al tutto
Tutto
se si paragona al nulla …

 

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Lettere a una sconosciuta
Quando passeranno gli anni, quando passeranno
gli anni e l’aria avrà scavato un fosso
fra la tua anima e la mia; quando passeranno gli anni
e sarò soltanto un uomo che amasti
un essere che restò un istante di fronte alle tue labbra,
un pover’uomo stanco di camminare per i giardini,
dove sarai tu ? Dove
sarai, oh figlia dei miei baci !

 

Cartas a una desconocida
Cuando pasen los años, cuando pasen
los años y el aire haya cavado un foso
entre tu alma y la mía; cuando pasen los años
y yo sólo sea un hombre que amó,
un ser que se detuvo un instante frente a tus labios,
un pobre hombre cansado de andar por los jardines,
¿dónde estarás tú? ¡Dónde
estarás, oh hija de mis besos!

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Karim De Broucker – Maura Del Serra est une personnalité majeure de la littérature italienne et européenne actuelle.

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Maura Del Serra est une personnalité majeure

de la littérature italienne et européenne actuelle

004   Née en 1948 à Pistoia en Toscane, Maura Del Serra est une personnalité majeure de la littérature italienne et européenne actuelle. Elle est poète, dramaturge, essayiste, traductrice, professeur de littérature italienne moderne et contemporaine, chercheur en littérature comparée à l’université de Florence. Ses ouvrages ont été traduits en de nombreuses langues.

Afin de mieux saisir l’esprit qui anime son théâtre et sa poésie, il sera utile d’offrir un aperçu rapide de son œuvre de traductrice. ainsi que des principales orientations de sa recherche critique et universitaire.

Ceux-ci la font entrer, dès les années 1970 dans un compagnonnage fidèle avec Dino Campana, essentiellement pour ses Chants orphiques (publications en 1973, 1984, 1988, 1997). Elle consacre aussi des études approfondies à l’«hermétique» Carlo Betocchi, toujours largement considéré en son pays comme un guide moral, à Margherita Guidacci, au «métaphysicien» Arturo Onofri, au prêtre-poète Clemente Rebora, à la poésie liturgique de Piero Jahier, grand traducteur de Claudel, (ouvrage pour lequel elle obtient le prix Tagliacozzo de la critique littéraire, 1986), sans compter des travaux sur Montale et Ungaretti. Tous ces écrivains sont poètes, on l’aura remarqué, et auteurs de textes marqués par une profondeur spirituelle ou explicitement religieuse.

Comme traductrice elle offre aux lecteurs les voix des mystiques Jacopone da Todi, George Herbert, cet autre métaphysicien, Juana Inés de la Cruz, Francis Thompson, Tagore. Mais elle est aussi en Italie la principale traductrice de l’œuvre de Virginia Woolf, une travail distingué par le prestigieux prix “Carlo Betocchi” en 1994, ainsi que du deuxième tome de la Recherche : A l’ombre des jeunes filles en fleur, dont elle a dirigé l’édition. Ajoutons les noms de Borges et Shakespeare, Simone Weil, Cicéron; et terminons par deux femmes juives allemandes qu’elle fait découvrir à ses compatriotes: Else Lasker-Schüler, poète et dessinatrice, et la touchante et mystérieuse figure de l’humble Gertrud Kolmar.

Ainsi influencée, dès le début, par le courant néo-orphique italien, la poésie de Maura Del Serra, à la manière de la lyre du héros thrace, cherche à se rendre capable de captiver les choses, les êtres et les «dieux» par une mélodie que tous reconnaissent, par des accents capables de parler aux âmes aussi bien «en surface» qu’aux «Enfers». C’est une poésie méridienne (Meridiana Florence, Giuntina, 1987; prix Dessi 1987; prix A. Gatto, 1988), qui montre la concorde de ces deux univers (Concordanze – Poésie 1983-1984, Florence, Giuntina, 1985), mais, toujours, à partir des plus humbles réalités de la vie. En un mot peut-être, comme on pourra avoir un aperçu dans les inédits, remarquablement rendus par André Ughetto, que propose notre revue, Maura Del Serra, en harmonie avec les voies qu’elle explore, pratique une écriture de l’accord, dense et cristalline tout à la fois, tissée d’oxymores, de chiasmes et de toute la gamme des métonymies.

Plusieurs des figures rencontrées dans le reste de son œuvre (Simone Weil, Juana Inés de la Cruz et, récemment, la compagne de jeunesse d’Augustin d’Hippone) se retrouvent dans son théâtre. Mais cette fois-ci, Maura Del Serra explore la tension que de telles femmes et de tels hommes, profondément aimantés par cette vérité qui, découverte en eux-mêmes, les relie secrètement à tous les êtres, éprouvent paradoxalement avec le monde atrophié et conformiste qui les entoure. Plusieurs prix ont également récompensé ce versant de sa création, dont le prix international Flaiano en 1992 pour une pièce inspirée du mythe de Méléagre: Le fils, parue dans «Oggi e domani», n. 10.

En 2000, le prix de la Culture de la Présidence du Conseil des Ministres est venu couronner l’ensemble de son œuvre.

Pour une information plus complète on pourra se reporter et à son site personnel: http://www.nuovorinascimento.org/delserra/home.htm

(Bibliographie, biographie, etc.)

                                                                         Karim De Broucker

 


Karim De Broucker, né en 1969 à Marseille, enseigne les lettres classiques et le grec du Nouveau Testament à l’ISTR de cette même ville.
Il a été membre pendant douze ans d’une fraternité monastique dans une cité des quartiers Nord de Marseille.

PUBLICATIONS

Poèmes édités en revue : Encres Vives 1992, Autre Sud 2004, Phœnix 2013.

Recueil : Mannes, Editions La Porte (Laon), juin 2013.

Billets audio bimensuels sur des textes bibliques, site du diocèse de Marseille (depuis 2009).


Maura Del Serra – Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano
Maura Del Serra, Franca Nuti – Voce di Voci. Franca Nuti legge Maura Del Serra.
Intervista a Maura Del Serra. A cura di Nuria Kanzian. «Mantenersi fedeli alla propria vocazione e all’onestà intellettuale, senza cedere alle lusinghe di un facile successo massmediatico»
Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole
Maura Del Serra – La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa”
Maura Del Serra, «Teatro», 2015, pp. 864
Maura Del Serra – Quadrifoglio in onore di Dino Campana
Maura Del Serra – I LIBRI ed altro
Maura Del Serra – Miklós Szentkuthy, il manierista enciclopedico della Weltliteratur: verso l’unica e sola metafora
Maura Del Serra – Al popolo della pace.
Maura Del Serra – «L’albero delle parole». La mia vita è stata un ponte per centinaia di vite, che mi hanno consumato e rinnovato, per loro libera necessità.

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Margherita Pieracci Harwell – I tentativi di certezza di Maura Del Serra

M. Del Serra_Tentativi di certezza

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Margherita Pieracci Harwell

I tentativi di certezza di Maura Del Serra

 


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Margherita Pieracci Harwell, I tentativi di certezza di Maura Del Serra


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Dei Tentativi di certezza. Poesie 1999-2009 (Venezia, Marsilio, 2010) di Maura Del Serra, che raccolgono il miele distillato in un decennio di estate matura, troviamo una prima chiave nelle exergues – da Wislawa Szymborska: “il savoir vivre cosmico / […] esige […] da noi […] / una partecipazione stupita a questo gioco / con regole ignote”; e da Derek Walcott: “Il destino della poesia è innamorarsi del mondo / nonostante la storia”. Partecipazione stupita – dunque – , e stupita vuol dire già ammirativa, quindi innamorata, innamorata del mondo, di quel gioco “con regole ignote” che è nel nostro cosmo la vita, a cui è tuttavia d’obbligo partecipare, così come la poesia non può non innamorarsi del mondo, malgrado la storia. Meraviglia (stupore ‘religioso’, awe), innamoramento, che è già necessariamente partecipazione: questa la legge ineludibile della poesia, che l’artista crea nel dolore poiché non ha palpebre per risparmiarsi la visione costante del “nonostante” la storia, inconoscibilità delle regole.
Così, queste poesie, come tutte le poesie di Maura Del Serra che l’hanno condotta fin qui, si tessono di estasi e di orrore, ma, miracolosamente, salvando la lievità, delle immagini – e forse anche del cuore – come annuncia, con le scene figurate del suo ventaglio, il  preludio Trovarsi. Già il preludio, però, ha due antine, e la seconda (Canzonetta per il ventunesimo secolo) molto meno lieve, che pure accenna una promessa di bene, cioè di “significato”- perché la Del Serra ha una profonda vena di ragione, alla quale non sorride un bene che non sia intellegibile. Del resto si sa, dalla sua produzione precedente ed anche da quanto traspare della sua vita, che questa poetessa si muove con passo sapiente tra mondi opposti: l’assoluta vulnerabilità del segnato da Dio (il poeta), e il saggio governo di una casa, una famiglia, squisitamente “normali” pur nella loro rara armonia.
Coerente, questo libro composto di otto parti – perciò si può cominciare dal parlarne in generale, ma poi, da vicino, è chiaro che la coerenza nasce dall’equilibrio di opposti, costituiti più che dai singoli componimenti dalle sezioni, fondate non sulla cronologia ma sulla mood che ad una ad una diversamente le governa.
La prima sezione si muove, come il libro intero, sui due fili dell’orrore del vuoto (l’eterno vuoto dell’ “ignoto” su cui si libra l’uomo, ma anche, in particolare quel vuoto che si esprime oggi attraverso la tecnologia, presuntuoso e pungente nei suoi aghi metallici), e della speranza; ma se il primo filo non trionfa, certo è forte qui l’ombra del travaglio. Il titolo, Forza maggiore, si chiarisce nella poesia eponima, collocata quasi al centro della raccolta. Da identificare forse con la “necessità” weiliana (attenuata in savoir vivre cosmico dalla Szymborska del primo exergue), questa forza “prima” è anch’essa insieme bene e male: ci schiaccia, ma in ciò ci modella, scolpisce attraverso le lacrime le linee uniche di un volto, ancora indecifrato ma già redento in tal modo dal suo peso. Il “noi” di questi versi suggerisce l’universale destino umano, ma a plasmare i singoli volti (destini), la “forza” si vale di colui che si cela appena nell’“io” della prima e della seconda composizione. Partecipe e redentore insieme del male di vivere, l’io non può essere che il poeta-madre, che “partorisce” dal noto l’ignoto – così si comprende che l’“ignoto”, parola tante volte, pur dolorosamente, ritornante, è anche un nome del bene – “il nuovo” -, come lo è la “figura” dei “giardini di sapienza”, pur restando “sapienza” un opposto di “ignoto”, in questo salvifico labirinto di oximora. Il poeta è, del resto, protagonista assoluto di questi versi, “inerme tedoforo esiliato nel suo lume sottile”, lui che solo ricuce le “lacrime brucianti dei violini” alle “risa dei flauti cristallini”, che solo esplora “il mare rotondo della storia”, in bruciante “passione di memoria”: passione di eternità in chi è pure “destinato a sparire” – “in breve vivo in breve morto”-, eppure incarna la promessa che nulla in realtà si perde, “poiché ogni cosa dura / nella memoria dell’essere”. Fino a parere che trapassi, il poeta, proprio nella memoria “luce della parola”, “ombra di Dio”, che “fa guerra / fiorita di coscienza a ogni eclissi della terra / nel bruto male, nell’informe oblio”.

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Ma non ci e dato dimenticare che la dignità del poeta è proprio nel non potere sciogliersi in una sola figura – Prometeo incatenato al punto di passaggio da questa realtà a un’altra, fattosi “porta”, come recita con assoluta pertinenza il titolo della breve poesia che segue a Forza maggiore: “Di là la musica d’oro leggero, / le nozze mute di tempo e eterno, / le creature versate in essenze, / l’estate sfolgorante nel cristallo d’inverno. / Di qua stridori d’ansia, millenarie cadute / e dolore di esistere dentro la propria fine”. Sulla stessa lunghezza d’onda – dopo gli stridori della Tecnodivinazione e della Pubblicità, che ci conducono alla tenerezza per le vecchie artigianali chiromanti (“quella fragile mano peritura / che crea il destino e in lui si trasfigura”) – si avvera infine la compresenza in Voce di voci. Nell’acqua “dolce di sale” i due mondi opposti dell’acqua dolce e dell’acqua salata sono, come attraverso la “porta”, immersi l’uno nell’altro: “Acqua dolce, la voce spande “Sarà per sempre”, / […] Acqua salata, “Tutto passerà” […] / Acqua dolce di sale, la voce solitaria / del poeta è la sete della nube nell’aria, / le ossa del pianeta avvolte alla sua stella”. E ancora si ripete che solo la voce del poeta saprà in lingua non umana “forgiare Parole per tacere “ solo il poeta saprà, “in ogni anonimo, festivo sguardo” tessere e alzare lo stendardo “che spalanca in creazione l’imperiosa prigione”. Solo questa poetessa che noi ora leggiamo, “eterna bambina senza attese”, che nuotò come Alice nelle sue lacrime, in quell’ Acquario memoriale sa vincere la lacerazione del tempo : “fa dei passi presenti un nido d’echi, ripiega / in croce d’anni le braccia protese”. “L’arte può far[le] vivere ogni vita / […] ma di una sola vita [lei può] testimoniare, / sentirla eterna”, quella per lei e attraverso di lei “è la storia, e niente la cancella”.
Ho presentato fin dalla prima sezione questa lunga rete di citazioni, perché ne balzi l’evidenza di una poesia che sgorga da una vita vera, semplice e irripetibile, costellata di lacrime e risa (di violini e di flauti), ma decantate in uno svariare di immagini e di musiche che si fermano in un unicum tra tutti riconoscibile. Vita paradigmatica, iscritta nel suo “presepe marino pistoiese”, dove qui appena si adombra la perenne-precaria vicenda umana degli affetti basilari e già si proietta nei miti eterni – perché questa è poesia colta, tutta tessuta di antica sapienza, come di meditatissimi pensieri, nella lievità di note e figure.

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Le sezioni successive non si scartano da queste premesse e si continua a infilare perle di citazioni, ma occorre anche cogliere il “cuore” di ognuna. Il polittico per la via ignota, che forma la sezione II, propone immediatamente, nel titolo, quella parola, “ignoto”, che costella Forza maggiore. Si apre “spiegando” il contrasto sotteso a tutta la raccolta, tra “familiare” e “straniero”, dolcezza dell’“eden domestico” e “crepa” fulmineamente aperta sul “tormento della mortalità” – contrasto solo a metà sanato in “catene rifatte grazia e rima”. Il poeta è ora, nella notte, nell’interregno, come abbandonato dal suo dio, “l’oro del senso alato / è piombo nel crogiolo rovesciato”. “Alzavo lieve la mia sfera d’aria / nella sfera d’inchiostro […] / ora discendo a balzi, racchiusa in quella sfera / d’aria, la scala che l’inchiostro annera / con parole perdute / di vite non vissute…”
Nel medio abisso “la grazia è un’acqua carsica che fugge le labbra” – mito di Tantalo passato attraverso l’immagine del fiume carsico, benedetta nell’Inno alla gioia da Margherita Guidacci. Già era venuto alle labbra il nome della poetessa di cui Maura Del Serra ci ha ridato l’Opera dopo decenni d’ombra. La Guidacci delle rime baciate, la Guidacci, ahimé, in questa sezione, di Neurosuite, del ricordo felice nella desolata miseria: Nella caverna: “Era profonda e chiara / la sussistenza, / oggi vuoto una coppa / di malata innocenza – / annegano nel Lete / tutti i vergini uccelli della sete- / […] l’eternità del sale alto sul fondo del mare / mi pungeva la mente a parte a parte – / ora nell’aria turbinano a lutto le buie fitte carte / del Karma presagito, / terribile infinito”, fino alla Canzonetta dell’impersonalità: “io fui mutata in mare / senza pesci, abissale / insondabile riva / che mi pronuncia viva / senza dirmi” e a Specchio d’aria: “Volano immobilmente le betulle / nella finestra intrecciate. Si stacca / l’ora dal qui, l’osso ruota sul cardine”. Siamo travolti dal fiorire delle immagini, dallo sgorgare del ritmo, eppure permane il rotto gemito: “Sono il grano che già patì la falce / e trascolora fruttuoso, o le stoppie /disdegnate dai carri, gli aghi ciechi di sete? / Non lo saprò…” (Incoscienza). La Guidacci, anticipavo, ed ecco Maura del Serra chiamarla: Variazione su un tema di Margherita Guidacci: “La vittoria è una vetta, ma la sconfitta è un continente / un continente dove in cerchio vano m’aggiro, / sete negata ad ogni conoscenza, / a vero vuoto che irraggi presenza, / a ombra densa che partorisca luce”. Così, senza capovolgimenti, Cattura: “dentro / il mio ghiaccio improvvisa si acumina la luce / di un amo teso vero la gola” o Commiato: “Qui, perduta nel mio cuore bambino, / mi disciolgo da te come dal labbro preghiera, / circumnavigo il pozzo del mio niente, / vuoto coppe di lacrime posate sulla ghiera…”, fino al respiro di Terrestre: “dentro il cieco destino / sbendato dalla fata libertà, / lottiamo nella selva a partorire l’umano…”, che al capovolgimento prelude: – Sotto-sopra: “lavo il contuso pensiero / dai colpi di teatro della sorte – / con volo millimetrico, con danza solitaria, / io disegno la stella della Sera”.

 

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“Tutto è il prezzo di tutto”, sono le Parole del valitudinario; pur sanguinosa, si disegna la vittoria: “Le mie dita future al buio toccano / gli indicibili fiori nascosti dalle spine”; e in (Enigma) “Coronata di cenere rovente / io tra i sopravvissuti dell’Amore / vedo il loto a otto petali”, e in (Qui) , anche se è solo un augurio: “In me torni a formarsi goccia a goccia la luce”. Ne sgorga la Canzone per rinascere: “mia bocca buio-muta, fatti barca, / porta le ceneri delle parole, / che tanto amasti, fino al Grande Fiume”; quindi: “brucia il grido d’assenza, / alza il tuo dio maggiore / sul pulviscolo cieco dell’inappartenenza, apri la solitudine del plurimo Vero: / è fede il Nome d’arte di ogni scienza”. “Ero la danzatrice che diviene la danza” – canta Maura nelle Tre età – sarò “il diadema postumo d’altra costellazione /…/ Sono il poeta, il dolceamaroamore, / la musica del giorno che finisce e comincia”  “Noi scriviamo col sangue su uno specchio, / come Pitagora la nostra vita, / e gli angeli la leggono riflessa nella luna” (Un padre antico). Maestro, Pitagora; maestro, come per la sua Margherita, anche l’albero: “Imita le radici, l’immobile filiale fedeltà al ventre della zolla, al pane / imita il tronco […] anellare nebulosa / […]; il ramo, che vola da fermo / nel vento […] su tastiere di luce, / […] la foglia, ciclica navicella /delle stagioni […] / imita il riso prezioso del fiore, / il suo calice fragile che scolpisce la stella”. Rifiata nel grembo delle parole – ghirlande di pietre, luce all’occhio, ali al cuore, scintille, colonne, mappe del labirinto, tavole della legge; sfiora le Voci dalla strada, poi “scend[e] / nel silenzio dove altre voci intend[e]”; “senza tempo […] viv[e] nel [suo] tempo, spremendo / un latte lucido di redenzione / dalle opache mammelle della forza – / goccia a goccia, pagandolo in monete d’addio” in un trafiggente presagio che è speranza: “cadrà in scaglie il sonno / policromo dei giorni dolceamari” finché “l’esilio scuro [le] si schiari”: “…alla temperatura della fede / si forma il cuore, inviolato e solo, / il petalo precipite risale / mulinelli di gravità mortale”. Il cuore, inviolato e solo, della poetessa “ospite lenta, buffa / sulla sua antica zattera con ruote / che per un uomo e una bimba divenne / una barca, ed imbarcò grano, erbe e frutti / e vesti di parole per l’anima di tutti, / infine si ancorò all’arcobaleno / e nel suo ponte celeste fu seno”.
Si conclude con i colori dell’arcobaleno la lunga storia frammentata del poeta che colse fiori tra le spine. È durata in tante metamorfosi per due intere sezioni. Ora il travaglio dello scavo si allenta, il canto si stende, sereno, nel dono. È la terza sezione – Dediche – dove a tratti brilla la gioia semplice, fiorita sotto l’arco-in-cielo sull’Arca. Ma per questa lieta navigazione il poeta si impone una disciplina di umiltà – A se stessa, di notte: “non voltarti: sii fede / che sa, perché non vede”. Sono doni ai familiari e agli amici, ricordi e celebrazione di eventi. Il primo dono è per la madre giovane, da cui aveva, come ogni figlia, tentato di fuggire “su praterie d’arazzi aperti a corse abbaglianti,” per tornare, tardi, a raccogliere lo sguardo sul cartoncino di una foto anni Quaranta, dove si staccano le trecce attorte e la trina bianca del collettino. Poi quella stessa madre, “indulgente e terribile come sorella morte”, si trasfigura in Demetra: “Adesso che sei fiore della memoria, io posso / intatta riconoscerti senza angoscia e sventura: / la catena di sangue ricongiunta / darà limpido fuoco stellare d’altra vita…” Si riconosce nel padre, che “nel sonno intonav[a] / romanze d’opera […] / e nella veglia ergev[a] sapienti cattedrali / di legno, in sfida al tempo, col [suo] orgoglio bambino”. Si specchia in lui per quell’“orgoglio bambino” – che echeggia il “cuore bambino del poeta”, “eterna bambina senza attese”-; canta la somiglianza, senza veli: “il tuo amore testardo, malnoto, ora è vicino / alla tua figlia estrema che distilla / minime cattedrali di parole in un miele / amaro d’ansia, dolce di preghiera”. Accanto ai genitori torna l’infanzia, col ricordo della “rondine impazzita / di terrore e fuliggine nel tubo della stufa”, profetica “anima espiante“ che cerca “metafisiche finestre per svolare” e le si posa leggera in petto mentre Maura trapassa in sua madre “quella sera, ogni sera”. Ecco un’altra, tutta lieta, visione di sè: “Come quando minuscola intrecciavi i tuoi nidi / segreti di parole, tutta implicita ai piedi / dell’angelo romanico affrescato da tuo fratello” – nel tempo rivelato: immagine che svaria nel primo incanto di giovinezza “come quel primo bacio tra l’odore innocente / di quel viso incantato nella frusta piazzetta”, da cui nascono le poesie per Moreno: “Argento respirabile del diletto passato / e quello della folgore che la quiete ha trovato” ; “Un cerchio di profilo si tramuta in segmento. / Il pensiero al suo culmine è follia o sentimento. / La quiete è l’angelo del movimento./ Io e te, doppio cristallo che racchiude ogni vento” (Nuclei); fino a quel Tutto che sigilla la sezione con una vittoria del bene:  “Cuori indivisi nei corpi disciolti, / ripetiamo a chi viene “Tra lutti e batticuore, / tra spine e cecità, qui tutto, tutto è il migliore”.

 

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Balza alla memoria l’antica zattera “che per un uomo e una bimba divenne un’arca”, e ritroviamo intrecciato all’uomo e alla poetessa quello che Cristina Campo chiamava “il filo d’oro del figlio”: la bimba nata mentre il temporale “in oscuro tripudio di profezie batteva”, la figlia che offre a padre e madre uno specchio alzato nelle mani fidenti. Ora la ritroviamo, Irene, la figlia donna e già quasi madre che ha spiccato il suo volo, nell’ostinata memoria del suo primo grido gentile che a Maura echeggia sempre nelle vene (come non si allontana la misteriosa immagine di Congedo che trascende la perdita: “Vidi l’arcobaleno / sul tuo piccolo seno / per secoli dormire / e mai da me partire – / finché fu notte in pieno mezzogiorno / e non ci fu ritorno per le nostre due vite / nei secoli murate, nei millenni smarrite. / Pure, remota quell’iride ancora / dell’attimo all’origine di te m’innamora”). Lo sbocciare di Irene in un fiore compiuto in sé oltre la pianta che lo nutrì, è visione radiosa per la madre che vi contempla lo sbocciare perennemente nuovo della vita: “Noi, d’improvviso figli di voi figli, gettiamo / tutti i nostri tesori rugginosi / per il vostro sorriso di maestà innocente” (Eros, ai giovani amanti). Ma la vita vittoriosa va oltre; nasce il piccolo Zeno: “Si riaccende col tuo germoglio oscuro / il nostro anno dell’anima, e fa tenera estate / di latte i sensi, ancora dall’etere nutriti / nel sangue di mia figlia in tropicale rigoglio.  Il linguaggio dell’Eden suonerà senza orgoglio / nel tuo vagito…”.
Il lettore fedele sapeva che Maura Del Serra aveva cantato la gioia piena, la vita trionfante, accanto allo smarrimento dell’ignoto che conduce i poeti, nati sotto Saturno, a sanguinare nella contemplazione senza veli del baratro. Ma mai così limpidamente accostati erano stati i due mondi, mai così inequivocabilmente la dolce vita normale aveva vinto, offrendo a quel lettore la certezza salvifica che il poeta paga sì la insonne lucidità dello sguardo, ma solo a volte ne è bruciato fino al fondo del cuore quaggiù. Ci sono meravigliose eccezioni: una era stata quella che mi è sempre apparsa come la sorella-madre di Maura: Margherita Guidacci, che trascende la Neurosuite nell’Inno alla gioia, ed infine nel Primo Natale di Francesca: “Nel tuo riso radioso risuona / tutta la musica degli Angeli, / tutto l’annunzio di speranza, mentre / sulla tua vita sorgiva la cometa / passa la prima volta come nel cielo di Betlemme”.
Ora non ci stupisce che ai domestici lari chiamati a vigilare su questo piccolo eden – il gatto Rumi e la gatta Lilla – siano date fattezze più che umane: “feto di terra e cielo: le tue fusa / sono il trionfale “sesamo” che scioglie le porte / umane doloranti in serafica delizia…” “Con le orecchie che vibrano al ritmo del susino / e del ciliegio in fiore accesi al vento, / […] guarda il paradiso-giardino /come l’ape la rosa: da signora, da sposa”. Tutto attorno, in questo cosmo ben ordinato, il cerchio degli amici – lo svedese con cui fissare il mare “con gli occhi non più ebbri ma persuasi / dalla luce di questo mondo, forse dell’altro”; il cavaliere che da sempre ebbe in cuore amorosa giustizia, seppe “gettarsi ridente e solitario / nella fiamma perenne di rovi sulla vetta”; L’amico battagliero: “La tua è l’allegra guerra / del fedele d’amore e cortesia / che mulina la spada nel torneo, dove il prezzo / è la rosa colore del suo sangue”. Poi le donne: Daniela, “tulipano orgoglioso e gentile / con le spine di seta, che semina a nutrire / la cerchia delle sue mura lucchesi”; la piccola ape industriosa Cristina, che “crea il fiore, fila il nettare[…] / tesse sull’alveare / guglie gotiche rare”; la perla campestre Margherita.
Quindi, i grandi amici morti: Oscar Wilde, “il [suo] proscritto amore lacerato coi veli / di Salomè sulle sbarre di Reading”, che cessa di essere personaggio solo tragico per l’evocazione finale “del goffo nom de plume della madre,” Speranza, l’estrema virtù nel fiabesco vaso / che ora ci porge, lucida e segreta, la [sua] mano”. Sereno Kavafis, “gli occhi persiani” levati al cielo, tra le scartoffie, “fissando una sua Itaca d’alabastro”; limpido lo sguardo di Kafka, nell’ “…elezione a un’ isola abissale / patria di una materna imprendibile sirena […] / (“il lampo dei tuoi occhi strugge il male, Milena”). / Per lei, con il coltello nel respiro / si aprì come conchiglia, […] lanciandole la perla.” Neppure il ricordo di Giordano Bruno è tutto tragico: a 400 anni dal rogo, trasmigrato “in altri corpi, nel soffio profondo, / innumere dell’anima del mondo”, trasformato oggi forse nel pane che si vende al forno di Campo dei Fiori. Così si chiude, in pace, questa sezione offerta ai cari affetti, con le parole dell’ortolano al monaco buddista: “tutto è il migliore qui”.
Altrettanto luminosi i Tre ricordi seguenti, che formano la brevissima IV sezione: il bellissimo In memoria di Sandro Penna, nel centenario della sua nascita: “Implume tra le rotaie roventi / saltella un passero, e subito, alato / vola nel treno assordante e affollato, / volgendo in su tutti quei visi assenti”. E La barca, in memoria di Mario Luzi, “vasello snelletto e leggiero / col [suo] angelo gotico al timone”, che trasporta nel suo seno con amore il poeta, attraverso una rotta faticata e illuminata, a ricongiungersi, “al culmine del monte, all’“umile [sua] madre cristiana. L’ultimo congedo è l’Epitaffio per Ingmar Bergman, ancora un vascello e un mare, che sono qui l’ultimo legno di Ulisse e il mare della sua Itaca “dove immobile visse / con [lui] il dio muto, il giudice di disegni sottili /come la luce dietro le [sue] palpebre chiuse”.

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Anche Grida è una breve sezione (la V), ma la calma delle sezioni III-IV, si è di nuovo mutata in pianto, anzi in Grida, più che di protesta di orrore, che si accompagnano alle “urla della guerra fratricida”: nello sfondo le uova pasquali snaturate in bombe, dell’aprile (Eliot: “aprile è il mese più crudele”) della guerra nel Kossovo (1999) . Accanto, in straziata seppur fidente invocazione: “Allacciate le braccia nell’intaglio del fiore / danzano al vento carico di miele sud-croato / sette meli nel seno del tuo prato”, mentre il poeta leva “al cielo fragile di guerra un[suo] cuore / d’amicizia tra i busti glauchi dei suoi poeti”, e una audace proclamazione di certezza: “Mio fu il seme caduto sulla roccia, / svettato in ponte di bambù oscillante / su fragorosi turbini […] / Mio sarà il seme di terra profonda / altorisorto in tiglio centenario, / candelabro al suo lago, ponte ai regali uccelli / di un’azzurra stagione” (Posterità. Laghi di Plitvice). Dietro questi nomi par di udire la voce della Margherita Guidacci del Taccuino slavo, assieme allo spessore di sanguinante “impegno” da cui erano sgorgati L’orologio di Bologna e La via Crucis dell’Umanità. Perché, ben oltre le cadenze, le assonanze, oltre l’eco delle interne lacerazioni di Neurosuite, la Guidacci è stata per Maura Del Serra maestra d’ impegno, di quella sua particolare maniera di impegno, fatto più di lacrime e sangue, appunto, più di compassione identificata senza riserva che di parole, in una maestra delle parole. Anche in Maura compassione “senza confini”, anche lei cassa di risonanza offerta a tutti i dolori, lontani e vicini. Ecco la Genova ferita del 2001, dove rimase ucciso il ragazzo Giuliani; e l’Amore e morte cui fanno da sfondo le Twin Towers di Manhattan sbriciolate nel 2001; ecco l‘Irlanda di Howth ove ritrova l’anima di Joyce, e, appunto, quella della Guidacci; e l’Apocalisse incarnata dallo Tzumani del 26 dicembre 2004, che cancellò “paradisi turistici e limbi del Terzo Mondo”; ecco Hina, – la ragazza pakistana sgozzata dai maschi della famiglia a Brescia – “ farfalla imprigionata nella gabbia ancestrale / di una fede accecata / […] principessa fatata, / contro l’aguzza cupola murata, sognando / un calice nuziale con il suo calabrone, / lo straniero-non più-straniero, re di [lei] stessa”; e Pechino, “la spietata fortezza mediatica d’Oriente” che ci si offre per le Olimpiadi come “specchio in trionfo mercantile / sul muto sangue sparso dell’utopia civile / […] più che mai ignota, mai così vicina”. Ed infine Gea la nostra patria, non più così grande, e l’altra, così piccola ormai, a cui si dedica, in chiusura, l’Epigrafe italica.
Gli Assoli (VI) hanno inizio con un altro confronto, sereno, del poeta con le stagioni della sua vita : “Fu la mia infanzia fulgida di bocci roventi, / la giovinezza un’alta grigia nube stellata. / Ora rotolo docile coi venti, / solitaria, in ignote lingue amata” . Ma l’aggettivo “solitaria” dell’ultimo verso si dipana, in Spersonalizzazione, in “grigie” immagini di confinamento – ritorna quel sommesso colore di tortora che fu della nube stellata di giovinezza, venato di malinconia sia pure nel morbido lusso del velluto, o nella protezione della cameretta petrarchesca. Venato di malinconia, perché la solitudine è separazione da un “tu” che fu prima “oceano di latte”, “pergolato di sussurri segreti”, “zirlare di uccelli nel fuoco”. E, di nuovo, il confronto delle stagioni, di Passato e presente:  prima “nell’attimo eterno / vibrare celeste “ del suo “inferno d’immaginazione”, ora il giardino “terrestre, simmetrico e muto”, ove “la spada, disciolta in fontana, / oscilla con nota sovrana / scrivendo nel cielo la sete comune.” La solitudine è il prezzo da pagare per dar voce alla sete comune, o per essere improvvisamente colmati da un “fuoco di senso”, nelle splendide geometrie della Stoccolma dei suicidi. La poetessa, dalla “luce d’acqua velina” dei lontani paesi ove è “in ignote lingue amata”, riemergerà nel seno della città che il tempo fece sua – con l’ Ospedale fregiato dalla robbiana narrazione dell’ “eterna vicenda di soccorso e malattia”, guardato da un leone camuso le cui fauci esprimono “vivo ruscellare / che colma una conchiglia materna“: quella città, quel meraviglioso ospedale, felicemente policromo, “Lete dove affondarono d’improvviso i [suoi] cari, / Eunoè da cui emerse la [sua] bimba raggiante,” e che le darà “oltre l’abbraccio nudo della [sua] scalinata / nuova veste bianco-infante / e una zattera bianca per infiniti mari.” Passato-presente, dunque, partenze e ritorni in questi dolce-tristi Assoli, come avvolti in grigio sipario di velluto. Canta una partenza o un ritorno la Canzone per le isole Cicladi? “Sul mare color vino / di Omero, qui approdata / a cercare un destino / d’arte e amicizia alata” — o Radici: “Il dolce fiore greco – oro e viola – / colto nel sole acuto della spiaggia d’Atene , / ora nel mio giardino dà il suo miele / immemorabile, radica la sua dorica gloria / tra i miei cipressi”. Partenza e ritorno coincidono nel Bacio della fata: “Nascosta dentro il bosco circolare del sole / la tua casa ci accoglie, fata Luce, / quando la mente si spoglia ed il corpo / nerospinoso di tempo si stacca /al tuo tocco che a semi roventi ci riduce”.
Come tutto il libro, ma in sommo grado, questa sezione è rutilante di sapientissime immagini, immagini eterne e ardite, classiche o surreali – “Al centro del mandala, Pazienza dell’istante, sei il sangue dell’aereo tessuto di certezza, / il mozzo della ruota cosmica turbinante”; “Non avrò peso, sarò la sostanza / che in su cadendo s’avvita al pensiero / non umano, e vi suscita in mistero / l’ombra che danza” (e l’esempio valga anche per le escursioni di sapienza metrica). Come è densa, questa poesia, di sapientissimi giochi di rime e assonanze e di arditi neologismi – spesso, ma non solo, inaspettate combinazioni di più parole in una, così lo è di “concetti”, che nei versi finali a rime baciate scoccano in sorprendenti imprevisti, come in certi sonetti petrarcheschi che anticipano il barocco: “sei […] / la piuma intima all’aria che la luce accarezza / e pulsi in vena d’oro che riempie la miniera / dove tutta mi sbriciolo per rinascere intera”; “l’omofonia di bellezza e di forza / ci possiede con la necessità / che il pozzo ha della ghiera […] / il cristallo di neve del gelo che attanaglia / boschi e città. / Indecifrabilmente / quel gemellaggio svela / la rima identica della pietà”. Sorprese anche nella sequenza delle composizioni: al centro l’oximoro di Assolo in coro, dove si condensa un motivo ricorrente in tutto il libro, anzi un doppio motivo: il poeta che si fa porta e il poeta che paga con la vita il dono della visione, quest’ultimo articolato nelle immagini molteplici di Sacrificio – immagini tutte del male di vivere, ma un male di vivere (“sacrificio”) che è redenzione, che ci salva. Ci salva anche, come è ripetuto in Teatro, dall’ossessione umana della perdita, poiché ”nel cuore / più non si perde, ignavo, nessuno spettatore”. Nulla si perde di quel che chiamiamo passato (“Gemmati tabernacoli del tempo, / chiudono in calici aerei il vino / del quotidiano stillato in destino – I ricordi); ma anche il futuro è reale e ci appartiene, cioè ci è dato riconoscerlo come nostro, non fosse che in una scritta sul muro, cioè mascherato nei mezzi d’espressione dei giovanissimi – “Provochiamo tempeste, ma preferiamo il sole” -, scritta in cui il poeta capta, goffa e bruciante, la “nostalgia dell’apollinea ragione”. Il transfert per cui “nel cuore / più non si perde, ignavo, nessuno spettatore”, il poeta riesce ad operarlo sempre con quel suo metodo dell’illimitata condivisione: la “mente bambina” giocando con ingenua letizia con le parole in fitte rime e assonanze anche interne, dona il suo “eden di eterna mattina / alle vite trafitte, irredente, non vissute”. Oltre l’eden della mente bambina la dimensione del poeta accoglie il calvario della ruota in cui “mille volte” il calice andò in frantumi; mille volte sfociati i fiumi hanno sete; mille volte “già fatta cosmo in cuore / la mente torna grumo uterino di dolore”. Perché l’arte della condivisione si radica nella perseveranza ostinatamente sofferta.
Eden e calvario, ché doppia è ogni cosa per lei – “doppio [le] pulsa il cuore coi due moti”. Il destino è scandito nitidamente in L’altro: “Chi sanguina parole, chi non vede / senza lacrime, chi solo cammina / su lame di cristallo, chi non crede ma sa / nelle scolpite viscere ciò che non muta, fa / delle pietre d’inciampo pietre di fondamento…” . Ma il due – che fu passato-presente, ombra-luce, noto-ignoto, estasi e sanguinante dolore – si riassorbe nell’uno: “L’allodola con un’ala sola / che da ferma trasvola / dove l’ordine sposa l’avventura, / dove l’estasi bacia la paura – un’ape vorticosa / fissa a un’unica rosa – /…/ questo vissi nascendo / e ora, alta sullo scoglio della sera, comprendo: / si sprigiona dal piombo di catene / il tuffo nell’oceano empireo del bene”. Tutto è limpido, specchiato come il mare nel bicchiere dell’ “età certa”, dell’età che non dà ombra, come Maura aveva capito già da dieci primavere. Il guru Dolore ridusse la poetessa a “tronco che vive e sente”, per trasportarla “fra i tuoni / verso l’ignota cima benedetta / dove, vivendo, a se stessi si muore: / e apers[e] – [ancora una ‘petrarchesca’ sorpresa finale] – a un jet policromo la traccia”. Gli Assoli – certo “un”, se non addirittura “il”, cuore del libro – si compendiano una volta ancora nel ciclo: “Adesso mi risvegliai, / poi mi risveglio, molto tempo orsono / mi sveglierò dove la terra versa / una tenera pioggia dal profondo, / e l’Anima del Mondo alza ridendo / il mio feto rugoso tra le braccia”. Perché ancora una volta tutto si sciolga (si cancelli), “cesella il mondo l’arte del pensiero, / ma lo salvano i Pescatori d’acqua, / gli umili e lievi guerrieri del vero / vestiti di pietà, materni come mammella, / cuori di cuori: in loro / la fredda storia è nido, e la sete del pianeta / immemorabilmente sanguina e si cancella”.

 

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La VII parte – Senso unico – è l’ultima nuova. Poiché Brevi, l’VIII, è composta di Scintille, uscita nel 2008 in una splendida edizione numerata, e Specchi (microcellula drammatica) aveva anch’essa già visto la luce nella stessa edizione. A differenza di quanto accadeva per Forza maggiore, dove la poesia che spiega il titolo si incontra a metà della sezione, qui la nostra perplessità su come il titolo sia da interpretare, e in specie se abbia significato positivo o negativo, è subito sciolta dalla prima composizione, eponima: “Il senso unico, indescrivibile / in nomi ed esseri, indecifrabile / a riti e formule, splende istantaneo / nella radice dell’invisibile / […] ed è giorno chiaro”. Dunque il segno è inequivocabilmente positivo. E se il nome non può descrivere l’essere (cioè la realtà che è custodita nella cosa – come per Proust, ma anche per Gertrud Stein), ne è pur sempre la bandiera. Colpisce come il potere rivelatore del nome sia legato alla luce (sulle orme di Goethe citato, ma, ancora, come nel Proust di Jean Santeuil). Ma il mondo nuovo (il moderno opposto dell’antico, capace di guardare in faccia gli dei affacciati a fonti o cespugli) ha bisogno di schermi per sopportare il sole, e il primo, pur candido, schermo è lo humour, “sorriso della saggezza umana / prossimo a liquefarsi in buddhità / e a scolpirsi in un verso d’animale / che rende semplice l’eternità”. Le due quartine che chiedono Risposta ripropongono gli opposti “dogli” da cui cola bene e male, ma l’accento in qualche modo sembra cadere sul bene (che vien dopo, quasi avviato a concludere, pur restando domanda): “Da quale cupo canto degli dei nasce il mondo / alle stragi. […] / Da quale chiaro canto degli dei sgorga il cielo, / patria di forme erranti più vera d’ogni vero, / arca di supplici e casa d’amanti, / sempre violato e sempre verginale sentiero?” La risposta è serena: “Non lo sapremo. Ma, tessuti nel loro manto, / diverremo il silenzio che feconda quel canto.” Se non maschera la presenza del male, Senso unico guarda al bene. Un bene tanto più consolante quando è frutto di un male superato, come la Libertà che decanta in “luce del poeta [adulto], / [in] chicco di coscienza agli ultimi del pianeta” la “torbida” lettura adolescenziale del motto di Agostino “Ama e fa’ ciò che vuoi”. Così si decanta la morte, negli sdruccioli di India da polso, bracciale di metallo povero con incise barche e luna, che convoglia il pensiero del poeta a scivolare verso “il Gange immenso, dove le ceneri / delle tue [= dell’India remota sognata] pire in corpi risorgono / tuoi, nostri, dove la Storia brulica / maternamente in cicli spiralici, / dove la perla nel loto sfolgora”. Così si alza in canto la voce dei pacifici “lieti del sole quieto / che [li] scolpisce e in grembo a [loro] riposa”, dopo che hanno sofferto “la [loro] pace inerme, / operosa e sprezzata “ “qui nel mondo creato, dove il dio non fiorisce / se non s’apre la rosa”. Così canta Penelope che per Ulisse fu “la lingua d’acqua dolce della ragione, dopo / la sua fiammea lingua d’avventura e di guerra / […], l’isola, il senso / lucido dello scoglio al di là della marea.” Così, infine, canta Shakti, la sposa di Shiva, “madre Eterna, alta profusa sostanza”, che ovunque nasce e forma il suo dono – “dove il capo di Orfeo reciso canta sull’acqua / […], dove il grano germoglia dai cadaveri azzurri”, trasmutando morte e vita nella perenne danza che agita noi, suoi veli. Stupende immagini carezzano la Musa pensosa della memoria – ai cui piedi sciabordano il mare greco salato e il fiume cristiano d’acqua dolce – , la musa che “protegg[e] nel fiore unico della mano” “ciò che sfida ogni lingua”, “chiud[e] l’umano nel bozzolo fatato e lo genera alla storia”. Memoria viva, seme di storia, è la Coppia neolitica “forma scolpita del [suo] nodo muto / […], gemma fossile emersa dalla deriva / d’ere e di continenti […], memoria viva / della brama che lieta / fa divino il pianeta.” Se è l’amore a far divino il pianeta, già divina è la perenne ruota delle metamorfosi, l’onda sempre uguale, mai uguale, del destino che “ci fa ignudi bruciare / di sostanza stellare” (Nudità); nell’armonia del Tutto si conciliano le nostre lacerazioni (Politeismo): “Cento milioni di galassie fanno / felice il cosmo”. Alle mille trasformazioni cui ci assoggetta il Tempo nostro distruggendo e ricostruendo – “apprendistato e rito [per noi] / di vita-morte, mandala scolpito / in legge di natura”- , si contrappone la chiara vita e visione di “chi abita a braccia aperte il diamante / invisibile dell’eternità” (Chi vivrà vedrà), Eternità che il poeta “guard[a] versare l’universo stellato / nella coppa del tempo di cui [è] la sovrana”. Eternità e amore svariano coi loro miracoli l’una  nell’altro: “Soltanto nell’amore uno più uno fa mille / […] ombra e luce scolpiscono la conchiglia segreta / del tempo innumerabile” (Far di conto). “Il pianto delle cose e il riso dell’universo (Weltscmerz, weltfreude) […] il fulmine più fragile ci inghiotte, / ma la luce separa la notte dalla notte”. Così tutto si unifica nell’uno, in un’armonia dei contrari di cui già ci assicura l’armonia geometrica di macro e microcosmo “in ragnatele e rosoni / di cattedrali, in gotici e orientali / fiocchi di neve, / nella conchiglia e nel versetto breve, / […] geometrica la musica del coro / […] geometrica la culla della morte / che genera la vita, e la fa forte”. Tutto si unifica attraversando il poeta – l’ardente coraggioso “piccolo” io del poeta che è insieme l’Uomo compiuto e l’anima del mondo, e che diventa un “noi” senza confini “atomo nel cosmo, – atomo di rugiada che nutre il prato, / […] atomo d’armonia che tutti i cosmi ha formato: / l’indivisibile infinitamente / divisibile”, che ha sorelle le parole “che dividono il fuoco con la spada” (Le affinità creative): “Per morire di gioia come gli illuminati, (Yoga) /come il cane di Ulisse, in letame d’abbandono /[…] per morire nel dono estremo repentino / dell’amata presenza […] / noi combattiamo in tenebre polari od africane, / liberi, per servire la luce del destino”. “Non sta in cielo né in terra / l’anima nostra, ma oscilla in un nido / che arde e geme […]. Ma se, crollata agli inferi, stracciata ogni speranza / si perde, cieli e terra la raccolgono”. L’ “anima nostra” non può significare solo l’anima umana, perché “la catena dell’essere si salda in somiglianza”: “L’arcangelo caduto imita l’uomo / e l’uomo in caccia imita l’animale /…” e “tutto è albero in noi: le dita foglie / che raggrinza di macule la stagione finale, / la chioma eretta o fluente o ricciuta / come in cipresso o in salice o in vitigno” (Arboreità). Intanto il mondo cambia: spariranno i libri, “ambra deliziosa/ di parole su carta” : “presto rari, / [li] porterà la Storia come gioielli o fari”. Ma la perdita non è mai assoluta – come la distanza degli amanti “divisi dalle fiamme dei deserti assordanti” è trasfigurata negli “anelli d’oro su piatti d’oro” rubati dalla gazza, così è trasfigurata la città irretita nelle regole dall’ occhio dei falchi fuori-legge che si son fatti il nido sulla cupola del Brunelleschi. Più radicale Trasfigurazione quella dell’ “agnello macellato, guardato dal bambino” nell’ “oro denso di nube nel tramonto disciolto. / Un perché senza dove / è ogni scomparso prediletto volto, / un ippogrifo carico di luna.” Pochi – gli happy few, i Giusti, i poeti: i “pochi’ che bastano per salvare il mondo-”   guardano la luna farsi / piena ed innamorare cieli ignoti: / nel suo viso di perla si bruciano la faccia / e sprofondano per incoronarsi”. Si incoronano di un inno alla parola, le cui magiche associazioni ci si rivelano in una lingua insieme vicina e straniera (Palabras), come il sangue incorrotto, gettato “nei vicoli, sulla grandine repentina d’aprile,” si spande “nei mandorli rosati / delle calles majores, / [sgorga] nel barocco eterno delle fontane / di Madrid, nostra nuova madre di nuovi fari / gentili di ragione”. Solo il poeta vede, non con gli occhi di carne, “i fantasmi di Goya nel livido dolore / della storia a quel sangue abbeverarsi, rinati”.
Cosa vuole ancora dirci, dopo questi canti a senso unico del dolore redento, la Maura delle Brevi (VIII)? In ogni “sentenza” conferma, col pensiero e l’immagine, l’esistenza del dolore e la sua redenzione. (Redenzione diciamo, con parola cristiana, ma il mondo di Maura non è meno greco e orientale che cristiano). Come già i suoi Aforismi (1995), le 47 Scintille contengono densissimi lampi di saggezza nel guscio di noce dei 2-4 versi (cinque sole ne hanno più di quattro). Qui non è possibile compendiare. Ci si limita a cogliere qualche fiore dove ai nostri occhi riluce più vivido un pensiero, o più splende in immagine. Giacché Scintille distilla le immagini /chiave, le immagini/simbolo:
Domina l’immagine del fuoco che affina: 8. “Il Maestro è nell’anima” – […] / Lava la gola col fuoco, incorona / di spine la ridente perfezione”. 33. “Nel mondo di catene e crudeltà / ha corona segreta la Pietà: / spontanea balza nel cerchio di fuoco, / vi si strugge, è sorgente quando giunge al di là”. 41. “Come il cieco il cui vero / bastone è il canto, / noi nutriamo la fiamma che ci affina / con lievi ali di pianto.” 45. “Gioca con noi bendato a mosca cieca / liberamente il Fato: / se l’afferriamo è un fulmine che fonde / il futuro al passato – / salva i sommersi, sommerge i salvati, / ci strappa bende e fiato.”
Il vento, l’ala: 17. “In vetta al pioppo trema / l’ultima foglia, come banderuola: / il vento la trafigge,  / la luce la consola”. 43. “Nell’amore riposo come il vento / nell’ala chiusa, / in ogni forma che scioglie il tormento / vivo diffusa.”
Il ponte (a cui si assimilano sia l’arcobaleno che la scala): 3. “Se abiti sul ponte, non puoi scendere a bere: / paziente attendi che / l’acqua ti veda e salga fino a te”. 16. “Fulmineo ci traghetta all’infinito / l’amore, arcobaleno di granito”. 25. “Ponte di perle acuminate, becco / d’oro, il dolore mi prese per figlia, mi rese madre di parole alate”. 47. “In cielo non si sale / – dicono – senza scale. / Ma chi vi è prigioniero / – i semplici, i trafitti – vi chiude il volo intero”.
Come si vede, le immagini trapassano l’una nell’altra. Scegliamo i principali temi che quelle immagini esprimono, o a cui conducono:
L’unità-armonia del cosmo 14. “Non è un concetto l’anima, e tutti gli animali / lo sanno, e ne risplendono, semplici e universali”. 18. “Come fumo che sale / verso il cielo immortale / le nostre varie vite / effimere e infinite, / in ogni forma avvolte, / nel senza-forma accolte”. 23. “Costruttori di buio e costruttori di stelle / in estasi e paura / colluttanti s’annidano in ogni creatura / forgiando lingue a vette e a voragini sorelle”. 31. “Alfabeti stellati, fluviali continenti – / creature abbracciate ad elementi – peccati in razze angeliche rifatti trasparenti 39.”
L’infanzia innocente tutto sa, come le creature della natura: 11. “‘Mamma è guarito un morto!’ esultò nel cimitero / davanti ad una fossa sventrata la vocetta. / E la resurrezione fu presente, perfetta”. Ma gli uomini devono riconquistare la certezza attraverso il crogiolo del dolore:
Il dolore, che affina come il fuoco: 32. “Con lo Zodiaco avvolto alla cintura / mi inginocchiai nel sangue, piansi fango, / gelo, tortura. Ora le sfere ascolto / molare il fondo della mia natura.” 30. “Giace nudaridente, sul più sordido prato / la Verità dal seno delicato / e allatta il dio rifiutato, innocente”.
Il silenzio e l’attesa: 34. “Fissai il buio finché venne a fissarmi la luce – / tacqui finché il silenzio mi dipinse la voce.” 38. “Nella mia danza mutila io vivo, e non so come: / attendo quel silenzio che mi chiami per nome.”
La memoria, cioè la redenzione del tempo, ponte tra futuro e passato: 28. “Leggiadro come scheletro di foglia / l’amore lascia il corpo al tempo ladro.” 39. “Nostalgia del futuro, nostalgia del passato – / tra le due palme giunte, tutta la vita umana; / intorno – pietre e simboli – la verde cattedrale; / sopra, a trafiggerci, la stella arcana.” 42. “fra i ricurvi cancelli / della Memoria / abitando mi faccio trasparente / come tra mani in preghiera la mente.”
La poesia in cui sfocia la memoria, madre delle muse – bellezza ignota quanto certa – il poeta la raggiunge attraverso l’Illuminazione, e questa a sua volta giunge per la trasformazione, di cui lo strumento è il dolore: 32. “mi inginocchiai nel sangue, piansi fango, / gelo, tortura. Ora le sfere ascolto / molare il fondo della mia natura.” 34. “Fissai il buio finché venne a fissarmi la luce.” 35. “La poesia sfocia nella sorgente / dove si forma al canto la bocca della mente.” 44. “Per otto mesi larva, per tre giorni farfalla; / la formula dell’Illuminazione, / della bellezza ignota quanto certa.”
Immagini, temi, tutto converge nel poeta – nell’artista -, che in sè brucia morte e vita, agonia ed estasi, buio non sapere e illuminazione, in un movimento a senso unico che offre molto più del tentativo di certezza che prometteva il titolo.
La vera chiusa è la “microcellula drammatica” Specchi – e non sorprende, in un poeta che annovera tra le sue opere più belle testi drammatici quali La Fenice  La fonte ardente e Andrej Rubljov. In queste due ultime pagine si distilla ogni motivo del canto dell’artista, sigillato nella solitudine e tuttavia all’infinito moltiplicato lungo l’orizzontale degli specchi-ritratto e la verticale delle involontarie filiazioni: artista-“opera d’arte totale che brucia e rinasce nel grembo di fuoco.”

Margherita Pieracci Harwell

Questo articolo è già stato pubblicatoil 30-09-2017 in Saggi da Corso Italia 7

Corso Italia 7

Rivista Internazionale di Letteratura – International Journal of Literature


Maura Del Serra – Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano
Maura Del Serra, Franca Nuti – Voce di Voci. Franca Nuti legge Maura Del Serra.
Intervista a Maura Del Serra. A cura di Nuria Kanzian. «Mantenersi fedeli alla propria vocazione e all’onestà intellettuale, senza cedere alle lusinghe di un facile successo massmediatico»
Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole
Maura Del Serra – La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa”
Maura Del Serra, «Teatro», 2015, pp. 864
Maura Del Serra – Quadrifoglio in onore di Dino Campana
Maura Del Serra – I LIBRI ed altro
Maura Del Serra – Miklós Szentkuthy, il manierista enciclopedico della Weltliteratur: verso l’unica e sola metafora
Maura Del Serra – Al popolo della pace.
Maura Del Serra – «L’albero delle parole». La mia vita è stata un ponte per centinaia di vite, che mi hanno consumato e rinnovato, per loro libera necessità.

Margherita Pieracci Harwell – In lode della lettura: si legge per veder meglio in sé, riflessi in un altro.
Margherita Guidacci, Margherita Pieracci Harvell – «Specularmente. Lettere, studi, recensioni». A cura di Ilaria Rabatti
Margherita Pieracci Harwell – Si apriva il balcone sull’amata Parigi. Lettere e memoria dalla madre di Simone Weil.

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Rayen Kvyeh – La voz de un indómito pueblo: MAPUCHE. A Siena il 12 ottobre e a Livorno il 13 ottobre.

Rayen Kvyeh

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Rayen Kvyeh

La voz de un indómito pueblo

MAPUCHE

A Siena il 12 ottobre e a Livorno il 13 ottobre

 

 

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L’incontro del 12 ottobre a Siena

Locandina del 12 ottobre a Siena

Introduce Lucia Lorenzini

A seguire la voce e la chitarra di Lucia

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L’incontro del 13 ottobre a Livorno

Locandina del 13 ottobre a Livorno

Lucia Lorenzini canta Violeta Parra.

Intervengono: Virginia Tonfoni e Rodja Bernardoni

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Rayen Kvyeh è nata in Cile. Costretta all’esilio dalla feroce dittatura di Pinochet, va a vivere in Germania, dove collabora attivamente alle attività politiche e culturali degli esiliati. A metà degli anni Ottanta, realizza un progetto di ricerca in Nicaragua sulla cultura niskita. Negli anni Novanta crea e dirige la “Mapu Ñuke Kimce Wejiñ” (Casa d’Arte, Scienza e Pensiero Mapuche) a Temuko. Dal 1991 al 2003 dirige anche la rivista di cultura mapuche Mapu Ñuke. In questi stessi anni cresce la sua fama internazionale e tiene dei recitals di poesia in tutta Europa. Nel 1995 riceve a Cuba il premio José Maria Eredia. Nel 1998, sempre a Cuba, è nominata Presidente Onorario del Centro Internazionale delle culture Indigene. Nel 2006 esce il suo primo libro tradotto in italiano: Luna dei primi giorni, edizioni Goreé

I Mapuche, “uomini della terra” (in lingua Mapudungun, Mapu Che = appartengono alla terra) sono un popolo antico che ha sempre vissuto tra il Cile e l’Argentina, il loro forte legame con la terra e l’indisponenza ad assecondare i processi di colonizzazione prima e di “modernizzazione” e “progresso” dopo, ha fatto si che siano vittime di una feroce repressione da parte di governi e multinazionali senza scrupoli. La loro colpa è resistere: resistere a governi e multinazionali che li vogliono cacciare dai loro territori per costruire dighe gigantesche, autostrade, fabbriche inquinanti o come la nostra Benetton che pretende di spostare una loro comunità per far posto ai suoi pascoli.

 

Luna dei primi germogli

Luna dei primi germogli

 

Valdivia egu Lawxaru

Poesia di Rayen Kvyeh
Da Luna dei primi germogli (We coyvn ñi kvyeh)
Edizioni Gorée, Iesa (SI), 2006
Cura e traduzione di Antonio Melis e Luciano Giannelli

Con un prologo di Antonio Melis

VALDIVIA E LAUTARO

Uno di fronte all’altro

Europa – Indoamerica
Impero – popolo
Dominio – libertà
Oro – radice
Palazzo – tronco sacro
Morte – vita

Don Pedro de Valdivia
Capitano dell’esercito imperiale di Carlo V
Splendido
Nella sua armatura
Di argento e d’oro.

Lautaro
Figlio di questa terra.

Valdivia, grande condottiero
Vincitore nelle Fiandre
E in America
La sua spada affilata conosce
Il trionfo del suo impero.

Lautaro…
Ha la grande forza
La forza del sapere,
Valdivia guarda con odio
Senza capire
Il servo, il “paggio”
Educato
Evangelizzato
Istruito come amico
Per difendere
La corona di Spagna
Lo sfida
In una battaglia corpo a corpo.

È in pericolo
La sua vita
È in pericolo
Il suo regno
È in pericolo
Il suo impero.

Valdivia
Si accorge
Che il suo discorso
Di dominazione

Non è riuscito
A rendere schiavi
I mapuche.
Con tutte le sue forze prepara
La sua battaglia
E la difesa della fede
E del potere.

In questo tramonto
Indimenticabile,
Le stelle
Si uniscono
Per baciare
La nostra terra.

Lautaro e Valdivia
Combattono
Ripetutamente
Fino alla morte.

Come una bella canzone sorge
Un arcobaleno
Accarezza la terra
Stendono le ali
I werken e cantano
Un dolce canto
Di libertà.


Luna di cenere

Luna di cenere

 

Antonio Melis scrive:

Luna de cenizas (Luna di cenere) è una raccolta poetica che Rayen Kvyeh ha voluto scrivere in spagnolo, quasi per non contaminare il suo mapudungun, la lingua dei mapuche, con le parole legate all’esperienza del carcere. La prima parte del libro, dalla quale sono tratte le prime due poesie, ci restituisce insieme la violenza della reclusione e la capacità di resistenza che fa parte del patrimonio genetico del popolo mapuche. È una forza che viene dalla mapu ñuke, da quella terra madre che dà il titolo a una delle sue poesie più conosciute. Si manifesta attraverso la natura, ma anche attraverso gli affetti familiari e lo spirito comunitario. Le ragioni della vita si oppongono ai messaggi di morte che provengono da un potere arbitrario. L’immagine dell’”embrione ribelle” suggella in maniera indimenticabile questa professione di lotta e di dignità. Nella seconda poesia, oltre al rapporto con la luna che richiama il nome della poetessa (kvyeh in mapudungun significa ‘luna’), troviamo soprattutto la metafora dei libri come strumento di liberazione. La montagna che essi costruiscono si spinge fino alla finestra della cella, per conversare con la luna e rompere le catene.

La seconda parte del libro, intitolata “Menzogne moderne”, contiene brevi poesie di denuncia, che assumono toni quasi epigrammatici.  Al centro sta un altro tema cruciale per Rayen e per il suo popolo. La difesa della natura è parte integrante della difesa della propria identità, contro l’assalto dell’”uomo progressista”, animato da uno spirito di onnipotenza. Lo stravolgimento dell’ordine naturale viene rappresentato da un albero sterile, dove il verde non è quello delle piante, ma del denaro che prepara strumenti di morte. In “Uomo Moderno” questo delirio si concretizza nel riferimento puntuale alle dighe costruite per imprigionare l’acqua, uno dei simboli più universali di libertà. C’è un’allusione esplicita alla battaglia del popolo mapuche contro le multinazionali che costruiscono i grandi invasi, provocando l’inondazione delle terre che da millenni appartengono agli indigeni. Nell’ultima poesia tradotta da questa sezione, prevale il sarcasmo verso la carità pelosa dei grandi della terra, che si degnano di lasciare le briciole alle loro vittime, per salvarsi l’anima.

Con questa raccolta Rayen dimostra di saper usare alla perfezione la lingua del winka, del dominatore di origine europea, facenda esplodere dall’interno e trasformandola in uno strumento di lotta.


 

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Paul Valéry (1871-1945) – «Le livres ont le mêmes ennemis que l’homme: le feu, l’umide, les bêtes, le temps; et leur propre contenu». Possiamo tradurre «les bêtes» con «la stupidità».

Paul Valéry 01
Valéry Littérature

P. Valéry, Littérature

 

Le livres ont le mêmes ennemis que l’homme:

le feu, l’umide, les bêtes, le temps;

et leur propre contenu.

 

Paul Valéry, Littérature, Gallimard, 1930.

 

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John Donne (1572-1631) – Per nessun altro, amore, avrei spezzato questo beato sogno, meglio per me non sognar tutto il sogno, ora viviamo il resto. Morte, non andar fiera se anche t’hanno chiamata possente e orrenda. Non lo sei. Non vi sarà più morte. E tu, morte, morrai.

John Donne 02
Poesie amoros. Poesie teologiche

Poesie amorose. Poesie teologiche

 

****
**
*

La vita

 

Per nessun altro, amore, avrei spezzato
questo beato sogno.
Buon tema alla ragione,
troppo forte per la fantasia.
Fosti saggia a destarmi.
E tuttavia
tu non spezzi il mio sogno,
lo prolunghi.
Tu cosí vera che pensarti basta
per fare veri i sogni e le favole storia.
Entra fra queste braccia. Se ti parve
meglio per me non sognar tutto il sogno,
ora viviamo il resto.

****
**
*

La morte

Morte, non andar fiera se anche t’hanno chiamata
possente e orrenda. Non lo sei.
Coloro che tu pensi rovesciare non muoiono,
povera morte, e non mi puoi uccidere.
Dal riposo e dal sonno, mere immagini
di te, vivo piacere, dunque da te maggiore,
si genera. E più presto se ne vanno con te
i migliori tra noi, pace alle loro ossa,
liberazione dell’anima. Tu, schiava
della sorte, del caso, dei re, dei disperati,
hai casa col veleno, la malattia, la guerra,
e il papavero e il filtro ci fan dormire anch’essi
meglio del tuo fendente. Perché dunque ti gonfi?
Un breve sonno e ci destiamo eterni.
Non vi sarà più morte. E tu, morte, morrai.

 John Donne, Poesie amorose. Poesie teologiche, a cura e traduzione di Cristina Campo, Einaudi, 1971  

 

 


E Morte più non sarà, Morte… tu morirai. Solo un respiro separa la vita dalla vita eterna, solo una virgola, una pausa. La vita, la morte l’anima, Dio, il passato, il presente… niente barriere insuperabili, niente punti e virgole, solo una virgola.

Vivien Bearing (Emma Thompson)

 


Quarta di copertina

Virginia Woolf ha notato come la qualità che piú avvince in Donne non sia tanto il significato, pur carica com’è di significato la sua poesia, quanto l’esposione con la quale egli rompe nel discorso. «Ogni prefazione, ogni parlamento è consumato, egli piomba nella poesia per la via piú breve», come un amante salta dalla finestra in una stanza, chiudendo fuori tutto il resto: epoca, luogo, universo. Ci arresta con un gesto «Stand still… Ferma… comanda. E fermarci dobbiamo». Il ciclo dei suoi poemi d’amore per Anne More ci ricorda quello, di poco piú tardo, delle scene familiari di Rembrandt e Saskia. Conosciamo ogni mobile delle loro stanze, ogni riflesso delle loro finestre, ogni bagliore dei calici in cui brindano, ogni piega dei cortinaggi del loro letto, ma del mondo esterno non si curano di dirci nulla.


John Donne (1572-1631) – Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è una parte del tutto. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.

 



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Margherita Pieracci Harwell – Si apriva il balcone sull’amata Parigi. Lettere e memoria dalla madre di Simone Weil.

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Si apriva il balcone sull'amata Patigi

Si apriva il balcone sull’amata Patigi

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Margherita Pieracci Harwell, Si apriva il balcone sull’amata Parigi. Lettere e memoria dalla madre di Simone Weil, Poiesis Editrice, 2017.

Alla fine degli anni Cinquanta, una ragazza italiana colpita dalla lettura di alcune pagine di Simone Weil si reca a Parigi per ritrovare le tracce della filosofa francese ormai scomparsa, nei manoscritti inediti e più nel vibrante ricordo di sua madre, Selma Weil. Sarà l’incontro con la Madre a rivelare a Margherita Pieracci come fosse naturale e inevitabile per Simone raggiungere, in una vita breve ed intensa, una rara identità di rigore e semplicità, nello stile come nel pensiero.

Seduta accanto a M.me Weil, che alterna la copia di meravigliosi frammenti all’ascolto assoluto di Albinoni e Monteverdi e a evocazioni ora commoventi ora lievi di storie familiari, la ragazza intuirà come Simone abbia potuto raggiungere ancora bambina la percezione di cosa fossero giustizia o attenzione — l’attenzione, ad esempio, che apprese dal modo in cui la madre ascoltava la musica, con tutta l’anima, senza possibili frange di distrazione; la carità e la giustizia che regnavano in quella casa e si offrivano a chi era fuori. E l’onnipresenza della bellezza: come penetrava nella camera di Simone la limpida luce di Parigi fissata nel Prologue.

Questo, qui, si tenta di condividere, offrendo le lettere di M.me Weil, presentando i suoi amici, e un po’ di quell’atmosfera.


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William Blake (1757-1827) – Vedere un Mondo in un granello di sabbia, e un Cielo in un fiore selvatico, tenere l’Infinito nel cavo della mano e l’Eternità in un’ora.

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«Vedere un Mondo in un granello di sabbia,
E un Cielo in un fiore selvatico,
Tenere l’Infinito nel cavo della mano
E l’Eternità in un’ora».

 

William Blake, Auguries of Innocence

 


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