Alessandro Monchietto – Dialettica dell’illuminismo. Diagnosi della società contemporanea, critica della ragione strumentale

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L’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, primo ente scientifico di esplicito indirizzo marxista, nacque nel 1923 grazie all’appoggio – essenzialmente finanziario – di Hermann Weil e di suo figlio Felix, due ricchi mercanti tedeschi simpatizzanti socialisti.
Il primo direttore che venne designato fu Carl Grünberg, insigne studioso di storia economica; durante il suo discorso di insediamento, costui manifestò la propriaconvinzione di “trovarsi al centro di una transizione dal capitalismo al socialismo”, e continuò affermando: …

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Indice
L’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte.

La direzione di Max Horkheimer.

Il materialismo storico: dalla critica alla struttura alla critica alla sovrastruttura.

Sostituzione dell’analisi di classe con l’analisi del profondo.

Il materiale umano di cui sono formate le società.

La Scuola di Francoforte.

Le ipotesi di Neumann e di Pollock.

La pietra tombale del progetto originario della teoria critica.

Analisi di “Dialettica dell’illuminismo”.

Una tesi e due excursus storico-intellettuali.

Il rapporto tra mito e ragione.

Interpretazioni del totalitarismo.

La logica del dominio.

Soggettivizzazione della ragione.

L’illuminismo è la filosofia che identifica la verità al sistema scientifico.

La ragione come vuota razionalità formale.

Odisseo, il primo borghese della storia.

Implosione della dialettica servo-padrone.

L’industria culturale come degradazione della cultura.

La cultura prodotta come qualsiasi altra merce.

L’industria colonizzatrice del “tempo libero”.

Il feticismo in ogni ambito dell’esperienza.

La cultura di massa come humus di totalitarismo politico.

Le varie polemiche sul testo.

 

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Alessandro Monchietto, Dialettica dell’illuminismo. Diagnosi della società contemporanea, critica della ragione strumentale, Inedito, 2009 , pp. 30.

 

 

 

 

 

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Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.

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Scritti fra l’aprile e l’agosto del 1844 a Parigi da un Marx ventiseienne, i Manoscritti economico-filosofici del 1844 sono un’opera non destinata alla pubblicazione, che Marx non ha mai sistematizzato ed organizzato come è d’uso quando un testo è destinato ad una pubblicazione a stampa. Essi presuppongono la lettura e lo studio del saggio dell’amico Engels Lineamenti di una critica dell’economia politica, pubblicato nel febbraio 1844. Si tratta essenzialmente di appunti di chiarimento ad uso personale, come è stato recentemente stabilito da un accurato esame filologico (cfr. Jürgen Rojahn, in “Passato e Presente”, 3, 1983). Pubblicati per la prima volta nel 1927 in URSS per opera di Rjazanov, essi non entrarono nel dibattito filosofico europeo prima del 1932, ed il primo intervento autorevole di quell’anno che ne segnala la grande importanza per la comprensione del pensiero globale di Marx è quello di Herbert Marcuse (cfr. H. Marcuse, Marxismo e rivoluzione. Studi 1929–1932, Einaudi, Torino 1975, pp. 61–116). La presa in considerazione dei Manoscritti è quindi del tutto estranea al processo di sistematizzazione e di coerentizzazione dottrinale del pensiero di Marx, che divenne appunto “marxismo” nel ventennio 1875–1895 per opera pressoché esclusiva di Engels e Kautsky. E questo non è un caso. Questo “marxismo”, costruito di fatto come una teoria del crollo della produzione capitalistica, non avrebbe saputo che farsene di una teoria dell’alienazione e neppure di una critica filosofica dell’economia. I Manoscritti hanno quindi letteralmente “dormito” per quasi un secolo. Si tratta di una sorte comune a molte altre opere filosofiche. L’Aristotele che conosciamo aveva “dormito” per tre secoli fino al primo secolo avanti Cristo, e Lucrezio, del tutto ignoto a Dante, dovette attendere il quindicesimo secolo per essere “scoperto” in Germania da un umanista italiano in “trasferta”.
Se mi chiedessero di consigliare ad un principiante che non ne sa assolutamente niente un’opera di Marx con cui cominciare non consiglierei mai i Manoscritti, la cui comprensione presuppone una specifica competenza linguistica a proposito del linguaggio filosofico di Hegel, ma consiglierei invece decisamente Il Manifesto del Partito Comunista del 1848, la cui “facilità” è peraltro anch’essa più apparente che reale, in quanto presuppone anch’essa la conoscenza delle varie correnti socialiste e comuniste degli anni quaranta dell’ottocento. Ma qui si tratta di introdurre alla lettura dei Manoscritti, ed allora la cosa più utile è dividere questa introduzione in due parti. In primo luogo, cercherò di riassumere criticamente – con qualche inevitabile notazione personale – il contenuto dei Manoscritti. In secondo luogo, cercherò di segnalare le interpretazioni principali che sono state date ai Manoscritti negli ultimi novant’anni, limitandomi all’essenziale e trascurando i pur significativi particolari.
In estrema sintesi, il contenuto dei Manoscritti può essere riassunto in tre punti principali: una critica globale dell’intera concettualizzazione dell’economia politica borghese del tempo, che culmina in alcune pagine di straordinaria efficacia dedicate al concetto di “lavoro alienato”; una prima tematizzazione esplicita del comunismo come risoluzione dialettica dei processi economico-sociali del mondo moderno; una critica radicale a Hegel, in particolare per quanto riguarda la dialettica “idealistica” della coscienza su cui è costruita logicamente ed ontologicamente la Fenomenologia dello Spirito. Tutti e tre questi punti meritano, a fianco della necessaria segnalazione, un breve commento.
Marx è il primo pensatore in assoluto che applica sistematicamente al mondo reale della produzione capitalistica il concetto di alienazione. Nell’Ottocento resterà praticamente il solo, mentre nel Novecento sarà seguito da alcuni altri grandi pensatori critici (Lukács e Adorno in primo luogo). È vero che già Hegel aveva criticato il punto di vista unilaterale ed astratto dell’economia politica, definendolo un sapere dell’intelletto (e quindi non della ragione), ma lo aveva fatto senza utilizzare il concetto di “alienazione”, che nel suo lessico significa soltanto oggettivazione, nel senso di fisiologica uscita da sé, e quindi estraniazione dialettica (Entäusserung) intesa come momento dello spirito.
Ma Marx, a differenza di Hegel, sostiene che nella produzione capitalistica l’oggettivazione avviene nella forma dell’alienazione (Entfremdung), in quanto in essa, anziché realizzarsi nel lavoro, l’uomo perde il proprio essere specifico (e cioè la sua naturale genericità, Gattungswesen), cadendo sotto il dominio del capitale che gli si contrappone come un mondo reificato (Verdinglichung). Marx mette in evidenza quattro aspetti principali di questo processo di alienazione, che il lettore potrà analizzare adeguatamente nella lettura diretta dei Manoscritti, e che si riconducono però tutti e quattro ad un solo fondamento unitario, il fatto che l’uomo, essere sociale per sua propria essenza, non può realmente “riconoscersi” nel rapporto sociale di capitale.
Sta qui il momento unitario fra Hegel e Marx. È vero infatti che i concetti di alienazione-estraneazione-oggettivazione-reificazione (ho qui volutamente riassunto la loro quadruplice natura) sono diversi in Rousseau, Hegel, Feuerbach e Marx, e questa diversità è stata messa correttamente in luce dai saggi storico-monografici dedicati al concetto di alienazione. Ma è ancora più vero che esiste un minimo denominatore filosofico robustamente comune a Hegel e Marx, il fatto cioè che l’umanità, pensata idealisticamente come un unico concetto trascendentale riflessivo che procede dialetticamente verso la propria autocoscienza razionale, deve infine riconoscersi in se stessa, e senza questo riconoscimento restano tutte le patologie della cosiddetta “coscienza infelice”. E mentre nel medioevo la coscienza infelice si manifestava nei conflitti fra Dio e Uomo, mondo divino e mondo terrestre, Gerusalemme e Babilonia, millennio e secolo, eccetera, nel mondo moderno la coscienza infelice sorge nella consapevolezza dell’impossibile universalizzazione dell’etica del mondo borghese. E questa coscienza infelice produce appunto il concetto di comunismo.
In un ottica filosofica hegeliana, il concetto (Begriff) non è in alcun modo un lockiano (e kantiano) contenuto della coscienza, ma è una realtà ancora potenziale che deve realizzarsi concretamente nel mondo reale (Wirklichkeit), per cui possiamo dire che nel giovane Marx il concetto di comunismo deriva direttamente dalla diagnosi precedente dell’alienazione del lavoro nel mondo borghese-capitalistico.
Marx è ovviamente ancora lontano dalla sua posteriore concretizzazione storico-economica del concetto di comunismo (esito della contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive sociali e la natura classista dei rapporti sociali di produzione, formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato alleato con il general intellect, cioè con le stesse potenze produttive sprigionate dalla produzione capitalistica, eccetera), ma da un punto di vista filosofico-concettuale egli vi era già pienamente arrivato a ventisei anni.
E veniamo ora alla sua giovanile critica radicale a Hegel. È chiaro che senza la presa d’atto di una radicale discontinuità con Hegel il materialismo storico marxiano non sarebbe mai potuto nascere, il che fa diventare questa rottura con Hegel inevitabile ed indispensabile, per un insieme di ragioni che qui compendierò in due soltanto. In primo luogo, la teoria della successione dei modi di produzione sociali non può certamente derivare dalla filosofia della storia di Hegel, ma implica una rottura specifica con essa, che Marx un po’ impropriamente definì con il termine di dualismo Struttura/Sovrastruttura con dominanza della struttura. In secondo luogo, la critica radicale all’alienazione del lavoro nel capitalismo riprendeva certamente il tema hegeliano della lotta per il riconoscimento fra Servo e Signore, ma era incompatibile con la sostanziale accettazione del mondo borghese compiuta da Hegel nella sua Filosofia del Diritto (Spirito Oggettivo, Famiglia, Società Civile, Stato, eccetera).
E tuttavia non bisogna prendere dogmaticamente per scontato tutto ciò che Marx afferma di Hegel come se Marx fosse una divinità che ha sempre ragione qualunque cosa dica (cfr. Roberto Fineschi, Marx e Hegel, Carocci, Roma 2006). La critica di Marx alla dialettica della coscienza di Hegel è indubitabile, e senza di essa sarebbe stato impossibile riportare alla lotta contro il lavoro concretamente alienato il tema della necessaria soggettività rivoluzionaria (consigli, classe, partito, eccetera), che ha poi nutrito per più di un secolo l’intera storia del marxismo. Un marxismo depurato dall’imbarazzante lotta di classe, e depurato dall’ancora più imbarazzante comunismo, è oggi propugnato da quello che resta del marxismo universitario, ma si tratta di una congiuntura storica segnata dalla recente restaurazione (cfr. Alain Badiou, Il Secolo, Feltrinelli, Milano 2006), che prima o poi inevitabilmente finirà. Resta il fatto che Marx pensa filosoficamente il comunismo in modo decisamente hegeliano, in quanto prodotto da una antitesi contraddittoria (forze produttive e rapporti di produzione, borghesia e proletariato, eccetera) e concepito come sintesi ideale ( nel linguaggio hegeliano ideale=reale) delle contraddizioni capitalistiche. Non a caso la stessa accusa di sostenere così la fine della storia è stata sollevata (con qualche ragione) sia verso Hegel che verso Marx, e più o meno con gli stessi termini e lo stesso apparato argomentativo.
Ho esposto sinteticamente alcune ragioni che portano a giudicare del tutto attuali (ed attuali perché sostanzialmente ancora irrisolti) i tre nuclei di problemi sollevati da Marx nei Manoscritti. La loro analisi richiederebbe centinaia di pagine analitiche, del tutto incompatibili con una breve introduzione al testo. Vale invece la pena di segnalare alcune cose a proposito della ricezione storica dei Manoscritti da parte della comunità dei pensatori marxisti novecenteschi. Secondo la corretta formulazione di Kant, la filosofia è un campo di battaglia (Kampfplatz), in cui ogni oggettivazione teorica coerente cerca la sovranità assoluta nel proprio regno “ideale”, ed in cui ci possono essere al massimo degli armistizi, ma non certo delle “paci perpetue”. Una guerra di questo tipo c’è per esempio fra il profilo filosofico kantiano ed il profilo filosofico hegeliano, perché non ci può essere pace possibile fra una concezione che pensa la soggettività umana con un’operazione di formalizzazione aprioristica di tipo gnoseologico–trascendentale (Kant) ed una concezione che la pensa al contrario come l’esito sempre provvisorio di un conflitto dialettico fra soggettività opposte (Hegel).
Non possiamo dunque stupirci che da quasi un secolo i Manoscritti siano diventati il pretesto filologico per lo scontro fra due partiti filosofici entrambi riferentesi a Marx, il partito filosofico filo-hegeliano ed il partito filosofico anti-hegeliano. Si tratta spesso di uno scontro di tipo teologico–ideologico, simile per molti aspetti allo scontro fra teologi platonici e teologi aristotelici nel medioevo cristiano e bizantino. In quanto scontro teologico, il pensiero di Marx viene ridotto a Scriptura sacra, ad Auctoritas suprema cui appellarsi per la risoluzione di ogni possibile controversia, e comincia allora lo scontro interminabile per trovare la citazione giusta, quasi sempre decontestualizzata, che dovrebbe risolvere una volta per sempre il contrasto, e non può ovviamente farlo mai, perché le citazioni staccate dal contesto espressivo sono sorde e mute. In quanto scontro ideologico, si può dire di esse ciò che argutamente Terry Eagleton ha scritto dell’ideologia, e cioè che “l’ideologia, come l’alitosi, è qualcosa che appartiene sempre agli altri” (cfr. T. Eagleton, Ideologia, Fazi, Roma 2007). I Manoscritti non potevano quindi sfuggire a questa sorte.
Chi scrive è un ammiratore esplicito dei Manoscritti, e li considera parte integrante del corpus marxiano. Ma è bene segnalare anche le posizioni contrarie del partito anti-hegeliano, che per comodità espositiva dividerò in due parti, e cioè gli anti-hegeliani che con la scusa di liberarsi di Hegel mirano in realtà (e quasi sempre lo dicono anche esplicitamente) a liberarsi anche di Marx, e gli anti-hegeliani che invece ritengono che per poter salvare il “vero” Marx, quello scientifico e non contaminato dall’idealismo, bisogna invece liberarsi di Hegel. Anche se gli argomenti dei due “partiti”sono spesso sorprendentemente simili, è bene ammettere che le loro intenzioni politiche restano opposte. Non potendo entrare nel merito di queste posizioni per ragioni di spazio, il lettore sappia che per quanto riguarda il primo partito anti-hegeliano ho soprattutto in mente Jürgen Habermas (cfr. Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari-Roma 1987), e per il secondo partito anti-hegeliano ho soprattutto in mente Louis Althusser (cfr. Leggere il Capitale, Mimesis, Milano 2006). In entrambi i casi, ovviamente, la valutazione filosofica dei Manoscritti resta il cuore teorico del contendere.
Il partito anti-hegeliano “borghese” riprende contro Hegel-Marx (visti come i due corni dello stesso partito filosofico tardoromantico e tardometafisico dell’alienazione) i vecchi argomenti della corrente neokantiana (Bernstein, Adler, eccetera) che “stroncano” le loro posizioni dialettiche con lo stesso apparato concettuale con cui a suo tempo Kant aveva “stroncato” le pretese conoscitive e normative della metafisica classica. È interessante che Habermas, che pure si definisce un moderno in lotta contro i cosiddetti “postmoderni” (Lyotard, eccetera), usi poi di fatto gli stessi argomenti “antimetafisici” contro Hegel e Marx impiegati dai postmoderni stessi (critica di Lyotard alle “grandi narrazioni”, in cui c’è ovviamente sia la grande narrazione hegeliana sia la grande narrazione marxiana).
Il concetto di alienazione dei Manoscritti è ovviamente nel mirino della critica razionalistico-neokantiana di Habermas, in quanto “indeterminato”, ed in quanto indeterminato non “operativo”. Habermas si rende perfettamente conto che un’accettazione filosofica del concetto marxiano di alienazione comporterebbe automaticamente una critica politica radicale al capitalismo, esattamente quella che non intende fare in alcun modo, soprattutto dopo la sua rottura con i maestri francofortesi Horkheimer e Adorno, di cui ha comunque prudentemente atteso la morte per evitare che potessero prendere decisamente le distanze dalla sua evoluzione (o per meglio dire, dalla sua penosa involuzione).
Nel contesto del nostro discorso introduttivo, apparirà chiaro che la presa di distanza da Marx (attuata dopo un tentativo di “ricostruzione del marxismo” di tipo neokantiano, il che equivale a ricostruire una cattedrale con cartone pressato) gira intorno (e non potrebbe essere diversamente) alla delegittimazione teorica del concetto filosofico di alienazione. In soldini, bisogna che il succo del discorso consista in ciò, che non è vero che il lavoro erogato in condizioni capitalistiche sia alienato, così come non è neppure vero che sia realmente sfruttato (e per negare lo sfruttamento viene ideologicamente mobilitata la famosa trasformazione dei valori in prezzi di produzione, le cui innegabili inesattezze vengono utilizzate in analogia con le inesattezze teoriche delle vecchie prove ontologiche e cosmologiche sull’esistenza di Dio). C’è chi pensa che Dio, da un lato, ed il Comunismo, dall’altro, possano essere fatti “sparire” attraverso un’abile sofistica di tipo gnoseologico, senza rimuovere le ragioni storiche e sociali che in qualche modo legittimano entrambi. Ma chi pensa questo deve essere lasciato stare nel suo delirio gnoseologico, senza dimenticare un cortese inchino di congedo.
Un discorso diverso deve essere fatto per il secondo partito, il partito anti-hegeliano “comunista”. Trascurando qui il partito anti-hegeliano italiano (sviluppatosi con Galvano Della Volpe e poi “suicidato” con un harakiri neokantiano e popperiano da Lucio Colletti), che non se la prese mai particolarmente con i Manoscritti e con il concetto di alienazione, salvo poi scoprire che si trattava di una tarda secolarizzazione hegelo–marxiana di un concetto neoplatonico (Bedeschi, Albanese, collettiani vari), il vero fuoco d’artiglieria contro i Manoscritti ed il concetto di alienazione fu aperto a metà degli anni sessanta dalla scuola francese di Louis Althusser. Vi sono certamente ragioni di tipo “congiunturale” che lo spiegano. Nel dodicennio 1956-1968 (in breve, dal XX congresso del PCUS con relativa destalinizzazione all’entrata a Praga delle truppe del Patto di Varsavia, due date indubbiamente periodizzanti nella storia del movimento comunista internazionale) il successo del concetto di alienazione (Adam Schaff, Roger Garaudy, eccetera), successo che si fondava con tutta evidenza su di un “rilancio” del giovane Marx e della lettura dei Manoscritti, copriva ideologicamente una critica di “destra” al movimento comunista dell’epoca, il quale metteva al primo posto il concetto di alienazione come generico disagio interclassista generalizzato e finiva con il subordinare il concetto di lotta di classe fra capitalisti e proletari. Il contemporaneo sviluppo dell’”eresia” cinese, della diffusione in Europa del pensiero di Mao Tse Tung e della formazione di gruppi politici filocinesi, denominatisi marxisti-leninisti, finì con il fare da amplificatore al pensiero di Althusser.
La critica althusseriana al marxismo filosofico, che si fondava indiscutibilmente sul concetto di alienazione, non deve certo essere buttata via come si butta via il bambino con l’acqua sporca, in quanto a fianco dell’(ingiustificata)eliminazione del concetto di alienazione e della collocazione dei Manoscritti fuori del corpus “scientifico” marxiano (operazione – lo ripeto solennemente – inaccettabile), vi erano anche elementi molto positivi, come l’enfatizzazione della centralità del concetto di modo di produzione, la critica allo storicismo ed all’economicismo, ed infine la critica alle metafisiche grandi-narrative dell’Origine e della Fine della storia.
Non è certo questa la sede per entrare nei dettagli di questa storia, anche perché la scuola althusseriana fra poco compirà cinquant’anni di vita. È invece utile concludere questa breve introduzione con qualche consiglio al giovane lettore dei Manoscritti, che almeno in una cosa è “postumo”, in quanto viene dopo le tempeste ideologiche che hanno investito i Manoscritti di Marx in quanto “incunabolo dell’alienazione”. È bene allora essere informati del dibattito teorico-ideologico dei due partiti filosofici filo-hegeliano ed anti-hegeliano, ma è anche bene accingersi a leggere i Manoscritti con occhi nuovi. In proposito, mi limiterò ad alcune osservazioni largamente problematiche e del tutto prive di “raccomandazioni imperative” (l’espressione fu usata da Althusser a proposito di come aiutare gli operai a leggere il Capitale di Marx senza farsi “scoraggiare” dal suo lessico hegeliano).
In primo luogo, bisogna dire che una lettura (o per i più anziani una rilettura) dei Manoscritti non può che riportarci all’attualità del concetto marxiano di alienazione. Al di là della “dotta archiviazione” di questo concetto presente nelle dossografie filosofiche, appare chiaro che invece Marx ha saputo trattarlo con grande maestria dialettica nei suoi vari aspetti, e per così dire nelle sue “interfacce”. L’alienazione è prima di tutto espropriazione del lavoro umano da parte dei capitalisti, che se ne appropriano, lo sfruttano e rovesciano la sua potenza sociale cristallizzata contro il produttore stesso. L’alienazione è poi distacco del singolo dalla comunità produttiva solidale di cui fa parte, frantumata e scomposta dalla organizzazione capitalistica del lavoro (che più tardi nel Capitolo VI inedito del Capitale Marx ridefinirà in termini di sottomissione reale del lavoro al capitale). L’alienazione è inoltre separazione traumatica dell’uomo dalla sua stessa essenza umana, che è generica per definizione (Gattungswesen), e non può tollerare a lungo senza una degradazione antropologica devastante un suo inserimento unidimensionale nella pura logica riproduttiva del capitale. L’alienazione è infine sfiguramento dello stesso lavoro umano (Arbeit) come forma e modello della prassi trasformativi del mondo operata dall’attività umana (Tätigkeit).
Ma al di là della ricca sfaccettatura del termine di alienazione resta – come ho già rilevato in precedenza – il carattere profondamente unitario, e cioè logico-antropologico, del concetto stesso. L’alienazione concerne l’insieme della produzione capitalistica, ed in questo senso ritengo abbia perfettamente ragione l’economista-filosofo italiano Claudio Napoleoni, morto nel 1988 ed oggi purtroppo quasi dimenticato, per il quale nel capitalismo solo alcuni sono sfruttati (nel senso che solo gli sfruttati all’interno del modo di produzione capitalistico sono oggetto di estorsione di plusvalore assoluto e relativo, estorsione che avviene nella forma feticizzata dell’apparente scambio di equivalenti), mentre tutti sono alienati, in quanto anche la classe dei capitalisti (meglio definibile come la classe funzionale dei funzionari attivi della riproduzione capitalistica) è pur sempre inserita in un meccanismo anonimo ed impersonale di cui non sono in alcun modo i “padroni”.
Questo concetto di “capitalismo assoluto”, di cui i capitalisti sono funzionari subalterni assai più che veri e propri dominatori-decisori, è molto vicino al concetto di Heidegger di Imposizione-Impianto Anonimo (Gestell), frutto della risoluzione storica della lunga vicenda della metafisica occidentale in tecnica planetaria. Al di là del fatto che il concetto heideggeriano di Gestell tecnico possa sovrapporsi ad un concetto di capitalismo in Marx cui viene sottratta la contraddizione (mentre non gli vengono sottratte l’astrazione e la stessa alienazione), non c’è dubbio che la nozione di alienazione resta insostituibile. Al tempo di Marx non esisteva ancora l’attuale lavoro flessibile e precario, la valorizzazione capitalistica non si era ancora estesa mediante la manipolazione pubblicitaria dell’intero “mondo della vita” (Husserl), la famiglia e la sessualità non erano ancora state “liberalizzate”, eccetera, ma ciononostante il raggio sociale del concetto di alienazione da lui disegnato nei Manoscritti resta sempre attuale. In secondo luogo, resta il fatto incontrovertibile che nei Manoscritti c’è la “prova provata” che il ventiseienne Marx si considerava e si “autocertificava” (mi si scusi per questo linguaggio burocratico) come “comunista”. Si tratta di un dato filologico incontestabile, su cui concordano tutte indistintamente le scuole “marxiste”.
Possiamo dichiararci “comunisti” anche noi, in questo inizio del ventunesimo secolo ed addirittura epocalmente del terzo millennio? Ognuno ovviamente risponderà come vuole, e ci metterà tutte le riserve linguistico-politiche che riterrà necessarie. Per quanto mi riguarda risponderò – ad un tempo con cautela e decisione – di sì, aggiungendo che soggettivamente sostengo un’interpretazione comunitaristico-democratica del comunismo unita ad una interpretazione idealistico-filosofica del marxismo.
Ma ciò che conta ovviamente non è ciò che pensa empiricamente la modesta figura dello scrivente. Ciò che conta è che il concetto di comunismo in Marx non venga fatto “implodere” nel giudizio storico che ognuno ha diritto legittimamente di dare sulle vicende e sugli esiti del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917–1991). Alla luce dello stesso pensiero di Marx (non però del Marx dei Manoscritti, ma del Marx posteriore teorico della dinamica dialettica dei modi di produzione sociali) se ne possono dare giudizi diversi, che vanno da un giustificazionismo integrale ad una condanna senza appello. E tuttavia il concetto marxiano di comunismo ha una dimensione ad un tempo storica e metastorica, in quanto interpella non solo la logica dinamico-evolutiva del capitalismo, ma anche il significato della storia universale.
A differenza di Hegel, che limitava la sua filosofia ai concetti storicamente determinati e determinabili nel presente, Marx ritiene di poter parlare di una futura “società comunista”, anche se chiarisce immediatamente di non “voler scrivere ricette per i ristoranti del futuro”, e di non voler lasciarsi andare a previsioni dettagliate come era stato il caso per i cosiddetti “falansteri” di Fourier. Egli ricava il comunismo concettualmente per “differenza specifica” con il capitalismo, e questo lo porta di fatto ad utilizzare una sorta di teologia negativa alla Dionigi l’Areopagita, o se si vuole di dialettica negativa all’Adorno. Certo, Marx non può non parlare di “comunismo”, e lo definisce sia dinamicamente (il comunismo è quel movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti) sia staticamente (il comunismo è quella società in cui ognuno darà secondo la sua capacità e riceverà secondo i suoi bisogni). Si tratta certamente di concetti non sufficientemente determinati, e sarebbe sciocco nasconderlo per ragioni di appartenenza ideologica o di carità di patria. E tuttavia, nonostante alcuni aspetti francamente utopistici (chi scrive – ad esempio – non crede alla teoria della cosiddetta “estinzione dello stato”), sappiamo dalla filologia marxiana che Marx aveva una concezione storica e non soltanto naturalistico–frugale del concetto di “bisogno”, e che intendeva il comunismo non certo come società autoritaria, organicistica e pacificata (da fine della storia, cioè), ma come un momento della progettualità umana sociale concreta (più tardi il vecchio Lukács parlò correttamente di agire “teleologico”, e non certo di esito necessitato di una dialettica della natura). In definitiva, il bilancio del comunismo storico novecentesco falsifica certo popperianamente un certo modo di costruire il socialismo, ma passa largamente a lato del concetto di comunismo che Marx per la prima volta cercò di concretizzare nei suoi Manoscritti giovanili.
In terzo luogo, per finire, i Manoscritti pongono inderogabilmente il problema del profilo filosofico originale di Marx. Qui il discorso si farebbe inevitabilmente lungo (problema della differenza fra la filosofia di Marx e la filosofia di Engels, problema dell’esistenza o meno di una “rottura epistemologica” fra il giovane Marx ed il Marx maturo, problema dell’uso ideologico di legittimazione partitico-statuale del pensiero di Marx, eccetera), ma non è ovviamente questa la sede per parlarne in modo adeguato. Al di là del modo consueto di parlarne (Hegel sì ed Hegel no, dialettica sì e dialettica no, eccetera) il punto cruciale sta in ciò, se il marxismo abbia realmente bisogno di una fondazione filosofica, e sia cioè una vera e propria scienza filosofica nel senso di Fichte e di Hegel oppure sia invece una scienza sociale predittiva in senso positivistico, che in quanto tale è valida anche e soprattutto in assenza di una fondazione filosofica, ritenuta superflua ed addirittura negativa e dannosa in quanto “metafisica”. Chi scrive queste note di introduzione ai Manoscritti è un evidente sostenitore della prima variante, e per di più in forma esplicitamente “estremistica”. Ma i Manoscritti possono e devono essere letti anche da chi non la pensa affatto in questo modo. Ogni generazione filosofica e politica ha diritto alla sua lettura, e che cosa ne possa venir fuori è scritto nello scrigno segreto del futuro.

Costanzo Preve

Questo scritto del filosofo Costanzo Prevecostituisce un’introduzione ai Manoscritti di Marx per una nuova edizione greca degli stessi. È stato pubblicato come Appendice nel libro di Eugenio Orso, Alienazioni e uomo precario, Petite Plaisance, 2011.

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Franco Toscani – Il rapporto etica-politica e il tema dell’amicizia in Aristotele.

Aristotele 012

a Lea e Attilio,
pazienti angeli custodi

  1. Il nesso ineludibile fra etica e politica in Aristotele

Il percorso che qui cerchiamo di proporre sul rapporto fra etica e politica e sul tema della philía in Aristotele non ha programmaticamente nulla di meramente storiografico. La nostra ricognizione parte dalla lucida consapevolezza della crisi devastante dell’etica e della politica nella civiltà odierna e dall’esigenza di ripercorrere criticamente alcuni tratti essenziali della tradizione culturale occidentale per contribuire a porvi rimedio. Ritrovare e tornare a meditare il nesso essenziale fra etica e politica nello Stagirita può servire ad affrontare i nodi più controversi della situazione spirituale del nostro tempo e a riscoprire il senso del bene comune, di ciò che può e deve essere condiviso nella nuova civiltà planetaria che ancora troppo faticosamente e contraddittoriamente intravediamo all’orizzonte.
Nella impossibilità di occuparci qui in modo esaustivo delle problematiche presenti nell’Etica Nicomachea e nella Politica dello Stagirita, del tutto consapevoli della inesauribile ricchezza tematica di queste opere, noi qui tenteremo una lettura selettiva e parziale di esse (con un particolare riferimento alla prima), mirante a mettere in luce alcuni aspetti basilari che possono costituire anche oggi motivo di grande interesse, attenzione e riflessione.
Vi sono per Aristotele tre tipi fondamentali di vita, propri della moltitudine (oi polloí), della vita etico-politica, della vita contemplativa. Sul tipo di vita più diffuso, quello della massa, il giudizio dello Stagirita – espresso nell’Etica Nicomachea con parole che non potrebbero essere per noi più drammaticamente attuali, soprattutto quando accenna alle «passioni di Sardanapalo», il re assiro Assurbanipal del VII sec. a. C. (di cui parla Erodoto), famoso per le sue ricchezze favolose e per la sua vita dissoluta, precursore di tanti nostrani imitatori potenti e prepotenti – è netto e duro: «La moltitudine, dunque, appare del tutto simile a una massa di schiavi, poiché sceglie una vita degna delle bestie; ma trova una giustificazione per il fatto che molti di coloro che coprono cariche direttive sono mossi dalle stesse passioni di Sardanapalo».1
Nel campo etico-politico noi ricerchiamo non per un mero e sterile sapere circa la virtù, ma per diventare buoni, virtuosi e per praticare la saggezza: «nell’ambito della pratica il fine non è contemplare e conoscere ogni singola cosa, ma piuttosto il compierla; e pertanto neppure riguardo alla virtù è sufficiente conoscerla, bensì bisogna tentare di possederla e di metterla in pratica» (Eth. Nic., X, 10, 1179 a 35 – 1179 b 1-4; ECA 489. Cfr. anche Eth. Nic., II, 2, 1103 b 26-29).
Ora, quale rapporto vi è fra etica e politica, sapendo che esse concernono l’uomo come essere capace di agire consapevolmente e liberamente in vista di un fine?2
Sul tipo di vita etico-politica, nell’Etica Nicomachea Aristotele osserva che l’etica non studia cose che «non possono essere diversamente da quelle che sono» e la cui modalità di esistenza è la necessità (ciò è oggetto delle scienze teoretiche), ma le «realtà che possono essere diversamente da quelle che sono», possono «sia essere che non essere» e sono quindi caratterizzate dalla contingenza.3
L’oggetto dello studio dell’etica è il bene umano supremo, il fine che «vogliamo per sé stesso», che è «oggetto della scienza più direttiva e architettonica al sommo grado; e tale è manifestamente la politica» (cfr. Eth. Nic., I, 1, 1094 a 19; 1094 a 26-27; EZA 84-85).
Qui sono in gioco i rapporti umani, che nel loro istituirsi sono etici e si determinano pure in senso politico. Etica e politica mostrano una convergenza fondamentale.
Come ha opportunamente osservato Franco Trabattoni, nel pensiero antico dell’epoca classica non vi è una distinzione netta fra etica e politica; ciò è dovuto probabilmente ad alcuni fattori: «In primo luogo, data la particolare struttura politica in cui era articolato il mondo greco (ossia il sistema delle poleis), il cittadino viveva profondamente immerso nella propria comunità, di cui era parte integrante e spesso attivamente partecipe (in particolare negli stati, come Atene, retti per lunghi periodi dal regime democratico). In questo quadro è ben comprensibile che i comportamenti privati assumessero una valenza pubblica, e che per converso il mondo della politica influisse in modo diretto sulle norme etiche. In secondo luogo, la stessa distinzione tra privato e pubblico, tra la sfera dei rapporti familiari e sociali e quella dei rapporti con le istituzioni, era molto più labile che nel mondo moderno. Infine, i pensatori politici dell’epoca classica, almeno fino ad Aristotele, non percepivano la politica come una attività tecnica dotata di meccanismi e di regole proprie, ma piuttosto come la più alta e completa forma di educazione».4
La dimensione etica, che riguarda in modo più specifico il bene dell’individuo, non può che rinviare ed essere strettamente collegata – pena la ricaduta in un “individualismo” (diremmo con termine moderno) inaccettabile – alla dimensione politica, ossia di un bene non meramente individuale, ma condiviso e condivisibile, comune, pubblico, di tutti. Ecco perché Aristotele scrive: «il bene (agathón) infatti è amabile (agapetón) anche nella dimensione dell’individuo singolo, ma è più bello e più divino (kállion dè kaì theióteron) quando concerne un popolo e delle città. A queste cose tende dunque la trattazione, che è una trattazione di politica» (Eth. Nic., I, 1, 1094 b 8-11; EZA 86-87).
Bene dell’individuo e bene della città sono così per Aristotele indisgiungibili. Abbiamo bisogno delle leggi, delle istituzioni e delle costituzioni statali, perché senza di esse le passioni non possono sottomettersi alla ragione, la massa (ancora oi polloí!) tende a non seguire il lógos, non è possibile alcuna umana convivenza e neppure diventare buoni (cfr. Eth. Nic., X, 10, 1179 b – 1180 a; 1181 b 15-23; EMA 9-10). Come hanno giustamente notato diversi studiosi, sembra che qui assistiamo ad una subordinazione sostanziale dell’etica alla politica. Ma non è così, le cose stanno anzi per noi esattamente al contrario.5
Rileva ad esempio Aristotele: «Studiare il piacere e il dolore compete a chi tratta filosoficamente la politica; questi infatti è architetto del fine (télous architékton), volgendo lo sguardo sul quale diciamo di ogni cosa che è un bene o un male in senso assoluto» (Eth. Nic., VII, 12, 1152 1-3; EZA 682-683). Non il politico, dunque, ma il filosofo politico è «l’architetto del fine» che ha il compito di studiare il piacere e il dolore mirando a stabilire ciò che è bene e ciò che è male in senso essenziale.
Per questi motivi sul rapporto fra etica e politica nello Stagirita concordiamo con ciò che lucidamente scrivono Gauthier e Jolif nella loro monumentale edizione critica dell’Etica Nicomachea: «L’oggetto della morale è il bene supremo dell’individuo; ma, benché essa, a rigore, possa accontentarsi di assicurare questo bene a un solo individuo, preferirà evidentemente assicurarlo a tutti gli individui. Ora, la città non ha altro fine che il bene dell’individuo o, più esattamente – ma ciò non fa alcuna differenza –, la somma dei beni individuali. Dunque la morale, per il fatto stesso che determina il bene dell’individuo, è la politica nel senso forte della parola, la politica architettonica che detta alla città il suo fine; in altri termini, la vera politica è la morale. Il perno di tutta questa argomentazione è l’affermazione dell’identità tra il bene dell’individuo e il bene della città; è l’affermazione di questa identità […] che permette ad Aristotele […] di subordinare la società all’individuo, del quale essa persegue i fini, e della politica alla morale, che ad essa fornisce il fine».6

  1. L’essenza della politica in Aristotele

Per lo Stagirita, l’uomo è un politikòn zôon (animale politico) che non può vivere isolatamente ed è definito essenzialmente dal suo vivere insieme agli altri: «politikòn gàr o ánthropos kài syzên pephykós» («l’uomo, infatti, è un essere sociale e portato per natura a vivere insieme con gli altri»).7
Riprendendo esplicitamente questa impostazione di Aristotele, a distanza di molti secoli Marx scriverà nella sua Einleitung zur Kritik der politischen Oekonomie (1857): «L’uomo è nel senso più letterale uno zôon politikón, non soltanto un animale sociale, ma un animale che solo nella società riesce ad isolarsi».8
La politica è la anthrópeia philosophía (filosofia delle cose umane) che ha di mira il bene supremo dell’uomo, la sua felicità (eudaimonía), ossia il bene «più compiuto» (con cui si perviene all’autárkeia, autosufficienza da intendere appunto in senso politico; perfezione e autosufficienza sono caratteristiche fondamentali del bene anche per Platone, Filebo 20 d), perché è il bene che realizza il proprio fine (télos) nel massimo grado e non cerchiamo di perseguirlo in vista di altro, ma per sé stesso (cfr. Eth. Nic., X, 10, 1181 b 16; ECA 495; Eth. Nic., I, 5, 1097 a 25-b 22; EZA 102-107; Pol., VII, 5, 1326 b 28-32; PLA 232; Pol., I, 2, 1253 a 2; PLA 6). Che cosa infatti si può volere di più, oltre che essere felici, realizzando la finalità interna alla propria natura?
Essendo la politica la scienza «più direttiva e architettonica al sommo grado» e avendo come fine il bene propriamente umano, il suo fine abbraccerà anche quello di tutte le altre scienze e tecniche (cfr. Eth. Nic., I, 1, 1094 a 22- 1094 b 11).
Se ogni pólis è una comunità che si costituisce in vista del bene comune, il politikós dovrà sempre agire di conseguenza, con un’autorità che si esercita su liberi ed eguali. Il vero uomo di stato non deve dominare (árchein), tiranneggiare o far violenza sui cittadini, ma esercitare il potere secondo giustizia e legalità (cfr. Pol., VII, 2, 1324 b 27-29; PLA 226). Nella realtà storica spesso accade invece che i potenti, «per i proventi che si traggono dai beni comuni e dalla carica, vogliono restare al potere ininterrottamente», mirando a formare delle costituzioni «pervase da spirito di dispotismo, mentre lo stato è comunità di liberi» (cfr. Pol., III, 6, 1279 a 14-22; PLA 83-84).
Quando l’uomo è perfetto è la migliore delle creature, ma è la peggiore fra tutte senza la virtù della giustizia (la dikaiosýne che regge lo stato) e senza il diritto (díke) che ordina la comunità sociale (cfr. Pol., I, 2, 1253 a 30-40; PLA 7; Pol., I, 7, 1255 b 21; PLA 14).
Mostrando insieme le affinità e le differenze con l’impostazione di Platone, all’inizio del II libro della Politica Aristotele osserva che per ricercare la migliore comunità politica occorre studiare tutte le costituzioni, «sia quelle vigenti in alcuni stati, di cui si dice che sono ben governati, sia talune altre esposte da certi pensatori e che hanno fama di essere buone, affinché si scorga quel che v’è di giusto e di utile e insieme non sembri dovuta solo a desiderio di cavillare a ogni costo la ricerca di qualche altra forma diversa da quelle, ma risulti anzi che abbiamo intrapreso quest’indagine proprio perché quelle ora esistenti non vanno bene» (Pol., II, 1260 b 29-35; PLA 31).
Essendo per natura gli uomini animali socievoli, «anche se non hanno bisogno d’aiuto reciproco, desiderano non di meno vivere insieme: non solo, ma pure l’interesse comune li raccoglie, in rapporto alla parte di benessere che ciascuno ne trae. Ed è proprio questo il fine e di tutti in comune e di ciascuno in particolare: ma essi si riuniscono anche per il semplice scopo di vivere e per questo stringono la comunità statale. C’è senza dubbio un elemento di bellezza nel vivere, anche considerato in sé stesso, a meno che non sia gravato oltre misura dai mali dell’esistenza. È chiaro del resto che i più degli uomini sopportano molte avversità perché attaccati alla vita, come se racchiudesse in sé stessa una qualche gioia e dolcezza naturale» (Pol., III, 6, 1278 b 21-31; PLA 82; cfr. anche Eth. Nic., IX, 9, 1270 a 20-1270 b 13). Il discorso circa la dolcezza del vivere e la bellezza della vita vale per lo Stagirita su tutti i piani, sul piano del vissuto individuale e sul piano dell’esistenza collettiva, su quello della philía e su quello della politica.
Più volte Aristotele nella Politica parla dell’esigenza di una «costituzione migliore», alla quale mira pure lui, benché in modo diverso da Platone. Le virtù dominanti nello stato migliore sono le stesse di quelle nominate da Platone nella Repubblica (Resp. IV, 427 e), ossia sapienza, coraggio, temperanza e giustizia, con la sola differenza significativa che Aristotele chiama phrónesis ciò che Platone chiama sophía (cfr. Pol., VII, 1, 1323 a 27-29; PLA 221).
Pure molto platonico è l’invito a non trascurare la necessità dell’educazione allo spirito della costituzione e alla coscienza del valore delle leggi (cfr. Pol., V, 9, 1310 a 13-19; PLA 179-180).9 Così come quello rivolto a concepire lo stato migliore in relazione al primato dell’anima sulle cose e sugli averi, non al primato delle cose e degli averi sull’anima (cfr. Pol., VII, 1, 1323 b 8-37; PLA 222-223).
Ma giustamente è stato da più parti notato che, nel modo in cui nel V libro della Politica lo Stagirita parla di come le tirannidi mantengono il potere, egli manifesta una concretezza, uno spirito realistico e una lucida coscienza della realtà politica che anticipano e ricordano molto da vicino Machiavelli. Lucidità e realismo che risaltano anche nell’osservazione secondo cui «i diversi popoli vanno a caccia della felicità in modo differente e con mezzi differenti, si costruiscono modi di vita diversi e costituzioni diverse» (Pol., VII, 8, 1328 a 41-1328 b 1; PLA 237).

  1. La felicità della «vita compiuta». Il nesso fra piacere, attività e virtù in Aristotele

Nella Politica Aristotele istituisce un nesso molto stretto tra felicità umana, virtù e politicità. La migliore costituzione è finalizzata alla felicità umana, che non è un semplice habitus, una éxis (disposizione), ma è «perfetta attività e pratica di virtù», «realizzazione e pratica perfetta di virtù» ( cfr. Pol., VII, 13, 1332 a 10; PLA 248; Pol., VII, 8, 1328 a 38; PLA 237; Eth. Nic., X, 6, 1176 a 33-34).
Nell’Etica Nicomachea, in piena consonanza con queste affermazioni, leggiamo che «il bene umano consiste in un’attività dell’anima secondo virtù» (tò anthrópinon agathón psychês enérgeia gínetai kat’aretén. Eth. Nic., I, 6, 1098 a 16-17; EZA 108-109) o che la felicità (eudaimonía) consiste nell’esercizio concreto della ragione, nell’«attività dell’anima conforme a virtù» (Eth. Nic., I, 10, 1099 b 26; EZA 120-121; X, 7, 1177 a 12; EZA 860-861), nell’uso (chrêsis) della «virtù perfetta» (teleía areté. Cfr. Eth. Nic., V, 3, 1129 b 30-31; EZA 326-327) per una vita compiuta.
Ogni essere segue la propria natura, realizza la finalità interna alla propria natura, la propria entelécheia. La perfezione/compiutezza di una vita è il bene supremo dell’uomo e di «vita compiuta» (bíos teleíos) parla esplicitamente Aristotele allorché scrive che «una rondine non fa primavera» e a proposito di una vita non caratterizzata dalla episodicità, ma sorretta costantemente, giorno dopo giorno, dall’impegno della ragione e della buona volontà (cfr. Eth. Nic., I, 6, 1098 a 18-19; EZA 108-109).
Il termine kalokagathía – così importante non solo per il nostro autore, ma per tutta la cultura greca – esprime tale compiutezza e compare due volte nell’Etica Nicomachea, una volta alla fine dell’opera (cfr. Eth. Nic., X, 10, 1179 b 10) e un’altra allorché si tratta della megalopsychía (magnanimità). Qui (cfr. Eth. Nic., IV, 7, 1124 a 3-4) lo Stagirita rileva che non si può essere magnanimi senza la kalokagathía, parola di difficile traduzione che indica la bellezza morale, la perfezione della virtù, un’idea unitaria di perfezione che comprende in modo strettamente congiunto la bellezza e la bontà.
Il fine di tutte le azioni che si compiono è il «bene realizzabile nella prassi» (tò praktòn agathón, Eth. Nic., I, 5, 1097 a 23; EZA 102-103).
Mentre in Platone il bene (tò agathón) è la suprema fra le idee e la realtà umana è orientata verso di esso senza mai poterlo attingere pienamente, per Aristotele (che non manca di fare dell’ironia sul «bene in sé» di Platone e dei platonici, cfr. Eth. Nic., VIII, 7, 1158 a 24-25)10 il bene umano autentico, il «più compiuto» ( teleiótaton) va concretamente vissuto e praticato, è attuabile, consiste nel fine che si vuole di per sé stesso e non in vista di altro, ossia nella felicità (cfr. Eth. Nic., I, 5, 1097 a 25-1097 b 1; EZA 102-105), la quale non si risolve in una vita spesa all’inseguimento incessante e affannoso di piaceri, lucro, onori, ricchezze, poteri.
Contrariamente all’opinione dominante, la ricchezza, in particolare, non può essere altro che un mezzo e non può dare da sola la felicità, la quale ha certamente bisogno di beni esteriori e di mezzi, di condizioni strumentali favorevoli, ma non va confusa con essi.
Identificata la felicità col bene supremo, non è però ancora chiaro in che cosa essa consista; otteniamo una maggiore chiarezza se rispondiamo alla domanda difficile circa la funzione (érgon) specifica dell’uomo, che Aristotele, recuperando criticamente la concezione socratico-platonica dell’essenza dell’uomo come anima razionale, ravvisa nella capacità di pensare e di agire secondo ragione (cfr. Eth. Nic., I, 6, 1097 b 22-1098 a 20).
La eudaimonía non può darsi senza virtù come la moderazione (sophrosýne) e il coraggio (andreía), che non necessitano di eccesso o difetto, ma della mesótes, del giusto mezzo, della via di mezzo che non significa in alcun modo mediocrità. Anzi, la mesótes, sapendo evitare ciò che ci danneggia in un senso o in un altro, per eccesso o per difetto, rappresenta un vertice di perfezione e di eccellenza (tò áriston. Cfr. Eth. Nic., II, 6, 1107 a 7-8; EZA 166-167; Eth. Nic., II, 6, 1106 b 16-23; EZA 164-165).
Vedremo più avanti come la teleía eudaimonía (felicità perfetta) vada per Aristotele al di là dei confini dell’etica. Per il momento, soffermiamoci ancora sul fatto che la felicità per lo Stagirita implica il piacere (egli fa derivare makários, beato, da mála chaírein, gioire molto) e che il filosofo politico, come «architetto del fine», ha il compito di indagare di ogni cosa ciò che è bene e ciò che è male in senso assoluto, nella consapevolezza che la virtù e il vizio concernono i piaceri e i dolori (cfr. Eth. Nic., VII, 12, 1152 b 1-7; ECA 393-394).
Come ha messo bene in luce Claudio Mazzarelli, circa il tema del piacere nell’Etica Nicomachea (cui sono dedicati i capitoli 11-14 del libro VII e i capitoli 1-5 del libro X), Aristotele deve molto al Platone del Filebo, «non solo nella impostazione dei problemi, ma, talora, anche nelle soluzioni».11
Non possiamo qui addentrarci nei complessi riferimenti (oltre ovviamente a Platone, si pensi ad esempio alle tesi sul piacere di Aristippo, Eudosso, Antistene, Speusippo) e nelle mille sottigliezze del pensiero aristotelico nel merito della questione.
Limitiamoci allora a dire che per lo Stagirita piacere e dolore investono l’etica in quanto accompagnano costantemente la nostra vita e pesano fortemente sulla virtù e sulla vita felice. In qualsiasi campo coloro che operano con piacere pervengono a migliori risultati. Platone e Aristotele non condividono però la convinzione propria della teoria edonistica secondo cui tutti i piaceri hanno una natura identica e quindi sono tutti buoni (cfr. Platone, Filebo, 12 d-e; 13 c).
I due grandi filosofi sottolineano la diversità dei piaceri, diversità che secondo Platone è di natura ontologica, secondo Aristotele di natura etica. Per quest’ultimo i piaceri non sono tutti uguali e tutti buoni, perché alcuni alimentano l’attività, altri la ostacolano; essi sono buoni o cattivi per il fatto di conseguire a un’attività virtuosa o viziosa (cfr. Eth. Nic., X, 5, 1175 b 24-28; EZA 852-853; cfr. anche le note 2, 8 e 10 del commento di Zanatta, EZA 1095-1096).
Vi è un peculiare “edonismo” di Aristotele, un vivo senso del piacere, mai legato a sfrenatezze ed eccessi, del tutto lontano da ogni edonismo esasperato ed estenuato. L’uomo moderato e saggio (o sóphron) gioisce secondo la «retta regola» (orthós lógos. Cfr. Eth. Nic., III, 14, 1119 a 20).
I piaceri sani e genuini della vita sono attività (enérgeia) «non impedita», liberamente esercitata e fine (télos), corrispondono all’uso appropriato della vita: «I piaceri, infatti, non sono un divenire né si accompagnano tutti a un divenire ma sono attività e fine; e non si hanno nel corso del divenire, ma dell’uso; e non di tutti i piaceri il fine è qualcosa di diverso da essi, ma lo è quello dei piaceri di coloro che sono ricondotti alla perfezione della loro natura» (cfr. Eth. Nic., VII, 13, 1153 a 9-15; ECA 396; cfr. anche Pol., IV, 11, 1295 a 36-37; PLA 135).
Il piacere è un elemento di perfezionamento dell’attività conforme a natura; esso accompagna necessariamente ogni attività che venga esercitata secondo la sua propria natura, anzi si risolve in questa stessa attività, nell’esercizio della virtù: «Il piacere rende perfetta l’attività (teleioî dè tèn enérgeian e edoné). […] Il piacere perfeziona […] l’attività non come la perfeziona la disposizione immanente, ma come una sorta di fine che viene ad aggiungersi in sovrappiù, come ad esempio a coloro che sono nel vigore dell’età (akmaíois) si aggiunge la bellezza» (cfr. Eth. Nic., X, 4, 1174 b 23, 31-33; EZA 844-847).
Tutti i viventi, a partire dalla tensione vitale che li caratterizza, dalla tendenza naturale alla soddisfazione, desiderano il piacere. Non è umana l’insensibilità (anaisthesía) ai piaceri: «Persone che peccano per difetto in quel che concerne i piaceri e che si dilettano meno di quel che si deve non esistono proprio: infatti non è umana una tale insensibilità» (Eth. Nic., III, 14, 1119 a 5-7; EZA 246-249; cfr. anche Eth. Nic., II, 7, 1107 b 6-8).
Chiarire interamente il rapporto fra vita e piacere è possibile solo fino a un certo punto, ma il nesso stretto fra di essi è indubbio: «Se sia il piacere la causa per la quale scegliamo il vivere, o se sia il vivere la causa per la quale scegliamo il piacere, tralasciamo in questo momento. Vita e piacere sono infatti, in tutta evidenza, strettamente connessi e non ne è possibile una separazione, giacché senza attività non vi è piacere ed il piacere rende perfetta ogni attività» (Eth. Nic., X, 5, 1175 a 18-21; EZA 848-849).12

  1. Più di tutto l’oro di Dario. Necessità e bellezza della philía in Aristotele

 Per una vita felice e davvero degna dell’uomo non bastano i beni materiali, le ricchezze, gli onori, la fama, i poteri. Per le persone felici e virtuose occorrono gli amici che, nel loro essere altrettanto virtuosi, risultano anche piacevoli e utili (cfr. Eth. Nic., VIII, 7, 1158 a 22-28, 33-34).
In piena linea di continuità con queste posizioni dello Stagirita appare l’alta consapevolezza del valore dell’amicizia che ebbe nel secolo dei Lumi Gotthold Ephraim Lessing, ad esempio nel primo dialogo di Ernst und Falk. Gespräche für Freimäuer (1778-1780): «Nichts geht über das Lautdenken mit einem Freunde» («Nulla vale più del pensare ad alta voce con un amico»).13
Aristotele dedica al tema dell’amicizia (philía) gli splendidi e inesauribili libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea. Lucia Caiani pone un’avvertenza essenziale alla traduzione italiana del greco philía con amicizia: «Il termine greco philía ha un valore semantico più estensivo dell’italiano ‘amicizia’, con il quale l’abbiamo tradotto, ed esprime i sentimenti di affetto, di amore, di benevolenza verso gli altri; ossia (per usare una frase del Tricot…) ‘ c’est en somme l’altruisme, la sociabilité’. In connessione con philía troviamo l’aggettivo phílos, che può avere valore sia attivo che passivo ed indica tanto ‘colui che ama’ quanto ‘colui che è a sua volta amato’ (cfr. in proposito la definizione di Rhet., II, 4, 1381 a 1: phílos …estìn o philôn kaì antiphiloúmenos ‘amico…è colui che ama e che è a sua volta amato’)».14
In qualsiasi modo cerchiamo di definire l’amicizia, sappiamo che ogni definizione di essa non può che essere provvisoria, problematica e aperta, perché – come scrive Siegfried Kracauer in Ueber die Freundschaft (1917-1918) – essa presenta una «ricchezza insofferente del misero recipiente di una parola».15
Tenendo presente che per Aristotele la virtù (areté) è una éxis proairetiké (disposizione alla scelta), l’amicizia assomiglia a una disposizione (éxis) che, a differenza della passione (páthos), si accompagna ad una scelta deliberata (proaíresis. Cfr. Eth. Nic., II, 6, 1106 b 36; VI, 2, 1139 a 22-23; VIII, 7, 1157 b 28-31).
Lo Stagirita sottolinea a più riprese la necessità e la bellezza dell’amicizia (cfr. ad es. Eth. Nic., VIII, 1, 1155 a 4-6, 28-31; EZA 702-705), la quale si realizza meglio (si vedano i capitoli 12-13 del libro VIII dell’Etica Nicomachea) in una comunità politica, quando vi è qualcosa in comune da vivere, condividendo beni e interessi.
Il nesso qui istituito fra amicizia e politica, fra amicizia e giustizia è molto forte. Benevolenza (eúnoia, a cui è dedicato il capitolo 5 del libro IX) e concordia (omónoia, a cui è dedicato il capitolo 6 del libro IX) sembrano il punto di partenza dell’amicizia, ne preparano il terreno, ma non sono da confondere con essa, perché valgono soprattutto sul terreno sociale-politico.
La benevolenza non è da confondere con la phílesis (l’affetto), perché manca della tensione e del desiderio propri di essa, sorge anche per gli sconosciuti e manca dell’intensità propria della philía, della quale è però la condizione imprescindibile; la concordia sussiste fra i cittadini virtuosi non rivolti alla difesa dei meri vantaggi personali, è simile all’amicizia e si avvicina ad essa, ma è solo una «amicizia politica» (politiké philía), avente per oggetto gli interessi comuni dei cittadini e tutto ciò che riguarda la vita della pólis.16
Lo Stagirita non assume mai una posizione ingenuamente ottimistica, anzi mostra sempre notevole realismo e lucidità nel riconoscere che innumerevoli sono i mali e i dolori che tormentano la vita degli uomini, nel precisare che la maggior parte dei mortali preferisce ricevere benefici, ma si guarda bene dal compierne, «è priva di memoria e tende a ricevere il bene piuttosto che a farlo» (cfr. Eth. Nic., VIII, 16, 1163 b 28-29; IX, 7, 1167 b 26-27).
Il capitolo 2 del libro VIII dell’Etica Nicomachea prende l’avvio con un riferimento al Liside, il dialogo in cui Platone mette in bocca a Socrate l’affermazione secondo cui l’amicizia è da preferire a tutto l’oro di Dario (cfr. Liside, 211e-212 a). Aristotele riprende esplicitamente dal Platone del Liside la questione se l’amicizia sia fondata sulla somiglianza o sulla dissomiglianza degli amici. A questo proposito sia Platone sia Aristotele citano un celebre verso di Omero: «sempre il dio mena il simile al suo simile» (Odissea, XVII, 218).
Com’è noto, la conclusione del Liside (cfr. Liside, 222 d-223 b) ribadisce da un lato il valore dell’amicizia e dall’altro l’incapacità di trovare una soddisfacente definizione di essa. Forse uno dei motivi delle impasses del Liside consiste nel fatto che il suo autore non coglie – tale aspetto, peraltro, non verrà colto, mi sembra, nemmeno dallo stesso Stagirita in seguito – il valore dell’amicizia nella ricchezza della differenza capace di veicolare la reciprocità dell’affetto, della stima e della necessità degli amici. Dagli interrogativi e dai punti irrisolti del Liside riparte comunque Aristotele, pervenendo – diciamolo subito – alla conclusione che l’amicizia è fondata sulla somiglianza degli amici nella virtù.
E’ importante per lo Stagirita stabilire che cosa è tò philetón, ossia ciò che è amabile, è oggetto o suscettibile di amicizia, ciò per cui si ama quello che viene amato. In linea di principio, amabile, attraverso la mutua benevolentia e l’intimità degli amici, è il bene (tò agathón) e solo esso, ma di fatto gli uomini amano ciò che a essi sembra bene, «un amabile apparente» (tò philetón phainómenon. Cfr. Eth. Nic., VIII, 2, 1155 b 26-27; EZA 708-709).

  1. Le forme dell’amicizia secondo Aristotele e la teleía philía

Nelle tre principali forme che secondo Aristotele assume l’amicizia – secondo l’utile, secondo il piacere e secondo il bene o la virtù –, gli uomini amano ciò che ad essi sembra amabile, l’«amabile apparente».
Qui va sottolineato che questa celebre distinzione aristotelica tra le forme essenziali della philía (cfr. Eth. Nic., VIII, 3) ha molto da dirci anche oggi, se ad esempio pensiamo al fatto che l’amicizia secondo l’utile mostra un evidente filo di continuità con la ratio strumentale calcolante imperante nella civiltà moderna e contemporanea, non solo nell’ideologia borghese-capitalistica, liberista o neo-liberista che sia. Inoltre, l’amicizia secondo il piacere può essere facilmente collegata all’edonismo superficiale e disinvolto della società sirenico-spettacolare odierna, in cui trova sicuramente un suo forte revival.
Nelle amicizie secondo l’utile e secondo il piacere, l’amico – o, sarebbe meglio dire, il cosiddetto amico – non viene amato per quello che è in sé stesso, ma, appunto, per l’utile o per il piacere che procura, perciò esse sono accidentali (katà symbebekós, cfr. Eth. Nic., VIII, 3, 1156 a 14-19; VIII, 4, 1156 b 10-11; VIII, 6, 1157 b 1-5)17 e spesso effimere, non durature e sostanziali.
L’amicizia perfetta (teleía philía) è quella di coloro che sono buoni e simili nella virtù, è quella del tutto priva di invidia,18 in cui si ama l’amico per sé stesso: «L’amicizia dei buoni, vale a dire di coloro che sono simili in virtù, è perfetta. Questi infatti, in quanto buoni, vogliono in ugual modo l’uno ciò che è bene per l’altro, e buoni essi sono di per sé stessi» (Teleía d’estìn e tôn agathôn philía kaì kat’aretèn omoíon. Oûtoi gàr tagathà omoíos boúlontai allélois e agathoí, agathoì d’eisì kath’autoús. Eth. Nic., VIII, 4, 1156 b 7-9; EZA 712-713).19
La somiglianza degli amici nella virtù non li rende identici e indistinguibili come due gocce d’acqua, ma salvaguarda la fruttuosa differenza tra di essi. L’amicizia perfetta – in cui gli amici si accettano e si amano per quello che sono, così come sono – è duratura (almeno sino a quando i buoni rimangono tali; la virtù di solito è durevole, non capricciosa), massimamente utile e piacevole, ma pure molto rara (pochi infatti sono sempre i veri amici) e bisognosa di tempo (le persone non si conoscono bene in poco tempo e con una scarsa frequentazione) per realizzarsi e consolidarsi.
Il realismo e la lucidità di Aristotele qui avvertono che non «è possibile accogliere qualcuno nella propria amicizia né essere amici prima che ciascuno si sia mostrato amabile all’altro ed abbia ottenuto fiducia. Coloro che instaurano rapidamente tra loro i vincoli dell’amicizia, vogliono essere amici, ma non lo sono se non sono anche degni d’amore e lo sanno. Infatti il desiderio di amicizia sorge rapidamente, ma l’amicizia no» (Boúlesis mèn gàr tacheîa philías gínetai, philía d’oú. Eth. Nic., VIII, 4, 1156 b 28-32; EZA 714-717).
La philía degli agathoí non è katà symbebekós, tende a essere più solida e stabile, perché si ama l’altro innanzitutto per quello che egli è e non per quello che ci può dare in termini di utilità e piacere.
I buoni, «amando l’amico, amano ciò che è bene per loro stessi, giacché l’uomo buono, diventando amico, diventa un bene per colui al quale è amico» (Eth. Nic., VIII, 7, 1157 b 33-34; EZA 722-723).
Tali individui – rileva ancora Kracauer – «sono simili alla pietra di luna, nella quale affiorano sempre più colori man mano che lo sguardo vi si immerge. In loro è insita una profondità che non si può attingere con le parole, e ogni persona che entra in contatto con loro percepisce – spesso in un sorriso o in una parola densa di richiami – la ricchezza della loro natura».20
La forma migliore di amicizia, fondata sul bene o sulla virtù, sancisce il primato del rispetto e della fiducia, del dialogo (cfr. Eth. Nic., VIII, 6, 1157 b 11-13) e dell’intimità, del vivere insieme (tò syzên) e dell’essere, dell’affetto e dell’intenzione, della reciproca benevolenza e della libera comunicazione sull’avere, sul calcolo, sull’utile, sul vantaggio, sul divertimento, sul piacere, tutti aspetti, peraltro, che almeno parzialmente sono o possono essere presenti anche in ogni vera amicizia, ma in modo secondario.
Secondo Giorgio Agamben, il convivere proprio dell’amicizia è definito «da una condivisione puramente esistenziale e, per così dire, senza oggetto: l’amicizia, come con-sentimento del puro fatto di essere. Gli amici non condividono qualcosa (una nascita, una legge, un luogo, un gusto): essi sono con-divisi dall’esperienza dell’amicizia. L’amicizia è la condivisione che precede ogni divisione, perché ciò che ha da spartire è il fatto stesso di esistere, la vita stessa. Ed è questa spartizione senza oggetto, questo con-sentire originale che costituisce la politica».21
L’amicizia autentica non è di natura puramente oblativa né puramente ricettiva, non è mero éros né mera agápe, né mero dono né mero desiderio, ma è un insieme di dono e desiderio, dare e ricevere, un rapporto libero dal dominio e dalla costrizione.
Rilevano a questo proposito Gauthier e Jolif: «Il virtuoso, precisamente perché è virtuoso e perché amare fa parte della virtù, non potrà essere amico di un uomo meno virtuoso di lui, giacché non potrebbe amarlo nella stessa misura in cui è amato, ma potrà essere amico soltanto di un uomo virtuoso come lui, che egli amerà così come ama sé stesso. Aristotele non ha neppure supposto l’esistenza dell’amore-agápe. Se l’egocentrismo dell’éros si trova, nella sua concezione della philía, un poco corretto, questo non è per un annuncio, sia pur lontano, dell’agápe, ma esclusivamente per l’esigenza di reciprocità che vi è inclusa. La philía non è dono gratuito, non si tratta di donare senza ricevere; ma essa non è neppure puro desiderio, non riceve senza donare: misto di dono e di desiderio, essa ricambia ciò che riceve, ed è per questo che non è né, come l’éros, l’amore dell’inferiore per il superiore, né, come l’agápe, l’amore del superiore per l’inferiore, ma, propriamente parlando, l’amore dell’uguale per l’uguale, amore disinteressato nel senso che non richiede come prezzo del suo amore stesso che dell’amore, ma che non è per nulla meno uno scambio, giacché lo scambio per Aristotele è della stessa natura dell’amicizia».22
L’amicizia virtuosa è disinteressata e duratura perché qui gli amici amano i loro caratteri, il loro êthos, si amano l’un l’altro per sé stessi, per la loro personalità e non in vista di altro (cfr. Eth. Nic., IX, 1, 1164 a 10-13). Il buono non solo vuole, ma agisce concretamente per il proprio bene e per il bene dell’amico.

  1. La philía tra egoismo e altruismo

Nel capitolo 4 del libro IX dell’Etica Nicomachea Aristotele avvia l’analisi di quelli che chiama tà philiká, i tratti caratterizzanti l’amicizia dell’uomo virtuoso (o epieikés oppure o agathós). I philiká sono cinque, rivolti pròs éteron («verso l’altro») e altrettanti rivolti pròs eautón («verso sé stesso»).
Il virtuoso vuole infatti fare del bene all’amico e a sé stesso, augura una lunga vita all’amico e a sé stesso, ama vivere in compagnia dell’amico e di sé stesso, condivide le opinioni e i gusti con gli amici, sperimenta gioie e dolori con l’amico e sulla propria pelle (sui philiká cfr. tra l’altro ECA 443, nota 35; EZA 1047-1049). Per lo Stagirita c’è una corrispondenza tra i sentimenti d’amicizia che l’uomo virtuoso prova verso sé stesso e i sentimenti di amicizia che prova verso gli altri.
Il discorso aristotelico sulla philía ci aiuta ancor oggi a gettar nuova luce sulle controverse questioni concernenti l’egoismo e l’altruismo. Abbiamo già osservato che l’amicizia autentica non è affatto invidiosa e comporta anzi la volontà di fare ciò che è bene per l’amico (cfr. Eth. Nic., VIII, 2, 1155 b 31), senza però dimenticare che autô gàr málisth’ékastos boúletai tagathá («è soprattutto per sé stesso che ciascuno vuole ciò che è bene», Eth. Nic., VIII, 9, 1159 a 12; EZA 732-733; cfr. anche Eth. Nic., IX, 8). Questo stesso bene che riserva a sé stesso, il virtuoso lo riserva anche all’amico, ésti gàr o phílos állos autós (giacché l’amico è un altro sé stesso. Cfr. Eth. Nic., IX, 4, 1166 a 31-32; EZA 784-785; IX, 9, 1169 b 6-7; IX, 9, 1170 b 6-7).
E’ questa la fondamentale dimensione egoistica della philía aristotelica, sottolineata anche da studiosi come il Tricot – per il quale la philía si fonda sull’egoismo dell’uomo virtuoso che si confonde con l’altruismo (infatti o agathós «nei rapporti con l’amico sta come nei rapporti con sé stesso», pròs dè tòn phílon échein ósper pròs autón, Eth. Nic., IX, 4, 1166 a 30-31; EZA 784-785) – e come il Robin – per il quale il luogo sorgivo dell’altruismo nell’Etica Nicomachea è l’egoismo del buono che si estende fuori di sé con una sorta di «irraggiamento».23
Si tratta qui di un egoismo ben diverso dall’egoismo meschino e miope, perché l’egoismo del virtuoso (su cui si veda fra l’altro l’«Introduzione» di Marcello Zanatta, cfr. EZA 66-67)24 corrisponde all’amore bene inteso di sé, che vuole trasferire e proiettare il sano e necessario amore di sé anche all’altro e assume quindi i tratti dell’altruismo. Il vero amico è quello del phílautos che coltiva i sentimenti d’amicizia (i philiká) con gli altri a partire dal rapporto che ha con sé stesso, dall’amore sacrosanto e ineludibile di sé (cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1168 b 1-10). L’egoismo più diffuso, quello biasimevole e meschino della moltitudine, è di chi antepone sempre e comunque i propri interessi a tutto il resto, mirando solo ad accumulare quanti più onori, ricchezze, poteri, piaceri corporei possibili.
L’egoismo sano del phílautos – come lo definirà anche Nietzsche in Also sprach Zarathustra (1883-1885), differenziandolo da quello «malato» – asseconda il suo vero sé, ama e coltiva la parte migliore di sé (tò kyriótaton, ossia il noûs. Cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1168 b 30), non è akratés («che non si domina»), ma enkratés («temperante», inteso come «colui che domina su di sé», cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1168 b 34-35), sa padroneggiare e controllare le sue passioni, presuppone un profondo dialogo interiore di sé con sé stesso, ricerca la bellezza morale (tò kalón), la stima in sé e negli altri, soppesa i veri grandi beni dell’esistenza, coltiva saggezza, senso della misura e del limite, uso della ragione.
Tale egoismo del virtuoso non costituisce un impedimento al rapporto con gli altri e un motivo di conflitto, ma, al contrario, agisce anche a loro vantaggio, si confonde con l’altruismo, è l’unica via per incontrare davvero l’altro. Uno splendido detto del buddhismo appare in grande consonanza con tutto ciò: «badando a sé stessi si bada agli altri, badando agli altri si bada a sé stessi».25
I veri amici sono phílautoi (egoisti o «amanti di sé»), nel senso che non fanno nulla che prescinda da sé stessi: essi vogliono e fanno il bene dei loro amici a partire da sé stessi, dal giusto e necessario amore che hanno per sé stessi.
L’uomo virtuoso ha addirittura il dovere di essere phílautos nel senso che abbiamo chiarito, perché in tal modo, sviluppando appieno le proprie potenzialità, qualità, capacità ed energie, gioverà a sé stesso compiendo belle azioni e sarà nel contempo generoso, utile agli altri, sino al punto di sacrificare talvolta la vita – se necessario – per il bene comune (cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1169 a 3-20).
Sicuramente la vicinanza interiore, il dialogo fecondo, la confidenza intima, la partecipazione profonda caratterizzano questa modalità di philía. Gli esiti positivi dell’agire dei phílautoi si riscontrano sia nella sfera privata sia nella comunità, nel campo dell’agire sociale e pubblico. Delle cose belle amate dal phílautos fa parte anche la capacità di aiutare e di donare (Von der schenkenden Tugend, Della virtù che dona è non a caso il titolo dell’ultimo capitolo della Parte Prima di Also sprach Zarathustra di Friedrich Nietzsche).26
L’egoismo del virtuoso si fonde così indubbiamente con l’altruismo, con la disponibilità ad aiutare e a favorire gli altri. La sua attività – il suo compiere delle azioni – è l’attuazione delle proprie potenzialità che è in piena armonia con l’attuazione delle potenzialità altrui. Bisogna dunque essere “egoisti”, amanti di sé nel modo giusto.
Ciò vale anche per Spinoza, che sulla scia di Aristotele e nel pieno rispetto dello spirito autentico del suo pensiero, scrive mirabilmente nella sua Ethica ordine geometrico demonstrata (IV, 18): «Poiché la ragione nulla esige che sia contro natura, essa dunque esige che ognuno ami sé stesso, ricerchi il proprio utile, ciò che davvero è utile, e appetisca tutto ciò che conduce l’uomo ad una maggiore perfezione, e, in senso assoluto, che ognuno si sforzi di conservare il proprio essere per quanto dipende da lui. E questo è così necessariamente vero come è vero che il tutto è più grande della parte. […] All’uomo niente è più utile dell’uomo; gli uomini, cioè, non possono desiderare per la conservazione del proprio essere niente di più eccellente se non che tutti concordino in tutto, in modo che le menti e i corpi formino quasi una sola mente e un solo corpo, e tutti si sforzino insieme, per quanto possono, di conservare il proprio essere, e tutti insieme cerchino per sé l’utile comune; da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli».27

  1. L’amicizia, la condivisione della vita e la dolcezza dell’esistere

Perché l’uomo virtuoso e felice ha bisogno degli amici, lui che sa star da solo ed è capace di autosufficienza (autárkeia), sia pure sempre relativa e mai assoluta? Per cominciare a rispondere dobbiamo riferirci a ciò che – come abbiamo visto nelle pagine precedenti – più volte ribadisce Aristotele nell’Etica Nicomachea e nella Politica circa l’essere dell’uomo inteso come animale sociale e politico.
L’uomo virtuoso e felice non può essere altro che un animale sociale, politico e culturale, incline al vivere sociale e bisognoso di amicizia. Per lo Stagirita la felicità (eudaimonía) è una sorta di attività (enérgeia) consistente nel vivere necessariamente insieme agli altri; si tratta di agire, di essere attivi in modo stimolante, piacevole e fruttuoso per sé e per gli altri.
Il vero e più profondo godimento dei beni non può essere un fatto meramente solitario, ma si dà attraverso la dolcezza naturale del vivere in società; delle cose belle e buone dell’esistenza si gioisce meglio insieme agli amici che provano un reciproco piacere e una reciproca volontà di amarsi, senza tutti quegli inutili risentimenti, invidie, meschinità e perfidie che avvelenano soltanto la vita.
Per gli esseri umani il vivere si definisce fondamentalmente con le facoltà della sensazione e del pensiero, ricordando che la dýnamis (facoltà, potenza) va sempre ricondotta all’elemento essenziale dell’enérgeia (attività, atto).
Vivere (tò zên), nel suo senso più pieno e profondo, equivale per lo Stagirita a sentire (aisthánesthai) e a pensare (noeîn) e tutto ciò è di per sé cosa buona e piacevole (cfr. Eth. Nic., IX, 9, 1170 a 19-26). Noi umani non soltanto svolgiamo tutte le nostre attività (il vedere, l’udire, il camminare, il pensare, etc.), ma siamo coscienti di svolgerle e proviamo piacere in esse: «esistere (tò eînai) significa infatti sentire e pensare. Sentire che viviamo è di per sé dolce, poiché la vita è per natura un bene (phýsei gàr agathòn zoé) ed è dolce sentire che un tale bene ci appartiene. Vivere è desiderabile, soprattutto per i buoni, poiché per essi esistere è un bene e una cosa dolce.
Con-sentendo (synaisthanómenoi) provano dolcezza per il bene in sé, e ciò che l’uomo buono prova rispetto a sé, lo prova anche rispetto all’amico: l’amico è, infatti, un altro sé stesso (éteros gàr autòs o phílos estín). E come, per ciascuno, il fatto stesso di esistere (tò autòn eînai) è desiderabile, così – o quasi – è per l’amico.
L’esistenza è desiderabile perché si sente che essa è una cosa buona e questa sensazione (aísthesis) è in sé dolce. Anche per l’amico si dovrà allora con-sentire che egli esiste e questo avviene nel convivere e nell’avere in comune (koinoneîn) discorsi e pensieri. In questo senso si dice che gli uomini convivono (syzên) e non, come per il bestiame, che condividono il pascolo» (Eth. Nic., IX, 9, 1170 a 33 – 1170 b 14).
La presa di coscienza non solo della nostra esistenza (di che cosa vuol dire per noi vivere), ma anche dell’esistenza degli amici e degli altri (di che cosa significa per loro stessi e per noi l’esistenza degli amici e degli altri) non può essere qui più netta e radicale. Massima è qui davvero l’apertura a un sentimento positivo dell’esistenza capace di investire col suo soffio energetico e accogliente tutti gli ambiti della vita quotidiana.
Desiderabile e piacevole è la compagnia degli amici, che sperimentano e avvertono assieme a noi i beni del sentire e del pensare, la piacevolezza dell’esistere, la comunanza dei pensieri, delle azioni e dei discorsi.
Così commenta Agamben queste indicazioni aristoteliche: «L’amicizia è l’istanza di questo con-sentimento dell’esistenza dell’amico nel sentimento dell’esistenza propria. Ma questo significa che l’amicizia ha un rango ontologico e, insieme, politico. […] L’amico non è un altro io, ma una alterità immanente nella stessità, un divenir altro dello stesso. Nel punto in cui io percepisco la mia esistenza come dolce, la mia sensazione è attraversata da un con-sentire che la disloca e deporta verso l’amico, verso l’altro stesso. L’amicizia è questa desoggettivazione nel cuore stesso della sensazione più intima di sé».28
Se la vita è naturalmente bella e orientata al piacere (cfr. Eth. Nic., X, 4, 1175 a 10-17) e se vivere insieme (syzên) è fondamentalmente con-sentire (synaisthánesthai), Aristotele può affermare con risolutezza che la philía è koinonía (comunione. Cfr. Eth. Nic., IX, 12, 1171 b 32-35; VIII, 11, 1159 b 31-32; VIII, 14, 1161 b 11), come condivisione delle dolcezze dell’esistenza e, aggiungiamo noi, pure delle sue pene, dei suoi immensi dolori.
Gli amici sono infatti necessari sia nelle situazioni di prosperità e positività sia nelle situazioni di avversità e negatività. Anche il buddhismo parla mirabilmente di Karuna – compassione, intesa come capacità di partecipare ai dolori altrui – e di Mudita – con-gioire, il Mitfreuden di Nietzsche, inteso come capacità di partecipare alle gioie altrui, senza alcuna invidia e bassezza.
La philía è koinonía, nel senso di una comunione esistenziale ed affettiva, in cui la fraternità dell’amicizia, purtroppo rara, rincuora per quanto possibile la vita fragile dei mortali. Ciò che importa è il modo, l’animo con cui gli amici ci sono vicini nelle sofferenze e nelle cose piacevoli.
Scrive a questo proposito Aristotele, esaltando pure la parresía, già indicata da Euripide nello Ione e nell’Ippolito come caratteristica saliente del cittadino e dell’uomo libero: «Verso i compagni e i fratelli occorre usare libertà di parola (parresía) e comunanza di ogni cosa» (Eth. Nic., IX, 2, 1165 a 29-30. Sul parresiastés cfr. anche Eth. Nic., IV, 8, 1124 b 29).
In Das zeugende Gespräch (Il dialogo fecondo, 1923), Kracauer parla del dialogo profondo proprio dell’amicizia, che produce mutamenti sostanziali nei soggetti coinvolti, diventa processo e unione esistenziale, un «con-vivere» in cui gli individui, mantenendo la loro piena libertà e l’autonomia della personalità, «esercitando reciprocamente un’azione maieutica, avanzano l’uno grazie all’altro nella loro esistenza».29
Ora, il dialogo degli amici non è di per sé l’assoluto, la verità intesa come dato oggettivo e definitivo, ma è un percorso, l’esperienza di un cammino, una tappa che avvicina i viandanti alla verità, senza poterla possedere, ma respirandone l’atmosfera.
Non può esserci philía se non vi è qualcosa in comune (tò koinón) tra gli umani e quanto «più comune è la vita» (koinóteros o bíos. Cfr. Eth. Nic., VIII, 14, 1162 a 7-9) tanto più l’amicizia è piacevole e utile.
Qui siamo ancora ben lontani dalla metafisica della soggettività illimitata coltivata dall’idealismo e massicciamente presente o serpeggiante nella storia della filosofia occidentale. Emerge invece un sano senso del vivere, del sentire e del pensare, dell’esistere e dell’essere, sotto il segno della misura e del limite, nell’ambito del destino a noi concesso.

  1. Saggezza e sapienza in Aristotele

Come si sa, essendo le virtù dianoetiche superiori a quelle etiche, per Aristotele la sapienza (sophía) è superiore alla saggezza (phrónesis) – forma di intelligenza pratica che indirizza l’azione nell’ambito dei beni umani – e la felicità trova la sua massima realizzazione nell’esercizio della sapienza. La felicità è infatti «attività secondo virtù» (kat’aretèn enérgeia); ora, la virtù più alta è ciò che in noi vi è di migliore, l’intelletto (noûs) o comunque vogliamo definire qualcosa che in noi ha conoscenza delle verità più alte, di tutto ciò che vi è di bello e divino, «o perché è in sé stessa divina, o perché è la cosa più divina (tò theiótaton) di ciò che è in noi»; tale attività non può essere che la theoretiké enérgeia (attività contemplativa), che costituisce la «felicità perfetta» (teleía eudaimonía. Cfr. Eth. Nic., X, 7, 1177 a 12-18; EZA 860-863).
Questa attività è la più elevata per vari motivi: perché è l’attività della parte in noi più alta, è la più continua, la più piacevole, la più autosufficiente, la più amata per sé stessa. Anche il sophós (sapiente) ha bisogno delle cose necessarie per l’esistenza ed è meglio se ha dei collaboratori attorno a sé, ma egli – rispetto al sóphron (saggio) che esercita la saggezza nel rapporto con gli altri – anche da solo è perfettamente capace di theoreîn (contemplare) ed è quindi massimamente autosufficiente (autarkéstatos), lontano dagli affari e dagli impegni pratici, dalle occupazioni politiche o militari che, pur avendo la loro importanza, gli tolgono quel tempo libero che è la sua risorsa più preziosa e gli consente – se una lunga e fruttuosa vita gli è concessa – di attingere la teleía eudaimonía e di diventare immortale (athanatízein), nei limiti delle possibilità umane (cfr. Eth. Nic., X, 7, 1177 a 19-1178 a 8).
Com’è noto, nella Metafisica lo Stagirita riserva a Dio l’assoluta autosufficienza, il bene nella sua pienezza, la perfezione massima della contemplazione e beatitudine eterne; contemplazione-beatitudine, theoretiké enérgeia che è propria anche dell’uomo, ma solo per brevi tratti e nei limiti della sua vita mortale.30
Nel capitolo 8 del libro X dell’Etica Nicomachea scrive su ciò lo Stagirita: «per gli dei tutta quanta la vita è beata, per gli uomini lo è nella misura in cui vi è in loro un’immagine di tale attività. Invece nessuno degli altri viventi è felice, poiché non partecipa in nessun modo della contemplazione (tôn d’állon zóon oudèn eudaimoneî, epeidè oudamê koinoneî theorías). Di quanto dunque si estende la speculazione si estende anche la felicità, e coloro ai quali maggiormente compete il contemplare (tò theoreîn) saranno anche maggiormente felici, non per accidente, ma in virtù della contemplazione stessa (ou katà symbebekòs allà tèn theorían): giacché questa di per sé stessa è degna di onore (timía). Di conseguenza la felicità consisterà in una certa contemplazione» (Eth. Nic., X, 8, 1178 b 25-32; EZA 872-873).
L’esistere è dunque secondo Aristotele un bene, ma per l’uomo è necessaria una ricerca, un travaglio, un lavoro di scavo al fine di individuare il proprio bene, di pervenire al proprio autentico ben-essere, una ricerca dagli esiti nient’affatto scontati, che deve far leva sulla parte migliore di noi stessi. Proprio in ciò si misura la differenza e la nostra distanza dal divino: «infatti Dio possiede già ciò che è bene» (échei gàr kaì nûn o theòs tagathón, Eth. Nic., IX, 4, 1166 a 21-22; ECA 444).
Ora, nel tentativo di rileggere criticamente queste tesi aristoteliche e di ripensarle ai fini di una migliore comprensione dei problemi del nostro tempo, proprio la teleía eudaimonía della vita contemplativa può essere rivalutata in modo provocatorio nella nostra epoca caratterizzata dal dominio pressoché incontrastato, a tutti i livelli, della ratio strumentale calcolante e di una ormai illimitata volontà di potenza economico-politica, scientifico-tecnologica e militare.
La perfetta felicità della theoría, però, non deve indurci a dimenticare o a sottovalutare il ruolo della phrónesis, della saggezza rivolta alle pratiche della vita umana e dei suoi rapporti.

  1. Aristotele e noi. La civiltà planetaria e la questione del bene comune

Al di là dei vecchi ideologismi sempre più fuorvianti e dannosi, la phrónesis ci comanda oggi di lottare per la difesa dei beni comuni, di diventare militanti dei beni comuni sempre più minacciati.
Non solo l’acqua, l’aria, la terra, gli elementi della phýsis cara al pensiero presocratico, ma anche i beni comuni più propriamente umani come la philía aristotelica, ossia l’amicizia e la capacità di stabilire rapporti umani davvero soddisfacenti vanno difesi e salvaguardati da un sistema economico, politico e militare imperniato sulla volontà illimitata di dominio, profitto, rapina e sfruttamento.
Ora, qualcuno potrebbe chiedersi che cosa c’entrano Aristotele e l’Etica Nicomachea con tutto ciò.
Osserva ad esempio Günther Anders in un’intervista del 1979 pubblicata in quello stesso anno col titolo Wenn ich verzweifelt bin, was geht’s mich an? (Se sono disperato, ciò non mi riguarda): «Nei settantacinque anni della mia vita, il mondo e la posizione dell’uomo nel mondo sono cambiati così radicalmente che io sono stato costretto a partire dalla verità stessa. Deviare attraverso le opinioni dei filosofi degli ultimi 2500 anni non solo sarebbe stato superfluo ma anche insensato, per non dire immorale. Avrei perso troppo tempo prima di arrivare a esercitare un’influenza sul mondo contemporaneo. Quando le testate nucleari si accumulano, non ci si può fermare a spiegare l’Etica Nicomachea. La comicità del novanta per cento della filosofia odierna è insuperabile. Le critiche che mi sono state rivolte per il modo ‘immediato’ del mio fare filosofia, come se i diecimila libri dei miei avi non fossero esistiti, e perché io non avevo saccheggiato quei tesori, non mi toccano molto. Io uso il mondo stesso come libro, e siccome è ‘scritto’ in una lingua quasi incomprensibile, cerco di tradurlo in un linguaggio comprensibile e forte».31
Sul terreno etico-politico e antropologico una ben diversa risposta, rispetto a quella fornita qui da Anders, è venuta dal dibattito suscitato dalla cosiddetta Rehabilitierung der praktischen Philosophie che in Germania, nella seconda metà del XX secolo, ha trovato in autori come Aristotele e Kant riferimenti fondamentali.32
Ora, proprio Aristotele nell’Etica Nicomachea ci ricorda, sia pure in riferimento a tutt’altro contesto storico-epocale rispetto al nostro: «A poca cosa si riducono […] le amicizie e il giusto (ai philíai kaì tò díkaion) nelle tirannidi; nelle democrazie, invece, la loro importanza è grande, giacché molte sono le cose comuni a coloro che sono uguali (pollà gàr tà koinà ísois oûsin)» (Eth. Nic., VIII, 13, 1161 b 8-10; EZA 748-749).
Oggi la minaccia concerne il Tutto del mondeggiare del mondo, del coseggiare della cosa e dell’umanità dell’uomo; il compito urgente del pensiero, forse sempre più disperato, riguarda la cura del Tutto.
In tempi remoti, con un detto memorabile il cui valore profetico e ammonitore risuona oggi con ancor più forza di quando fu pronunciato, scrisse Periandro corinzio, uno dei sette sapienti dell’antica Grecia: meléta tò pân (abbi cura del Tutto).
Il detto fu valorizzato e commentato da par suo già nei Grundbegriffe, un corso di lezioni che Martin Heidegger tenne a Freiburg nel semestre estivo del 1941.33
Diventa decisiva la riflessione su ciò che è comune (tò koinón), sul bene comune che deve essere condiviso e fruito equamente da tutti, non rapinato, saccheggiato, privatizzato, degradato come sta avvenendo sotto i nostri occhi secondo le modalità proprie della perversa forma attuale della cosiddetta globalizzazione.
Il mondo odierno vive un disagio e uno smarrimento enormi, una profonda crisi, un termine abusato e piuttosto logoro, ma che esprime innanzitutto una devastante sfiducia nell’uomo, nella possibilità di una nuova civiltà e di una nuova umanità.
Abbiamo invece un bisogno estremo di ritrovare fiducia in noi stessi, negli altri e nelle inedite possibilità umane. Seguiamo ancora le fertili indicazioni di Kracauer: «Come il vero amore, l’amicizia dona fiducia dell’uomo. Essa rimane sempre un luogo in cui rifugiarsi quando la sventura si abbatte sull’individuo e questi viene abbandonato da tutti. Appoggiandosi all’amico egli può e anzi deve risollevarsi, imparando ogni volta attraverso di lui a credere di nuovo negli uomini. Finché il suo essere può riscaldarsi al calore di un altro, l’estrema amarezza che rende insensibili non ha potere su di lui. L’amicizia allarga lo spirito».34
Come abbiamo mostrato sopra, Aristotele pone in evidenza il fatto che molte sono le cose comuni a coloro che sono eguali: ciò sembra anche nella situazione attuale il manifesto di un nuovo pensiero che, dismesse le vecchie armature ideologiche, ha responsabilmente a cuore il destino della civiltà planetaria, la cura del Tutto, la salvaguardia della terra, dell’umanità dell’uomo, del mondeggiare del mondo, del coseggiare delle cose. Esso ha a cuore, in altre parole, la verità, un termine che oggi non gode di buona fortuna nemmeno in molti ambienti filosofici e accademici ufficiali.
Noi non sappiamo se questo nuovo pensiero potrà radicarsi ed esercitare un’influenza effettiva sul corso del mondo oppure se resterà un reperto archeologico del mondo accademico e teorico, senza alcuna possibilità di incidenza nel mondo reale. Sappiamo però con certezza – come abbiamo cercato di mostrare in queste pagine – che pure Aristotele può aiutarci nella direzione del consolidamento di un pensiero caratterizzato dalla passione per la verità e rivolto alla cura del Tutto.

Franco Toscani

 

Il saggio è stato pubblicato su Koiné, Periodico culturale , Anno XVIII  –  NN° 1-3,  Gennaio-Giugno 2011, pp. 149-167.

Note

1 Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, I, 3, 1095 b 14-22, in Etiche. Etica Eudemea, Etica Nicomachea, Grande Etica, a cura di L. Caiani, «Introduzione» di F. Adorno, Utet, Torino 1996 (d’ora in poi citata con la sigla ECA), p. 195. Sul problema dei tre tipi fondamentali di vita, cfr. l’«Introduzione» di F. Adorno, pp. 15-16.

2 Su tale rapporto s’interroga lucidamente anche Claudio Mazzarelli nella sua «Introduzione» ad Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1979 (d’ora in poi citata con la sigla EMA), pp. 7-10.

3 Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 3, 1139 b 20; VI, 4, 1140 a 1; VI, 4, 1140 a 13, a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1998, 2 voll. (d’ora in poi riportata con la sigla EZA), vol. II, pp. 590-593.

4 F. Trabattoni, Platone, Carocci, Roma 2009, p. 109.

5 Favorevole alla tesi del primato della politica sull’etica nello Stagirita è invece G. Mari nel suo Pedagogia in prospettiva aristotelica, «Prefazione» di G. Vico, La Scuola, Brescia 2007, p. 26.

6 R.A. Gauthier-J.Y. Jolif, Aristote. L’Éthique à Nicomaque, Introduction, traduction et commentaire, 4 voll., Paris-Louvain 1970, II, 1, pp. 11-12.

7 Cfr. Eth. Nic., IX, 9, 1169 b 18-19; I, 5, 1097 b 8-11; EMA 24, 398; Eth. Eud., VII, 10, 1242 a 24-25; ECA 15, 161; Pol., I, 2, 1253 a 2-3; Pol., III, 6, 1278 b 21, in Aristotele, Opere. Politica, Trattato sull’economia, vol. IX, trad. it. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1983 (d’ora in poi cit. con la sigla PLA), p. 6 e p. 82.

8 K. Marx, Einleitung zur Kritik der politischen Oekonomie (1857), trad. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Introduzione a ‘Per la critica dell’economia politica’, in K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, I, 2, Appendici, trad. it. di E. Cantimori Mezzomonti, B. Maffi e G. Backhaus, Einaudi, Torino 1975, p. 1142.

9 Secondo Giuseppe Mari, l’attenzione specifica all’agire rende il pensiero aristotelico assai fruibile anche in un’ottica pedagogica. Cfr. G. Mari, Pedagogia in prospettiva aristotelica, cit., p. 61.

10 Sull’idea di bene o di “buono” in Platone, cfr. M. Vegetti, «Il ‘buono’ e l’‘uno’», in Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003, pp. 224-231.

11 C. Mazzarelli, «Introduzione», in Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 39. Cfr. anche Platone, Filebo, a cura di C. Mazzarelli, Marietti, Torino 1975.

12 Sul tema del piacere in Aristotele si veda fra l’altro: A.-J. Festugière (Introduction, traduction et notes), Aristote. Le plaisir (Eth. Nic. VII 11-14, X 1-5), Paris 1936; J. Léonard, Le bonheur chez Aristote, Académie Royale de Belgique, Bruxelles 1948; G. Lieberg, Die Lehre von der Lust in den Ethiken des Aristoteles («Zetemata», Heft 19), München 1958.

13 G. E. Lessing, Ernst und Falk. Gespräche für Freimäurer (1778-1780), Ernst e Falk. Dialoghi per massoni, in G. E. Lessing, Opere filosofiche, a cura di G. Ghia, Utet, Torino 2006, p. 664.

14 ECA, p. 404, n. 1. Cfr. anche Reth., II, 4, 1381 b 26-27: «noi amiamo tutti coloro che ricambiano pienamente ai loro amici amicizia con amicizia».

15 S. Kracauer, Ueber die Freundschaft (1917-1918); trad. it. di L. Portesio, Sull’amicizia, «Postfazione» di K. Witte, Marietti, Genova 1989, p. 11.

16 Cfr. Eth. Nic., IX, 6, 1167 b 2-4; EZA 792-793; sulla omónoia cfr. anche Eth. Nic., VIII, 1, 1155 a 24-26; su benevolenza e concordia si veda anche Eth. Eud., VII, 7, 1241 a 1-35; ECA 157-158. Com’è noto, pure il libro VII dell’Etica Eudemia è dedicato all’amicizia (ECA 136-175).

17 A proposito del libro VIII dell’opera si veda fra l’altro L. Ollé-Laprune, Aristote. Morale à Nicomaque, livre VIII, Paris 1886; in particolare, cfr. p. 143, per ciò che riguarda il capitolo 3, le fini considerazioni dell’autore sull’impiego dei verbi phileîn, agapân e stérgein per denotare l’amore nelle differenti forme aristoteliche di amicizia; cfr. anche il commento di Zanatta, in EZA 998-999.

18 Su di essa si veda E. Pulcini, Invidia. La passione triste, Il Mulino, Bologna 2011.

19 Su questo aspetto fondamentale si veda il commento di R. A. Gauthier – J. Y. Jolif, op. cit., II, 2, p. 676.

20 S. Kracauer, Ueber die Freundschaft (1917-1918), trad. it. cit., Sull’amicizia, p. 33.

21 G. Agamben, L’amico, nottetempo, Roma 2007, p. 19.

22 R. A. Gauthier-J. Y. Jolif, op. cit., II, 2, p. 690.

23 Cfr. J. Tricot, Aristote. Éthique à Nicomaque (Introduction, traduction, notes et index), Paris 1967, p. 403, n. 3; L. Robin, Aristote, Paris 1944, p. 244; EZA 1015, 1031.

24 Di un egoismo «sano, naturale, necessario, irrinunciabile, identico alla vita» parla anche Ludwig Feuerbach nel suo ultimo scritto del 1868 Zur Moralphilosophie. Cfr. L. Feuerbach, Etica e felicità, a cura di F. Andolfi, Guerini e Associati, Milano 1992, p. 46.

25 Sull’etica buddhista si veda fra l’altro G. Pasqualotto, Fondamenti dell’etica buddhista, «Dharma. Trimestrale di buddhismo per la pratica e il dialogo», n. 5, aprile 2001, pp. 48-54.

26 Cfr. F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra (1883-1885), trad. it. di S. Giametta, Così parlò Zarathustra, a cura di G. Pasqualotto, Rizzoli, Milano 1985, pp. 92-97. Su queste stesse tematiche rinvio a F. Toscani, L’etica del soggiorno e il problema dell’identità, «Testimonianze» n. 432, novembre-dicembre 2003, pp. 26-32.

27 B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Utet, Torino 1972, pp. 281-282.

28 G. Agamben, L’amico, nottetempo, Roma 2007, pp. 16-17.

29 S. Kracauer, Das zeugende Gespräch (Il dialogo fecondo,1923); trad. it. cit., Sull’amicizia, p. 80. Cfr. anche p. 47.

30 Cfr. Metaph., XII, 7, 1072 b 14-18, 25, in Aristotele, Metafisica, a cura di C. A. Viano, Utet, Torino 2002, pp. 511-512; cfr. anche Eth. Eud., VII, 12, 1245 b 14-19; ECA 172-173.

31 G. Anders, Wenn ich verzweifelt bin, was geht’s mich an? (1979), in Id.,Opinioni di un eretico, trad. it. di R. Callori, «Presentazione» di S. Velotti, Edizioni Theoria, Roma-Napoli 1991, pp. 81-82.

32 Su di essa si veda fra l’altro: AA.VV., Rehabilitierung der praktischen Philosophie, a cura di M. Riedel, 2 voll., Rombach, Freiburg 1972-74; F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in AA. VV., Filosofia pratica e scienza politica, a cura di C. Pacchiani, Francisci, Abano Terme (Padova) 1980, pp. 11-97; Id., Heidegger e Aristotele, Daphne, Padova 1984 (ripubblicato con «Prefazione» di E. Berti, Laterza, Roma-Bari 2010); Id., La riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella crisi della modernità, “Il Mulino” n. 35, 1986, pp. 928-949; Id., Tra Aristotele e Kant: orizzonti, prospettive e limiti del dibattito sulla ‘riabilitazione della filosofia pratica’, in AA.VV., Teorie etiche contemporanee, a cura di C. A. Viano, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 128-148.

33 Cfr. M. Heidegger, Grundbegriffe ( Sommersemester 1941), Herausgeberin P. Jaeger, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1981 (vol. LI della Gesamtausgabe); trad. it., Concetti fondamentali, a cura di F. Camera, il melangolo, Genova 1989.

34 S. Kracauer, Ueber die Freundschaft (1917-1918); trad. it. cit., Sull’amicizia, p. 42.

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Claudio Lucchini – Alcune riflessioni sulle nozioni di felicità e di natura umana nel pensiero di Luca Grecchi.

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Esaminando le caratteristiche peculiari di quel processo di «razionalizzazione irrazionale» che è venuto via via imponendosi nella contemporaneità capitalistica, dissociando infine «la ragione dal valore degli scopi della esistenza umana»,1 Massimo Bontempelli ha cura di evidenziare il nesso che intercorre tra un siffatto paradigma di razionalità e l’ipostatizzazione storico-sociale della categoria ontologica del mezzo: «Nell’universo tecnico la razionalità non può che non avere scopi, ed essere perciò irrazionale, in quanto la tecnica appartiene per definizione alla sfera dei mezzi, non degli scopi. Finché dunque la tecnica è subordinata ad altre istanze sociali, essa è ancora compatibile con una razionalità connessa a scopi. Ma in un universo tecnico lo scopo è lo stesso apparato scientifico-tecnologico, cioè un mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo. Inoltre il nostro universo è anche un universo di merci, e la circolazione delle merci ha come scopo l’accrescimento senza limite del denaro, che è un altro mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo [ossia il suo valere come strumento indispensabile per una cieca affermazione di potenza nel contesto di una società dominata dalle strategie della lotta intercapitalistica nelle sue molteplici dimensioni economiche, politiche, culturali]».2
Sono le modalità sociali attuali, scrive a sua volta Luca Grecchi in pagine di spiccata intelligenza filosofica, a costituire il terreno più fecondo per una simile relativizzazione strumentalistica e nichilistica del valore e del senso del nostro esistere, sollecitando il generalizzarsi intensivo ed estensivo di quella crematistica per la quale si viene gravemente intorbidando l’«originario fiume umanistico» che percorre dall’inizio la storia degli uomini e reca con sé un’essenziale riferimento alla dimensione razionale, morale e comunitaria delle migliori potenzialità della natura umana.3 Se la “regola d’oro” (non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, o, positivamente, fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te) è il «principale comune denominatore, attraverso i secoli e le civiltà» di tale fiume,4 la “regola di latta” è l’espressione quintessenziale del suo contraltare dialettico, negatore e spregiatore, in nome di un cieco utilitarismo individualistico, della pienezza di un contesto di vita eticamente realizzato.5 «Nel clima antiumanistico oggi dominante rappresentato dalla regola di latta – sostiene dunque Grecchi –, l’individuo si percepisce come un atomo isolato dagli altri, e relazionantesi ad essi solo tramite un rapporto strumentale. Quando domina una simile regola, per ciascuno gli altri uomini rappresentano solo dei mezzi necessari al raggiungimento del fine della massimizzazione della propria utilità, ed il pensiero è ritenuto anch’esso soltanto o una modalità in tal senso persuasiva (relativismo, retorica, ecc.), o una modalità strumentale al raggiungimento di un determinato fine (pragmatismo, ecc.). È evidente però come tale regola costituisca solo il risultato di modalità di vita inumane, in cui all’uomo rimane sconosciuta, e dunque impedita, la propria vera essenza, e con essa la comprensione della necessità della sua cura per il raggiungimento di una condizione di felicità».6
L’incessante rinvio di Grecchi a quelle forme storicamente determinate della riproduzione sociale complessiva che inibiscono il ricco sviluppo delle possibilità ontologiche più alte del genere umano, distinguono radicalmente le sue posizioni da quelle – pur tra loro differenziate – diagnosi sui mali del nostro tempo, tendenti a ravvisare nel puro e semplice dominio della tecnica la fonte principale della relativizzazione nichilistica oggi imperante. L’enfasi sulla «centralità della tecnica» quale connotazione essenziale della società e della cultura occidentali finisce infatti col misconoscere una ben più decisiva centralità, quella del modo capitalistico di produzione, la cui dinamica, afferma correttamente Bontempelli nel suo scritto sopra citato, è invece l’unica a poter rendere compiutamente conto della «proliferazione tendenzialmente infinita delle tecniche, e [della] progressiva tecnicizzazione di ogni spazio umano».7 «Indicare la tecnica come essenza dell’Occidente» (e, in prospettiva, per il tramite del mondializzarsi dell’economia e della cultura occidentali, del mondo intero) equivale perciò, commenta ulteriormente Grecchi, ad indicare non «il fenomeno reale, ma solo la sua ombra, e questo comporta indubbiamente dei vantaggi a quegli interpreti che non vogliono inimicarsi troppo le strutture oggi dominanti. Il fenomeno reale è infatti il modo di produzione capitalistico con tutto il suo portato di ingiustizia, sopraffazione e sofferenza, di cui la tecnica capitalistica costituisce semplicemente l’apparato di funzionamento».8
Checché ne dicano Heidegger, Severino o Galimberti, la causa principale della tecnicizzazione vieppiù accresciuta dell’economia e dell’ambiente umano di vita non è dunque certamente da ricercarsi «nella struttura autoincrementativa dell’apparato tecnico», ma, in maniera ben più convincente, «nelle finalità e nelle strutture del modo di produzione sociale» che nella nostra epoca tende ad imporsi su scala globale, determinando «la derealizzazione della vera natura dell’uomo. È infatti la brama del massimo profitto (non l’incremento dell’Apparato tecnico) che conduce alle guerre ed alle attuali modalità della produzione e della distribuzione di beni e servizi. È tale esasperata brama che spezza tuttora il pianeta in ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati, integrati ed emarginati, e che pone l’alienazione come unica (ma indesiderabile) forma di eguagliamento universale. Si tratta forse di una lettura datata o retrò? Può essere, ma finché di questa lettura non verrà data una seria confutazione (ed, a nostra conoscenza, essa non è stata data), continueremo a considerare il modo di produzione capitalistico, e non la tecnica, come il cuore pulsante dell’attuale Occidente».9
Respinta una simile analisi dei guasti prodotti dalle vicende della metafisica occidentale, la quale dovrebbe appunto esprimere la sua natura nichilistica – o, se si preferisce, la sua “follia” – nel dominio planetario della tecnica, e denunciati con altrettanta forza, sulla scorta soprattutto degli studi critici di Domenico Losurdo, i tratti disumanizzanti del pensiero liberale, teoreticamente e storicamente contiguo all’atomizzazione mercificante della crematistica capitalistica,10 Grecchi sostiene risolutamente la necessità inderogabile di recuperare quella che gli appare essere l’insuperata lezione umanistica della grande filosofia greca. È stato infatti Platone, egli precisa, ad aver per primo compreso che l’essere umano «è nella sua essenza un ente razionale, morale e simbolico»,11 portatore dunque di contenuti «che purtroppo la contemporaneità ha rimosso, sfavorendone una effettiva realizzazione e condannando l’uomo all’infelicità».12 Il vero bene dell’umanità consiste infatti, secondo il decisivo insegnamento platonico e aristotelico, nella costituzione storica di un tessuto comunitario del vivere sociale che stimoli positivamente nei singoli l’attuarsi di un equilibrio armonico delle tre componenti suddette della natura umana: la razionalità – intesa soprattutto come ricerca sui significati delle cose in funzione del loro miglior utilizzo per una compiuta realizzazione etico-sociale –,13 la quale «consente di comprendere gli uomini e il mondo, nonché la corretta misura dell’approccio di ogni uomo al mondo»;14 la moralità, nella sua triplice articolazione di affetto, comunitarietà e amore,15 che «consente di rapportarsi al mondo in maniera consapevole, e di incarnare adeguati comportamenti di vita»;16 la simbolicità, che permette invece «di arricchire il proprio approccio esistenziale tenendo conto della ambivalenza dei contenuti che inevitabilmente ci si pongono innanzi».17
L’ostilità costantemente risorgente nella storia contro la possibilità medesima di definire teoreticamente sia le migliori potenzialità dell’uomo sia quella loro proporzionata ed equilibrata combinazione in cui va ravvisata, come si è detto, l’autentica felicità degli esseri umani – ostilità particolarmente accentuata nell’epoca della capillare mercificazione degli ambiti di vita e della relativizzazione consumistico-capitalistica di comportamenti, bisogni, scopi –, deve ricondursi, a parere di Grecchi, ad un duplice ordine di fattori tra loro connessi, il primo di natura antropologica, il secondo di carattere storico-sociale. «Il motivo di ordine antropologico concerne il fatto che l’uomo, come è noto, è il solo fra gli esseri viventi ad essere pienamente consapevole della propria condizione mortale. […] Proprio per l’angoscia che il tema della morte pone innanzi, l’uomo che non sa vivere in buona armonia con se stesso e col mondo tende ad identificare con la morte, ed a temere, tutto ciò che si rapporta a lui come un limite, come una chiusura. In questo senso ogni stabile definizione, ed in particolare ogni sistema di pensiero, tendono a rappresentare all’uomo la dimensione finita dell’esistenza. È anche per questo che tali tematiche sono così spesso state trascurate, rimosse e addirittura combattute nella storia del pensiero filosofico. La de-finizione essenziale dell’uomo, in particolare, è il tema che più appare come una chiusura di orizzonti di vita. Per questo il pensiero filosofico, scientifico, psicologico, letterario, poetico e artistico in genere ha sempre insistito sulla profondità insondabile dell’anima umana (la originaria tesi di Eraclito), e mai sulla struttura essenziale dell’anima stessa, mostrando nei confronti di questo tema un claustrofobico timore».18 L’angoscia antropologicamente connotata nei confronti del proprio morire è stata potentemente accentuata, nel corso della storia, dalle concrete modalità in cui si è venuta articolando la costituzione e la riproduzione della vita della società: le attuali modalità sociali infatti, ribadisce ancora una volta Grecchi, «svuotando di umanità la vita, hanno sempre più lasciato l’uomo in balia del proprio connaturato timore della morte».19
L’esplicita preferenza accordata «al pensiero filosofico greco, che faceva della cura dell’anima e dell’apertura alla vita i propri capisaldi»,20 conduce l’analisi grecchiana a ritenere portatore di indebito riduzionismo qualunque tentativo di mediare una prospettiva onto-assiologica di natura filosofica con gli apporti di una ricerca scientifica volta a chiarire i presupposti biologico-evolutivi del vario complesso di facoltà cognitive ed emozionali umane interagenti nelle concrete risposte etiche elaborate nella densa problematicità dialettica dei processi storici. Il nostro autore, a dimostrazione della validità di ciò che afferma, porta come esempio «un comportamento molto noto, quello di Socrate. Egli, pur ingiustamente condannato per empietà dagli ateniesi, decise di rimanere in cella e di bere la cicuta, nonostante la possibilità di fuga che gli fu apertamente prospettata da alcuni amici. Dobbiamo allora chiederci: Socrate decise forse di rimanere in cella a morire perché i suoi neuroni gli bloccarono le gambe? Niente affatto. Egli prese consapevolmente questa decisione in quanto comprese che la conformità agli ideali che aveva sempre sostenuto non gli avrebbe reso possibile vivere evitando il dialogo filosofico, come invece il tribunale ateniese gli imponeva. […] La biografia di Socrate mostra dunque che le questioni del senso della vita, ossia quelle che più influenzano la felicità, non si determinano sul riduttivo piano biologico, ma sul più complessivo piano umano (o filosofico)».21 Il che, se è vero qualora si pretenda di rintracciare a livello del mero scorrimento della processualità naturale la chiave per interpretare in modo ontologicamente corretto le fondamentali questioni etico-sociali umane, non toglie affatto che solo a partire da una determinata dotazione biologica (evolutivamente sviluppatasi al di fuori di ogni teleologia unitariamente operante nel corso spontaneo della natura) divenga possibile l’apertura alla storicità e alla stessa problematizzazione critica di stampo filosofico ed etico. Il rinvio alle zone cerebrali che controllano il movimento, nel contesto dell’esempio portato da Grecchi, non pare molto ben scelto. Non appena, infatti, si ponga mente al nesso che recenti studi – per fare solo un semplice esempio – hanno mostrato sussistere tra lo sviluppo dell’intelligenza sociale e la facoltà umana di metarappresentazione, l’influsso coevolutivo del linguaggio e delle sue strutture sintattiche completive su di essa, l’accesso conseguente ad una capacità di tematizzazione estesa di alternative possibili e di riflessione (entro certi limiti) autocosciente – tutto ciò ovviamente associato al possesso innato di una serie di inclinazioni empatico-simpatetiche, altruistiche, cooperative, ecc. –,22 appare chiaro come Socrate neppure si sarebbe potuto mentalmente figurare il problema che si è posto se non avesse posseduto un ventaglio articolato e innato (di nuovo, nel senso di evolutivamente formatosi, attraverso exaptation, tramite l’agire da bricoleur della selezione naturale) di facoltà e predisposizioni biologicamente determinate, le quali si manifestano e si sviluppano mediandosi concretamente coi processi storici in atto. Come scrive assai correttamente Edoardo Boncinelli, la nozione umana di male (e del suo correlativo, il bene) può svilupparsi solo in riferimento alla «capacità di confrontare una serie di circostanze con le loro capacità alternative, compiendo un’operazione riflessiva e comparativa che negli animali più evoluti è carente e può riguardare al massimo l’immediato presente, ma non il passato. L’uomo al contrario si lamenta, s’infuria, recrimina e rimpiange, almeno a partire da una certa età».23 Non esiste quindi alcuna scissione radicale tra determinatezza materiale-naturale e concreta storicità umana, dato che è solo sul fondamento della prima che la seconda può svolgersi ed influire sull’ulteriore vicenda evolutiva della specie, la quale però non può mai rescindere il suo legame con la processualità naturale in cui soltanto le ideazioni e le posizioni teleologiche degli uomini possono formarsi e operare. La moralità umana, pur dotata di una sua indiscutibile specificità, pare dunque essersi costituita a partire da «una base naturale. […] Solo gli esseri umani hanno la capacità di ragionamento morale, sanno interiorizzare i bisogni degli altri e sanno valutarli in modo disinteressato. Ma sia gli esseri umani sia gli altri primati hanno la capacità di aiutare gli altri e di non danneggiarli».24
Si comprende, alla luce di queste pur sommarie considerazioni, come il giusto, incessante rinvio di Grecchi alla natura umana quale fondamento di universale verità etico-sociale possa venire potenziato e non condurre necessariamente ad un volgare riduzionismo scientista in virtù di un processo di acquisizione concretizzante – opportunamente mediato sul piano concettuale – di ciò che la ricerca scientifica, neurobiologica, etologica, ecc. viene via via elaborando; questo, in effetti, sembra poter consentire di determinare con sempre maggior approssimazione la stessa nozione di essenza umana, sottraendola tanto alle secche di un’eccessiva genericità quanto al pericolo di un discontinuismo dualistico, che, nonostante la più volte ribadita unità psicofisica sostenuta dai greci, non può non fare capolino quando le matrici evolutivo-biologiche di fondamentali processi cognitivi ed emozionali non siano minimamente prese in considerazione.
In modo analogo, si possono già individuare da tale insieme di valutazioni i contorni del giudizio che, sia nei suoi aspetti largamente positivi sia in quelli più cautamente critici, può essere formulato a proposito di quello che lo stesso Grecchi afferma essere «il fondamento teorico» delle sue argomentazioni e di tutti i suoi scritti. «In conformità al titolo del nostro primo libro pubblicato, [la struttura metafisica sistematica che abbiamo cercato, in questi anni, di elaborare] pone l’anima umana (l’essenza dell’uomo) come fondamento della verità. Questa struttura parte da un assunto molto semplice, ma fondamentale: poiché la totalità dell’essere (ossia la totalità di ciò che è, e che l’uomo può sempre comprendere e comunicare) è tale, nella sua struttura concettuale, solo in quanto pensabile dall’uomo, ne risulta che l’uomo (e nessun altro ente, poiché l’uomo è il solo ente dotato di questa qualità) è il fondamento dell’essere. Poiché l’uomo, approcciandosi all’essere, sa comprenderne la realtà solo quando può relazionarsi all’intero mediante la propria essenza razionale, morale e simbolica (anima), ne risulta che l’anima umana è il solo fondamento della realtà dell’essere. Se si accettano queste assunzioni, si deve necessariamente addivenire ad una conclusione: che l’uomo è il solo ente in grado di attribuire significato all’essere, e che tale significato, se elaborato dalle componenti universali dell’uomo, può assumere valore di verità assoluto».25
Grecchi ha certamente ragione, nella sua duplice battaglia contro il relativismo nichilistico e le modalità sociali che potentemente lo favoriscono, a sottolineare la possibilità dell’uomo di porsi come fondamento di una verità oggettiva. Chi scrive, però, è disposto a seguirlo solo qualora si espliciti che questa verità processualmente universalizzabile non può essere altro che la verità etico-umana, risultato di processi riflessivo-ideativi e di atti teleologici del porre che non possono sussistere svincolati da quella base naturale-materiale – di per sé indifferente ad ogni scopo umano – nella quale soltanto si radica, in ultima istanza, il loro poter essere. Che ad un certo punto del processo evolutivo si costituisca, al di fuori di ogni predeterminata direzione finalistica, un ente capace di attività teleologica e progettuale, dotata di struttura alternativa ed (entro certi limiti) autocosciente, non significa affatto che il divenire storico che ne consegue e la sua oggettiva dialettica di senso riducano effettivamente a sé la totalità (estensiva ed intensiva) della realtà naturale, la quale, nello spontaneo svolgersi delle sue legalità e dei suoi processi, resta rigorosamente ateleologica. È quanto sostiene ripetutamente György Lukács nel suo approccio ontologico-materialistico all’essere sociale, rimarcando per esempio sia il costante risorgere di alternative nello svolgimento processuale della prassi umana,26 sia gli ineliminabili fattori causali che interferiscono con i processi storici («E se ora io mi rifaccio alle più alte forme di unità del reale ritorno [al seguente fatto]: la natura – tanto la natura organica quanto quella inorganica – si svolge secondo la propria dialettica e si realizza indipendentemente dalle posizioni teleologiche dell’uomo. Così la costituzione fisiologica dell’uomo e anche il suo destino psicologico dipendono, socialmente parlando, dal caso. Marx osserva giustamente a questo proposito che dipende appunto dal caso se una determinata situazione rivoluzionaria trova a capo della classe operaia un certo individuo, sebbene ciò non sia già più una circostanza meramente fisiologica o psicologica. In ogni caso rimane un residuo ineliminabile di casualità che scaturisce però dal corso meramente causale degli eventi naturali»).27
Non già, beninteso, che tali considerazioni vanifichino l’intelligente correlazione posta da Grecchi tra definizione della natura umana ed affermazione di un universalismo etico-politico fortemente polemico con le forme sociali attuali e con le loro ideologie relativistico-nichilistiche; soltanto, almeno così sembra a me, possono inquadrarla in una più convincente totalità concettuale concreta, e problematizzarla, ancorandola ad un’ineliminabile condizione di finitezza materiale, al di fuori di qualsiasi tentazione meramente pragmatica, ermeneutica, ecc., insomma al di fuori di correnti di pensiero che possano legittimare direttamente o indirettamente la prassi manipolatoria oggi imperante. Si pensi, in merito a ciò, al modo in cui le precisazioni ontologiche testé esposte possono contribuire a rendere più determinata – sempre ovviamente a parere dello scrivente – l’importante questione affrontata da Grecchi circa il carattere «stabile» di una felicità scaturente da un’avveduta consapevolezza filosofica. Rifacendosi nuovamente al grande pensiero platonico e aristotelico, il nostro autore sostiene infatti che «la felicità è la stabile condizione di chi vive la propria compiutezza umana anche contro, se necessario, le modalità sociali esistenti; l’infelicità è invece la condizione di profonda tristezza di chi non vive la propria compiutezza umana, non riuscendo peraltro nemmeno ad adeguarsi in maniera efficace alle modalità sociali esistenti; la condizione di serenità, che costituisce appunto un mixtum, è invece la condizione di chi, pur non vivendo pienamente la propria compiutezza umana, sa almeno conformarsi alle modalità sociali esistenti, apparentemente senza sofferenza».28 La filosofia greca, in altri termini, pensava correttamente «la felicità come lo stabile raggiungimento, dopo una adeguata ricerca, di una condizione di compiutezza dell’uomo. Da tale condizione indubbiamente, in alcuni momenti, era possibile anche degradare, ma sempre fermo restando il fatto che, una volta compresa e assaporata, la felicità diventava una condizione nella sua essenza non obliabile né perdibile. Contrariamente al possesso di beni esteriori, infatti, la felicità era costituita da una stabile conoscenza dell’uomo e del mondo, che si deposita nell’anima in maniera permanente. Per i Greci, dunque, la felicità non era questione di picchi da mantenere e da innalzare continuamente, come accade oggi per i grafici che indicano i profitti delle aziende. Essa era una condizione di armonica apertura alla vita (harmonìa) che può essere tale solo nella incarnazione di rapporti affettivi e comunitari».29 Ovviamente Grecchi sa benissimo che un compiuto inveramento delle più essenziali caratteristiche della natura umana non può non essere intralciata e ostacolata, in varia misura e maniera, dal dominio ontologico-sociale delle attuali forme capitalistiche di vita; per tal ragione egli, respinto ogni mortificante adattamento del progetto di vita di ciascuno alle coordinate sociali esistenti, e ribadito, di contro alla quasi totalità del pensiero contemporaneo, l’insopprimibile legame ontologico intercorrente tra l’essenza dell’uomo e il pieno dispiegarsi di un’esistenza umana felice, afferma la necessità di «rimarcare che chi consapevolmente cerca di realizzare grandi progetti di vera umanità, analizzando dapprima se stesso ed il mondo, difficilmente si illude che gli stessi possano compiutamente realizzarsi in queste modalità di vita. È anzi molto fermo nella conoscenza della quasi impossibilità di riuscire a mutare in meglio la situazione. Costui, dunque, in realtà non si illude, e pertanto non può, più di tanto, né deludersi né soffrire. La sofferenza gli deriverebbe, invece, dal non aver tentato i propri grandi progetti, il proprio sogno, la realizzazione della propria umanità in un determinato campo della vita».30
Nuovamente, se, da un lato, non si possono non sottolineare le profonde ragioni e la profonda validità teoretica della concezione ontologica della felicità proposta da Grecchi, dall’altro pare indispensabile, rispetto a quest’ultima, formulare talune precisazioni nei termini di una ontologia sobriamente materialistica. Non v’è dubbio che la felicità, quanto al suo nucleo concettuale centrale, sia in un certo senso stabile, una volta che la si intenda come un complesso di capacità, sviluppate a partire dalle più alte potenzialità della natura umana (quelle, in altri termini, concorrenti a realizzare la consapevole «genericità per sé» degli esseri umani) e universalizzabili sulla base della comune dotazione cognitiva ed emozionale della specie. Ma poiché l’intrascendibile radicamento materiale cui sono sottoposti i processi ideativo-riflessivi e gli atti del porre teleologico mediante i quali viene storicamente sostanziandosi l’autocoscienza umana, pongono sempre di nuovo gli uomini di fronte a scelte e decisioni alternative, la cui natura può costituire peraltro un essenziale terreno di ulteriore sviluppo concreto della riflessione autocosciente della specie, l’universalità della felicità e del bene umano non può che assumere la forma essenziale del processo determinato, dell’incessante – ma non relativistico perché ontologicamente fondato – lavorìo problematizzante e riflessivo, aperto a più profonde e circostanziate determinazioni: così, per esempio, il giusto richiamo alla misura cui deve essere sottoposta ogni prassi produttiva trasformatrice della natura, viene innervata di concreti contenuti oggettivamente (approssimativamente) validi dalla riflessione sorta storicamente dai problemi ecologici e antropologici generati da una dissennata accumulazione di beni in forma di merce. La felicità, nella sua maggiore o minore compiutezza, è sempre, in altri termini, l’esisto di disposizioni etiche, di abiti morali fondati sullo sviluppo concreto della propria autocoscienza umano-generica, disposizioni e abiti i quali devono sempre di nuovo rispondere alle risorgenti alternative poste dai processi reali; nel far ciò, essi devono dar prova di saper effettivamente perseguire, senza alcuna aprioristica garanzia e nei limiti di condizioni oggettive non tutte necessariamente conosciute o controllabili, lo scopo di arricchire e sviluppare la più vera (la migliore possibile) umanità dell’uomo (tesi, quest’ultima, su cui, lo ripetiamo, Grecchi ha totalmente ragione). Questo complesso problematico, peraltro, non è certo ignoto al pensiero grecchiano, che pure non sempre considera a dovere la dimensione ontologicamente processuale del bene umano rispetto alle possibilità di concretizzazione universalistica del suo concetto; in un passo assai bello, il nostro autore scrive molto efficacemente: «Così descritto, il tema morale sembra molto facile da sviluppare, ma tale in realtà non è, e ciò non va nascosto. È infatti estremamente problematico – questo il dramma della condizione umana – decidere in concreto le scelte migliori da attuare: destinare il proprio tempo e le proprie risorse ad un’attività anziché ad un’altra, ad una persona anziché ad un’altra, e così via. Ciò nonostante, in questa problematicità, la centralità della cura dell’anima, propria ed altrui, costituisce una bussola nel lungo termine infallibile».31
In che modo queste importanti affermazioni di Grecchi debbano essere intese, in rapporto alle osservazioni svolte in precedenza, dovrebbe ormai essere chiaro, così come non può non apparire chiaramente a chiunque si confronti con essi l’indiscutibile valore dei testi grecchiani qui esaminati, fecondo terreno di dialogo teorico ispirato ad un’idea profondamente sentita di verità etico-umana senza la quale la filosofia è destinata a diventare futile gioco accademico o pedestre apologia dell’esistente.

Claudio Lucchini

Il saggio è stato pubblicato su Koiné, Periodico culturale , Anno XVIII  –  NN° 1-3,  Gennaio-Giugno 2011, pp. 221-229.

Note

1 Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, Pistoia, 1998, p. 123.

2 Ibidem.

3 Cfr. Luca Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, Il Prato, Saonara (Pd), 2009, pp. 48-50.

4 Ibidem, p. 50.

5 Ibidem, pp. 50-51.

6 Ibidem, p. 51.

7 Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, op. cit., pp. 130-131.

8 Luca Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, op. cit., pp. 101-102.

9 Ibidem, pp. 104-105.

10 Ibidem, pp. 121-138. Un’efficacissima sintesi delle analisi di Domenico Losurdo è contenuta nel volumetto (da lui medesimo scritto) Il peccato originale del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1998.

11 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, Petite Plaisance, Pistoia, 2005, p. 41.

12 Ibidem, p. 40.

13 Ibidem, p. 41.

14 Ibidem, p. 94.

15 Cfr., in ibidem, p. 43.

16 Ibidem, p. 94.

17 Ibidem.

18 Ibidem, pp. 26-27.

19 Ibidem, p. 27.

20 Ibidem.

21 Ibidem, p. 38.

22 A titolo puramente indicativo, rinviamo per la trattazione di tali questioni al bel libro di Francesco Ferretti, Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana, Laterza, Roma-Bari, 2007; e agli importanti scritti di Frans de Waal, di cui ci limitiamo a menzionare Primati e filosofi. Evoluzione e moralità, Garzanti, Milano, 2008. Un’esposizione sintetica delle argomentazioni di tali autori e una loro discussione critica, inquadrate nel più ampio tentativo di abbozzare un’etica fondata su un’ontologia sociale materialistica, sono contenute nel mio Il bene come processo possibile concreto. Natura umana e ontologia sociale, Mimesis, Milano-Udine, 2010.

23 Edoardo Boncinelli, Il male. Storia naturale e sociale della sofferenza, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2007, p. 6.

24 Vittorio Girotto – Telmo Pievani – Giorgio Vallortigara, Nati per credere, Codice edizioni, Torino, 2008, p. 127.

25 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, op. cit., p. 113.

26 Cfr., a titolo di esempio, quanto Lukács scrive alle pp. 43-45 dell’ Ontologia dell’essere sociale, vol. II, Editori Riuniti, Roma, 1981.

27 Wolfgang Abendroth – Hans Heinz Holz – Leo Kofler, Conversazioni con Lukács, De Donato Editore, Bari, 1968, p. 88.

28 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, op. cit., p. 141.

29 Ibidem, pp. 120-121.

30 Ibidem, pp. 142-143.

31 Ibidem, pp. 44-45.

Il saggio è stato pubblicato su Koiné, Periodico culturale , Anno XVIII  –  NN° 1-3,  Gennaio-Giugno 2011, pp. 149-167.

 

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Antonio Fiocco – Cenni sulla ristrutturazione del sistema orgaizzativo-produttivo d’impresa: da Taylor a Ohno

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Premessa introduttiva

Questo breve saggio fu scritto nel 1994, nella fase epocale in cui, negli ambienti della residua resistenza anti-capitalista, era forte l’interesse per il tramonto del sistema storico di produzione di massa, con la sua determinata organizzazione della società , che consentiva prospettive di moderato miglioramento sociale ed economico (il “Welfare”), e l’evoluzione verso un nuovo scenario, che poi altro non era che l’adeguamento del capitale al suo concetto, e il totale disorientamento che ne conseguì su come riorganizzare una risposta efficace. Il saggio, a fronte dei fiumi d’inchiostro versati in proposito e della confusione che regnava in tal senso, aveva lo scopo di riassumere la questione nei suoi minimi termini. Se si ritiene che questo modesto obbiettivo sia stato forse raggiunto, e per questa ragione queste pagine vengono riproposte, il gigantesco problema che ci si proponeva di contribuire a razionalizzare, vale a dire una adeguata prassi emancipativa dell’essere umano nei confronti della furia crematistica, è a tutt’oggi molto lontano dalla risoluzione (n.d.a.).

Testi di riferimento

Daniel Nelson, Taylor e la rivoluzione manageriale, Einaudi, 1988.
Taiichi Ohno, Lo spirito Toyota, Einaudi, 1993.
Carla Filosa – Gianfranco Pala, Il terzo impero del sole, Synergon, 1992.
Antonio Gramsci, Americanismo e fordismo, Editori Riuniti, 1991.
“Marx Centouno”, n° 15.

Principi di Taylor

L’industria prima di Taylor
L’attività di ingegnere, consulente e inventore di Frederick W. Taylor (1856-1915) si può a grandi linee dividere in tre grandi periodi: fino al 1898 abbiamo una fase di lenta formazione e rivelazione, poi vi fu la grande affermazione fra gli anni 1898-1901 ed infine la rinuncia al lavoro attivo, da parte di Taylor, per fondare, assieme ad alcuni fedelissimi, una scuola di consulenza e di pensiero manageriale, la quale, tramite una accorta ed instancabile opera di autopromozione, avrebbe ben presto diffuso i semi della nuova concezione organizzativa in America e in Europa.
Per comprendere il contesto in cui Taylor formò la sua cultura e iniziò a operare, occorre pensare che a quell’epoca l’industria, in fondo, era ancora un fenomeno recente ed inedito nella storia umana: era cresciuta senza regole, disordinatamente, basandosi su criteri di gestione rozzamente empirici. Era inevitabile che sorgesse – allargandosi sempre più la scala produttiva – il problema di una radicale riorganizzazione.
Nella seconda metà del diciannovesimo secolo le aziende avevano vita breve e afflitta da una brutale competizione. Taylor infatti – appartenente alla aristocrazia quacchera di Filadelfia – si pose come problema fondamentale quello di ridurre i costi e aumentare la produttività delle piccole e media imprese impegnate in un contesto di aspra concorrenza e nutrì sempre una profonda diffidenza – se non ostilità – verso il nascente fenomeno della concentrazione e centralizzazione capitalistica. Disprezzava, inoltre, i capitalisti finanziari, perché costoro, assetati di guadagni immediati, gli impedirono, nelle aziende in cui prestò la sua opera, di realizzare integralmente le sue idee organizzative, la cui applicazione sistematica avrebbe potuto dare i suoi frutti migliori in un periodo più lungo di quanto mai accordatogli. Si potrebbe dire che Taylor sia appartenuto a quelle «potenze mentali della produzione» che secondo Marx avrebbero dovuto congiungersi alla classe operaia per formare quel «lavoratore collettivo», che, a sua volta, avrebbe dovuto costituire il vero soggetto rivoluzionario.
Nell’epoca pre-taylorista l’organizzazione di fabbrica si fondava su due figure-chiave. La prima era il caporeparto, vero dirigente industriale, cui erano delegati il potere e l’autorità e che vigilava a sua discrezione sulla produzione, il controllo qualità, i costi, le assunzioni, i licenziamenti, le promozioni, l’addestramento, la tariffa individuale o il cottimo. La seconda era costituita dagli “appaltatori”, cioè i lavoratori più esperti e fidati, cui erano affidati le materie prime, l’energia e l’attrezzatura e questi producevano a prezzi concordati. «Il loro profitto, la differenza fra il prezzo contrattato e il costo di produzione, dipendeva quindi dalla loro abilità di innovare e controllare i costi; per massimizzarlo essi pretendevano il controllo completo del processo produttivo, compresa la selezione e la direzione della forza lavoro» (D. Nelson, op. cit., pag. 8). Per quanto riguarda i lavoratori, siamo di norma abituati, dall’alto delle conquiste sociali del Novecento, peraltro in via di liquidazione accelerata, a considerare quei tempi come un’epoca di sofferenza indicibile, forse anche influenzati dalle immagini dei film di C. Chaplin, che esprimono potentemente un senso di emarginazione, feroce divisione in classi e sofferenza operaia, ma che comunque si riferiscono a un momento storico già “taylorista”, se pensiamo a Tempi moderni. In realtà, nel periodo in questione, i lavoratori americani formavano una classe combattiva, organizzata in sindacati tutt’altro che arrendevoli o subalterni, anche se, secondo Gramsci, questi erano «più la espressione corporativa della proprietà dei mestieri qualificati che altro […]». Comunque, scioperi, violenze, tensioni, resistenze sistematiche alle pretese dei datori di lavoro erano una costante nella vita sociale degli anni 1880-1890, anche se questa situazione di conflitto non era destinata a durare a lungo. Gli operai si mostravano anche tutt’altro che sprovveduti, perché spesso rifiutavano il cottimo, senza lasciarsi ingannare dall’eventuale maggior guadagno. In particolare, i lavoratori degli impianti governativi di armamenti avevano una tale influenza che nel 1911, tramite i loro rappresentanti al Congresso, fecero presentare un disegno di legge che richiedeva un’indagine sul sistema a incentivi salariali di Taylor. Si sviluppò una controversia che si poté considerare un vero processo allo stesso Taylor e che portò il Congresso, nel 1915, a vietare la pratica dello studio dei tempi (preludio all’introduzione del cottimo, come vedremo) negli impianti dell’esercito. D’altra parte, per la mentalità di Taylor, i sindacati «erano accettabili soltanto se non rivendicavano salari troppo elevati, non organizzavano boicottaggi, non utilizzavano ‘la forza o le minacce’, non forzavano in alcun modo i lavoratori non sindacalizzati, né incoraggiavano la limitazione della produzione» (D. Nelson, op. cit., pag. 146).
Ma esiste un altro aspetto interessante. Di fronte alla necessità di riconsiderare i rapporti con il mondo del lavoro, la stessa classe dirigente era divisa. Da una parte c’erano gli “ingegneri”, sensibili esclusivamente ai problemi produttivi e indifferenti nei confronti delle esigenze dei lavoratori: di essi faceva parte anche Taylor. Gli ingegneri erano convinti che gli operai mirassero esclusivamente a guadagnare di più e potessero essere coinvolti nel soddisfacimento delle esigenze aziendali semplicemente con l’introduzione di salari individuali a cottimo, rendendo residuale la presenza dei sindacati. Ma si sviluppò, per un breve periodo, anche una tendenza che teorizzò e mise in pratica un progetto finalizzato a migliorare le condizioni fisiche e morali dei lavoratori. I fautori di questa tendenza, che fu detta “welfare work”, erano fiduciosi che anche le aziende ne avrebbero tratto beneficio. Il caso più interessante fu quello della National Cash Register Company, un’industria in cui, verso la metà degli anni ’80 del 1800, il proprietario John H. Patterson, introdusse «un articolato programma di assistenza; quest’ultimo, destinato soprattutto alle lavoratrici, comprendeva un programma assicurativo, un reparto per l’assistenza sanitaria, dei bagni, uno spazio pranzo e una ‘sala riposo’ per le donne, una biblioteca e una sala lettura, una Scuola Domenicale, l’organizzazione di un coro e di gruppi musicali, un teatro, un giardino d’infanzia e un circolo per i lavoratori; venne inoltre stabilito che le donne lavorassero soltanto otto ore […]» (D. Nelson, op. cit., pag. 19).

Lo “scientific management”
Ma quali furono, in sintesi, le novità “rivoluzionarie” introdotte da Taylor e dai suoi seguaci, tenendo presente che la base di partenza era la situazione “arcaica” precedentemente descritta?
1) Controllo sugli acquisti e sul magazzino, standardizzazione degli utensili e istituzione di un deposito degli attrezzi. Sviluppo di un sistema contabile più rigoroso e perfezionato.
2) Rigido controllo dall’alto sulla produzione, con l’istituzione di un dipartimento pianificazione separato e deputato a trasmettere le istruzioni, con fogli dettagliati e un apposito nucleo di funzionari.
3) L’introduzione di una nuova figura di caporeparto, con funzione di supervisore e ormai totalmente soggetto agli ordini superiori.
4) Lo studio cronometrico dei tempi medi di produzione per ogni determinato pezzo o di svolgimento di una certa mansione, al fine di applicare il cosidetto cottimo differenziale.
Fu stabilita una tariffa-premio elevata per quei lavoratori che riuscivano a finire un compito assegnato in un tempo stabilito e una tariffa di penalizzazione bassa per tutti gli altri. «Per esempio, su un certo tipo di lavoro l’addetto alla macchina riceveva una tariffa di 50 centesimi per pezzo, e generalmente ne produceva quattro o cinque al giorno. Dopo lo studio dei tempi, Taylor concluse che un operaio avrebbe potuto produrre dieci pezzi al giorno, e stabilì una nuova tariffa di 35 centesimi per pezzo se l’addetto completava dieci pezzi ben fatti al giorno, e di 25 centesimi se completava nove pezzi o meno» (D. Nelson, op. cit., pag. 48).
Questo permetteva di raddoppiare e a volte triplicare la produttività, innalzando i salari in percentuale inferiore. In apparenza il lavoratore era libero di produrre nella stessa quantità di prima, ma in realtà chi non riusciva a guadagnare le tariffe superiori veniva licenziato. Una volta eliminati l’”ozio” e la “pigrizia”, l’azienda disponeva di un gruppo di lavoratori ormai costretti al limite delle capacità umane, in cambio di un salario, in proporzione, inferiore.
La ferocia di questa fase di lotta di classe e di brutale sperimentazione appare evidente nella “riorganizzazione” della Simonds Company, una fabbrica di cuscinetti a sfera, iniziata nel 1896. Per evitare che la fretta di raggiungere la tariffa peggiorasse la qualità del prodotto, il lavoro degli operai fu sottoposto a un controllo ogni 15 minuti e separato rigidamente da quello degli altri. Un campione individualizzato di prodotto veniva inoltre sottoposto giornalmente a un “minuzioso controllo”. Tutto questo in aggiunta alle normali ispezioni preesistenti. La pura e semplice prontezza di riflessi divenne l’unica qualità richiesta, mentre molte lavoratrici, pur «tra le più intelligenti, assidue e di maggior fiducia» (sono parole di Taylor) venivano licenziate. Si tratta niente di meno che del passaggio cruciale dalla figura dell’operaio professionale a quella di operaiomassa, passaggio osservato da Gramsci in Americanismo e fordismo. Appare chiaro come questa moltiplicazione della produttività e del saggio di profitto potessero dare un grande vantaggio alle aziende che adottavano questo sistema di organizzazione rispetto alle altre.
Peraltro, come a dire che la mistificazione ideologico-demagogica non è una prerogativa della nostra epoca post-moderna, negli ultimi anni della sua vita Taylor poté passare per un illuminato riformatore della società. Infatti, nel periodo precedente la prima guerra mondiale, fu attivo negli U.S.A. un movimento ”progressista”, che interessò l’opinione pubblica contro i mali della società, identificati non nel modo di produzione capitalista, bensì negli sprechi e nell’inefficienza del sistema economico, i quali dovevano essere rimossi senza mettere in discussione, naturalmente, i fondamenti politico-economici della società stessa. Questo movimento, dunque, ben si sposò con l’ideologia dello “scientific management” taylorista- complice l’interesse di Taylor a diffondere i suoi principi manageriali – cioè un tipo di gestione considerato applicabile in tutte le istituzioni e in tutti gli ambiti della società. I “tecnici”, pragmatici e apolitici, con la loro conoscenza scientifica rivolta a scopi concreti, avrebbero risolto tutti i mali e le contraddizioni del mondo moderno. Certo si era ancora molto lontani dal concepire apertamente lo Stato come un’azienda e la politica come economia…

Lo spirito Toyota

Il toyotismo: le origini
Per comodità di linguaggio si userà l’ormai invalso termine di “toyotismo”, per quanto, limitatamente all’organizzazione di fabbrica in senso stretto, sarebbe più corretto parlare di “ohnismo”. Comunemente si ritiene che il cosidetto toyotismo sia di molto posteriore al fordismo-taylorismo e sia il frutto di un recente ripensamento del modello di produzione industriale. In realtà non è così.
Certamente fu la crisi petrolifera del 1973, con il crollo del mercato mondiale dell’automobile, a proiettare il “modello giapponese” verso la diffusione globale, ma occorre ricordare che Sakichi Toyoda, il fondatore della Toyota, fece il suo primo viaggio in America (al cui ritorno decise che nel medio periodo si sarebbe lanciato nella produzione automobilistica) nel 1910, cioè in un momento in cui la scuola di pensiero di F. Taylor stentava ancora ad affermarsi e aveva una diffusione limitata a pochi industriali “coraggiosi”. Nella mente dell’imprenditore e inventore nipponico era già chiaro che quanto aveva visto negli Stati Uniti a proposito della produzione di massa non poteva essere importato in Giappone, dove il potenziale mercato era molto più ristretto. Nel 1936 Kiichiro Toyoda, figlio di Sakichi e suo successore alla guida dell’azienda, in un lungo articolo esprimeva già in modo compiuto quella “filosofia” (ci si perdoni il termine) produttiva che, poi, una volta pienamente realizzata, sarebbe stata detta “toyotismo”. Il principio del “just in time”, che rappresenta il fondamento di tutto il sistema, fu concepito da Kiichiro e non, dunque, da Taiichi Ohno, mentre è vero che a questi (dirigente della Toyota scomparso nel 1990) spetta il merito di averlo sviluppato coerentemente. Si può dunque dire che il “metodo di progettazione” toyotista ha seguito come un’ombra il “fratello maggiore” americano per tutto il ‘900, prima confinato in un ambito locale (il Giappone), per essere poi destinato a divenire il punto di riferimento obbligato in una fase di crescita lenta e/o di recessione lunga estesa a tutto l’Occidente, cioè una volta che le peculiari condizioni del Giappone fossero divenute un problema generalizzato di tutto il mondo industriale evoluto.
Marco Revelli, nell’introduzione al libro di Ohno (Lo spirito Toyota, riportato fra i riferimenti), della nuova organizzazione mette in luce gli elementi di continuità con il passato (il sogno fordiano finalmente realizzato di una fabbrica sincronica a flusso continuo e la tayloriana saturazione della giornata lavorativa, ormai purgata di movimenti inutili e di momenti di “ozio”), ma sono soprattutto gli elementi di diversità i più gravidi di conseguenze.
Si parte dal postulato che la produzione non deva più avere un carattere “di massa”, bensì possa seguire quanto consuma il mercato. Questo comporterebbe la rinuncia ad ottenere il margine di profitto tramite la distribuzione dei costi su un numero sempre maggiore di pezzi prodotti. Di conseguenza il profitto dovrebbe trarsi da una inesausta (donde il concetto di miglioramento infinito del processo produttivo, in cui sono coinvolti anche gli operai ) compressione dei costi “a monte”, preventiva e selettiva. Questa ardua operazione in precedenza non era condotta alle estreme conseguenze perché resa non indispensabile dall’esistenza di un mercato in continua espansione.
Ohno è chiaro in proposito: «Nel sistema di produzione Toyota, pensiamo all’economia in termini di riduzione della manodopera e di riduzione dei costi. Il legame tra i due elementi si comprende meglio se si considera una politica di riduzione della manodopera come mezzo per realizzare la riduzione dei costi, che è chiaramente la condizione principale per la sopravvivenza e la crescita dei Profitti» (T. Ohno, op. cit., pag. 77). Dunque, a fianco dell’azzeramento delle scorte e della estrema e raffinata razionalizzazione dell’organizzazione d’azienda, la vittima designata di tutto il sistema doveva essere, ed è stata, il fattore umano.
L’ideologia che circonda questo sistema organizzativo – analogamente al precedente – occulta ciò che ne costituisce il motore primo, il lavoro vivo fornito dall’uomo. E questo, invece, è un aspetto di cui Taylor-come abbiamo visto- e ancor più Ohno, hanno avuto piena coscienza: «Il problema è che prima di ottimizzare gli impianti, deve essere ottimizzato il lavoro umano, perché i miglioramenti del lavoro, da soli, possono abbassare il totale dei costi dal 30 al 50 per cento […]. Voglio ricordare ancora una volta che si deve fare molta attenzione a non confondere miglioramenti nel lavoro e miglioramenti nell’attrezzatura, e che se si interviene prima su di essa, pur migliorandola, i costi non possono che salire, e certamente non scenderanno» (T. Ohno, op. cit., pag. 96).
Nel suo scorrevole libro, Ohno svela la concezione-Toyota con entusiasmo e quasi con candore, per cui sembra di avere a che fare non con un grande dirigente industriale, ma con un vecchio saggio orientale che parla di una religione esotica o di un’arte marziale. Nel suo operato vede solo aspetti positivi, come lo spettacolare aumento di produttività dei primi anni, la migliore qualità dei prodotti, la capacità di adattamento ai periodi di crisi come di sopportare aumenti di domanda senza variare il numero di addetti o accumulare scorte. Ma quanto non dice, né ci si poteva aspettare che dicesse, il massimo teorico del sistema, ovviamente impegnato in un lavoro apologetico non diverso da quello dei testi scritti da Taylor sul suo “scientific management”, lo svela, come vedremo, il libro di C. Filosa e G. Pala.

Il toyotismo: le caratteristiche essenziali
Come abbiamo visto, l’organizzazione taylorista aveva spazzato via ogni traccia di professionalità operaia autonoma, imponendo un rigido controllo da parte della direzione aziendale su tutto il processo produttivo e riducendo la funzione del lavoratore alla ripetizione paranoica di uno stesso gesto o di una breve sequenza di gesti e tale da ridurlo- secondo la celebre espressione di Taylor – al ruolo di “gorilla ammaestrato”. La produzione infinita per un mercato infinito è l’essenza di questa concezione. Ma le cose si rivoltano completamente se il mercato è saturo e occorra semplicemente riprodurre le merci il cui valore d’uso sia ormai esaurito (per semplicità accontentiamoci di questa spiegazione). L’impresa toyotista elabora, tramite raffinate ricerche di mercato, un piano di produzione annuale, semplicemente approssimato, da cui trae i piani mensili e giornalieri. Ma, a seconda delle fluttuazioni nelle vendite, questi piani possono essere cambiati praticamente in tempo reale. «L’ordine di produzione (istruzioni d’assemblaggio) è emesso per ogni vettura nel momento in cui entra in questa zona» (cioè la zona di assemblaggio finale). Ogni automobile ha una “storia a sé” e può differire da quella che le sta davanti o dietro nella catena per un particolare anche minimo. Tutte le informazioni relative sono portate da un semplice cartellino – il famoso kanban – che poi viene spedito alle stazioni produttive precedenti ( e dunque fa sì che venga riprodotto quel tipo di paraurti o quel tipo di cerchioni esattamente nel numero consumato) e ogni pezzo deve giungere al posto giusto nella quantità richiesta (just in time) con un sicronismo perfetto. Se una linea produttiva sforna un prodotto difettoso essa si ferma automaticamente (autonomazione) e l’operaio ha l’obbligo di scoprire il difetto, per impedire che venga riprodotto in centinaia di pezzi, come avveniva prima. Inoltre, non esiste più un reparto per la tornitura, uno per la fresatura, e così via, all’interno dei quali il relativo prodotto debba essere prima accumulato e poi trasportato altrove per l’operazione successiva. Ora il tornio è messo a fianco della macchina fresatrice, ecc., e lo stesso operaio segue tutte le operazioni in sequenza. Così cade anche la necessità di avere squadre di operai specializzati in una sola mansione.

Il toyotismo: le mistificazioni
Da questa ridotta descrizione si può comprendere come siano sorte alcune gravi mistificazioni.
1) Erronea identificazione fra “modello giapponese” e tecnologia “tout court”. Dice Ohno: «Spesso, una buona parte delle informazioni fornite dai computer non è assolutamente necessaria alla produzione. Inoltre, un’informazione ricevuta troppo presto induce a un precipitoso trasporto di materie prime, causando perdite. A mio parere, troppe informazioni gettano la produzione nella totale confusione» (T. Ohno, op. cit., pag. 70). E più avanti: «Il valore intrinseco di una macchina non viene determinato dagli anni di lavoro o dalla sua età, ma dipende essenzialmente dalla quantità di profitto che continua a offrire” (op. cit., pag. 92).
2) L’entusiasmo sindacale per un presunto recupero della «multiprofessionalità operaia» non è cosciente che essa non è che un iper-sfruttamento e non ha niente a che fare con la conoscenza del mestiere dell’epoca manifatturiera pre-macchinista. L’operaio non decide niente ed è anzi continuamente pungolato e ricattato non più da una direzione aziendale cui sia teoricamente possibile resistere, ma dalle “oggettive” quanto imperscrutabili e quasi metafisiche leggi di mercato. Così, tende a scomparire la lotta di classe non perché superata da una superiore armonia sociale, ma perché, in realtà, ormai stravinta dal capitale, in un contesto in cui l’operatore è posto in psicanalitico conflitto non con una controparte sociale, ma con la propria capacità lavorativa, portata all’estremo non solo fisicamente come nel taylorismo, ma anche mentalmente.
3) Un dominio del consumatore, in realtà, non esiste, poiché si ha a che fare sostanzialmente con una strategia di adattamento a una lunga crisi di sovraproduzione. Inoltre, non sono certo prodotti “personalizzati” quelli forniti dalla fabbrica toyotista! Differiscono per un certo numero di particolari, ma non per l’essenziale. Non si può certo entrare in un concessionario Toyota o Nissan e chiedere un modello del 1940: si può semplicemente scegliere fra una gamma di opzioni predeterminate, per quanto numerose.

Il “Paradiso giallo”
In questo modello organizzativo-produttivo non può esservi posto per una classe operaia portatrice di una soggettività autonoma. La sua alterità, che pure permaneva e anzi era un presupposto, nel fordismo, scompare. Marco Revelli mette in chiaro quanto ignorato da politici e sindacalisti: «Dalla natura dualistica, conflittuale, della produzione aveva tratto origine la concezione della politica come mediazione che aveva dato vita ai modelli di democrazia di massa europei e a quel sostanziale compromesso sociale che ha rappresentato la costituzione materiale del welfare state […]. Gli stessi modelli organizzativi del “partito di massa “ e del “sindacato generale” erano fortemente tributari della filosofia produttiva fordista-taylorista, del suo carattere burocraticoimpositivo […]. Ora tutto questo viene, per certi aspetti, eroso alle radici». La stessa cittadinanza politica perde significato nei confronti di una inedita «cittadinanza aziendale». E quali ne siano le conseguenze lo osserviamo da come sono strutturati la società e il mondo del lavoro giapponesi, secondo il quadro riportato da Carla Filosa e Gianfranco Pala, autori del libro riportato fra i riferimenti e redattori della rivista marxista La Contraddizione: «In Giappone le ore annue lavorate per occupato sono 2150, contro una media degli altri centri capitalistici di 1650». Dunque, rispetto al collega europeo, l’operaio o impiegato giapponese lavora 500 ore l’anno in più, cioè il 30%. Già per contratto c’è un 20% in più e il resto è dato dagli straordinari. Il quadro è completato dalla scarsità di ferie (7-8 giorni l’anno) e dalla totale mancanza di assenteismo. Secondo un calcolo approssimato, queste 500 ore danno un prodotto aggiuntivo di 300000 miliardi (di vecchie lire) annui.
I lavoratori che fruiscono di un impiego fisso, in Giappone, detti “regolari”, rappresentano i 2/3 della forza lavoro. I rimanenti – circa 20 milioni – sono un’enorme massa fluttuante a disposizione delle esigenze dei capitalisti. Tra i regolari solo la metà fruisce di un impiego sicuro, “a vita”, e della possibilità di carriera (sistema che si sta estendendo anche fuori del Giappone), privilegi per giunta ottenibili solo nelle grandi aziende e solo nella stessa azienda. Si può avere questa possibilità fatale una sola volta nella vita, cioè quando le imprese “pescano” i candidati nelle scuole o nelle università (totalmente asservite alle esigenze del sistema) e le donne, che percepiscono la metà del salario rispetto agli uomini, ne sono escluse. In cambio della sicurezza dell’impiego il lavoratore assicura una fedeltà fanatica e ridotte pretese economiche.
Le oscillazioni del mercato si scaricano sul serbatoio di riserva del lavoro precario, che, nel caso è il primo ad essere escluso dall’occupazione. Ciò si verifica nelle fabbriche dell’indotto – il cuscinetto ammortizzatore principale del sistema – le quali, inoltre, in caso di necessità devono accettare in prestito i lavoratori della casa madre momentaneamente in soprannumero. Il salario è diviso in tre parti: la paga base (l’unica sicura) costituisce meno di 1/3 del totale; premi di produzione (più di 1/3) ; straordinari. I premi di produzione, cioè il grosso dello stipendio, sono stabiliti secondo un giudizio annuo sull’operato dell’interessato, giudizio insindacabile, che si cumula con quello degli anni precedenti e assegnato dal proprio superiore diretto, che ne subisce uno a sua volta e così via fino ai vertici aziendali. Dunque il compenso stesso ne consegue estremamente individualizzato e condizionato da un continuo ricatto al servilismo e all’autosfruttamento. «Tutto ciò spiega l’alta ‘produttività’ – che produttività non è, ma solo prolungamento, intensificazione e condensazione della giornata lavorativa – del lavoro in Giappone” (C. Filosa, G. Pala, op. cit., pag. 65). In tal modo cade anche l’odiosa mistificazione sulla declamata partecipazione agli utili d’impresa, che non sussiste, perché i lavoratori non hanno alcuna forma di proprietà sui mezzi di produzione e, in subordine, perché i salari e gli stipendi continuano a crescere meno dell’aumento di questa falsa produttività estorta dal sistema.
Fra le esotiche parole giapponesi che si possono trovare nel testo di Ohno, ne manca rigorosamente una, ricordata, invece, in quello dei due autori italiani: karoshi, mistico sacrificio supremo per l’azienda, morte che sorprende i dipendenti anche giovani dopo terribili giornate di lavoro, autentico male sociale ormai temuto da un giapponese su tre.
Infine, l’attuale situazione sindacale è il frutto di una tremenda fase di scontro e di repressione bestiale avvenuta negli anni Cinquanta, in concomitanza con la guerra di Corea. Dopo di allora il sindacato fu rigorosamente “giallo”, totalmente corporativo e finanziato dai capitalisti. Per quanto possa apparire paradossale, la sottomissione sociale che ne emerge è più intensa e desolante che non sotto lo stesso nazismo tedesco. «La vittoria del capitalismo nipponico sui sindacati di classe può forse trovare un precedente storico nella tradizione del sostanziale fascismo democratico U.S.A. che portò alla distruzione degli Iww e del movimento socialista americano prima della prima guerra mondiale, e al corporativismo roosveltiano dopo. (Non a caso furono proprio queste le caratteristiche del trionfo dell’imperialismo americano sul mercato mondiale, nei decenni a venire)» (C. Filosa, G. Pala, op. cit., pag. 68). In sintesi, solo i dipendenti “regolari” sono iscritti d’ufficio al sindacato, da cui sono invece esclusi rigorosamente tutti gli altri. Chi diventa dirigente deve uscire obbligatoriamente dal sindacato (uso non infrequente anche presso i sindacati italiani). Inoltre, i supervisori che operano le valutazioni annuali da cui dipende il destino del lavoratore, sono anche, per statuto, i suoi rappresentanti sindacali, eletti “democraticamente” dagli operai con voto palese e sotto stretta sorveglianza fisica…
Ma, inevitabilmente, spuntano allievi zelanti, ansiosi di superare i maestri. Infatti, già Auschwitz, fra i molti modi in cui si può considerare, fu anche una fabbrica fordista, i cui veri fondatori e dirigenti, cioè gli industriali del gigante chimico IG Farbenindustrie – rimasti praticamente impuniti al crollo del nazismo – si presero la libertà di eliminare il capitale variabile, cioè il salario, dalla formula marxiana del saggio di profitto, mentre la guerra provvedeva … a eliminare le giacenze.
Forse il toyotismo non ha (ancora) generato un simile mostro, ma certo negli anni ’70-80 già è comparso lo “hyundaismo” (con i tempi di lavoro più lunghi del mondo, trattamento disumano, salari infimi, intensità di lavoro estremamente alta), ricetta che ha permesso all’industria automobilistica sud-coreana, partita da zero, di divenire il nono produttore di auto al mondo.

Americanismo e fordismo

La situazione italiana
Ma rapportiamoci finalmente al contesto italiano. Come abbiamo visto, già il taylorismo generava “alti salari” e a quale prezzo. Analogamente, i salari dell’arcipelago giapponese sono tra i più alti del mondo, almeno per quanto riguarda i lavoratori regolari. Tuttavia Marco Revelli ricorda che nel nostro paese a suo tempo si sviluppò un fordismo “all’italiana”, cioè la versione fascista, «caratterizzata dalla standardizzazione, ma non dagli ‘alti salari’, dalla dequalificazione senza consumo opulento». Analogamente, tutto il quadro che si va delineando nella nostra società porta a configurare un toyotismo “all’italiana”, incompleto, rispettoso in parte delle vecchie gerarchie, privo di compensi salariali nei confronti della forza-lavoro, privata nel contempo anche di ogni garanzia sociale. In altre parole, dalla ristrutturazione capitalistica in atto, di cui fanno parte integrante il neocorporativismo sindacale e la precarizzazione del lavoro, i lavoratori italiani, rispetto al modello originale, avranno tutti gli svantaggi e nessun beneficio, come già a suo tempo fu nei confronti dell’esempio americano.
Questo è il quadro cui dobbiamo ormai rapportarci e non far capo ad analisi politico-economiche centrate su soggetti sociali in declino, come la tradizionale classe operaia taylorista, ma anche senza le improbabili fughe in avanti di certi discutibili “maestri di pensiero” oggi di moda. Gramsci, a suo tempo, senza preconcetti, considerò il nuovo modello organizzativo-produttivo proveniente dall’America come un ineluttabile fattore di progresso, allo stesso modo in cui Marx vedeva il rapporto tra il capitalismo emergente e l’epoca precapitalistica, cioè indipendentemente dai conseguenti e tragici costi umani. Infatti, secondo Gramsci, il “fordismo”, troppo ottimisticamente, una volta approdato in Italia, avrebbe causato un rivolgimento sociale tale da spazzare via le classi parassitarie sedimentate dai secoli precedenti e avrebbe dovuto dare impulso a quella socializzazione delle forze produttive considerata come condizione essenziale per il superamento del modo di produzione capitalistico. Il toyotismo, secondo un’ottica di questo tipo, da parte sua si potrebbe ulteriormente avvicinare al concetto di produzione cooperativa sociale, per il coinvolgimento delle risorse mentali del lavoratore che induce e perché permette di produrre con più flessibilità e facilità solo nella quantità considerata utile. Come sempre, è l’uso di questa organizzazione di lavoro ad essere alienato e separato rispetto a chi la pratica materialmente. Infatti il toyotismo, nella realtà concreta, per le condizioni di lavoro che impone, per le implicazioni sociali e soprattutto per la concezione di mercato che lo determina (cioè un mercato dominato da differenziali sempre più marcati di proprietà e di reddito), appare la formula produttiva più adatta in un contesto sociale che esclude dal consumo masse crescenti di popolazione (paradossalmente in apparente contraddizione con una “situazione” che fa del consumismo l’unica dimensione umana consentita) e in accordo con le esigenze di ricapitalizzazione (cioè di rafforzamento del capitale) delle classi dominanti impegnate nell’attuale fase di sfrenata concorrenza a livello mondiale.
In conclusione, per offrire uno spunto minimale per una possibile strategia oppositiva, occorre ricordare che il “nuovo” sistema organizzativo è sostanzialmente dipendente dallo spirito di collaborazione dei lavoratori; vale a dire che ciò che costituisce la sua forza è potenzialmente ragione di debolezza. Questa dipendenza è il fattore che sta sullo sfondo di una possibile rivincita da parte del mondo del lavoro. In ogni caso «non è dai gruppi sociali ‘condannati’ dal nuovo ordine che si può attendere la ricostruzione, ma da quelli che stanno creando, per imposizione e con la propria sofferenza, le basi materiali di questo nuovo ordine: essi devono trovare il sistema di vita ‘originale’ per far diventare libertà, ciò che oggi è necessità» (Antonio Gramsci).

Antonio Fiocco

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Enrico Berti – La mia esperienza nella filosofia italiana di oggi.

Enrico Bert

Negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando ho compiuto i miei studi universitari di filosofia, il panorama filosofico italiano era dominato da correnti che, con poche eccezioni, avevano in comune il rifiuto della metafisica: sviluppi del neoidealismo (U. Spirito, G. Calogero), storicismo (C. Antoni, E. Garin), esistenzialismo (N. Abbagnano, L. Pareyson), marxismo (A. Banfi, C. Luporini, N. Badaloni), neopositivismo (L. Geymonat, A. Pasquinelli, N. Bobbio), spiritualismo cristiano (A. Guzzo, L. Stefanini, M.F. Sciacca). Favorevoli a una forma di metafisica, detta «metafisica classica», erano le scuole filosofiche dell’Università Cattolica di Milano (A. Olgiati, G. Bontadini, S. Vanni Rovighi) e dell’Università di Padova (U. Padovani, M. Gentile).

L’esistenzialismo francese esercitava la sua influenza attraverso Sartre e Marcel e quello tedesco attraverso Heidegger e Jaspers; accanto ad esso anche il personalismo di Mounier e di Maritain influì sulla filosofia italiana degli anni Cinquanta, ma soltanto nell’area cattolica. Il neopositivismo era conosciuto attraverso le opere del primo Wittgenstein (il Tractatus), di Carnap e in generale del Circolo di Vienna; la filosofia analitica inglese cominciava a farsi conoscere attraverso Austin e Ryle (quest’ultimo tuttavia interpretato come un comportamentista attraverso la traduzione di Rossi-Landi). Negli anni Sessanta cominciò l’influenza dello strutturalismo (Lévy-Strauss, Foucault), del pensiero di K.R. Popper, dell’ermeneutica filosofica tedesca (Gadamer) e francese (Ricoeur), della Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Marcuse).

Ciò che mi ha spinto a fare filosofia è stato soprattutto il desiderio di verificare se i problemi umani, quelli di carattere teoretico, cioè conoscitivo, potessero essere risolti tutti dalle varie scienze, oppure richiedessero soluzioni di carattere trascendente, tali quindi da aprire lo spazio ad un’eventuale fede religiosa. Una conoscenza, anche soltanto superficiale, della metafisica antica (Aristotele) e medievale (Tommaso d’Aquino) mi convinse della necessità di una soluzione trascendente e quindi mi consentì un’adesione alla fede cristiana.

Ma non scelsi la metafisica per fare spazio alla fede, bensì, al contrario, mi aprii alla fede in conseguenza di un’adesione alla metafisica, percorso – credo – abbastanza raro e in genere rifiutato sia dai credenti che dai non credenti.

Dato questo orientamento, mi trovai a mio agio nell’Università di Padova, soprattutto nella corrente della «metafisica classica», che faceva capo a Umberto Padovani per la componente tomistica e a Marino Gentile per la componente aristotelica. Volevo fare una tesi di laurea sui rapporti tra la metafisica e la filosofia contemporanea, per “confutare” la pregiudiziale antimetafisica di quest’ultima, ma Marino Gentile, al quale avevo chiesto di farmi da relatore, mi spinse a studiare Aristotele, per cui feci la tesi sulla genesi della dottrina della potenza e dell’atto. In quel momento lo studio di Aristotele, in Italia, era ritenuto una scelta del tutto priva di interesse filosofico, perché lo storicismo imperante induceva a considerare Aristotele un filosofo del tutto superato dalla scienza e dalla filosofia moderna. In realtà si ignorava che il più grande filosofo tedesco del momento, cioè Heidegger, si era formato soprattutto attraverso lo studio di Aristotele, e che la migliore filosofia inglese, quella di Austin e di Ryle, non era che un’applicazione dei metodi di Aristotele all’analisi del linguaggio. Pertanto i rapporti della mia “scuola” di appartenenza con il resto dell’ambito filosofico italiano erano di totale opposizione, un’opposizione condotta da una posizione assolutamente minoritaria. Invece i miei studi su Aristotele, che si espressero per la prima volta nel libro su La filosofia del primo Aristotele (Padova 1962), oltre a farmi ottenere la cattedra universitaria, mi aprirono la strada a numerosi contatti internazionali e mi fecero entrare nel giro prestigioso dei Symposia Aristotelica, a cui sono stato invitato dal 1966 per più di 40 anni (fino al 2011).

Il primo nodo centrale che si è maturato nella mia posizione filosofica è stato il concetto di esperienza come problematicità pura, appreso dal mio maestro Marino Gentile e ricostruito nella sua genesi storica nella metafisica di Aristotele. Esso consiste nel mettere in questione tutto ciò di cui abbiamo esperienza, oggetto, soggetto, natura, storia, individuo, società, realizzando quello che M. Gentile definiva «un domandare tutto che è tutto domandare» e che corrisponde perfettamente alla «meraviglia» da cui, secondo Platone e Aristotele, ha origine la filosofia. Si tratta di quello che potremmo chiamare il terzo grado di meraviglia, cioè la meraviglia che investe non i problemi della vita quotidiana, né i fenomeni di cui si occupano le scienze, ma il perché del tutto, la ragione ultima della totalità del reale.

Di questo atteggiamento ho trovato la prima formulazione rigorosa in Aristotele, nella sua concezione della metafisica come ricerca delle cause prime, alcune delle quali trascendono il mondo dell’esperienza. A parte i condizionamenti storici della metafisica di Aristotele, cioè la

sua dipendenza dalle conoscenze scientifico-cosmologiche della sua epoca, la sua classicità consiste da un lato nell’essere stata costruita con risorse unicamente umane, senza presupporre, come le posteriori filosofie medievali, alcuna fede religiosa; dall’altro nella sua apertura al monoteismo, come hanno compreso i filosofi musulmani (Avicenna, Averroè), ebrei (Maimonide) e cristiani (Alberto e Tommaso).

Un secondo nodo per me centrale è stato la scoperta, in Aristotele, del metodo dialettico inteso nel senso antico del termine, cioè dialogico-confutatorio, come struttura del discorso filosofico. Praticato nell’antichità da Platone e da Aristotele, questo metodo è stato ripreso nella filosofia del Novecento dall’ermeneutica di Gadamer, dal fallibilismo di Popper, dall’etica del discorso di Apel e Habermas, dalla teoria dell’argomentazione di Perelman, ma anche di Ryle, insomma dai più critici ed aperti tra i filosofi contemporanei.

Un terzo nodo, legato al secondo, è stato per me la critica della dialettica intesa nel senso moderno del termine, cioè hegeliano-marxiano, in particolare la critica della realtà della contraddizione, condotta alla luce del principio aristotelico di non-contraddizione.

Questa critica è stata occasionata per me dal dibattito inaugurato con l’intervista filosoficopolitica di Lucio Colletti (1975), al quale ho partecipato intensamente, attraverso confronti con lo stesso Colletti, con Emanuele Severino, con Ludovico Geymonat, con Franco Chiereghin, e all’estero, più recentemente, con i fautori del “dialeteismo” (Graham Priest).

Un quarto nodo, il più recente e probabilmente l’ultimo, è l’elaborazione di una metafisica povera, umile, “debole” dal punto di vista dell’informazione, anche se “forte” dal punto di vista dell’argomentazione. Esso consiste nella riduzione della «metafisica classica» a semplice riconoscimento della problematicità dell’esperienza e della conseguente necessità di un principio trascendente, senza aggiungere a questo alcuna ulteriore indicazione, conseguibile razionalmente, circa la natura di tale principio, i suoi rapporti con il mondo, con l’uomo, con la storia, temi considerati tutti come materia di fede.

Naturalmente ho anche delle idee di carattere politico, o di filosofia politica, che riguardano l’attualità del concetto classico di polis come società politica autosufficiente, il conseguente superamento dello Stato sovrano moderno, la necessità di una società politica di dimensioni mondiali, e idee simili, per le quali tuttavia non posso pretendere alcuna originalità.

Se dovessi indicare gli aspetti della mia filosofia che considero più originali, distinguerei la mia posizione filosofica generale dai miei studi su Aristotele, che pure considero parte della mia filosofia. Per quanto riguarda la prima, non ho mai preteso di essere originale, perché mi interessa di più essere nel vero, cioè sapere come stanno realmente le cose, che essere originale. Per questo ho aderito alla «metafisica classica», in particolare alla formulazione che di essa ha dato Marino Gentile. Rispetto a questa tuttavia, credo di avere contribuito all’approfondimento, o alla precisazione, di qualche aspetto di essa. Per esempio, in collaborazione con alcuni amici che erano al pari di me allievi di Marino Gentile (Romano Bacchin e Franco Chiereghin), abbiamo precisato che la problematicità pura non è un’introduzione alla metafisica, come forse riteneva Marino Gentile, ma ne costituisce l’intero corpo. Abbiamo precisato inoltre che, dal punto di vista logico, il discorso metafisico è un discorso di tipo dialettico, nel senso antico del termine, cioè dialogico-confutatorio, il che in Marino Gentile non era dapprima chiaro, ma lo divenne in seguito, e lui stesso riconobbe il nostro contributo al riguardo. Personalmente poi ritengo di avere ulteriormente essenzializzato il discorso metafisico di Marino Gentile, riducendolo a quella che ho chiamato metafisica povera, o umile, o debole dal punto di vista dell’informazione.

Per quanto riguarda invece lo studio di Aristotele, credo di avere contribuito a presentare il suo pensiero in modo più autentico, cioè più fedele ai testi, sfrondandolo dalle numerose incrostazioni accumulatesi nei secoli e dovute alle diverse forme di scolastica. In tal modo esso è risultato anche più attuale, cosa di cui più volte mi è stato dato atto. Più particolarmente ancora, credo di avere mostrato che la metafisica di Aristotele non è né una teologia, come si credeva nella tarda Antichità e nel Medioevo, né un’ontologia, come si è creduto nella filosofia moderna, ma è invece una ricerca delle cause prime, proseguita in gran parte dalla scienza moderna (nella ricerca della causa prima materiale e della causa prima formale) e in parte dalla filosofia contemporanea (l’etica della felicità nella ricerca della causa prima finale, la «metafisica classica» nella ricerca della causa prima efficiente).

Infine ritengo di avere proposto alcune interpretazioni originali della causalità del motore immobile, mostrando che essa è di tipo efficiente (pur non essendo creazione), e della vexata quaestio dell’intelletto attivo, mostrando che questo non è una mente, ma un complesso di conoscenze già acquisite dal genere umano (i princìpi delle scienze).

Ho accennato all’inizio all’inattualità dello studio di Aristotele e della metafisica in generale negli anni Cinquanta del secolo scorso, almeno in Italia. Ebbene, nel corso degli anni Sessanta si è verificata nel mondo occidentale la perdita di fiducia nelle scienze umane, specialmente nella sociologia, come capaci di risolvere tutti i problemi. Questa perdita di fiducia, o crisi delle scienze umane, ha portato alla nascita della «teoria critica della società», cioè della sociologia filosofica della Scuola di Francoforte, che è sfociata nella contestazione studentesca, la quale ha scosso l’intero mondo occidentale con le rivolte di Berkeley (1964-65), di Berlino (1967), di Parigi (1968), e in Italia di Torino, di Roma, e di quasi tutte le università. Essa ha determinato la cosiddetta «rinascita della filosofia pratica», cioè di una modalità razionale, non ideologica o religiosa, né soltanto scientifica, ma filosofica, di affrontare i problemi etici e politici, la quale è consistita essenzialmente nella riscoperta della filosofia pratica di Aristotele, ad opera di Gadamer, Ritter, Apel, Habermas, in Germania, Arendt, MacIntyre, Nussbaum in America, Aubenque e la sua scuola in Francia, Franco Volpi in Italia. Aristotele è risultato così improvvisamente attuale, molto più di quanto lo fosse negli anni Cinquanta, e si è determinata una rinascita dell’interesse per la filosofia aristotelica negli ultimi decenni del secolo scorso, alla quale credo di avere contribuito anch’io con i miei studi.

Contemporaneamente si sono avuti in Occidente eventi storici di tipo diverso, quali la progressiva presa di coscienza dei diritti umani, il Concilio Vaticano II, il pontificato di alcuni importanti papi (Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II), la scoperta e i progressi dell’informatica, che hanno contribuito con altri fattori al crollo dell’Impero sovietico e quindi alla sconfitta del comunismo “realizzato”. Tutto questo ha determinato anche la crisi del marxismo come filosofia, in particolare del materialismo dialettico, che aveva dominato la filosofia europea negli anni Sessanta e Settanta del Novecento (anche nella prima Scuola di Francoforte), per cui i miei studi sulla contraddizione e la dialettica moderna sono risultati del tutto attuali e hanno determinato la fortuna del mio libro Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni (Palermo 1987), che è stato pubblicamente lodato, ad esempio, da un ex materialista dialettico come Ludovico Geymonat.

Infine la scoperta e la diffusione nell’Europa continentale e in Italia della filosofia analitica anglo-americana, la quale aveva superato la fase neopositivistica ed aveva quindi abbandonato la sua pregiudiziale antimetafisica, ha portato anche in Europa ad una rinascita di interesse per la metafisica. Questo ha fatto apparire più attuale, o meno inattuale, anche la metafisica di ispirazione aristotelica, e quindi la mia posizione filosofica si è trovata ad essere meno isolata che in passato, anzi spesso in linea con i dibattiti più recenti (sull’identità personale, sull’individuazione, sulla sostanza, sulla forma). Mi riferisco a posizioni come quelle di Strawson e Wiggins in Inghilterra, Chisolm e van Inwagen negli USA, Ricoeur in Francia, con le quali mi è accaduto di confrontarmi e di incontrarmi in anni recenti. Tutto questo ha determinato una certa attualità della mia posizione filosofica.

Se dovessi dire cos’è mutato oggi nel rapporto tra filosofia e vita, farei riferimento soprattutto alla situazione italiana, che conosco meglio, anche se, girando il mondo, partecipando a congressi mondiali (quelli organizzati dalla FISP, Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie, di cui sono stato vice-presidente) e presiedendo istituzioni internazionali (l’Institut International de Philosophie), ho riportato l’impressione che altrove la situazione non sia molto diversa. In Italia la filosofia era già uscita dall’ambiente accademico, cioè universitario, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ma per impegnarsi sul piano politico; esempio emblematico: Toni Negri. Negli anni più recenti la filosofia accademica è entrata nei mass media (giornali quotidiani, settimanali, televisione), si è diffusa in innumerevoli festival filosofici, facendosi sentire nei teatri e nelle piazze, ma ha perduto l’aggressività polemica, e anche l’influenza politica, che aveva negli anni Settanta, per diventare una forma di intrattenimento, o di passatempo intelligente. Molti filosofi sono stati coinvolti in dibattiti, soprattutto di bioetica, entrando a far parte di comitati di consulenza locali e nazionali. Pochi invece sono stati coinvolti nell’attività dei partiti politici, anche per la crisi che ha colpito questi ultimi. La mia impressione è che nei rapporti reciproci tra i filosofi ci sia meno ideologia e più tolleranza che in passato, o almeno io mi sento rispettato, nelle mie idee e nei miei studi, più di quanto lo fossi all’inizio della mia attività (indubbiamente anche a causa della mia età ormai avanzata).

Un tema di importanza perenne, e quindi anche futura, per la filosofia è il suo rapporto con le scienze. Mano a mano che queste si sviluppano, dalla fisica alla biologia, dall’economia alla psicologia, esse pongono continuamente nuovi problemi, che la filosofia non può ignorare e con cui deve confrontarsi, pur nel rispetto delle competenze. Ci sono poi i problemi dovuti alla globalizzazione, cioè le crisi economiche, le migrazioni di popoli, i conflitti etnici e religiosi, le opportunità offerte dalle nuove tecnologie: tutti temi importanti per la filosofia, specialmente per la filosofia pratica e la filosofia politica.

Naturalmente i filosofi di professione, che in genere sono professori, di scuola media superiore o di università, difficilmente possono influire sulla soluzione di tali problemi. Essi possono tuttavia fornire informazioni e indicazioni a chi non è filosofo di professione, cioè ai politici, agli amministratori, agli economisti, agli scienziati. L’ideale sarebbe che tutte le persone di cultura, qualunque sia la loro professione (medici, giuristi, informatici, giornalisti, artisti, gente di spettacolo, ecc.), avessero un minimo di formazione filosofica, per poter riflettere da un punto di vista generale sui problemi particolari, per confrontare opinioni diverse, per argomentare in modo corretto.

Secondo Hegel la funzione del filosofo era di capire il proprio tempo, cosa possibile – a suo avviso – solo al termine di un’epoca, quando ormai gli eventi storici erano compiuti e si apriva lo spazio alla riflessione, o meglio alla comprensione razionale, senza più nessuna possibilità di intervenire. Secondo Marx, invece, la funzione del filosofo era di trasformare il mondo, cioè di renderlo più razionale, più umano, più giusto, anche a prezzo di violenza, per esempio con la rivoluzione. Oggi mi sembra difficile, per il filosofo, svolgere sia l’una che l’altra funzione, benché egli disponga di informazioni indubbiamente molto più vaste che in passato, e benché i mezzi per influire sul modo di pensare della gente siano molto più efficaci che in passato. Il difficile è capire come stanno realmente le cose, data l’enorme complessità delle situazioni che si determinano a livello mondiale, ed inoltre sapere esattamente che cosa bisogna fare, cioè essere sicuri di poter fare bene.

Una cosa credo che il filosofo di professione debba fare, cioè esercitare con onestà la propria professione. Mi richiamo qui a quanto disse Max Weber nella sua famosa conferenza su La scienza come professione: il filosofo non deve fare il profeta, il predicatore, l’agitatore di folle; soprattutto non deve servirsi della cattedra per imporre agli studenti le sue idee, sottraendosi al confronto aperto con i propri simili. Il filosofo deve argomentare onestamente, cioè correttamente dal punto di vista logico, sottoponendosi all’esame altrui ed esaminando a sua volta le opinioni altrui, cioè deve discutere. La figura di Socrate, paradossalmente, può essere ancora attuale, ma nella discussione pubblica. Nell’attività professionale il filosofo deve ricercare onestamente la verità, fornendo possibilmente contributi di nuove conoscenze, e insegnare qualcosa di preciso, di determinato, di non vago, non fumoso, non generico. A questo proposito mi permetto di rinviare a ciò che ho scritto nel mio ultimo libro, La ricerca della verità in filosofia, Roma, Studium, 2014.

Ai giovani vorrei dire: non vi invito a scegliere la filosofia come professione, perché rischiate di non poter sopravvivere; vi invito ad occuparvi di filosofia facendo altre professioni, nel tempo libero, nelle domeniche, nelle vacanze. Vedrete quanta soddisfazione la filosofia vi può dare, e forse essa vi darà anche qualche indicazione per ciò che dovete fare, o qualche consolazione per ciò che avete già fatto.
A chi sceglie la filosofia come professione, sperando che egli abbia delle motivazioni fortissime, raccomando di non farla in modo generico, ma di farla in modo serio, cioè di non fare troppe chiacchiere, di non occuparsi di tutto, ma di specializzarsi in qualche cosa di preciso, pur tenendosi al corrente di tutto.

Enrico Berti

Enrico Berti – Per una nuova società politica

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Incontri con la filosofia contemporanea

Enrico Berti – Incontri con la filosofia contemporanea

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Luca Grecchi, Il pensiero filosofico di Enrico Berti (2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione di Enrico Berti, è un testo monografico introduttivo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo, uno dei maggiori studiosi mondiali del pensiero di Aristotele. Rapportandosi a tematiche quali l’interpretazione degli antichi, la storia della filosofia, l’educazione, l’etica, la politica, la metafisica, la religione, Grecchi non si limita a descrivere il pensiero dell’autore considerato ma, come è nel suo approccio, valuta; in maniera solitamente concorde, eppure talvolta anche critica, in particolare nella opposizione fra metafisica classica e metafisica umanistica.

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Marcello Cini (1923-2012) – C’È ANCORA BISOGNO DELLA FILOSOFIA PER CAPIRE IL MONDO?

Marcello Cini

  1. INTRODUZIONE

È possibile “collegare e raccordare scienza da una parte e cultura e senso comune dall’altra”? Marino Badiale risponde affermativamente, argomentando che spetta alla filosofia il compito di effettuare questa mediazione attraverso una attività razionale di sintesi e di interpretazione delle idee e dei risultati della scienza. Sintesi significa, in questo contesto, “cogliere gli aspetti concettuali più significativi di una disciplina scientifica: le categorie con le quali essa organizza il suo particolare dominio di oggetti, la metodologia nella quale sintetizza il proprio concreto operare, i valori e gli scopi conoscitivi nei quali riassume il fine della propria ricerca”. Interpretazione vuol dire “comprendere il significato culturale e umano di tutto questo, collegando i concetti fondamentali delle varie discipline con le altre dimensioni della cultura e dell’operare umano in una unità comprensibile e sensata”. Si tratta, in definitiva, di “capire cosa la scienza stessa ci dice dell’essere umano e del mondo che egli si costruisce”.
Questo è, del resto, argomenta Badiale, ciò che ha fatto la filosofia in Occidente, almeno fino a poco tempo fa: i suoi maggiori esponenti si sono posti come fine una comprensione razionale delle varie dimensioni dell’esistenza umana e della loro sintesi in una visione unitaria e armonica. Oggi, tuttavia questo obiettivo sembra diventare sempre più irraggiungibile. Due tendenze divaricanti infatti dominano da un lato la scienza e dall’altro la cultura, tanto nelle sue manifestazioni elitarie come in quelle di massa.
Da parte sua la scienza è sempre più caratterizzata da un processo esponenziale di “specializzazione parcellizzante” che esclude la possibilità di una sintesi filosofica che ne colga gli aspetti concettuali fondamentali, e vanifica dunque la ricerca di un senso complessivo per le sue azioni e i suoi fini. Al tempo stesso infatti, la filosofia, sottoposta allo stesso processo, cancella questo compito dalla sua agenda, mentre le discipline scientifiche sempre più cercano nell’autoreferenzialità della loro pratica la propria legittimazione.
La cultura di massa è a sua volta dominata dal rifiuto di “un aspetto fondamentale della tradizione filosofica occidentale” cioè della “discussione razionale sui grandi temi della vita umana: il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il modo migliore di organizzare la vita degli esseri umani”. Essa si presenta dunque come una forma di irrazionalismo diffuso, come un immane sforzo per non sapere ciò che stiamo facendo (a noi stessi e al nostro mondo).
Il procedere di questi due processi – la specializzazione parcellizzante della scienza e l’espulsione del pensiero critico dalla cultura di massa – porterebbe dunque a concludere che la riflessione filosofica di sintesi e di interpretazione inizialmente proposta è impossibile. Non resterebbe allora altro da fare, secondo Badiale, se non tentare di attestarsi su alcune linee di resistenza, nella scuola soprattutto ma anche in alcuni punti chiave all’interno delle facoltà scientifiche e delle istituzioni della ricerca, nell’attesa che la scienza diventi adulta, capace cioè di “rinunciare al desiderio infantile di onnipotenza” e di “riconoscere la propria funzione, il proprio ruolo, e quindi, contemporaneamente, il proprio valore e i propri limiti”.
Dico subito che non mi riconosco interamente in questo discorso, anche se condivido molte delle argomentazioni che lo sorreggono ed alcune delle conseguenze che se ne traggono. È come se mi trovassi di fronte a una figura che, pur essendo composta da molti pezzi che mi sono familiari, finisce, per il diverso ordine con il quale vengono disposti o per l’assenza di altri che secondo me sarebbero necessari, col rappresentare un quadro diverso da quello che appare ai miei occhi.
Fuori di metafora, mi sembra per esempio che l’analisi schematicamente riassunta in precedenza dei due processi che hanno trasformato la scienza e la cultura di massa, pur rappresentandone correttamente alcuni tratti evidenti, non colga appieno la natura della profonda svolta che entrambe queste componenti fondamentali della società contemporanea hanno vissuto negli ultimi decenni del secolo appena finito. In particolare mi sembra che questa analisi parli delle norme metodologiche e dei criteri epistemologici delle diverse discipline scientifiche come se avessero una radice comune in un ideale di scienza che in ultima analisi assume la fisica come modello. Non è un caso, mi sembra, che gli esempi utilizzati abbiano tutti a che fare con questa disciplina e che le discipline della vita e della mente non siano mai nominate.
Non tiene conto, per esempio, del fatto che, via via che si attinge ai livelli più elevati di organizzazione della materia, il consenso degli scienziati sul linguaggio disciplinare considerato appropriato si indebolisce, e si assiste alla moltiplicazione dei linguaggi adottati da gruppi diversi della comunità. Questi linguaggi non sono necessariamente in contraddizione: essi corrispondono a differenti modellizzazioni del dominio fenomenologico e a differenti punti di vista (culturali, epistemoligici, tecnologici) a partire dai quali si costruiscono le categorie concettuali e i metodi pratici utilizzati per analizzare il dominio considerato. In queste discipline sarà dunque sempre più difficile inventare un “esperimento cruciale” capace di decidere chi ha ragione e chi ha torto, perché tutti i modelli sono parziali e unilaterali. Ognuno di essi è al tempo stesso” oggettivo”, perché riproduce alcune proprietà del reale, e “soggettivo” perché il punto di vista è scelto dai gruppi diversi in conflitto fra loro.
Una rappresentazione della scienza che non assuma questa varietà di punti di vista in competizione, secondo me, impedisce a sua volta di individuare la novità e la ricchezza del compito che la filosofia si trova a dover affrontare, rispetto a quello di sintesi e di interpretazione assegnato ad essa nel saggio introduttivo; un compito che del resto appare all’autore stesso impossibile da raggiungere nelle condizioni attuali.
In questo lavoro mi propongo dunque di discutere anzitutto (§ 2) la natura della svolta che ha caratterizzato la scienza nel passaggio dal XX al XXI secolo. Successivamente analizzerò rispettivamente i rapporti fra scienza ed epistemologia, rispettivamente per le discipline della materia inerte (§ 3) e per quelle della materia vivente (§ 4) e pensante (§ 5). Il § 6 è dedicato invece al rapporto fra scienza ed etica. Nelle conclusioni (§ 7) cercherò di argomentare perché sono convinto che la filosofia sia un bisogno insopprimibile della mente umana: come l’Araba Fenice risorge sempre dalle sue ceneri.

  1. LA SVOLTA NELLA SClENZA DAL XX AL XXI SECOLO

Nel secolo appena finito l’uomo ha instaurato il suo pieno dominio sulla materia inerte. Dopo essere riuscito, nel ‘700 e ‘800, a formulare le grandi leggi universali che ne regolano le proprietà a livello macroscopico e aver individuato le diverse forme di energia di cui può essere dotata, nel ‘900 ha appreso, attraverso la conoscenza sempre più approfondita dei suoi costituenti elementari, a trasformarla in forme e aggregati nuovi, in modo da riuscire a progettare e costruire un mondo artificiale fatto di sostanze, macchine, apparati, finalizzato ad incrementare al di là di ogni immaginazione, mediante protesi sempre più potenti e penetranti, la portata e l’intensità delle proprie capacità naturali di percezione, di azione e di controllo del mondo esterno. Il nuovo secolo sarà il secolo del dominio dell’uomo sulla materia vivente e del controllo sui fenomeni mentali e sulla coscienza. La prima barriera, che separa la materia inanimata e quella vivente, sta crollando vistosamente, dopo che, da un lato, sono state decodificate le modalità di autorganizzazione della vita e sono stati identificati i geni come sue unità elementari, e, dall’altro, è stato ricostruito il processo evolutivo che ha dato origine alla immensa varietà e complessità delle sue diverse manifestazioni. La seconda, quella tra corpo biologico e mente (e, in particolare, tra cervello e coscienza) sta cedendo sotto i colpi dei progressi delle neuroscienze nell’individuazione della gerarchia delle diverse strutture cerebrali e delle loro funzioni, dai singoli neuroni fino alla rete delle loro reciproche connessioni.
Dopo aver cominciato ad apprendere come trasformare la vita in forme e aggregati nuovi, e come controllare i fenomeni mentali, gli uomini si apprestano dunque a progettare e costruire una biosfera artificiale fatta di organismi transgenici, chimere, cloni, e chissà quali altre forme viventi, regolata da una rete di menti artificiali di complessità crescente, con conseguenze imprevedibili.
È essenziale riconoscere che questa svolta cambia profondamente la natura stessa della scienza. Essa infatti comporta l’abbattimento di due steccati che tradizionalmente separavano la scienza dalle altre attività sociali umane: uno separava la scienza (in quanto conoscenza disinteressata della natura ottenuta attraverso la scoperta) dalla tecnologia (in quanto utilizzazione pratica dei risultati della prima realizzata attraverso l’invenzione), e l’altro separava le attività che si occupano difatti da quelle che si occupano dei valori che stanno alla base delle norme (etiche e giuridiche) intese a regolare le finalità e i comportamenti degli individui nei loro rapporti privati e nelle loro azioni sociali.
Entrambe queste separazioni nette tendono a scomparire. Per quanto riguarda la prima è evidente che il nesso tra la ricerca scientifica “pura”, cioè perseguita al solo scopo di conoscere in modo disinteressato la natura, e l’innovazione tecnologica, stimolata dall’interesse a inventare continuamente nuovi strumenti per soddisfare la domanda di un mercato sempre più esigente e sofisticato, si è fatto sempre più stretto, fino a diventare un intreccio difficilmente districabile. Per convincersene basta osservare quanto sia ambiguo e intimo il rapporto fra la biologia molecolare, disciplina fondamentale quant’altre mai, e l’ingegneria genetica, tecnologia di punta per eccellenza, per convincersi che è impossibile decidere se una delle due venga prima dell’altra. Lo stesso si può dire per le discipline coinvolte in tutti i problemi ambientali, o in quelle che intervengono nei fenomeni cerebrali e mentali.
Anche per quanto riguarda la separazione fra fatti e valori la svolta ha un effetto dirompente. È ormai esperienza comune che i dibattiti e le polemiche interne alla scienza cominciano a entrare nelle arene del discorso e dell’azione non scientifiche. Le scoperte scientifiche sono messe in discussione, criticate o utilizzate insieme ad altre fonti di conoscenza disponibili da parte di un pubblico sempre più vasto. Una cosa è infatti manipolare, controllare, forgiare un oggetto fatto di materia inerte e altra cosa è compiere le stesse operazioni su un organismo vivente o addirittura sull’uomo. Nel primo caso illecito coincide con l’utile, nel secondo illecito dovrebbe per lo meno dipendere anche da una valutazione di natura etica. Dunque anche la seconda separazione tende a svanire: diventa sempre più difficile decontaminare i fatti dai valori ed estirpare gli interessi dalla conoscenza. Le “verità” della scienza e gli “strumenti” della tecnologia acquistano proprietà che dipendono dal contesto. Nasce il problema del rapporto fra conoscenza e valori, cioè del nesso fra la ricerca della “verità” e il perseguimento di “retti” comportamenti individuali e collettivi.
È tuttavia evidente che la svolta non viene percepita, nell’immaginario collettivo, in tutta la sua radicalità. Sia gli scienziati che i decisori, nella sfera pubblica (politici e amministratori) come in quella privata (industriali e managers), si affannano infatti, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, a mantenere intatta l’immagine tradizionale della scienza, come ricerca disinteressata e oggettiva (avalutativa) della verità capace di rappresentare la realtà così com’è, in modo sempre più fedele e dettagliato. I primi perché sono interessati a sottolineare la continuità del “metodo scientifico” che garantirebbe una volta per tutte uno statuto epistemologico privilegiato a questa forma di conoscenza, conferendo nel contempo alla categoria un elevato prestigio sociale e non disprezzabili porte di accesso alla sfera del potere. I secondi perché sono ancor più interessati a marcare la continuità delle leggi dell’economia e del mercato come regolatrici ultime dell’introduzione di innovazione scientifica e tecnologica di qualsiasi natura nel processo produttivo. “Il fatto che una cosa abbia natura biologica e si autoriproduca –afferma a questo proposito un oscuro ma aggiornato biotecnologo di Oakland – non basta a renderla diversa da un pezzo di macchina costruita con dadi, bulloni e viti”. Portare alla luce la vera portata di questa svolta diventa dunque un primo compito essenziale della riflessione filosofica. La pionieristica opera di Gregory Bateson, questo grande “filosofo naturale”, emarginato dalla comunità scientifica quando era in vita e quasi completamente dimenticato dopo la sua morte, può essere, da questo punto di vista, assolutamente fondamentale. Altri nomi che a questo punto è d’obbligo fare sono quelli di Hans Jonas e di Paul Ricoeur. Come vedremo più avanti, non si parte da zero. Occorre però compiere un riordinamento gestaltico nell’immagine della scienza che incontra ancora molte resistenze. Sarà la forza delle cose a costringerci a farlo.

  1. 3. L’EPISTEMOLOGIA DELLE SCIENZE DELLA MATERIA INERTE

Il compito di “sintesi” assegnato da Badiale alla filosofia è indubbiamente reso difficile dai due processi – la specializzazione parcellizzante della scienza e l’espulsione del pensiero critico dalla cultura di massa – che caratterizzano la nostra società capitalistica avanzata. Mi sembra però che ci sia nella stessa definizione di “sintesi” una difficoltà più profonda, che riguarda tutta la scienza, a partire dalla fisica, la disciplina della materia inerte per eccellenza.
Mi sembra infatti che il concetto di “sintesi” inteso come “estensione a un livello molto generale e astratto di un aspetto essenziale della pratica quotidiana della scienza” sia fondato su una immagine inadeguata di questa pratica.
Secondo Badiale, essa comincia “dallo studente che, svolto il calcolo suggerito dal docente, deve capire perché esso rappresenti la soluzione del problema fisico dato”, continua con lo “sperimentatore che si sforza di interpretare i segnali che i suoi strumenti gli mandano”, arriva al “teorico che sintetizza i dati sperimentali e deduzioni matematiche in una nuova immagine del mondo”, per sfociare nella “intera prassi scientifica [che vive] di un continuo sforzo di sintesi e di interpretazione dei propri stessi risultati”.
Forse questa immagine della scienza è un po’ troppo semplice. Se fosse vera, tra l’altro,la filosofia non avrebbe mai avuto un ruolo nel suo processo di sviluppo. È essenziale infatti, per capire questo ruolo, abbandonare la vecchia immagine, criticata da Kuhn già quarant’anni fa, del progresso della scienza come processo lineare, tutto interno, di accumulazione di verità che man mano sostituiscono vecchi errori e colmano precedenti lacune. Se così fosse, in effetti, non ci sarebbe bisogno della filosofia: la “verità” verrebbe fuori da sé.
Bisogna dunque per prima cosa cominciare a distinguere fra gli aspetti concettuali che sono entrati a far parte del patrimonio comune di conoscenze, sui quali il dibattito è ormai chiuso (ma alle volte può riaprirsi: c’è voluto Einstein per rimettere in discussione, dopo due secoli di accettazione unanime, la meccanica newtoniana), e i diversi aspetti concettuali che sono, nel corso del processo di acquisizione di nuove conoscenze, oggetto di discussione e di conflitto fra i sostenitori di proposte epistemologiche e metodologiche alternative. È in questo processo che può intervenire la filosofia. Non ha senso che intervenga post factum. Una volta che gli scienziati si sono messi d’accordo la filosofia può solo fare la mosca cocchiera.
È infatti proprio nel corso di questo dibattito che si forma il consenso attorno a posizioni che via via si consolidano ed entrano a far parte del patrimonio di conoscenze accettato da tutti. A volte questo consenso non si raggiunge e la comunità si divide. Il punto fondamentale è che, anche quando il consenso è stato raggiunto su un tema controverso, il dibattito non finisce, ma si sposta su un fronte più avanzato. È il confronto fra posizioni differenti che genera la nuova conoscenza. Certo, come lo stesso Kuhn ha mostrato, ci sono periodi di svolta in cui il dibattito è particolarmente acceso e contrastato, e periodi di continuità in cui la conoscenza procede per approfondimento e allargamento all’interno di un “paradigma” riconosciuto.
Ma come si raggiunge il consenso? Non è vero che è soltanto la “natura” a decidere chi ha ragione e chi ha torto. Le esperienze “cruciali”, ci avverte Lakatos, diventano tali solo retrospettivamente, dopo che l’accordo è stato raggiunto. La valutazione delle proposte alternative in competizione avviene invece sulla base di molteplici fattori che portano all’accettazione di alcune e al rifiuto di altre. Questi fattori possono comprendere una serie di criteri differenti. Essi vanno, per esempio, da quelli adottati per esprimere un “giudizio di scientificità” sulla proposta in discussione o della sua pertinenza all’ambito disciplinare (cioè della sua compatibilità con i capisaldi della disciplina che non possono, allo stato delle cose, essere messi in discussione), fino ai criteri per giudicare dell’esistenza o meno di un problema aperto da risolvere o da accantonare (in questo caso si tratta di decidere se un certo fenomeno richiede una spiegazione oppure non ne ha bisogno perché è evidente, o può essere assunto come dato a priori). Oppure possiamo trovare criteri di carattere formale. Rientrano fra questi quelli relativi alla semplicità, all’eleganza, alla coerenza interna di una teoria o di un formalismo.
Certo sono anche importanti i criteri adottati per giudicare dell’adeguatezza empirica di una teoria. Ma non sono i soli che contano per decidere. Può accadere infatti che l’accordo o il disaccordo con una determinato esperimento sia considerato più o meno importante a seconda del grado di attendibilità di cui il paradigma dominante gode presso la comunità. In certi casi si accetta una nuova teoria nonostante il suo disaccordo con dati sperimentali che successivamente verranno smentiti; altre volte invece nuovi dati vengono ignorati per mantenere in vita la vecchia teoria in mancanza di una più soddisfacente.
È chiaro a questo punto quale sia il ruolo essenziale della riflessione filosofica nel contribuire a risolvere il conflitto fra sostenitori di punti di vista diversi e a determinarne l’esito. Essa infatti deve aiutare a formulare in forma esplicita e razionale le premesse meta teoriche, implicite o addirittura nascoste nell’inconscio individuale dei singoli scienziati, che stanno alla radice del conflitto. È un ruolo che può avere come protagonisti sia gli scienziati più creativi e consapevoli del valore culturale, esterno alla comunità, delle scelte possibili, sia i filosofi capaci di cogliere, al disotto dei dettagli tecnici formali delle diverse alternative, i loro diversi aspetti epistemologici e metodologici.
Essi possono così individuare legami fra proposte di innovazione avanzate anche in campi disciplinari diversi che tuttavia condividono la stessa “metafisica influente” (Lakatos), o gli stessi “stili di pensiero”, o gli stessi “ideali del sapere” (Amsterdamski), rintracciandone le radici nel retroterra culturale che caratterizza lo Zeitgeist dell’epoca considerata. Ha dunque ragione Badiale nel sottolineare che la riflessione filosofica è efficace quando rivela il nesso che lega una svolta concettuale introdotta in una data disciplina scientifica con i temi importanti e urgenti che permeano la cultura del contesto sociale corrispondente. Ma individuare le ragioni del contendere aiuta a capire come e dove ciò che è stato possibile una volta può ancora accadere oggi.
Gli esempi che Badiale presenta dei grandi protagonisti delle svolte importanti della scienza che sono riusciti a svolgere efficacemente questo compito di “sintesi” filosofica sono da questo punto di vista significativi, ma lasciano in ombra, mi pare, il fatto fondamentale che questa “sintesi” più che essere una conseguenza necessaria del successo del nuovo modo di descrivere la realtà, è stata un fattore importante per raggiungere questo successo nel conflitto con i sostenitori della rappresentazione dei fenomeni considerati accettata fino a quel momento.
Prendiamo il caso di Galileo, la cui “opera di costruzione e difesa della nuova scienza” è giustamente presentata come la “proposta di alcuni principi metodologici … che sono diventati costitutivi dell’immagine moderna della scienza”. Ma forse non basta il riferimento a quei principi metodologici – come quello del rapporto fra “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni”, o l’idea che il libro dell’Universo “è scritto in lingua matematica” – a spiegare la drammaticità del conflitto che oppone Galileo ai suoi oppositori aristotelici e il carattere epocale della svolta che ne è seguita.
Occorre forse riconoscere che alla base di quelle differenze c’era uno scontro su questioni filosofiche fondamentali. È infatti su questo terreno che Galileo conduce la sua battaglia, come dimostrano con evidenza i suoi dialoghi. Se si fa questo, fra l’altro, si evita di assolutizzare il famoso metodo attribuendogli quel carattere di ricetta universale ed eterna per raggiungere la verità che gli viene attribuito nei libri di scuola; una ricetta che oggi, come discuteremo fra poco, si applica male alle scienze della vita e della mente.
Il contrasto dunque non era – o non era soltanto – sul metodo, ma tra due concezioni del mondo antitetiche. Per Aristotele c’era una dicotomia netta fra il mondo sublunare, caratterizzato dall’irreversibilità, la caducità e la mutevolezza di una materia corruttibile e quello delle sfere celesti, dove regnano l’armonia, la regolarità, la perfezione del moto circolare, tutte manifestazioni di una sostanza eterna ed eterea. Per Galileo, al contrario, non c’è barriera fra cielo e terra. La sostanza dei corpi celesti è la stessa di quelli terrestri. E poiché i primi rivelano che l’unico mutamento reale è il movimento, anche sulla Terra deve essere possibile ricondurre ogni mutamento, per quanto sostanziale e irreversibile possa apparire, al moto delle sue infime parti. Al disotto delle apparenze, dunque, il mondo dei fenomeni terrestri è semplice, regolare, ripetibile, così come si mostra in cielo.
Ed è perciò intelligibile – ecco la conseguenza – a patto di imparare a “intender la lingua e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto”, che è, appunto la “lingua matematica” . Non è dunque il metodo che gli permette di scoprire come è fatto ilmondo. È la sua convinzione che il mondo è fatto in un certo modo che gli suggerisce il modo migliore per costringere la natura a dargli ragione, anche a costo di tralasciare altre evidenze empiriche contrarie (per esempio sulla questione della natura delle comete Galileo aveva torto e padre Grassi ragione). Insomma, se si ignorano le ragioni (serie, dopotutto, visto che Aristotele aveva retto per più di duemila anni) di entrambi i contendenti, la filosofia non ha più nulla da dire, perché scompare la materia del contendere. Si rischia così di precipitare dalla sfera dei più elevati dibattiti della storia del pensiero filosofico allivello di una banale lezione di fisica di liceo.
Un discorso analogo si potrebbe fare per le due figure di Cartesio e di Newton, ma ci porterebbe via troppo spazio. Mi limito a segnalare che anche qui ci sarebbe un dibattito filosofico da portare alla luce. Sarebbe interessante infatti ricordare come le differenti posizioni filosofiche di questi due grandi personaggi, esplicitate nella polemica fra Newton e i cartesiani, fossero indissolubilmente legate alle rispettive differenti concezioni del concetto di forza (per contatto o a distanza) che a loro volta sono all’origine di due diverse formulazioni, a livello tecnico, della meccanica (leggi di conservazione vs. leggi della dinamica), formulazioni che ancora oggi hanno un significato epistemologico profondamente differente (le leggi di conservazione, che per la loro generalità valgono anche nella meccanica quantistica, sono vincoli da rispettare, mentre quelle della dinamica newtoniana sono prescrizioni da eseguire).
Se dunque è vera la mia tesi, cioè che la riflessione filosofica può avere un ruolo importante nella scienza dove e quando c’è un dibattito fra scienziati portatori di varianti alternative del linguaggio disciplinare basate su presupposti meta teorici differenti, si capisce anche perché oggi questo ruolo non possa più essere esercitato all’interno della fisica. L’ultimo conflitto all’interno di questa disciplina basato su concezioni alternative del mondo, e dunque tale da investire la cultura in generale (gettando un ponte fra le due culture”) è stato quello tra Einstein e Bohr attorno alla domanda se Dio giocasse o meno ai dadi. (La questione del “realismo” è strettamente connessa a questa, ma sul loro nesso non posso dilungarmi). Risolta la questione negli ultimi decenni del secolo con la conclusione che il Personaggio è un accanito giocatore (e in questo caso la risposta della natura è stata “cruciale”), le proprietà della materia inerte, come ho cercato di argomentare nel § 2, non hanno più nulla da dire di significativo per l’uomo, e dunque per la filosofia.
È per questo che la conclusione che Badiale trae da un colloquio immaginario tra un fisico e una generica persona colta, secondo la quale “la scienza moderna si pone ormai al di fuori della cultura umana, perché non riesce più a rendere comune al genere umano il significato del proprio operare”, mi sembra ingiustificata. In primo luogo perché il confronto fra uno scienziato e una persona colta non può mai avvenire (ed è sempre stato così anche in passato) sul terreno del linguaggio specialistico della disciplina, ma soltanto su quello del suo livello meta teorico. In secondo luogo perché la fisica non è più rappresentativa della “scienza moderna”, mentre, come adesso vedremo in maggior dettaglio, è nell’ area delle discipline della vita, dell’uomo e della mente che la mediazione fra scienza e contesto culturale è oggi necessaria e possibile.

  1. UNA EPISTEMOLOGIA DELLE SCIENZE DEL MONDO VIVENTE

Ho già sottolineato all’inizio che, quando si sale ai livelli più elevati di organizzazione della tnateria, si assiste alla moltiplicazione dei linguaggi adottati da gruppi diversi all’interno di una data comunità disciplinare, fondati su differenti modellizzazioni del dominio di fenomeni considerato e su differenti punti di vista (culturali, epistemologici, tecnologici) adottati per esplorarlo. In particolare, il passaggio dalle discipline che studiano la materia inerte a quelle che si pongono come obiettivo l’investigazione del mondo della vita e di quello della mente, deve tener conto della natura della barriera che separa la materia inerte dalla materia vivente. Sorvolo per ora su quella etica, perché ci torneremo alla fine del nostro discorso. Ma mi soffermo brevemente sui suoi aspetti epistemologici ed ontologici. La logica che sta dietro alla interpretazione delle proprietà della materia inerte è riduttiva: dalla conoscenza dei componenti elementari e delle loro interazioni si risale alle proprietà del sistema. Quella che occorre adottare per spiegare le proprietà della materia vivente è una logica evolutiva: essa si basa sul riconoscimento dei due momenti indipendenti e complementari che ne sono all’origine: quello della generazione aleatoria della diversità a livello genotipico e quello della selezione da parte dei vincoli (esterni ed interni al sistema) a livello fenotipico. Questo implica che l’adozione di un criterio riduzionista (per esempio la credenza ancora diffusissima nella validità della formula “un gene=un carattere”) per la progettazione del vivente può condurre a errori macroscopici e gravissimi.
Dal punto di vista ontologico poi, la barriera stabilisce una differenza fondamentale tra i due mondi: l’assenza o la presenza di autonomia. Una volta fabbricati gli artefatti biologici sono autonomi: prevederne il futuro diventa problematico e riacchiapparli una volta che se ne sono andati in giro per il mondo addirittura impossibile.
Due libri recentissimi, uno di un biologo, Marcello Buiatti, intitolato Lo stato vivente della materia, l’altro di una epistemologa, Elena Gagliasso, intitolato Verso un’epistemologia del mondo vivente, sembrano scritti apposta per dimostrare che in queste discipline la mediazione fra scienza e contesto culturale può avere per protagonisti – come dicevo poc’anzi – sia gli scienziati più creativi e consapevoli del valore culturale, esterno alla comunità, delle scelte possibili, sia i filosofi capaci di cogliere, al disotto dei dettagli tecnici delle diverse alternative, i loro diversi aspetti epistemologici e metodologici.
Il libro di Buiatti ci insegna infatti a guardare il mondo della vita da un punto di vista che riesce ad essere tanto più originale sul piano dello schema interpretativo generale quanto più risulta solidamente ancorato alle più recenti acquisizioni fattuali della ricerca biologica. Esso dimostra che, quando uno scienziato alza gli occhi dai suoi strumenti e dai suoi calcoli, e riflette sul senso e sulle ragioni delle domande che egli stesso e i suoi colleghi pongono alla natura, le sue riflessioni non solo sono perfettamente accessibili alle “persone colte” ma introducono anche all’interno della comunità gli stimoli per un dibattito fecondo di nuove domande. In concreto il punto di vista adottato in questo libro fa cadere molte delle barriere tradizionali che separavano approcci concettuali nettamente contrapposti – per esempio fra i sostenitori della localizzazione di proprietà specifiche in strutture determinate e i sostenitori dell’esistenza di proprietà diffuse all’interno di una rete di componenti diverse – e sgretola molte separazioni rigide fra modellizzazioni differenti dei fenomeni vitali. Le conseguenze culturali di questo approccio sono profonde.
Per quanto riguarda il genoma, ad esempio, il libro dimostra, dati alla mano, l’insensatezza della pretesa corrispondenza biunivoca tra geni e caratteri: da quelli somatici a quelli caratteriali fino a quelli comportamentali (addirittura, sfiorando il ridicolo, come il “gene” dell’adulterio o dell’omosessualità). È una tesi, non solo presente ancora negli ambienti scientifici ma soprattutto prevalente nella cultura diffusa dai mezzi di comunicazione di massa, che ha basi eminentemente ideologiche e permette di giustificare le peggiori discriminazioni ed emarginazioni. La conclusione del nostro autore è categorica: “affidare a uno o pochissimi geni comportamenti sociali (non biologici) complessi [è] del tutto erroneo dal punto di vista scientifico”.
Utilissimo è dunque il contributo “filosofico” che questo libro può dare per contrastare la concezione pesantemente deterministica della vita prevalente nell’immaginario diffuso, che la considera assolutamente prevedibile una volta conosciuto il contenuto del patrimonio genetico. “Secondo questa visione – scrive Buiatti nell’ultimo capitolo – l’uso di nuove tecnologie biologiche permetterebbe di liberare noi e gli altri esseri viventi da tutti i pericoli di eccessivo disordine derivante dal rumore indotto dall’ambiente, di guasti interni, dalla stessa variabilità genetica il cui valore biologico essenziale viene accuratamente dimenticato (rimosso). Di qui l’implicita sgradevole utopia positivistica della possibilità di modificare a volontà gli esseri viventi secondo progetti reificati nella materia vivente, paralleli a quelli costruiti per l’adattamento ai nostri bisogni veri o presunti, di quella non vivente”.
Dal canto suo, sul versante della filosofia, Elena Gagliasso così ci spiega il compito che la sua ricerca si prefigge. “Il libro – leggiamo nell’introduzione – si muove costantemente tra due piani, pur scegliendo di esaminarli insieme nelle diverse sezioni. Esiste infatti una sorta di crocevia che permette, a seconda dell’utilità, di intrecciare o di distinguere due livelli di discorso mutuamente vincolati, se si vuole oggi trattare un’epistemologia specifica delle scienze del mondo vivente”. Da un lato si tratta di una epistemologia che “si è aperta a riflettere anche su ciò che investe il pensiero scientifico prima del metodo o in modo circostante ad esso: una epistemologia dunque sensibile a inseguire le varie e controverse storie plurali della ricerca, i processi del farsi concreto delle teorie e degli stili di pensiero, più che a modellizzare la storia scientifica in modo normativo”. Dall’altro abbiamo una attenzione specifica “all’arcipelago di competenze e di ‘ritagli’ sulla molteplicità di piani che mostra la natura vivente”. L’intenzione è dunque di “fornire chiavi interpretative per mettere a fuoco i mutamenti epistemologici tra filosofia della scienza in generale e filosofia delle scienze del mondo vivente.” È proprio dunque il contrario di ciò che teme Badiale quando vede una tendenza della filosofia della scienza a dividersi essa stessa in sottodiscipline mimando il movimento di specializzazione parcellizzante della scienza stessa.”
Può essere esemplare, a questo punto, per mostrare meglio in concreto in che modo oggi la riflessione filosofica possa diventare una componente essenziale del processo di crescita della conoscenza scientifica, riferirsi al dibattito in corso sul tema dell’evoluzione biologica. La figura di Stephen J. Gould ha in esso un ruolo centrale.
Egli infatti si presenta come un darwiniano che intende valorizzare l’opera di Darwin polemizzando al tempo stesso anche con gli eredi più “ortodossi”.La sua polemica nei loro confronti riguarda tre punti essenziali. Il primo riguarda la natura dei soggetti dell’evoluzione. “Secondo me – scrive in polemica con Richard Dawkins – Richard è un iperdarwinista. Per Darwin la spiegazione viene abbassata [da un Dio provvidenziale] al livello degli organismi, che perfezionano le loro caratteristiche attraverso la lotta per la riproduzione, ossia per il loro vantaggio personale. [ … ] Richard ha voluto spostare il livello di spiegazione al gradino più basso: non sono gli organismi, ma i geni che lottano per riprodursi. Gli organismi sono solo i veicoli dei geni. Ma Richard ha torto. In natura sono gli organismi che lottano fra loro. Se essi potessero essere definiti come un’addizione cumulativa di quello che fanno i geni, allora si potrebbero ricondurli ad essi. Ma non è così, perché gli organismi hanno miriadi di caratteristiche emergenti. In altre parole [e qui ritroviamo ciò che dice Buiatti; M. C.)] i geni interagiscono in modo non lineare; questa interazione definisce l’organismo, il quale non può essere ridotto a una mera sommatoria dell’azione di un gene o di quell’ altro”.
Il secondo punto riguarda il gradualismo dell’evoluzione biologica. Esso è il più noto, e ad esso si riferisce la teoria degli equilibri punteggiati formulata da Gould con Niles Eldredge negli anni ’70. A questo proposito egli commenta: “Il concetto di tempo geologico è considerato indispensabile dai darwinisti ortodossi per applicare la cosiddetta estrapolazione biouniformista: essa consiste nell’osservare i piccoli cambiamenti che si verificano nella storia delle popolazioni locali per poi estrapolarli nella scala dei tempi geologici. Ma se sul piano delle ere geologiche entrano in gioco nuove cause che non possono essere comprese nel tempo breve, allora la strategia darwinista non funziona più. Ecco perché lo stesso Darwin faceva finta di ignorare le estinzioni di massa: la geologia mette in crisi l’aspetto uniformista o estrapolazionista, del pensiero darwiniano”.
Il terzo infine riguarda l’adattazionismo. “Nel lungo periodo – egli osserva – si scopre che la storia della vita sfugge al controllo adattativo. Entrano in gioco infatti nuovi fattori contingenti, come le estinzioni in massa e l’emergere di nuove specie per via dell’equilibrio punteggiato. Il successo a lungo termine nei vari gruppi di organismi dipende più dal tasso di specializzazione che dalle morfologie costruite dalla selezione naturale”.
“È chiaro – Gould aggiunge – che in natura l’adattamento gioca un ruolo importante. La mano e il piede, per esempio, sono strutture così ben funzionanti solo in virtù della selezione naturale. “Tuttavia, egli prosegue, “alcune strutture possono emergere come semplici effetti secondari di altre che hanno scopo adattativo. Prendiamo il cervello umano: pur assolvendo a funzioni ben determinate, esso è anche un computer straordinariamente complesso che non è necessariamente il frutto della selezione naturale. Di sicuro la selezione non gli ha insegnato a leggere e scrivere, perché queste funzioni sono state acquisite molto recentemente”. Infine Gould sostiene una tesi radicale sul ruolo del caso nell’evoluzione della vita sulla Terra. Cosa succederebbe, si domanda, se il nastro della vita fosse fatto girare un’altra volta? Egli risponde che l’evoluzione è fondamentalmente il risultato della contingenza, e pertanto che il suo esito sarebbe completamente diverso se essa ricominciasse da capo. “Se ci poniamo la domanda fondamentale di tutte le epoche – perché esistono gli esseri umani? – una parte essenziale della risposta … deve essere: perché Pikaia [il nome dato a un esemplare insignificante, che mostra una traccia di rudimentale corda spinale, trovato nel giacimento fossile della Burgess shale formatasi 570 milioni di anni fa] sopravvisse alla [successiva] grande decimazione della popolazione di Burgess. Questa risposta non cita alcuna legge della natura, non contiene alcuna affermazione sui cammini evolutivi prevedibili, né alcun calcolo di probabilità basato su regole generali dell’anatomia o dell’ecologia. La sopravvivenza di Pikaia è stato soltanto un evento contingente della storia”.
Negli ultimi anni sta tuttavia affermandosi una scuola di pensiero formata da coloro che, pur ammettendo che il caso possa giocare un ruolo importante nel processo evolutivo, ritengono ragionevole affermare che alcune caratteristiche della vita si ripresenterebbero comunque invariate, in quanto risultato di regolarità emergenti dalle proprietà di autorganizzazione dei sistemi formati da un gran numero di semplici elementi reciprocamente interagenti. Questa linea di ricerca si riallaccia dunque alla tradizione della scienza “newtoniana”, tornando a rivendicare anche per la biologia il ruolo, già svolto in passato dalla fisica, di scienza nomomologica, che aspira a fornire spiegazioni universali e astoriche dei fenomeni biologici fondate su leggi matematiche strutturali o morfogenetiche (sulla scìa della tradizione della biologia della forma e della struttura che ha avuto nel ‘900 esponenti come Ludwig von Bertalanffy, D’Arcy Thompson e Conrad Waddington e i contemporanei René Thom e Brian Goodwin). Per questa scuola di pensiero, che ha come esponente di spicco Stuart Kaufmann e come centro di riferimento il Santa Fé Institute in California, l’unico modo per tentare di rispondere a questa domanda, visto che non è possibile ricominciare da capo l’evoluzione della vita sulla terra, è costruire un modello di universo “ragionevole” da sottoporre a una molteplicità di processi evolutivi in condizioni differenti, in modo da identificare quali siano le caratteristiche che compaiono comunque indipendentemente dai fattori contingenti operanti in ognuno di questi processi.
Per mezzo di questa procedura Kaufman arriva a concludere che “gran parte dell’ordine negli organismi non sia il risultato della selezione, ma della capacità di ordine dei sistemi autoorganizzati. L’ordine degli organismi è naturale, non è il trionfo inaspettato della selezione naturale contro la marea entropica montante.”
In sostanza, mentre per Gould nell’evoluzione prevale la contingenza, e dunque le forme della vita sarebbero completamente diverse se ricominciasse tutto da capo, per Kaufmann prevale l’ordine, e tutto si ripeterebbe all’incirca nello stesso modo.

  1. IL PROBLEMA CORPO/MENTE

Il tema senza dubbio più attuale e controverso, dove maggiormente i presupposti metateorici si intrecciano con il linguaggio formale adottato dando origine a una grande varietà di teorie in competizione è quello del rapporto corpo/mente, e della natura della coscienza. È interessante a questo proposito il tentativo di esplorare questo terreno esposto in un libro recente (La nature et les règles, Odile Jacob, Parigi, 1998), nel quale il neurobiologo Jean Pierre Changeux e il filosofo Paul Ricoeur affrontano il discorso alla luce rispettivamente dei risultati più recenti delle neuroscienze e delle posizioni filosofiche della fenomenologia di derivazione husserliana. È un tentativo di costruire un “terzo discorso” che rispetti al tempo stesso i vincoli imposti alla vita dell’uomo dalla materialità della sua natura e i suoi bisogni di dare un significato al suo vissuto individuale. Non è possibile, ovviamente, ripercorrere le vie che ognuno dei due ha seguito per cercare di incontrarsi. Qui mi limito a riassumere brevemente le premesse di questo dibattito.
“In che misura – si chiede all’inizio il neurobiologo – il progresso spettacolare delle conoscenze sul cervello e la sua evoluzione, l’emergere di un dominio completamente nuovo, quello delle scienze cognitive – fisiologia, biologia molecolare, psicologia e scienze umane – ci portano a riesaminare la vecchia questione” del rapporto corpo-mente, cervello-pensiero? È possibile accedere oggi a una visione più unitaria, più sintetica tra dominio riservato alla filosofia e quello delle conoscenze sul cervello e delle sue funzioni? Può un neurobiologo legittimamente interessarsi ai fondamenti della morale, e reciprocamente può un filosofo trovare materia di riflessione e di arricchimento nel campo delle neuroscienze contemporanee? Ci si può interrogare sulla relazione tra la natura e la regola?”.
Il filosofo gli risponde: “Prima ancora di affrontare queste domande, occorre sgombrare il campo dal problema tradizionale dell’ontologia fondamentale, del problema cioè se l’uomo sia fatto di una o due sostanze. La mia tesi iniziale è che i due discorsi tenuti da una parte sul corpo e sul cervello e dall’altra su quello che chiamerò il mentale, della conoscenza, dell’azione e dei sentimenti, si riferiscono a due prospettive eterogenee, cioè irriducibili l’una all’altra, cioè non derivabili l’una dall’altra. Si tratta però di un dualismo semantico, di un dualismo di prospettive. Bisogna evitare di scivolare da un dualismo di discorso a un dualismo di sostanze. L’interdizione di questa estrapolazione dal semantico all’ ontologico implica che il termine mentale che io impiego non è uguale a non-materiale, non-corporeo. Il mentale vissuto implica il corporeo, ma in un senso irriducibile al corpo oggettivo conosciuto dalle scienze della natura. Al corpo-oggetto oppongo il corpo-vissuto. Il corpo come parte del mondo, e il corpo da dove apprendo il mondo per orientarmici e viverci”.
Le posizioni di partenza sono dunque chiare. Il neurobiologo è un riduzionista che identifica l’esperienza soggettiva dei pensieri e delle emozioni con le loro tracce nelle strutture cerebrali e il filosofo è invece convinto dell’irriducibilità delle categorie del corpo-vissuto alle categorie del corpo-oggetto. Non è questa la sede per illustrare le molte questioni trattate nel corso del dibattito. Mi limito a segnalare che, pur concordando sull’obiettivo, che è quello di cercare le origini delle condotte morali nel processo di evoluzione delle specie, le reciproche posizioni restano alla fine, ancora abbastanza lontane. A mio giudizio la responsabilità maggiore ricade principalmente sul neurobiologo, che crede ancora alla unicità della rappresentazione scientifica della realtà e dunque, in ultima analisi, alla sua oggettività assoluta. Al filosofo tuttavia, che pure insiste giustamente sulla relativa autonomia dei linguaggi delle diverse discipline e sulla necessità di riconoscere l’esistenza di una sfera dell’indicibile nella psiche umana (anche se in questo dialogo stranamente non si parla mai dell’inconscio), manca la capacità di chiarire il carattere di meta linguaggio del linguaggio filosofico rispetto ai linguaggi delle discipline scientifiche. Solo a questa condizione, infatti, si apre la possibilità di andare oltre il “dialogo fra sordi” rappresentato dal confronto sterile fra le proposizioni fattuali e relazionali della scienza e i concetti che la filosofia utilizza per descrivere la soggettività della mente umana.
Conviene a questo punto passare in rapidissima rassegna le tesi di alcune delle teorie che si confrontano. Francisco Varela, un notissimo neurofisiologo recentemente scomparso che ha dedicato a questo problema gli ultimi anni della sua vita riassume il nodo della questione dicendo che “ogni scienza della cognizione e della mente deve, prima o poi, fare i conti con la condizione ineludibile secondo la quale non abbiamo alcuna idea di come potrebbe essere il mentale o il cognitivo al di fuori della stessa esperienza che ne abbiamo”. Egli presenta in uno schema grafico quattro gruppi di posizioni diverse, collocando in alto quelli funzionalisti, da un lato quelli riduzionisti, in basso quelli “rassegnati al mistero” e dall’altro lato quelli (tra i quali si colloca egli stesso) che si richiamano alla fenomenologia.
L’esponente più tipico del riduzionismo fisico è il filosofo Paul Churchland (e vicino a lui troviamo lo scopritore della doppia elica Francis Crick), secondo il quale l’attività funzionale del cervello (attività cognitiva) è una attività di calcolo distribuito parallelo (CDP). Questa attività trasforma gli input sensoriali, passando attraverso una vasta rete di connessioni sinaptiche, in output di varia natura (motoria, razionale, emotiva ecc.) o in informazioni immagazzinate in memorie di vario tipo che vengono utilizzate a loro volta nell’attività di calcolo. Sulla base di questo modello Churchland affronta l’enigma della coscienza umana. Concretamente egli propone di procedere elencando alcune caratteristiche che egli considera salienti della coscienza umana, e facendo vedere che tutte queste caratteristiche sono ricostruibili in termini neurocomputazionali, con un modello di rete neurale ricorrente di calcolo distribuito parallelo. Esse sono riproducibili mediante una semplice rete specifica, formata da tre strati di neuroni con connessioni feedfonvard e retroazioni feedbackward. “In termini neurocomputazionali – conclude Churchland – riusciamo a capire come ciascuna di queste caratteristiche possa essere realizzata, ed è concepibile che esse vengano effettivamente realizzate in una struttura fisica reale, il nostro cervello”.
Un’altra forma di riduzionismo, questa volta di tipo informatico, è quello dei fautori del programma “forte” di Intelligenza Artificiale, che anch’essi assumono come modello il computer, ma, invece di concentrarsi sulle proprietà del cervello come hardware, equiparano la mente al suo software. Secondo il filosofo Daniel Dennett, per esempio, la coscienza umana nasce dall’operazione di un qualche programma informatico, da lui definito “macchina virtuale” che “gira” sul cervello. “[Se] tutti i fenomeni della coscienza umana trovano spiegazione ‘solo’ in quanto attività di una macchina virtuale realizzata nelle connessioni astronomicamente regolabili del cervello umano, allora, in teoria, un robot programmato ad hoc, il cervello di un computer a base di silicio, sarebbe conscio, avrebbe un sé”.
Agli antipodi di entrambi troviamo da un lato Varela, e dall’altro il filosofo John Searle. Per entrambi questi autori, i riduzionisti eliminano il problema negandolo, anche se le soluzioni che essi propongono sono diverse. Per il primo, infatti, il riduzionismo “cerca di risolvere il problema eliminando il polo dell’esperienza a favore di una qualche forma di spiegazione neurobiologica a cui sarà affidato il compito di generarla. Ovvero, per dirla con la tipica rudezza di Crick: ‘Non sei che un ammasso di neuroni”‘. Egli sostiene al contrario, che “l’esperienza in prima persona è un fatto fondamentale da inserire nel futuro della disciplina”, e propone un “particolare procedimento di esplorazione dell’esperienza” secondo un approccio fenomenologico nel senso di Husserl. “Non possiamo – egli argomenta – in alcun modo immaginarci la soggettività come parte della nostra visione del mondo, perché proprio la soggettività in questione è la capacità stessa di immaginare”.
Per John Searle invece non c’è una irriducibilità sostanziale tra descrizione oggettiva in terza persona ed esperienza soggettiva in prima persona: il cervello è una macchina, ma una macchina cosciente. Il “mistero” della coscienza “verrà progressivamente rimosso quando risolveremo il problema biologico della coscienza. Il mistero non costituisce un ostacolo metafisico ad una comprensione del funzionamento del cervello; il senso del mistero deriva piuttosto dal fatto che attualmente non soltanto non sappiamo come esso funziona, ma non abbiamo nemmeno un’idea chiara di come il cervello potrebbe funzionare per causare la coscienza. “L’errore dei riduzionisti è dunque quello di tentare di duplicare i “processi mentali interiori, qualitativi e soggettivi [ … ] duplicando gli effetti osservabili del comportamento esteriore di questi processi. Sarebbe come tentare di duplicare i meccanismi interni del vostro orologio costruendo una clessidra”.
In mezzo ai due estremi troviamo due fra i maggiori protagonisti di questo dibattito, Antonio Damasio e Gerald Edelman, entrambi scienziati all’avanguardia nella ricerca di punta. Per entrambi l’idea che la ricchezza dell’esperienza umana sia indipendente dal substrato biologico è una sciocchezza. Secondo Gerald Edelman la ricchezza dell’esperienza umana del ricordo “non può essere adeguatamente rappresentata dal linguaggio impoverito della scienza informatica: ‘memorizzazione, recupero, input, output”‘.
Questo, tuttavia, non significa che ci sia qualcosa di misterioso. Al termine del libro scritto in collaborazione con Giulio Tononi, Come la materia diventa coscienza, leggiamo: “Il pensiero cosciente è un insieme di relazioni dotate di senso che vanno oltre l’energia e la materia (anche se le implicano). Che cos’è allora la mente nella quale questo pensiero nasce? La risposta è che essa è al tempo stesso materiale e dotata di senso. [ … ] Sono le strutture materiali straordinariamente complesse del sistema nervoso e del corpo che danno origine ai processi dinamici mentali e alla produzione di senso. Non è necessario postulare niente altro – né altri mondi, né altre menti o forze ancora inimmaginabili come la gravità quantistica”. Le conclusioni di Damasio (che fra l’altro ha scritto un fortunato libro intitolato L’errore di Cartesio, esempio quanto mai pertinente di intervento della filosofia in una controversia scientifica) sono simili. Per questo autore “il potere della coscienza deriva dalla connessione efficace che stabilisce fra il meccanismo biologico di regolazione della vita individuale e il meccanismo biologico del pensiero. Questa connessione è la base per la creazione di un impegno individuale che permea tutti gli aspetti dei processi di pensiero, focalizza tutte le attività di problem solving, e ispira le conseguenti soluzioni.”
È tuttavia interessante che egli sottolinei, avvicinandosi in questo a Varela, come “non sia verosimile pensare che nuove conoscenze sulla biologia che sta dietro alle immagini mentali possano produrre, nella mente di chi possiede queste conoscenze, l’equivalente dell’ esperienza di una immagine mentale nella mente dell’organismo che la crea”. In altri termini: “Quando tu guardi l’attività del mio cervello, tu non vedi quello che io vedo. Tu vedi una parte dell’attività del mio cervello mentre io vedo quello che vedo”. Questo non vuol dire, però, che la conoscenza neurofisiologica non è in grado di spiegare l’esperienza mentale. Vuol dire semplicemente che spiegare in termini scientifici come fare qualcosa di mentale è cosa completamente diversa dal fare direttamente quel qualcosa di mentale.

  1. SCIENZA E VALORI

Il ruolo del discorso filosofico nel dibattito fra proposte alternative di rappresentazione della realtà non si limita al piano epistemologico, ma assume una nuova dimensione quando si passa dalle discipline della materia inerte a quelle della materia vivente e pensante. È la dimensione dell’etica. La tradizionale separazione fra il compito di una scienza che persegue in completa autonomia l’obiettivo di acquisire conoscenza oggettiva e disinteressata, basata su “fatti” certi, e quello di utilizzarne i risultati per soddisfare i bisogni dei membri di una comunità in base a priorità e vincoli economici, sociali e morali in accordo con le norme che ne regolano la convivenza, non regge più. Il dogma della avalutatività delle affermazioni della scienza è crollato. L’ideale della “conoscenza fine a sé stessa” si rovescia nella pratica della “ragione strumentale”. Il motivo è semplice: i “fatti” non sono neutri, perché, per definizione, i “fatti” che condizionano nel bene e nel male la vita delle persone – e sono sempre di più i “fatti” di questa natura che la scienza produce direttamente – diventano carichi di “valori”. E lo diventano ancor di più quando condizionano in modo diverso la vita di persone diverse. Questo implica che, alle scelte dei problemi da affrontare, delle nuove direzioni da esplorare e soprattutto delle azioni da intraprendere, dovrebbero concorrere in modo esplicito e trasparente oltre agli scienziati con i loro dati, ai politici con le loro ideologie, alle imprese con i loro interessi, anche i soggetti sociali che di queste scelte dovranno subire le conseguenze, con la loro concretezza materiale, che esprime bisogni, condizioni di vita e aspettative per il futuro.
Dice il filosofo Hans Jonas nel suo libro dedicato al tema Tecnica, medicina ed etica: “Con quello che facciamo qui, ora, e per lo più con lo sguardo rivolto a noi stessi, influenziamo in modo massiccio la vita di milioni di uomini di altri luoghi e ancora a venire, che nella questione non hanno avuto alcuna voce in capitolo […]. Il punto saliente è costituito dal fatto che l’irrompere di dimensioni lontane, future, globali nelle nostre decisioni quotidiane, pratico-terrene, costituisce un novum etico, di cui la tecnica ci ha fatto carico; e la categoria etica che viene chiamata principalmente in causa da questo nuovo dato di fatto si chiama: responsabilità”. E ancora: “Una volta era facile distinguere fra tecnica benefica e tecnica dannosa, considerando semplicemente l’impiego dei suoi strumenti. I vomeri, si diceva, sono buoni, le spade, cattive. Ma qui salta all’occhio il tormentoso dilemma della tecnica moderna: a lungo termine i suoi ‘vomeri’ possono essere dannosi quanto le sue ‘spade”‘. E prosegue: “In questo caso sono loro, i benefici ‘vomeri’ e i loro simili, il vero problema”. È un problema che diventa ogni giorno più urgente affrontare. Già più vent’anni fa Jeremy Rifkin – un autore molto noto e molto discusso per le sue previsioni sui rischi e sulle promesse delle nuove tecnologie, considerate per lo più come profezie allarmistiche dagli esperti, dai leaders politici e dai mass media in genere, ma che a me, al contrario, sembrarono all’epoca molto realistiche – prospettava in un libro, intitolato Who should Play God? la possibilità di realizzare, entro la fine del secolo, specie transgeniche, chimere animali, cloni, bambini in provetta, e di avviare la fabbricazione di organi umani e la chirurgia genetica. Nel libro, inoltre si affermava che lo screening per le malattie genetiche sarebbe diventato una pratica diffusa, sollevando problemi molto seri di discriminazione genetica da parte di datori di lavoro, compagnie di assicurazione e scuole. Si esprimevano inoltre preoccupazioni per la crescente commercializzazione del pool genetico della Terra da parte delle aziende farmaceutiche, chimiche e biotecnologiche, e si sollevavano domande inquietanti sull’impatto potenzialmente devastante e a lungo termine che il rilascio nell’ambiente di organismi geneticamente modificati avrebbe potuto avere.
Dopo vent’anni le previsioni di Rifkin si sono avverate tutte e le sue preoccupazioni sono sempre più largamente condivise. Anzi, nuove tecnologie sempre più potenti sono state realizzate. La letteratura in proposito è ormai sterminata. Cito soltanto un documento, scritto recentemente da Bill Joy, un informatico assai noto, autore del software Java, intitolato Il futuro non ha necessariamente bisogno di noi che ha per sottotitolo Le nostre più potenti tecnologie del 21° secolo – la robotica, l’ingegneria genetica e la nanotecnologia stanno minacciando di fare degli umani una specie a rischio.
Il punto essenziale è che queste tecnologie rappresentano una minaccia diversa da quella insita nelle tecnologie precedenti: esse infatti hanno in comune un fattore di amplificazione finora sconosciuto, perché possono autoreplicarsi. Una bomba scoppia una sola volta, ma un organismo artificiale può generarne molti, e rapidamente sfuggire a ogni controllo. Non è fantascienza. È di questi giorni la notizia che una supererba infestante, nata dall’incrocio tra un’erbaccia comune e sementi di colza geneticamente modificata per resistere a tutti gli erbicidi noti, seminata all’aperto per errore, sta diffondendosi in Inghilterra producendo miliardi di danni.
La conclusione delle riflessioni di Joy è drastica: “Stiamo proiettandoci nel nuovo secolo senza un piano, né un controllo né freni. Siamo già andati troppo avanti, giù per la china per poter fermare la corsa? Forse no, ma non ci stiamo nemmeno provando, e l’ultima occasione per istituire un controllo – il punto di non ritorno – sta avvicinandosi rapidamente”.
Non nascondiamoci l’enorme difficoltà del compito che ci sta di fronte. Se già è difficile il confronto fra epistemologie diverse, il contrasto tra etiche basate su valori differenti rischia di diventare un conflitto devastante. Detto per inciso, che altro è, se non questo, lo scenario sconvolgente che si apre dopo l’11 Settembre? Ma non è questa la sede per affrontare questo discorso. Mi limito ad accennare al tenue spiraglio di luce che il dialogo, già citato, fra Changeux e Ricoeur getta su questo buio pauroso. Nella fase finale del dibattito essi affrontano infatti la questione se esistano fondamenti naturali dell’etica. Per Ricoeur il termine fondamenti naturali è ambiguo: da un lato ha il significato di elemento di base, di preliminare, e dall’altro quello di legittimazione, di giustificazione. La storia culturale dell’umanità ha portato alla coesistenza di molti sistemi di legittimazione. Il problema è di accedere allo stadio in cui più tradizioni si riconoscano come cofondatrici al fine della sopravvivenza comune. Per Changeux il termine giustificazione è pericoloso perché implica un giudizio di “giustizia” assoluta che può aprire le porte ai fondamentalismi e impedire il dialogo. Egli insiste sul fatto che epigenesi e apprendimento contribuiscono entrambi tanto alla diversità individuale che all’unità di ogni persona umana. Il termine “fondamento naturale” fa riferimento semplicemente alla sua natura materiale, a una “realtà unica e sufficiente”. Per questo un processo di intercomprensione benevolente e illuminata, in cui tutte le opinioni si esprimono, ma restano libere di evolversi è l’obiettivo al quale occorre mirare.
I temi sui quali questa fase finale si articola sono molti: ne accenno brevemente. Sul rapporto fra religione e violenza entrambi i dialoganti sono d’accordo che le religioni quasi sempre generano violenza. Tuttavia, la differenza fondamentale che li separa riemerge ancora una volta. Per Changeux solo il linguaggio scientifico può eliminare la violenza, mentre per Ricoeur la critica al settarismo delle religioni può soltanto farsi facendo ricorso alla sfera del “fondamentale religioso” dell’esperienza umana alla quale solo attraverso il linguaggio del “religioso” si può accedere. Di qui deriva anche una diversa concezione del cammino verso la tolleranza. Per lo scienziato, a partire dalla constatazione dei conflitti generati dalle differenze cuI tura li, è necessario sforzarsi di riflettere sui fondamenti di un etica universale e di trovare dove si situa concretamente quello che il filosofo designa come “fondamentale”. Per quest’ultimo invece, non può essere la scienza che detiene da sola la chiave del problema della violenza tra gli uomini. La tolleranza non consiste solo nel sopportare ciò che non si può impedire. “È dall’interno della mia relazione con il fondamentale che posso comprendere che ci sono altre convinzioni oltre alla mia”.
Infine, il problema dello scandalo del male. Qui, nonostante la diversità dei punti di vista l’obiettivo è, nella sostanza, comune. Per lo scienziato la ricerca della conoscenza oggettiva e il dibattito argomentato e critico che l’accompagna possono farci meglio comprendere la violenza e le sue origini, e arbitrare più efficacemente i conflitti in vista di una pacificazione. L’obbiettivo è la formazione di una etica laica, che non faccia intervenire alcuna metafisica superiore, ma, partendo da fatti oggettivi e da ingiunzioni pratiche “civilizzatrici”, valutabili in termini delle loro conseguenze, faccia appello all’immaginario mobilitando la sfera del simbolico per mettere in sinergia il desiderio, e magari anche il piacere con il normativo.
Il filosofo è d’accordo, a patto di considerare, alla base di questa etica universale laica, tre correttivi: il primo è il riconoscimento che c’è del religioso anche al di fuori della mia religione. Il secondo è che non c’è solo il religioso delle altre religioni, ma anche il non religioso dei miei contemporanei; il terzo è il pensare la politica come regola procedurale per vivere insieme in una società dove ci sono religiosi e non religiosi. Termina così questo dialogo serrato e non inutile.

  1. CONCLUSIONI

Cerchiamo di trarre le fila. Che non basti la scienza per capire il mondo, ma ci sia anche bisogno della filosofia, mi sembra dunque ovvio. Direi di più. Non basta nemmeno la filosofia. Direbbe Bateson che ci vogliono anche, per esempio, l’arte, la bellezza, il gioco, l’umorismo e persino il sacro. Ma il vero drammatico problema è che nella società contemporanea tutto è ormai ridotto a merce, e dunque che non si può capire il mondo senza andare al supermercato.
Nel XX secolo il meccanismo di accumulazione del capitale si è fondato sulla formazione del profitto nel processo di produzione delle merci materiali (molecole) e sull’espansione del loro consumo da parte dei lavoratori stessi (fordismo). Di qui ha avuto origine il conflitto drammatico tra capitale e lavoro che ha segnato il secolo “breve”. Nel XXI secolo il meccanismo di accumulazione del capitale sempre più si fonderà sulla formazione del profitto nella produzione di merci immateriali (bit) (“informazione”, “conoscenza” o, semplicemente “comunicazione”). Più propriamente la formazione del profitto si sgancia dal “tempo di lavoro”, perché le merci immateriali possono essere moltiplicate all’infinito senza costo, e dunque il profitto, una volta fatto il prototipo, può crescere illimitatamente al crescere del consumo.
La necessità da parte del capitale di invocare una continuità tra la new economy e la old economy deriva dal tentativo di mantenere il vecchio meccanismo di accumulazione (valido per la produzione di merci materiali), che sta entrando in crisi per limiti fisici (saturazione di mercati, disastri ecologici, ecc.), anche per un processo produttivo di beni che per natura potrebbero essere fruiti da tutti i membri della società. Per sopravvivere ed espandersi il capitale ha bisogno di rendere artificiosamente scarsi i beni che potrebbero essere liberamente fruiti da tutti.
La proprietà fondamentale dei beni immateriali è infatti che, a differenza di quelli materiali, la fruizione da parte di un “consumatore” non ne impedisce la fruizione da parte di altri. Le merci immateriali, in realtà non si “consumano”. In un disco non è la plastica che conta, è la canzone che c’è incisa. Ma la canzone non si consuma se io l’ascolto: la possono ascoltare altre milioni di persone. Il trucco del capitale sta nel far credere che la merce venduta è indissociabile dal suo supporto materiale, e giustifica in tal modo le leggi che vietano la riproduzione libera del contenuto. Ma se anche il supporto diventa immateriale, il trucco si scopre (mi dicono che è facile scaricare canzoni da Internet senza pagare una lira, anche se le case discografiche fanno il diavolo a quattro per impedirlo).
C’è di più. Anche le relazioni fra persone diventano merce. Nessuno può più comunicare con gli altri se non paga un pedaggio al capitale che ha ridotto a merce tutti i mezzi indispensabili per mettere in relazione reciproca i membri della società. Senza queste merci l’individuo non può sopravvivere come individuo sociale. Diventa rifiuto, spazzatura, scompare.
In questo quadro che si può fare? Mi limito a poche osservazioni su alcune questioni urgenti. La prima riguarda le incertezze. Gli “scienziati”, per definizione, si occupano solo di quei fatti dei quali possono acquisire certezza. Essi tendono dunque a selezionare i temi che possono dare risultati certi, finalizzati al raggiungimento di un obiettivo ben determinato, a breve termine. Si accontentano, per esempio, di dire: “non ci sono evidenze certe che la tal cosa sia dannosa”. Oppure cercano rimedi per disastri già avvenuti (AIDS, mucca pazza).
I “decisori” a loro volta utilizzano queste certezze come base di partenza per realizzare gli obiettivi da perseguire sulla base dei loro “valori”. Anch’essi vogliono risultati, sul terreno sociale, a breve termine. Dicono: “visto che la tal cosa non è dannosa possiamo utilizzarla per ciò che riteniamo essere un obiettivo prioritario (a seconda della situazione sviluppo economico, salute, sicurezza o quant’altro possa far vincere le elezioni)”.
Ma chi si occupa delle incertezze? Chi si occupa dei costi che forse noi stessi, ma certamente qualcun altro, già oggi o in un futuro più o meno prossimo, dovrà pagare per i benefici che le certezze delle tecnologie di punta possono riversare nell’immediato su di noi? Perché di questi costi nessuno parla? Perché nessuno si domanda, per esempio, se la creazione, la produzione di massa e il rilascio su vasta scala nell’ ambiente naturale di migliaia di forme di vita manipolate geneticamente non causeranno un danno irreversibile alla biosfera, facendo dell’inquinamento genetico una minaccia per il pianeta ancora più grave dell’inquinamento nucleare e chimico? Oppure si domanda che conseguenze potrebbe avere per l’economia globale e per la società ridurre il pool genetico del mondo allo stato di proprietà intellettuale brevettata sotto il controllo esclusivo di un ristretto numero di multinazionali? O ancora si chiede quale sarà la condizione umana in un mondo dove i bambini vengono progettati geneticamente – certo, per il loro bene – e dove le persone vengono identificate, classificate e discriminate in base alloro genotipo?
Il primo obiettivo è dunque: orientare la ricerca pubblica verso la previsione di scenari futuri e sui mezzi di prevenzione dai pericoli dei “vomeri”.
La seconda questione riguarda i conflitti di interesse. Come facciamo ad essere sicuri che le scelte del capitale siano le migliori possibili dal punto di vista dei soggetti sociali inevitabilmente e pesantemente coinvolti, che non sono una generica “umanità”, ma i popoli, le classi, le categorie economiche, le comunità culturali, gli individui, che si trovano oggi e si troveranno domani a doverne subirne le conseguenze, nel bene e nel male?
Gli interessi dei diversi soggetti sociali sono in genere diversi, ma molti sono in conflitto con gli interessi delle multinazionali. Produttori di prodotti locali messi fuori mercato dalla produzione di massa. Malati che non si possono pagare le medicine delle grandi imprese farmaceutiche (Mandela vs. Big Pharma). Masse escluse dall’istruzione. Popolazioni derubate delle ricchezze contenute nel genoma delle specie vegetali e animali che vivono nelle nicchie ecologiche dei loro paesi. Comunità cacciate dalle terre di origine dalle catastrofi “naturali” prodotte dalle modificazioni climatiche e dalle catastrofi economiche e belliche. Nuovi lavoratori atipici privi di qualunque protezione sociale. E così via.
Il secondo obiettivo è dunque: favorire la diversificazione, difendere i più deboli dall’esclusione dall’accesso ai beni resi artificiosamente scarsi dal capitale. La terza questione riguarda come affrontare il tema della libertà della ricerca. Molti scienziati temono che un controllo sociale della loro attività invocato per prevenire disastri o evitare pericoli (principio di precauzione) possa imporre loro divieti inaccettabili (“non si può mettere il lucchetto al cervello” è il loro slogan) o addirittura forzarli a seguire cammini impercorribili. Invocano il dogma tradizionale della avalutatività delle affermazioni della scienza per rifiutare ogni ingerenza esterna. Tullio Regge, per esempio, polemizzando con me sulla rivista Le Scienze, dopo aver ribadito che “il mondo scientifico deve attenersi ai fatti ed esporli, ma sono i politici a decidere”, attribuisce agli ambientalisti la pretesa di avere la “certezza assoluta” che un determinato agente non nuoccia alla salute o comunque non abbia effetti dannosi, e, argomenta che “non esiste attività umana a rischio nullo” per concludere che “il principio […] diventa così strumento per bloccare innovazioni ideologicamente sgradite”. Ma, come accade per la Libertà senza aggettivi, il limite alla libertà di ognuno è la libertà altrui. Perciò la libertà di fare ricerca nell’interesse di un soggetto particolare non può impedire la formulazione di vincoli per la prevenzione dei danni possibili e il controllo sociale a vari livelli (locale, regionale, nazionale e internazionale) sui costi e benefici dalla utilizzazione dei suoi risultati. Il terzo obiettivo deve essere dunque l’istituzione di sedi competenti (magistratura tecnoscientifica) per giudicare conflitti derivanti da uso improprio della ricerca. Strettamente connessa con la precedente è dunque la domanda: Chi paga la ricerca? La ricerca privata deve essere libera, ma deve essere pagata da chi ha un interesse diretto a farla. La ricerca pubblica deve avere due obiettivi. Il primo è quello di sviluppare ricerca senza obiettivi immediati di utilizzazione o con obiettivi di utilizzazione senza scopo di lucro. Il secondo, l’abbiamo già detto, è quello di controllare quella privata nell’interesse dei cittadini e delle generazioni future. Il quarto obiettivo deve essere dunque: rendere praticabile l’adozione del principio di precauzione. Infine una domanda di scottante attualità: Si può brevettare la vita? Poiché il brevetto è stato istituito per proteggere una invenzione e la scoperta non è per principio brevettabile, occorre concludere che gli organismi viventi, anche se artificialmente modificati non possono essere brevettati. Ogni ogm è una modifica di un organismo naturale, e la natura non si brevetta. Del resto gli elementi transuranici artificiali, in quanto ottenuti da modificazione di elementi naturali non sono stati brevettati. Tagliare il cordone ombelicale che lega la ricerca alla produzione di conoscenza in forma di merce è il solo modo per assicurare la libertà di ricerca. Le imprese potranno brevettare i procedimenti specifici per ottenere un determinato prodotto vivente, ma non il prodotto stesso. Solo in questo modo la ricerca riacquisterà un ampio ventaglio di motivazioni, giustificazioni, stimoli, al di fuori dell’unico imperativo attuale, che, come dice Giorgio Bocca si riduce alla regola: “attenersi a ciò che rende e trascurare ciò che non dà guadagni”. Il quinto obiettivo dunque è: la vita non si brevetta.

Marcello Cini

Questo saggio di Marcello Cini è già stato pubblicato su Koinè, Periodico culturale, Anno X, nn. 1-2, Gennaio-Giugno 2002,  pp. 53-76; direttore responsabile Carmine Fiorillo; il volume collettaneo reca il titolo  Scienza cultura, filosofia.

Koiné

Scienza, Cultura, Filosofia

indicepresentazioneautoresintesi

 

Problemi tra scienza e cultura
Sintetizzare e interpretare/Darsi dei limiti/Sulla diffidenza per la filosofia/Una confutazione dello scientismo/I problemi della divulgazione/Specializzazione parcellizzante/Una catastrofe culturale?/Uno sguardo sulla cultura/Linee di resistenza/E se fosse colpa del capitalismo?/Conclusioni. Una modesta utopia.

Lucio Russo
Cosa sta accadendo alla scienza?
Premessa/Cos’è la scienza? La scienza esatta/Scienza esatta e tecnologia /Scienze biologiche (e altre scienze empiriche)/Il problema della verità/Divulgazione scientifica e imposture intellettuali/La crisi attuale/Il nuovo ruolo della biologia: le biotecnologie/Complessità /Quale futuro?

Marcello Cini
C’è ancora bisogno della filosofia per capire il mondo?
Introduzione/La svolta nella scienza dal XX al XXI secolo/L’epistemologia delle scienze della materia inerte/Una epistemologia delle scienze del mondo vivente/Il problema corpo/mente/Scienza e valori/Conclusioni.

Alberto Artosi
Lettera a uno scienziato sulla ragione, la razionalità e il razionalismo
Caro Scienziato/Bisogna guardarsi da un’immagine ingenuamente razionalistica della scienza/Anche gli scienziati più aperti sono dei razionalisti (e degli elitisti) ingenui/Bisogna sottrarsi al culto delle argomentazioni “razionali” /Il caso dell’archeoastronomia/ Il razionalismo ingenuo è intollerante/Sulla “cultura di massa”/Commiato.

Massimo Bontempelli
Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea
Popper: la teoria come congettura/Hegel e la filosofia della scienza/La teoria della verità come idealità matematica/Gödel: la logica matematica non può giustificare il proprio principio di coerenza/Matematica senza fondamento/Barrow: la base teorica universale della matematica/Hegel: la quantità come “qualità tolta”/Il gran libro della Natura è scritto in caratteri matematici?/Il risultato culturale della rivoluzione scientifica/La semplificazione galileiana del mondo reale/La quantità matematizzabile come dominabilità del mondo/I limiti del meccanicismo/La fisica delle particelle come pura astrazione teorica/Le teorie del tutto/Il determinismo dell’elettrodinamica quantistica/Feynman: la Natura è assurda/La povertà conoscitiva del determinismo matematico della fisica/Il crollo del determinismo fisico di fronte alle forme biologiche/La concezione biologistica della verità/La povertà della moderna coscienza antimetafisica /Il pregiudizio antimetafisico della mentalità odierna/Realtà e verità nella filosofia ontologic/La sapienza di Platone.

Fabio Bentivoglio
Scienza, Natura e destino dell’uomo. Riflettiamo con Aristotele
Che cosa è, oggi, la sapienza?/La Natura/Le onde e la scogliera/Un’etica per la civiltà tecnologica/Dogmi di ieri e dogmi di oggi/L’elogio del senso comune.

Jean Bricmont
Contro la filosofia della meccanica quantistica
Riassunto/Introduzione/Realismo e positivismo/Il problema della meccanica quantistica/La non località/Soluzioni possibili al problema della misura/Conclusioni/Appendice I: Il problema della misura/Appendice II: Il teorema di Bell/Appendice III: La teoria di Bohm/Appendice IV: Bibliografia/Ringraziamenti/Riferimenti.

Fabio Acerbi
Concetto ed uso dei modelli nella scienza greca antica
Il concetto di modello/La controversia storiografica: strumentalismo versus realismo/Cenni al dibattito epistemologico in età ellenistica/L’approccio per modelli nella scienza antica: alcuni esempi: a. Astronomia; b. Meccanica; c. Ottica; e. Teoria musicale; f. Medicina/Conclusioni.

Jules-Henri Poincaré
La matematica e la logica

Giancarlo Chiariglione – La caricatura e il suo doppio ovvero: Elio Petri e i nodi del cinema politico italiano

Elio Petri

Parlando di Elio Petri, viene da domandarsi come quest’autore abbia potuto occupare così autorevolmente la categoria del politico (cineasta d’impegno, regista del cinema politico) ed essere al contempo oggetto di un ostracismo critico che sovente ne ha fatto il prototipo di tutto quanto andava evitato al cinema negli anni sessanta e settanta. L’esiguo numero di pubblicazioni[1] che lo riguardano, testimonia, infatti, di come egli, nel panorama delle analisi dei film italiani del dopoguerra, sia stato relegato in una zona oscura, ambigua, che in malo modo si concilia con il cristallino apprezzamento (sconfinante spesso nel plebiscito) ottenuto da alcune sue pellicole presso il grande pubblico. Provare a definire i caratteri della vicenda Petri, diventa pertanto un’operazione complessa, nonostante sia diffusa la sensazione che si stia forse entrando in una nuova fase degli studi sul regista romano[2]; che sia finalmente possibile operare un ripensamento generale alieno sia ai passati radicalismi che hanno, come vedremo, compromesso un’analisi accurata della sua opera, sia a possibili future canonizzazioni acritiche.
Noto soprattutto come regista e artista, l’autore romano è stato anche un uomo lucido (e inquieto) che ha riflettuto molto sul senso del suo lavoro, un intellettuale che ha partecipato da protagonista alla discussione nata dai fuochi della contestazione che nei decenni “caldi” divampavano su tutti i fronti, un attento indagatore del nostro sociale che, senza mai sacrificare la propria soggettività a dogmatismi e ragioni di partito (il riferimento è chiaramente al PCI), ha utilizzato tutte le risorse che lo spettacolo gli metteva a disposizione per mostrare al pubblico l’estrema complessità del reale.
Elio Eraclio Petri nasce il 29 gennaio del 1929 in via dei Giubbonari, allora cuore “popolare” di Roma. Figlio unico in un’epoca di famiglie assai numerose, cambia varie volte casa e quartiere. Suo padre, di corporatura minuta e di indole mite, faceva lo stagnino (la sua figura personificata dall’attore Salvo Randone, ritorna più volte nelle pellicole petriane), mentre la madre dall’aria dolce e così rassomigliante fisicamente al figlio, la casalinga. Un po’ perché di famiglia modesta e un po’ per incostanza, il giovane Petri abbandona gli studi (Istituto Tecnico Superiore) prima della maturità, per inseguire con l’insaziabile fame dell’autodidatta una cultura fatta di vita di strada e di convinta militanza politica:

«Mi cacciarono due volte dalla scuola e, infine, fui io a rifiutarmi di prendere il titolo di studio. Tutto pareva, anche allora, più necessario dell’andare a scuola. […] erano anni di guerra e di dopoguerra […] Le strade puzzavano ancora di morte e di fascismo. Se feci, quindi, una scuola fu per le strade, nelle cellule del partito comunista, nei cantieri del genio civile, al cinema, al varietà, nelle biblioteche comunali, leggendo i giornali e le riviste di partito, amando «Politecnico», facendo scuola di partito, nelle lotte dei disoccupati, in camera di sicurezza, anche a Regina Coeli, negli scontri con la polizia, nelle sparatorie, nei linciaggi, nei postriboli, negli studi dei pittori della mia età, in tipografia, da Rosati a Piazza del Popolo, nei cineclub, nei comizi, tra coloro che a quel tempo venivano ancora chiamati rivoluzionari di professione. I miei testi li trovavo nelle sezioni del partito comunista e sui carrettini dei libri usati. I miei eroi: Totò, Bogart e Julien Sorel»[3].

E di questa tenace volontà di rincorrere ogni interesse o suggestione, di questa ostilità verso qualsiasi compiutezza e stabilità, verso una deterministica concezione del mondo, tutte le opere di Petri porteranno le tracce tanto nell’immaginario (plateale ed eccentrico), quanto nello stile (così vitalistico da sfiorare spesso l’eccesso). Per quel che riguarda, invece, il partito comunista, l’autore romano, appassionato di politica sin da giovanissimo, si iscrive allo stesso nel 1946 e aderisce alla Federazione giovanile. Petri è un giovane comunista intraprendente e disciplinato, che dapprima partecipa in modo attivo al referendum monarchia-repubblica e alle proiezioni e ai dibattiti del Circolo romano del cinema fondato da Cesare Zavattini, e poi, divenuto a sua volta dirigente della Federazione, si impegna per diffondere celebri film sovietici nelle più disparate sale cinematografiche della provincia (il ricordo di quegli estenuanti viaggi e dei tentativi, spesso vani, di convincere gli esercenti a proiettare opere come Biancheggia una vela solitaria [Beleet Parus Odinokij, 1937] di Vladimir Legoscin, Il Compagno “P” [Ona Zasciscjajet Rodinu, 1943] di Friedrich Ermler e Il destino di un uomo [Sud’ba? Eloveka, 1959] di Sergei Fyodorovich Bondarchuk, saranno in futuro rivissuti dal cineasta con divertimento e nostalgia). Negli stessi anni Petri si distingue anche per l’originalità con cui firma alcuni articoli per il periodico «Gioventù nuova», in virtù dei quali, viene invitato a collaborare alla rubrica cinematografica de «l’Unità» come vice di Tommaso Chiaretti. Tramite questa vera e propria pratica sul campo[4], il nostro approda, infine, al mondo del cinema. Coloro che lo introducono nell’ambiente sono il direttore del quotidiano comunista Pietro Ingrao e l’amico Gianni Puccini, già direttore della rivista «Cinema» e sceneggiatore di Ossessione (1943) con Visconti, Mario Alicata, Antonio Pietrangeli e Giuseppe De Santis.
Proprio a quest’ultimo, alla disperata ricerca di un cronista “romano de Roma” capace di fare un’inchiesta su un tragico fatto che aveva scosso la città, i due sopraccitati consigliano il futuro regista di Indagine. In pieno clima neorealista, la cronaca alimentava la fantasia e la coscienza di intellettuali ed artisti, pertanto, anche De Santis, interessato a trasporre cinematograficamente la vicenda dell’incidente che il lunedì 15 gennaio 1951 aveva coinvolto più di duecento giovani donne richiamate in via Savoia 31 da un annuncio che prometteva un posto da dattilografa[5], decide di promuovere un’indagine sul campo. Data l’applicazione con la quale ha portato avanti la ricerca e i buoni risultati raggiunti, Petri viene invitato a prendere parte alla realizzazione della sceneggiatura con lo stesso regista, Basilio Franchina, Rodolfo Sonego, Zavattini, Puccini e anche se alla fine non viene accreditato nei titoli di testa, questa collaborazione risulterà decisiva per la sua carriera. Nell’autunno del 1951, infatti, hanno luogo le riprese di Roma ore 11 (1952) e il giovane Elio è promosso a secondo assistente alla regia a fianco di Basilio Franchina. Tale apprendistato sancisce anche l’inizio di un rapporto di amicizia con il maestro ciociaro che crescerà nel tempo («per me fu più di un fratello» disse a tal riguardo il nostro)[6] e che sosterrà Petri sino ai tempi del suo esordio con L’assassino (1961). Dal canto suo, De Santis, affezionatosi a quel ragazzo umorale ma così pieno di curiosità e intraprendenza (e soprattutto comunista ortodosso come lui), commissionandogli altre cinque sceneggiature[7], contribuirà in modo consapevole a consolidare un imprinting che influenzerà il suo stile marcato e visionario, fatto di una presa diretta della realtà umana e sociale, come pure il suo gusto per la composizione ampia e articolata abbinata ad audaci movimenti della macchina da presa (secondo le cadenze e i ritmi della cinematografia americana).
Con questo percorso tipicamente neorealista fatto di inchieste giornalistiche, scripts e documentari[8], Petri realizza un primo nucleo di opere che potremmo definire di “assestamento”. Il controllato film d’esordio L’assassino, l’antonioniano I giorni contati (1962) e Il maestro di Vigevano (1963), originale adattamento dell’omonimo romanzo di Lucio Mastronardi, denotano, infatti, la ricerca da parte dell’autore di una strada propria, di un linguaggio personale. Il quale si appalesa in forma satirica nell’episodio Peccato nel pomeriggio del corale Alta infedeltà (1964)[9] e nel graffiante apologo fantascientifico La decima vittima (1965). La fase successiva è quella della produzione matura, nella quale Petri, rielaborati i nodi tematici ed espressivi più importanti del quinquennio d’avvio in termini rivoluzionari, raggiunge infine un suo equilibrio e una sua, personalissima, misura. Sono gli anni inaugurati dal letterario A ciascuno il suo (1967), che proseguono con l’elegante Un tranquillo posto di campagna (1968) e culminano infine nella fortunata accoppiata di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e La classe operaia va in paradiso (1971). Questa stagione solenne, figlia anche dell’armoniosa collaborazione tra il cineasta romano, l’attore feticcio Gian Maria Volonté e lo sceneggiatore Ugo Pirro è però destinata a concludersi, lasciando il posto al terzo e ultimo periodo della filmografia di Petri in cui l’efficacia e l’intensità del suo discorso si esasperano nella metafora livida e soffocante de La proprietà non è più un furto (1973), nel tetro giallo politico di Todo Modo (1979), nel sartriano Le mani sporche (1979) e nel disperato e a tratti apocalittico Le buone notizie (1980).
Al di là delle varie fasi creative che hanno segnato la sua opera, il comun denominatore della produzione di Petri resta indubitabilmente la passione[10]: la stessa che lo lega alla politica. E in tal senso, un primo motivo per cui la critica fece del regista il bersaglio privilegiato di un’accesa battaglia ideologica, stilando nei suoi riguardi innumerevoli capi d’accusa, può forse essere rintracciato nella traumatica interruzione della sua militanza nel «partito dell’infanzia e dell’adolescenza», successiva a quell’evento epocale che fu la rivoluzione ungherese del 1956.
La sollevazione anti-sovietica nell’allora Ungheria socialista originata da una dimostrazione di intellettuali e operai che il 23 ottobre incoraggiarono il ritorno al potere in Polonia di Wladyslaw Gomulka, vittima dello stalinismo, venne, infatti, duramente repressa dall’intervento dei soldati dell’Armata Rossa (il 10 novembre i Consigli di lavoratori, studenti e intellettuali ungheresi chiesero il cessate il fuoco), provocando in Italia una profonda lacerazione tra la militanza dissidente[11] e la posizione ufficiale del PCI. I quadri dirigenziali con Togliatti in testa (e ad eccezione di personaggi come il sindacalista Giuseppe Di Vittorio e l’allora direttore della sezione milanese de «l’Unità» Davide Lajolo), giudicarono l’intervento sovietico «una dolorosa necessità» per arginare la “controrivoluzione” orchestrata da gruppi armati ostili alla democrazia popolare[12]. Mentre Petri e altri centouno intellettuali e artisti comunisti come Alberto Asor Rosa, Carlo Muscetta, Natalino Sapegno, Renzo Vespignani, Delio Cantimori, Mario Socrate, Dario Puccini, Alberto Caracciolo, Renzo De Felice e Lucio Colletti, sconvolti dalle notizie provenienti da Budapest e cercando di smarcarsi dalla linea togliattiana, si riunirono per stilare un documento assai critico, pieno di dolore e di delusione nei confronti dell’operato sovietico in Ungheria. Il “Manifesto dei 101” suscitò polemiche di fuoco, ma Togliatti non cedette e la dura reazione della direzione del partito creò un vero e proprio “caso di coscienza” in quei firmatari che volevano utilizzare il documento per stimolare un dibattito inerente all’organizzazione interna del PCI. Proprio per sgombrare il campo dalle accuse di arrivismo, Petri, Paolo Spriano, Mario Socrate, Renzo Vespignani e altri inviarono a «l’Unità» una lettera nella quale si parlava di critiche pretestuose, di buona fede carpita, visto che anche la mobilitazione pressoché contemporanea di intellettuali francesi come Marguerite Duras, Albert Camus, Edgar Morin e Jean Paul Sartre (che a proposito dell’accaduto parlò di errori dello stalinismo corretti «a colpi di cannone»), per domandare il ritiro dei soldati sovietici dal suolo ungherese, evidenziava la portata politica dell’avvenimento e la necessità di una chiara presa di posizione da parte di tutti gli uomini di buona volontà.
Così, se la rottura verificatasi in seno al PCI tra intellettuali, artisti e classe dirigente da un lato favorì l’amaro abbandono di personaggi come Italo Calvino, dall’altro rafforzò la contestazione di alcuni degli attivisti sopraccitati, i quali, non volendo rinunciare al libero confronto sulle idee, si raccolsero attorno alla rivista «Città aperta». Finanziata dall’industriale Gian Fabrizio Sacripante e diretta da Tommaso Chiaretti, nella redazione della medesima si ritrovarono i letterati Dario Puccini e Mario Socrate, il filosofo classico Luca Canali, l’architetto Pietro Moroni, i pittori Ugo Attardi, Marcello Muccini, Renzo Vespignani e di nuovo Elio Petri. La rivista ospitava articoli di letteratura, pittura, architettura e cinema, nonché diversi contributi riguardanti il dibattito sull’ideologia marxista. Intervennero sulle sue pagine Calvino, Callisto Cosulich, Ugo Pirro, Giuseppe Campos Venuti e altri. La copertina del primo numero (25 agosto 1957), un’acquaforte di Vespignani (fraterno amico di Petri che fornirà numerose altre illustrazioni alla pubblicazione), presentava una prostituta intenta a sollevare la gonna per mostrare un religioso, un generale e un uomo politico infilati nelle sue mutandine. Quel disegno satirico era una esplicita dichiarazione politica dei dissidenti, i quali, deploravano l’invasione sovietica dell’Ungheria e riaffermavano contemporaneamente il loro rifiuto nei confronti della realtà politica italiana. La vicenda di questo eteroclito gruppo che incalzava la verità al di fuori di ogni vizio intellettuale[13], si concluse però come spesso si concludono le storie nelle quali ai protagonisti risultano sinceramente inconsapevoli i confini tra l’utopia e la realtà. Alla fine, il militante e critico d’arte Antonello Trombadori e il responsabile culturale del PCI Mario Alicata (che all’inizio tentò di convogliare i nostri nella redazione de «Il Contemporaneo» e poi, resosi conto dell’impossibilità di fermare l’iniziativa, cercò di contenerla proponendo in successione Enzo Modica e Chiaretti come direttori), riuscirono, infatti, ad avere la meglio su quei comunisti così indocili. Come ci racconta lo stesso Vespignani

«Con quella rivista volevamo misurare la febbre del partito, la sua capacità di resistenza alla nostra opposizione. Provocavamo. […] Venivamo convocati da Alicata, alle Botteghe Oscure, in una stanzetta monacale, spartana, e trovavamo il fascicolo, riga per riga, annotato da lui, […] ogni nota era una domanda per noi, ed esigeva una risposta, una correzione, che restavano lettera morta. […] In mezzo a tutto c’era Trombadori […] Aveva tutte le qualità per essere la nostra coscienza critica: è finito con lo scrivere ventimila articoli sugli sbandamenti della casualità […] Una volta, nel pieno di una lite, li da Alicata, esco dalla stanza per andare al cesso, e al cesso incontro Togliatti. […] Lui non disse niente: uscì senza filarmi, ma con la faccia nera. [Invece] Antonello, mi si butta al collo, piange, sento le lacrime sulla pelle, e dice, “Ma che state facendo, che state facendo…”. Gli dico: “Una rivista, Antonello, solo una rivista”. Con Antonello eravamo amici […]; ma poi c’era in lui il funzionario di partito, la smorfia di un uomo d’ordine.[…] Espulsero Tommaso Chiaretti: ce ne andammo anche noi, Petri, io, tutti»[14].

E in effetti, dopo una prima sospensione delle pubblicazioni (anche in virtù delle polemiche relative alla ferma condanna espressa dai redattori per l’esecuzione dell’ex premier ungherese Imre Nägy), col numero del giugno-luglio 1958, «Città aperta» cessò di uscire. Nel frattempo gli “eretici” (da Petri a Canali, da Socrate a Puccini, da Vespignani ad Attardi), avevano omesso di rinnovare la tessera del partito. Il futuro regista de L’assassino, quindi, smettendo di essere un comunista “ortodosso” (pur restando ancora affettivamente vicino al PCI), divenne uno di quegli intellettuali non tradizionali «che caratterizzano l’ambiente cinematografico romano»[15]. Uno scomodo “compagno di strada” destinato però a perdere sempre più contatto con il suo vecchio partito, visti anche i feroci e ingiustificati attacchi che negli anni settanta il regista ricevette dal PCI per la sua vicinanza al collettivo del giornale «Il Manifesto»[16]. Ma soprattutto, Petri venne gradualmente travolto dall’aggressività polemica di una critica che, pur prendendo di mira l’intero fenomeno del cinema politico italiano, scelse proprio l’opera del regista romano come oggetto su cui riversare un’ostilità a volte persino isterica[17]. Negli anni sessanta, infatti, il cinema si era ritrovato di nuovo ben saldo al centro di quella “battaglia delle idee” che animava il dibattito culturale italiano. Tale realtà, quindi, stimolò la nascita di numerose e articolate pubblicazioni che trattavano in modo combattivo e variamente engagé le tematiche e la funzione della settima arte nella società dell’epoca[18]. Questo fermento stilcritico[19] non riuscì però a coagularsi in un fenomeno omogeneo, dato che la critica cinematografica del periodo appariva come un orbe costituito da oggetti testuali contemporaneamente molto diversi e molto simili tra loro. All’interno di questa nebulosa è infatti possibile riconoscere le cosiddette correnti di opinione (la critica dei quotidiani legata ad intellettuali e pubblicisti non direttamente riconducibili alla politica), le correnti di tendenza (la critica delle pubblicazioni legate ai partiti) e infine l’esperienza della “critica militante” (simboleggiata da riviste come «Cinema & Film», «Ombre rosse» e «Filmcritica»), la quale, portando i germi dell’elaborazione teorica e della passione politica in armonia con le tesi del Movimento e della Nuova Sinistra, riuscì a improntare di sé tutto il decennio. Centrale per questi “attivisti della celluloide” era la questione dell’opera autenticamente rivoluzionaria, per cui non bastava trattare tematiche di denuncia, ma occorreva anche veicolarle con strategie comunicative lontane tanto dalle consuetudini produttive (negazione del circuito commerciale), quanto dalle abitudini narrative ed espressive del cinema tradizionale (rivoluzione del linguaggio). Ne conseguiva che il cinema politico italiano (compreso quello “a sinistra”), aderendo in massima parte alle convenzioni industriali e linguistiche del film di buona fattura, fosse in odore di conservatorismo. Questo tipo di impostazione influenzò anche il resto della critica, la quale, quando non assisteva da pigra spettatrice alla controversia, inseguiva l’onda della contestazione aderendo in maniera conformistica alle ipotesi più radicali.
Così, proprio mentre alcune riviste cercavano di definire in maniera quasi scientifica le basi del mestiere dello studioso di cinema, la critica tutta mancava clamorosamente il bersaglio del cinema politico, creando una frattura tra gli autori “impegnati” coinvolti nelle strutture dell’industria cinematografica nostrana e una generazione di censori che si rappresentava in termini di “bisogni” spesso deliranti. E di tale frattura, il caso Petri costituisce senza dubbio il culmine, il sintomo più evidente. L’immagine del cineasta romano che, infatti, si può estrapolare dai testi, dalle recensioni, dalle analisi della critica del periodo è quella di una figura alterata e a suo modo monotona; con tratti ritornanti che la rendono simile ad una caricatura. E sappiamo benissimo che, pur essendo di natura effimera, in stretta analogia col motto di spirito e lo scherzo[20], la caricatura è storicamente un espediente per ritrarre una persona della quale si vogliono amplificare alcuni difetti nella prospettiva ludica e talvolta pure satirica[21]. Una specie di doppio grottesco che mantenendo con l’immagine originale una naturale relazione di identità, attraverso i suoi caratteri così eccessivi, stravolti, ci vuole comunicare qualcosa di preciso. Come sostiene, infatti, l’illustre storico dell’arte viennese Ernst Kris, i segni della deformazione solitamente suggeriscono «l’esistenza di altre idee […] sono gli elementi che svelano la tendenza»[22]. Così, in modo paradossale, le annotazioni più aspre e ritornanti della “burrasca militante”, favoriscono oggi la possibilità di mettere a fuoco un inedito ritratto dell’opera dell’autore romano. Sono i tratti che ci rivelano come il cinema di Petri, proprio perché al di fuori delle coordinate dell’universo stilcritico, sia forse stato in grado di far emergere una ragione e una sensibilità che rappresentavano una sfida alla razionalità e alla sensibilità incorporate nelle istituzioni sociali e culturali dominanti, di attuare quel sovvertimento della coscienza che rientra nelle qualità rivoluzionarie dell’arte. Pertanto, quello stesso atteggiamento censorio, quella maschera grottesca messa dalla critica all’autore romano, gettano anche un fascio di luce sul cinema politico italiano inteso come fenomeno culturale, consentendoci di ripiegare sulle sue tracce per raccoglierne i frammenti e provare a ripristinare l’oggetto perduto.
Se è vero, infatti, che le caricature, le immagini satiriche diffondono impulsi ostili[23], allora tutto fa pensare che le pellicole di Petri, del regista simbolo di quella tendenza, possano essere l’ideale oggetto perturbante per una fruttuosa analisi delle produzioni politicamente impegnate, del cinema definito in modo sprezzante del compromesso linguistico[24]. Il senso di questa formula ci porta a riflettere su quanto fosse inattuabile per la critica dell’epoca l’ipotesi di un discorso politico rivoluzionario incentrato sulle forme espressive e sugli schemi del racconto tradizionale. Il “peccato originale” di Petri, riguardava appunto la sua scelta di inserirsi nel cinema dell’esistente per creare prodotti che alla critica apparivano come buone confezioni, merci perfettamente funzionali all’industria culturale e alle sue esigenze commerciali[25] (addirittura la volontà del regista di instaurare un legame con il pubblico, veniva interpretata nei termini di una conquista di spettatori-clienti). Il tratto distintivo di tale filone, infatti, veniva indicato come un racconto piano, senza sussulti, facilmente “digeribile” dallo spettatore; assai lontano dallo svolgere un discorso articolato e “rivoluzionario”[26]. Prerogative, queste, che non corrispondono minimamente all’opera del cineasta romano, visto che il suo stile è in realtà mai banale o lineare, ma piuttosto straripante, teso a porsi spettacolarmente in primo piano. Il linguaggio di Petri non spicca certo per essere essenziale o per una povertà di soluzioni, giacché a prevalere sono una sovrabbondanza (a volte greve), una frenetica mobilità dello sguardo[27], un suggestivo intento straniante[28], un’accattivante didascalismo, i quali, tramite un repentino e ardito cambiamento di fronte, portarono le sue pellicole ad essere (anche) etichettate come prodotti “griffati” e quindi nuovamente impolitici[29]. Questi repentini mutamenti di opinione, sempre intrisi di ironia (quando non di aggressività), questa incontenibile volontà di marchiare l’opera di Petri per la sua incapacità di far coincidere linguaggio poetico ed enunciato politico, riportano alla mente la proverbiale storiella della volpe e dell’uva, con la critica nel ruolo della prima e la sfuggente identificazione del controverso genere cinematografico in quello della seconda. Troppo intenti a rimarcare i vizi della forma e dei contenuti in rapporto alle nuove virtù dell’ideologia (annullando così ogni considerazione pertinente rispetto al linguaggio e dimostrando che il periodo della contestazione si palesava come un momento di radicalizzazione, piuttosto che di rifondazione di metodologie e pratiche critiche)[30], gli “appunti corsari” dell’epoca, infatti, non hanno, in realtà, colto appieno l’ambiziosa portata della riflessione artistica petriana: mestare nel torbido del discorso politico e collocarsi al suo centro.
Incapace (o non ancora pronta) a superare il limbo formalizzato della politica della rappresentazione, la critica non si è resa conto che il cineasta romano, puntava, invece, alla rappresentazione del politico: ossia alla rappresentazione di quella realtà che concerne la dimensione della vita pubblica nelle sue relazioni con il potere («politico non è tanto ciò che riguarda la società; quanto la configurazione dei rapporti di potere nella vita pubblica…»)[31]. Il cinema petriano, il cui espressionismo risente sia della “scuola desantiana” (come abbiamo visto prima), che di quella esuberanza della scrittura[32], la quale dall’inizio degli anni sessanta si andava affermando in Italia come un codice comune, prende forma, infatti, soprattutto grazie ad un proprio stile figurativo, ad una scelta consapevole di un linguaggio volutamente artefatto. Le basi della sua identità d’autore biasimati come cattivo gusto, kitsch o midcult dalla critica, derivano per l’appunto dall’inclinazione a “teatralizzare” a “spettacolarizzare” il reale del nostro sociale con la chiara intenzione di amplificare i fantasmi del potere che vi si agitano. Da attento studioso dei meccanismi repressivi che tutti portiamo dentro (sia quelli che il potere lo esercitano che i sudditi, dato che ognuno ha la sua fetta di potere e tende ad esercitarla autoritariamente) e che si legano alla richiesta di una continua presenza paterna, carismatica, facendo di noi degli immaturi (o dei bambini in cerca di modelli di comportamento)[33] e in considerazione dell’influenza della figura dell’attore nella nostra cultura, il cineasta ha affermato:

«Se parti dal principio che la società è un teatro, un principio molto elementare, così elementare da sembrar banale, ma che è vero. Allora ti spieghi il perché dei ruoli sociali, e come alcuni ruoli siano più significativi di altri e come la massa si identifichi nei ruoli del potere e così via»[34]

Petri, conscio che il mondo infinito delle forme e delle manifestazioni comiche del teatro popolare, della cultura popolare, si è sempre opposto alla cultura ufficiale e al suo tono serioso e ossequiente, tramite il suo cinema dell’eccesso, all’esibizione del posticcio («mi piace Stroheim molto più di Flaherty. Non mi piacciono i documentari […] C’è il massimo della manipolazione, perché fingono di documentare ciò che non è documentabile se non attraverso un’interpretazione […] Mi piace il barocco e tutto quello che è spettacolo»)[35], è stato l’autore italiano che meglio di altri ha approfondito e delineato la scissione che è presente in ciascuno di noi accostandola alle dinamiche dei rapporti di forza che condizionano la società, suggerendo al contempo a coloro che si trovavano (e si trovano) dall’altro lato dello schermo che, essendo l’attore una proiezione di noi stessi ed il pubblico una proiezione dell’attore, riconoscere l’importanza del ruolo della recitazione, della maschera, nell’ambito della vita quotidiana, significa, forse, riconoscere e accettare la propria condizione umana.

Giancarlo Chiariglione

Consulta il sito uffciale di Elio Petri

Note

[1] I libri dedicati all’autore romano sono oggettivamente pochi e al di là di alcune eccezioni, tendono a proporre un ritratto tutto sommato stereotipo. Tra i contributi italiani che si segnalano per una certa originalità abbiamo la monografia di Rossi (Alfredo Rossi, Elio Petri, La Nuova Italia, 1979), il volume relativo alla retrospettiva organizzata dalla Mostra del cinema di Venezia nel 1983 (a un anno dalla morte del cineasta), curato da Ugo Pirro, il numero monografico de “I quaderni Del Lumière” (Di Martino Anna e Morini Andrea, Elio Petri, Edizioni Ente Mostra Internazionale Del Cinema Libero, Bologna, 11 febbraio 1995), il saggio sulla science-fiction petriana La decima vittima (Lucia Cardone, Elio Petri, Impolitico. La decima vittima (1965), Edizioni ETS, Pisa, 2005), il “DVD + Libro” della Feltrinelli (Stefano Leone, Nicola Guarnieri e Federico Bacci, Elio Petri. Appunti su un autore, Feltrinelli, Milano, 2006) e la raccolta di scritti cinematografici e non, edita recentemente da Bulzoni e curata da Jean A. Gili, Elio Petri, Scritti di cinema e di vita, Bulzoni, Collana Cinema/Studio, Roma, 2007. L’interesse nei confronti dell’autore romano è invece storicamente consolidato in Francia, dato che proprio il famoso critico J. A. Gili, dedicatosi in prevalenza all’analisi del cinema italiano, ha realizzato alcune opere di un certo spessore sul regista romano basate soprattutto su lunghe e articolate interviste (si pensi per esempio a Elio Petri, Facultè des Lettres et Sciences Humanites section d’Histoire, Nice, 1974 ed Elio Petri et le cinéma italien, Editions Les Rencontres d’Annecy, 1996)

[2] Alberto Barbera in Paola Pegoraro Petri (a cura di ), Lucidità inquieta. Il cinema di Elio Petri, Museo Nazionale del Cinema di Torino, Torino, 2007, p.6.

[3] Alfredo Rossi, Elio Petri, La Nuova Italia, 1979, p. 3.

[4] Già nel 1945 il giovane autore segue con attenzione tutti i film proiettati al festival organizzato al cinema romano “Quirino”, rimanendo indelebilmente segnato da Roma città aperta di Roberto Rossellini. A proposito della passione per la settima arte che lo colse in quegli anni, Petri dice «Allora il cinema mi interessava già molto: vedevo anche tre film al giorno; faccio parte della prima generazione veramente cinematografica. In fondo, noi non abbiamo avuto bisogno di scuole tecniche: la grammatica e la sintassi le conoscevamo istintivamente a forza di essere spettatori». Intervista, in Jean A. Gili (sous la direction de), Elio Petri, Université de Nice, 1972, p. 22.

[5] Le candidate, giunte di prima mattina per le prove di selezione, si ritrovarono pigiate come in un tram sulla scala condominiale che conduceva allo studio di un noto avvocato. Le ragazze si spingevano, lottavano tra di loro per non essere sopraffatte dalle più intraprendenti, mentre la ringhiera cedette di schianto facendo precipitare rovinosamente le stesse nella tromba delle scale. Le conseguenze furono settantasette feriti e un decesso. Petri aveva il compito di indagare le motivazioni sociali, psicologiche ed economiche che portarono al disastro, ricostruendo le biografie e le aspettative di vita di ciascuna candidata. E ciò che emerse dai colloqui con le protagoniste e le loro famiglie, più che i sogni e le aspirazioni delle giovani e dei loro congiunti, fu “l’incombenza del reale”, sotto forma della necessità di quattrini. Anche l’avvenimento appariva in tutti lontano (logorato persino nel ricordo); il perché dell’accaduto, le responsabilità, le relazioni tra le ragazze non erano che accidenti, variabili di una storia con un unico, specifico attante: il denaro. La “realtà sociale” aveva determinato la tragedia. Con il titolo Roma ore 11, tale materiale venne pubblicato nel 1956 con una prefazione di Giuseppe De Santis nella collezione “Il gallo”, collana Omnibus, n° 27, per le Edizioni Avanti! (Milano-Roma) e più di recente (2004) da Sellerio.

[6] Con De Santis lavoravano già aspiranti cineasti come Carlo Lizzani e Gillo Pontecorvo.

[7] Un marito per Anna Zaccheo (1953), Giorni d’amore (1954), Uomini e lupi (1956), La strada lunga un anno (1957) e La garçonnière (1960).

[8] Nel 1954 Petri gira un cortometraggio ambientato nel mondo del ciclismo di chiaro impianto documentaristico, intitolato Nasce un campione. L’opera è prodotta da Arturo Zavattini, Pasquale De Santis e dallo stesso autore romano che a tal proposito dice «A quell’epoca girare cortometraggi era una tappa obbligatoria sulla strada dell’apprendistato tecnico-professionale». Nel 1957, lo stesso cineasta realizza invece I sette contadini, un progetto sviluppatosi nell’ambito dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia dedicato alla drammatica vicenda dei fratelli Cervi e sceneggiato da Cesare Zavattini, Luigi Chiarini e Renato Nicolai. Per un approfondimento di questo documentario si leggano gli scritti di Gianni Rondolino e Oreste Del Buono nel saggio di Lino Miccichè, Studi su dodici sguardi d’autore in cortometraggio (Lindau, Torino, 1995).

[9] Alta infedeltà è un film a episodi del 1964 diretto dai registi Franco Rossi (Scandalosa), Luciano Salce (La Sospirosa), Mario Monicelli (Gente moderna) e, appunto, Petri.

[10] Paola Pegoraro, la compagna di Petri, in relazione a questo aspetto racconta «Elio lo conobbi negli anni sessanta e di lui mi colpirono la passione politica, la passione per il cinema, la passione per l’arte moderna, la passione per il jazz, in una parola la passione», Paola Pegoraro Petri (a cura di ), op. cit., p. 9

[11] Ugo Pirro ricorda il dramma di quei momenti «Fu un anno memorabile e triste il 1956, l’invasione sovietica dell’Ungheria colpì al cuore una generazione di militanti comunisti, cambiò profondamente anche Elio che si ritrovò, per così dire, dietro i carri armati sovietici e, nello stesso tempo, davanti alle barricate, accanto ai rivoltosi. […] Tagliato in due dalla passione politica, trafitto, per così dire dalle sue stesse convinzioni, si rosicchiava con ostinazione le unghie fino a farle sanguinare. Parlava, parlava, polemizzava con se stesso e con tutti per vincere la delusione, salvare la passione politica, lavandola dal settarismo cui un po‘ tutti ci eravamo abbandonati in quel dopoguerra straordinario». Ugo Pirro, Il cinema della nostra vita, Lindau, Torino, 2001, p. 19.

[12] «L’Unità» del 25 ottobre 1956 uscì con il titolo «Da una parte della barricata a difesa del socialismo», indicando la rivoluzione del paese magiaro come un «putsch controrivoluzionario» della vecchia Ungheria fascista e reazionaria.

[13] «Città aperta», di fatto un coraggioso esperimento in equilibrio tra ortodossia formale e concreto dissenso, era impegnata nel rinnovamento sociale, morale e culturale dell’Italia. Mossi dall’ideale socialista non inquinato da compromessi riformistici e decisi a contrastare l’arretratezza della società capitalistica italiana, le nebbie del clericalismo e le varie manifestazioni del conformismo borghese, gli autori del periodico esprimevano in sostanza «il desiderio di discutere di tutto, tra comunisti, senza reticenze […]». Nello Ajello, Intellettuali e PCI. 1944-1958, Laterza, Bari, 1979, p. 440.

[14] Enzo Siciliano, falce e pennello, «Corriere della Sera», 21 febbraio 1993.

[15] Callisto Cosulich, Germi, Petri e l’impero del male in «Bianco e nero», LIX, 1 gennaio 1998.

[16] Ugo Pirro, op. cit., p. 109.

[17] Sostiene Gian Piero Brunetta che all’inizio degli anni settanta, vi è uno specifico momento in cui «su Petri tirano tutti la loro palla, come ai baracconi del Luna park. L’esercizio appare facile […] anche se, in non pochi casi, ha un che di canagliesco e maramaldesco», G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano dal 1945 agli anni ottanta, Editori Riuniti, Roma, 1982, p. 696.

[18] Riviste già attive da tempo come «Filmcritica», a partire da 1960 diedero vita ad un nuovo corso ingaggiando collaboratori come Adriano Aprà, Maurizio Ponzi, Stefano Roncoroni e Luigi Faccini. Nel corso di quello stesso decennio nacquero numerose altre testate tra cui «Cinema 60», «Cineforum», «Film Selezione», «Centrofilm», «Cinema & Film» e «Ombre rosse», le quali, pur essendo sovente legate a situazioni locali, fugaci, come afferma Alberto Boschi, attestavano con la loro presenza «la vitalità del dibattito sul cinema», Alberto Boschi, Le nuove riviste, in Giorgio De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano 1960/1964, vol. X, Marsilio Edizioni Bianco e Nero, Roma, 2001.

[19] La riflessione sul cinema si arricchiva grazie anche alla creazione di manifestazioni come la Mostra del Cinema Libero di Porretta Terme (1960) e la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro (1965), le quali, con il loro taglio vivace e innovativo, ambivano a contrapporsi a festival storici come la kermesse veneziana. Sui quotidiani, invece, alcuni rubrichisti, pur non appartenendo in senso stretto al circuito degli addetti ai lavori, riuscivano spesso con la loro competenza a dare alle recensioni una dimensione di piccolo e documentato saggio…

[20] Attilio Brilli, Dalla satira alla caricatura. Storia, tecniche e ideologie della rappresentazione, Dedalo, Bari, 1985, p. 194.

[21] Come affermava in merito lo storico dell’arte e politico seicentesco fiorentino Filippo Baldinucci «E caricare dicesi anche da’ pittori o scultori, un modo tenuto da essi in fare ritratti, quanto più somiglianti al tutto alla persone ritratta, ma per giuoco, e talora per ischerno, aggravando e crescendo i difetti delle parti imitate sproporzionatamente. Talmente che nel tutto appariscano essere essi e nelle parti variati», Filippo Baldinucci, Vocabolario toscano dell’arte e del disegno, Firenze, 1681, p. 29.

[22] Ernst Kris, Psychoanalytic Explorations in Art, International University Press, 1952, trad. It. Ricerche psicoanilitiche sull’arte, Torino, Einaudi, 1967, p. 181.

[23] Richard Woodwfield (a cura di), Sentieri verso l’arte. I testi chiave di Ernst H. Gombrich, Leonardo Arte, Milano, 2003, p. 336.

[24] Alfredo Rossi, op. cit. p. 9.

[25] Petri, in realtà, realizzò, anche un film militante, totalmente alternativo, che ebbe una diffusione modesta e sotterranea. Si tratta di Ipotesi su Giuseppe Pinelli, capitolo del lungometraggio Documenti su Pinelli (conosciuto anche come Dedicato a Pinelli), realizzato in reazione alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, deceduto in circostanze misteriose presso la Questura di Milano il 15 dicembre 1969. Il progetto nacque dopo Piazza Fontana, quando cioè si formò il “Comitato cineasti contro la repressione”. Anche se aderirono al Comitato molti autori appartenenti alle associazioni di categoria ANAC e AACI (che si riunirono in cinque gruppi di lavoro), solo Petri e Nelo Risi portarono a termine il loro film. L’episodio realizzato dal regista romano con l’aiuto di Ugo Pirro, dell’operatore Luigi Kuveiller, e con la partecipazione di Volonté, Di Berti e Renzo Montagnani, ironizza sulle diverse versioni date dalla Questura per giustificare la morte dell’anarchico Pinelli (e avvalorare così la tesi del suicidio). A chi giudica tale opera un caso isolato nella filmografia dell’autore, è d’uopo ricordare che la messa in scena e la scelta della ricostruzione ironica, si inseriscono perfettamente nell’unità poetica del suo percorso artistico. Su tale opera si vedano i testi di Ugo Pirro, op. cit., 1983, p. 70 e op. cit., 2001, p.81.

[26] Recensendo Il maestro di Vigevano, Gian Luigi Rondi disse «i sogni, le proiezioni dei pensieri e dei desideri dei personaggi, per voler restare troppo fedeli alla qualità umana degli stessi personaggi, sono di gusto troppo facile, troppo ingenuo, privi di un vero sapore critico e finiscono per farsi appesantire dagli stessi difetti che vorrebbero mettere alla berlina», G. L. Rondi, Il maestro di Vigevano, «Il Tempo», 27 dicembre 1963.

[27] A tal riguardo, recensendo A ciascuno il suo, Maurizio Ponzi censurò l’uso dello zoom, definito come un obiettivo che dovrebbe «essere controllato dalle autorità, come uno stupefacente. Esso amplifica, sottolinea, schiaccia, deforma, isola […] altera, nel senso letterale della parola, la realtà […] Ciò non è grave […] in un film fantastico […] ma lo è in un film che ispira, al fondo, ad essere di denuncia». Maurizio Ponzi, A ciascuno il suo, «Cinema e film», I,2, primavera, 1967.

[28] Giovanna Grignaffini affermò che Petri aveva messo «comode pantofole al buon Brecht», “Petri e Rosi: timeo Danaos et dona ferentes”, in «Cinema & cinema», III, 7-8, aprile-settembre.

[29] Parlando de La decima vittima, Lino Miccichè sottolinea che la «perizia linguistica e la stessa vivacità stilistica del regista finiscono per trasformarsi in puro ricamo virtuosistico dando […] al film gli orpelli esterni e le effimere eleganze di un prodotto “firmato”», Lino Miccichè in Il cinema italiano degli anni ’60, Venezia, Marsilio, 1975, p. 175.

[30] Adelio Ferrero (coautori Giovanna Grignaffini e Leonardo Quaresima), Il cinema italiano degli anni ’60, Guaraldi, Rimini; Firenze, 1977, p. 5.

[31] Maurizio Grande, Eros e politica. Sul cinema di Bellocchio Ferreri, Petri Bertolucci, P. e V. Taviani, Protagon, Siena, 1995, p. 18.

[32] Barbara Grespi “Modi e mode della rappresentazione”, in Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano, 1965/1969, vol. XI, Bianco & Nero-Marsilio, Roma-Venezia, 2002, p. 233 e passim.

[33] Paola Pegoraro Petri, op. cit., 99.

[34] Ellen Cunamo, L’impazienza della macchina da presa, in Ugo Pirro, 1983.

[35] Ibidem

Michele Gasapini – La caduta di Icaro. Analisi del mito e della modernità

Marc ChagallLa Caduta di Icaro

Marc Chagall, La Caduta di Icaro.

Anche se non si volesse credere alla verità che nascondono,
è impossibile non credere alla loro incomparabile potenza simbolica.
Nonostante la loro consunzione moderna,
i
miti restano,
al pari della metafisica,
un ponte gettato verso la trascendenza.

E. Junger[1]

 

  1. Introduzione

Può un mito antico più duemilacinquecento anni raccontare e interpretare il presente? Inizio provando a rispondere a questa domanda che mi permette di esplicitare le premesse, garanzie non tanto di oggettività ma di trasparenza, su cui si basa questo lavoro.
In primo luogo, ricordando la lezione di Cassier[2]  l’uomo è un animale simbolico e dunque il mito contiene verità senza tempo sugli aspetti ultimi della natura umana. Natura umana che nel mondo della post-modernità sembra perdersi in favore di individualità prive di legami, funzionali all’attuale sistema ideologico – sociale. Occorre dunque ripartire dallo spirito greco, dalla concezione aristotelica di uomo come come politikon zwon[3] e zwon logon econ[4]  e dal concetto filosofico di metron[5]  come chiave fondativa non solo di qualsiasi interpretazione ma di ogni tentativo di riformulazione del presente. L’analisi proposta punta a compiere quel rovesciamento gestaltico rispetto alle tradizionali interpretazioni che aprirà alla comprensione, non solo del mito di Dedalo e Icaro, ma anche del nostro tempo.
Il lavoro si divide dunque in due parti, pur con le inevitabili contaminazioni, una prima parte dove saranno analizzate le strutture simboliche ricorrenti e una seconda dove queste premesse saranno sviluppate in un’analisi della modernità. Spetterà poi al lettore stabilire se si è trattata di un’indebita oppressione di un mito greco sul letto di Procuste della critica sociale oppure se le suggestioni suggerite dal percorso avranno contribuito ad allargare la comprensione del mondo attuale.

  1. Il mito[6]  e le sue strutture

Abbiamo quindi individuato le cinque strutture fondamentali da cui partire nell’interpretazione del mito. Non è rilevante individuare una versione unitaria della storia quanto analizzarne i suoi significanti fondamentali, senza perdersi in dettagli, filologicamente interessanti, ma privi di importanza per il lavoro che ci siamo proposti.
Le strutture individuate sono:

  • il minotauro
  • il labirinto
  • la costruzione delle ali
  • il volo e la caduta

Queste cinque costellazioni simboliche[7]  serviranno da guida nell’esplorazione dei significati del mito, nella convinzione che questi possano essere, non esauriti, ma ricondotti all’interno di queste cinque categorie fondamentali.

2.1 Il minotauro

Il Minotauro è una figura che ha affascinato artisti di ogni epoca storica proprio in virtù della sua duplice natura di uomo e animale.[8]  Pur non apparendo direttamente all’interno del racconto, il suo ruolo rimane quello di un primus movens:

  1. Dedalo è responsabile del suo concepimento, costruendo la giovenca di legno che permetterà a Pasifae, moglie di Minosse, l’incestuoso accoppiamento.
  2. per lui Dedalo costruisce il labirinto dove sarà rinchiuso insieme al figlio
  3. la sua presenza rende la fuga necessaria

La caratteristica fondamentale del minotauro è appunto il suo essere al medesimo tempo uomo e animale, creando una figura dove questi due aspetti non possono essere esaminati singolarmente ma nella loro unione. Il minotauro, quindi, come unione bestiale tra uomo e animale, frutto del cedere al desiderio irrefrenabile e innaturale, alle pulsioni irrazionali interne all’essere umano. Reificazione mostruosa, nel concepimento come nell’aspetto, del duplice tabù della zoofilia e del cannibalismo, trasformati in vivida verità che non possono essere semplicemente e privatamente negati nella loro realtà, ma per poter mantenere lo status quo devono essere rimossi dal visibile e nascosti in quella simbolizzazione dell’inconscio rappresentata dal labirinto[9].
E’ interessante osservare come il peccato originale da cui scaturisce quest’essere mostruoso è un peccato del maschile, un peccato del padre; padre e re e quindi peccato della comunità stessa come struttura sociale. La passione che si accende in Pasifae è scatenata da Nettuno per punire Minosse, reo di essersi rifiutato di sacrificare al dio il vitello bianco per tenerlo all’interno della propria mandria. Il peccato originale è dunque un peccato di accumulo, il desiderio di possedere ciò che era destinato agli dei[10]  crea il minotauro, che appunto reifica il desiderio sfrenato e che continuamente ha da essere alimentato tramite il più terribile dei sacrifici[11], senza poter essere eliminato.
La sua apparizione è il momento di consapevolezza dell’uomo nella forma della sua rappresentazione simbolica e da quel momento, il minotauro può essere celato, nascosto, ma rimane. E’ l’ente che rappresenta la realtà di questo lato della natura umana: il prodotto di un unione perversa che distorce l’essenza stessa dell’umano producendo un abomino.[12] E’ quindi un inganno consapevole quello che viene messo in atto, tramite il suo nascondimento all’interno del labirinto.

2.2 Il labirinto[13]

La seconda struttura che incontriamo nel nostro percorso è quella del labirinto. Costruito da Dedalo su ordine di Minosse è il luogo della prigionia del Minotauro, e il luogo in cui il suo costruttore venne rinchiuso insieme al figlio.
Il labirinto risponde a una duplice funzione nei confronti della creatura:

  1. imprigionare
  2. nascondere

Imprigionata per proteggere la comunità dalla sua furia, celata perchè la sua stessa presenza è scandalo e seppure sia necessario contenerlo non può essere eliminato dalle forze che l’hanno creato. La stessa costruzione del labirinto richiama costantemente alla sua presenza: non in una cella segreta ma in una struttura gigantesca e ben visibile è rinchiuso il Minotauro. Di fronte a queste premesse risulta quasi banale associare al labirinto la parte della psiche e al Minotauro la parte nera e scura, l’ombra dell’inconscio che si nutre di istinti irrefrenabili.
A chi appartiene dunque il labirinto? E’ il labirinto di Minosse certo, ma è anche il labirinto di Dedalo e delle sue colpe, è in fondo il labirinto dell’uomo, del Dedalo e del Minosse che è in ognuno di noi e che ciascuno di noi costruisce non solo come singoli ma anche come società.
Ma il labirinto è sempre anche una porta aperta verso l’ignoto. Accanto ai drammi, alle difficoltà, al rischio di perdersi al suo interno, l’idea del labirinto ci lascia la possibilità d’intravedere un’uscita, una soluzione agli enigmi, agli inganni, alle illusioni che esso ci pone davanti. Ecco che il nostro labirinto prende forma con le sue luci e le sue ombre, gli antri oscuri e i cortili da cui vedere il sole, una costruzione dell’uomo, dove perdersi e dove ritrovarsi.
Un luogo catartico nel quale ci si trova di fronte all’ombra, una sorta di bozzolo nel quale troviamo la possibilità di reale riscatto o di perdita definitiva. In un caso come nell’altro il labirinto apre alla scelta autentica tra la conquista della luce e il disperdersi nelle tenebre.

2.3 La costruzione delle ali[14]

Dedalo costretto nel labirinto si trova di fronte a due soluzioni: soccombere di fronte all’oscurità o trovare una via d’uscita. Tuttavia il labirinto non ha una soluzione, non esistono vie di fuga o passaggi segreti che la permettano. Ha costruito per se stesso la prigione perfetta: se una via di fuga esiste, Dedalo non è in grado di trovarla all’interno del labirinto, deve crearla. Artefice fino in fondo delle sue fortune, così come delle sfortune, Dedalo, allora, per fuggire insieme al figlio, progetta la costruzione di un paio d’ali[15].
A questo punto il mito ci mette di fronte a due figure fondamentali che si sovrappongono.

  1. Dedalo non riceverà aiuti esterni per fuggire, non l’appoggio di dei o salvatori, può contare solo sulle sue forze, sul suo ingegno, sulle sue scelte: sulla sua prassi, intesa come azione trasformatrice. Come l’uomo crea con le sue azioni il labirinto e il mostro che lo popola, ugualmente con le sue azioni è in grado di superarlo e fuggirlo. E’ la fuga da un labirinto a determinare la sconfitta, la soluzione dello stesso. Qui il concetto diventa più sottile: il mostro e il labirinto non sono superati con il loro annientamento, perchè intimamente connessi all’uomo. Il tentativo di affrontarli in questo strada apre unicamente la porta a nuovi labirinti e nuovi mostri e la futura storia di Teseo ce lo mostra molto bene. Il labirinto può essere superato, cioè risolto e quindi sconfitto nella sua essenza più propria, ma solo trascendendolo attraverso una prassi mirata e consapevole.
  1. Il secondo punto riguarda il livello su cui basare questa ricerca. La leggenda ci insegna che il labirinto non può essere superato rimanendo sul suo stesso piano. E’ necessario una sorta di salto quantico di consapevolezza per fuggire da questa prigione. L’unica azione che può salvarci deve portarci appunto a trascendere la realtà narrata dal labirinto. Una realtà che non può essere negata ma può essere superata con la forza del nostro ingegno e la determinazione delle nostre azioni. Il labirinto non è una necessità insuperabile è stato creato dall’uomo ed è nel potere dell’uomo superarlo. Un superamento che non è la sua distruzione o il suo annullamento, cosa che non è nelle possibilità dell’uomo, il labirinto rimane, ma l’uomo con le sue scelte e le sue azioni determina il proprio esserne o meno prigioniero.

2.4 Il volo e la caduta

Arriviamo all’analisi dell’ultima immagine presente nel mito, il tragico volo di Dedalo e di suo figlio Icaro. La via di fuga è una corda tesa su due lati di un abisso: è questo lo spazio dell’uomo che rimane sospeso tra gli dei e gli animali e che quindi si trova nella continua situazione di poter perdere l’essenza del suo essere. E’ la capacità di ragionamento[16] che gli è propria a permettere all’uomo di trovare il suo posto nel giusto mezzo che gli spetta. Il tema del metron, cifra della saggezza greca, ritorna prepotentemente anche in questo mito: solo la capacità di realizzarsi nella propria natura più intima che non è quella della bestia nè del dio, permette all’uomo di essere libero e trovare la propria salvezza. Nel momento in cui Icaro non si accontenta del suo essere uomo ma crede di poter arrivare fino agli dei, ecco si consuma la sua rovina. Il desiderio di oltrepassare quel limite, l’avvicinarsi al sole fa si che la cera che tiene insieme le piume si sciolga per il troppo calore e che precipiti nel mare. Lo spazio dell’uomo è, quindi, lo spazio del mezzo, uno spazio che richiede uno sforzo continuo per essere abitato ma che è l’unica strada che ci è offerta. Il desiderio, l’ardire di Icaro, disattendendo l’avvertimento del padre, di raggiungere lo spazio riservato agli dei provoca la sua caduta. Non è un immagine casuale, Icaro non viene distrutto dal calore, assorbito da esso, nonostante tutti i suoi sforzi il sole rimane irraggiungibile e il suo destino è quello di precipitare scomparendo tra i gorghi.

  1. Il mito e la modernità

Partendo dall’analisi delle strutture del mito svolta in precedenza proveremo ad arrivare al centro dell’obiettivo che ci eravamo prefissati e cioè aprire una finestra sul mondo che ci circonda. Ripercorrendo il sentiero svolto in precedenza proporremo, attraverso le suggestioni dei simboli incontrati, un percorso interpretativo in grado di portare in luce pieghe altrimenti nascoste del presente.

3.1 Minotauro: l’illimitatezza del desiderio

Il minotauro racconta lo spirito del capitalismo[17], lo spirito del mondo a cui apparteniamo e della sua cifra che è l’illimitatezza. Dove il mondo greco aveva posto il limite (peras) e la misura (metron) come dimensione dell’umana esistenza, il capitalismo, ponendo a fondamento del proprio essere l’accumulo illimitato del capitale, rovescia tali valori e la dimensione che gli è propria è quella dell’illimitatezza del desiderio astratto. Desiderio rappresentato dalla voracità insaziabile del minotauro che come il capitale non si ferma nemmeno di fronte alla vita umana per poter soddisfare la sua fame inestinguibile. Il meccanismo spietato che porta ogni anno a sacrificare vittime al minotauro non è forse lo stesso dispositivo che vediamo tutti i giorni alimentare l’appetito senza fine del capitale a discapito dei diritti, della dignità umana e della natura? Il mostro nato dal desiderio di possesso di Minosse, che in quanto re rappresenta simbolicamente l’uomo, cioè dal rifiuto di restituire agli dei ciò che era loro di diritto per assegnarlo alla propria sfera privata, genera un mostro che con la sua presenza più o meno consapevole, più o meno celata soggioga la vita e le dinamiche dell’intera comunità. Tuttavia la storia c’insegna anche un’altra verità, come il minotauro è stato creato dall’uomo così rientra nelle possibilità dell’uomo distruggerlo: il minotauro non è il destino ma qualcosa che, se dio vuole, avrà un destino.

3.2 Il labirinto: la gabbia d’acciaio

Il labirinto è il regno del capitale, il regno del minotauro nel quale Dedalo è imprigionato e noi con lui. Il labirinto evoca atmosfere differenti ma complementari a quelle dell’immagine weberiana della gabbia d’acciaio[18] arricchendone il ritratto con sfumature essenziali. Il labirinto non solo rinchiude, inganna. Inganna per la sua complessità, apparentemente inestricabile per chi si trova al suo interno, inganna per la falsa idea di libertà che trasmette, per le false vie che nascondono vicoli ciechi al posto delle uscite. E’ possibile passare la vita persi nel labirinto fino a convincersi che non esista altro al di fuori, che la realtà e il significato possano essere cercati soltanto all’interno dello spazio stabilito dal capitale e che sarebbe vana ogni ricerca che volesse portarci oltre le sue pareti. Oltre questo il labirinto veicola in sè, a differenza della gabbia d’acciaio, anche l’idea della sua risoluzione: di una libertà dal labirinto e non nel labirinto. Se il mondo di Weber è un esito finale, un destino ineluttabile a cui piegarsi e contro cui ogni battaglia è destinata a fallimento più o meno eroico, ecco, nascosta nel cuore del labirinto batte la speranza.

3.3 La costruzione delle ali: la prassi trasformatrice

La speranza che batte al centro del labirinto è un’impulso verso il futuro, il nucleo della dottrina di Marx secondo l’interpretazione, a mio parere corretta, che vede il suo pensiero ricondotto nell’alveo dell’idealismo, e l’analisi economico scientifica secondaria all’impianto filosofico che la sostiene e la attraversa, riemergendo come un torrente carsico che si nasconde solo per riaffiorare, in tutto il percorso del filosofo di Treviri[19]. Questa speranza non è sogno, si basa sul fatto che come l’uomo crea il minotauro e costruisce il labirinto con le sue azioni, con le sue azioni può liberarsi dalla sua prigionia. La costruzione della ali è quindi metafora della prassi trasformatrice che l’uomo ha la possibilità di mettere in atto, per rompere le catene che egli stesso ha forgiato e stretto ai proprio polsi. Costruire ali per permettere un radicale cambio di prospettiva, un allontanarsi verso l’alto che permetta una visione complessiva dell’inganno insito nel labirinto e che spinga l’umanità a sviluppare un pensiero in grado di comprendere e valutare la totalità. La soluzione del labirinto non si trova all’interno del labirinto ma nel suo superamento, un superamento che non può prescindere dalla prassi[20] e dalla volontà dell’uomo.

3.4 Il volo e la caduta: lo stretto percorso dell’emancipazione umana

Il cammino emancipativo dell’umanità è tortuoso e avvolto nella nebbia, il rischio di smarrirsi accompagna ogni passo; e d’altra parte se si fosse trattato di una strada diritta non staremmo dove stiamo, e cioè a valutare il successo di una persona sulla base del numero di optional che monta sulla macchina. Non esistono soluzioni preconfezionate, l’unica via percorribile richiede un continuo esercizio per conformarsi ad essa, un incessante sforzo che permetta la progressiva emancipazione dell’uomo da questa condizione di inautenticità. Un percorso dove il rischio di fallire è costante, fallimento che nel mito si concretizza simbolicamente in due opposti tra loro correlati: il cielo e la terra[21], il destino estraneo all’uomo proprio rispettivamente delle bestie e degli dei. Lo spazio dell’uomo è quello intermedio[22], e il costo di non accettare la necessità di uno sforzo costante di riappropriazione della propria umanità, mediato dalle capacità razionali dell’uomo e diretto a creare o riposizionare le condizioni politiche, economiche e sociali che permettano una reale realizzazione dell’essere più proprio, porta alla dissoluzione di coloro che non possono essere nè animali nè dei.
La caduta di Icaro e il suo perdersi nell’abisso rappresentano il rischio dell’illimitatezza: non soddisfatto di essere sfuggito al minotauro, il suo desiderio di raggiungere gli dei, è l’errore di chi non accetta la sua natura ma vuole spingersi oltre il giusto limite. Questo tipo di desiderio, lungi dal realizzarsi, conduce alla rovina, l’allontanarsi dalla traettoria del mezzo, isola, conduce a una singolarità priva di legami, destinata a perdere le ali che si sciolgono sotto il calore del sole; a perdere cioè la capacità di produrre una prassi trasformatrice della realtà, nella realtà, irretito dal desiderio di possedere l’ideale. Non è questa la strada riservata all’uomo, l’abisso che accoglie Icaro è l’abisso di colui che dopo aver abbandonato il reale per l’astratto, la comunità per la singolarità, scompare nelle profondità privo di strumenti per creare.

  1. Conclusioni

L’analisi del mito di Dedalo e dalla sua fuga dal labirinto ci ha accompagnato con le sue suggestioni alla ricerca di quel filo che possa condurre anche noi verso l’uscita. Si è trattata, dunque, di un’operazione lecita? Con che diritto abbiamo preso un mito dell’antica grecia per porlo alla base di una critica della società capitalista e del suo necessario, qui utilizzato nel senso di necessità storica e non d’inevitabilità, superamento. Il successo di questo tipo di operazione, se successo è stato, si basa sul fatto che il mito racchiude in sé verità senza tempo, e pur nascendo in un determinato periodo storico-sociale, contiene un eccedenza veritativa in grado di parlarci al di là dei secoli, rivolgendosi direttamente a ciò che la natura umana ha di più proprio. E’ proprio a questa natura a cui dobbiamo aggrapparci per trovare una strada che ci porti al dì là di questa gabbia: una natura umana che è nella sue radici profonde incompatibile col sistema capitalista. Per quanto il labirinto del mondo del capitale sia grande e complesso, per quanto il minotauro sia una sorta di fratello mostruoso delle nostre pulsioni distruttive, ci sarà sempre un parte della natura umana che non confonderà le pareti del labirinto con i confini della storia e la sagoma deforme del minotauro con il reale spirito dell’uomo. E questo per l’intrinseca falsità che sta nel profondo della riproduzione capitalistica, a livello strutturale così come nel piano simbolico. Sarebbe però pericoloso affidarsi a questa speranza confondendo la possibilità con la necessità, non esistono scorciatoie o strade in discesa, per superare lo stato attuale dovremmo essere in grado di compiere un atto creativo che è nell’uomo e oltre l’uomo: costruirci delle ali per spiccare il volo. Lo sforzo di pensare una società e un mondo oltre il capitalismo è un esigenza, ora sopita, ma destinata a riemergere perchè legata inestricabilmente alla natura ultima dell’umanità, e alla fondamentale domanda sul suo essere sociale.
E’ solo nell’iniziare a pensare la possibilità di un suo superamento che ci apriamo al superamento nel suo essere storico, finchè ragioniamo all’interno delle dinamiche capitaliste con le sue logiche apparentemente esatte perchè incapaci di cogliere l’intero, resteremo prigionieri della perfezione geometrica di questo labirinto.
Superare il labirinto significa riprenderci la nostra libertà, quella di rifiutare di schierarci da un lato o dall’altro di questa gabbia convinti che questo possa avere un significato, per poter cercare con l’esercizio della nostra ragione un’apertura che ci riporti sul cammino diretto all’autentica determinazione e felicità dell’uomo.

Michele Gasapini

Note

[1]Antonio Gnoli, Franco Volpi, I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, 1997. p. 96.

[2] “Il simbolo non è il rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario ed essenziale. Esso non serve soltanto allo scopo di comunicare un contenuto concettuale già bello e pronto, ma è lo strumento in virtù del quale questo stesso contenuto si costituisce ed acquista la sua compiuta determinatezza”. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Intr., §II

[3]Nella Politica (libro A) l’uomo è detto zòon lògon èchon (animale avente il logos – deriva dal verbo leghein, legare, poi traslato in dire e pensare), ed evidentemente qui il logos riferito all’uomo è la parola. Dopo aver ribadito che l’uomo è animale politico, qui si distingue la voce (phonè), che è data anche agli altri animali, dal logos, che costituisce il proprio dell’uomo, che è l’unico ad avere coscienza del bene e del male. Anche nell’Organon (De Interpretatione) il discorso è suddiviso in phonè e pathèmata (realtà accolte), le cose ricevute dall’anima, contenute nell’intelletto umano. Il discorso umano è allora una realtà simbolica, è una manifestazione sensibile di significati colti dall’intelletto. La definizione sembra allora ottenere completa compatibilità, e se leggiamo anche il libro E dell’Etica Nicomachea, vediamo come l’anima sia dotata di ragione: tuttavia per Aristotele anima è comunemente intesa come sinonimo di sinolo umano, dunque forse lògon èchon va anche qui inteso come l’uomo stesso, in quanto dotato della componente razionale dell’anima.

[4] Le origini della filosofia antica: alla ricerca della misura delle cose. Breve saggio sul concetto di logos come misura dei beni della comunità sociale. A cura di Alessandro Volpe https://www.academia.edu/1920035/Lorigine_della_filosofia_greca_alla_ricerca_della_misura_delle_cose. Questo saggio che raccoglie in maniera importanti alcuni contributi del filosofo torinese Costanzo Preve sulla filosofia greca, rilegge in chiave ontologico sociale i concetti artistotelici qui riportati, dandone un’interessante chiave interpretativa.

[5] Costanzo Preve, La saggezza dei Greci. Una proposta interpretativa radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi [pubblicato su Koinè, Periodico culturale – Anno XVI – Gennaio-Giugno 209 Direttore responsabile: Carmine Fiorillo – Direttori: Luca Grecchi, Diego Fusaro].

[6] La tradizione riporta differenti versioni del mito di Dedalo e Icaro che tuttavia non ne vanno a intaccare il significato fondamentale della nostra interpretazione, rimanendo costanti i riferimenti simbolici.

[7] “Costellazione”, quale “rete di simboli” afferenti ad uno specifico motivo archetipico. Secondo la definizione di Gilbert Durand (Strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale). Qui inteso nel senso che i cinque paragrafi individuati contengono in realtà un’insieme di simboli tra loro significativamente correlati.

[8] Per citarne alcuni Durenmatt, Borges, Dante per la letteratura, Dali, Picasso, Watts per le arti figurative.

  1. Forme labirintiche si trovano in pressoché tutte le civiltà conosciute: nella grafica preistorica, nei mandala orientali, in talune danze rituali, nella cultura classica greca e latina, nei testi alchemici, nei pavimenti delle cattedrali cristiane, nella letteratura simbolica ed emblematica dal medioevo all’età moderna. Simbolo ampiamente utilizzato in psicanalisi da Freud a Jung.

[10] Minosse lo sottrae allo dimensione del sacro, per definizione esterna al ciclo di riproduzione economica (il tempio è sacro perchè non è in vendita, per usare le parole di Heidegger), per portarlo all’interno del suo privato possesso.Dimensione sacra che può essere vista senza particolari forzature come dimensione garante dell’integrità della comunità e che viene rotta da questa azione, che rimane, fuor di metafora, un azione sociale e non certo personale.

[11] Sette fanciulli e sette fanciulle. L’equilibrio che il sette rappresenta in numerologia, viene rotto dall’azione fagocitante del minotauro.

[12] Nel momento in cui l’uomo rompe il patto comunitario, garantito all’interno del mito dal diritto degli dei, ecco che nasce qualcosa del tutto inconciliabile, che mette in discussione la sua stessa esistenza. “Ma quest’essere grande che possiede Genio inventivo, oltre ogni speranza Ora si volge al male e ora al bene. Chi rispetta le leggi della patria e il giurato diritto degli dei quest’uomo è il cittadino di uno Stato che egli stesso è servito ad innalzare; ma l’uomo che si fa compagno il male per gusto temerario è un senza patria. L’uomo che vuole agire in questo modo, mi stia sempre lontano dalla casa e dal cuore” (Sofocle, Antigone. I stasimo. II Antistrofe).

[13] Il labirinto è simbolo dei cammini tortuosi della vita o della coscienza. Invita alla ricerca interiore per uscire dallo smarrimento, evoca due tendenze opposte: la liberazione o la prigionia. “E’ un simbolo interiore: siamo tutti labirinto, intrigo di viscere e di pensieri contorti. Per uscirne è necessario entrarvi. Perdersi nelle strade di una città, è un modo per avvertire quanto questo assomigli alla nostra mente, alla nostra vita; può essere un esercizio per reggere lo spaesamento incombente.”

[14] Le ali indicano la facoltà di conoscenza, colui che comprende ha le ali. Cfr.  J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, BUR , 2005.

[15] “Hope” is the thing with feathers” (E. Dickinson)

[16] In quanto appunto zwon logon econ.

[17] Y. Varoufakis, Il Minotauro Globale. L’America, le vere origini della crisi e il futuro dell’economia globale. Asterios, 2012. Nel quale il futuro ministro dell’economia greco usa il minotauro come metafora degli USA e dell’attuale fase del capitalismo globale.

[18] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR, 1991.

[19] A questo proposito, cfr. G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, Sugar Editore, 1973.

[20] “La vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella attività pratica umana e nella comprensione di questa attività pratica”. (K. Marx, VIII tesi su Feuerbach)

[21] Rappresentati in questo caso dal sole e dal labirinto.

[22] ”L’uomo è intermedio tra dei e animali” (Plotino, Ennade III).

Antonio Fiocco – Emanuele Severino considera ineluttabile il trionfo della Tecnica (cioè il capitalismo): il suo ripristino dell’ontologia è apparente e fuorviante, dunque innocuo per il potere

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Oltre l’Occidente: Emanuele Severino

Non si intende entrare nel merito della visione globale della filosofia di Emanuele Severino. In questa sede ci si propone di isolare, per quanto possibile, la porzione del suo pensiero eventualmente utilizzabile come possibilità di liberazione nei confronti di un sistema sociale ritenuto iniquo. Si è peraltro consci che questo filosofo vede nella cultura di sinistra – intesa nella sua accezione storica ormai travolta dall’utilitarismo crematistico – semplicemente una delle varie forme in cui si manifesta l’evoluzione della civiltà occidentale. Di conseguenza è importante dire subito che questa civiltà è da lui criticata globalmente e nei suoi stessi principi fondativi comuni a tutto il pensiero filosofico fin qui apparso e quali si sono perpetuati dai Greci ai nostri giorni. Anche dal marxismo in particolare, dunque, e senza distinzione fra pensiero marxiano e successiva ortodossia marxista, Severino si dissocia radicalmente. D’altra parte una indagine è inevitabile, visto che un testo[1] del pensatore avanza, come dice il breve tratto introduttivo, questa intrigante, problematica, sfida: è possibile, senza essere marxisti, riuscire là dove il marxismo ha fallito?
Severino considera che i Greci, per primi nella storia del pensiero umano, concepiscono l’essere e il nulla in assoluta, reciproca opposizione, divisi da una distanza infinita. In precedenza non era così. Per es.: «Nella civiltà mediterranea pre-greca il mancato ritorno [dalla morte; A.F.] è interpretato come una lunga assenza: nella sua interezza, la vita dell’uomo è un ciclo infinito di morti e di rinascite».[2] Ma con i primi pensatori greci matura la persuasione che ogni cosa esce dal nulla, vive una precaria esistenza e ritorna nel nulla. Qui occorre fare attenzione, giacché «il niente non può produrre alcunché – un principio che, appunto, include la coscienza della assoluta negatività del niente».[3] I mattoni che costituiscono una casa esistevano prima della casa, quando la casa era un non-essere, e le macerie persistono quando la casa è distrutta, cioè è ritornata nel nulla. Analoghe considerazioni si possono fare per qualsiasi altro ente, come, per es., anche un corpo umano. «È impossibile un divenire che non sia il divenire di un sostrato permanente; e tuttavia il divenire è sempre un divenire dal non-essere […] non esiste un ‘puro divenire’ senza sostrato; mentre ciò che non è così salvo è appunto l’insieme delle affezioni di tale sostanza, l’insieme delle cose del mondo, che, in quanto tali, cioè nella loro specifica individualità, escono dal loro essere state niente e tornano a essere niente, mentre, quanto alla loro sostanzialità, preesistono nella sostanza ‘sempre salva’ (Aristotele), da cui si generano e rimangono in tale sostanza, nella quale si corrompono».[4] In questo senso, dunque, i Greci «intendono il divenire come il dibattersi delle cose tra l’essere e il niente»[5] e «solo se si crede che le cose siano flessibili, oscillanti fra l’essere e il niente, ci si può proporre di fletterle e di controllare la loro oscillazione. Se la volontà di potenza è la volontà di dominare il mondo, la forma originaria della volontà di potenza è appunto la fede nell’esistenza del dominabile, cioè la fede nell’esistenza del divenire».[6] Già prima dell’ontologia greca, cioè in un contesto considerato da Severino una sorta di preistoria inconscia dell’Occidente, la coscienza umana ammetteva un certo grado di manipolazione del reale, «ma col pensiero greco incomincia l’epoca della flessione estrema del mondo […] proprio perché la flessione percorre l’infinita distanza tra l’essere e il niente, la volontà di potenza incomincia ad essere infinita […] la sua creatività e distruttività incominciano a essere assolute».[7] Ma in tutto questo, nota il filosofo, è contenuta una insolubile contraddizione, poiché, se è evidente e perfino tautologico dire, con Parmenide, che tutto «ciò che è, è», il divenire non può esistere, «perché, se l’essere diviene (si genera e va distrutto), non è».[8] Donde il nichilismo di tutta la cultura occidentale.
Severino addirittura si spinge, in un affascinante saggio, che si può considerare quasi una risposta al Cratilo platonico,[9] a scorgere ed esaminare , nel lessico delle grandi lingue indoeuropee, la natura della scissione fra l’inflessibile e il dominabile e come questi caratteri abbiano un timbro diverso e riconoscibile.
Secondo Severino, dunque, tutte le forme di pensiero, le civiltà, le religioni, i sistemi filosofici, le forme artistiche, politiche ed economiche dell’Occidente si sono sviluppate all’interno di questo originario stato della coscienza e per soddisfare l’indiscussa persuasione che ne sta al fondo. Tuttavia «la civiltà della tecnica è la forma più rigorosa di questa fede»,[10] perché conferisce un dominio pratico sulla realtà di una efficacia enormemente superiore alle forme precedenti e via via abbandonate dall’uomo perché rivelatesi insufficienti allo scopo, come la stessa ricerca filosofica e il Cristianesimo. Così, per secoli, da Eschilo[11] a Hegel, la fede nel dominio del mondo si è espressa con la tradizione epistemico-metafisica e con l’affermazione di un «Senso unitario, immutabile e divino della realtà», nel cui interno soggiogante risultava però prevedibile, contraddittorio e dunque impossibile il divenire, la cui evidenza rimaneva tuttavia incontestabile.
Affinché il divenire fosse veramente tale, fosse davvero libero e la volontà di potenza potesse estrinsecarsi totalmente, era necessario il tramonto di tutte le strutture immutabili evocate fino a quel momento dall’uomo, come Dio, la natura, l’anima, l’autorità dello Stato, la storia, i valori morali, il diritto, i canoni estetici, ecc. Dopo Hegel la filosofia imbocca coerentemente la strada dello smantellamento di tutte queste false certezze (per fare un solo esempio, pensiamo al ruolo avuto da Nietzsche in tal senso), per consegnare la realtà a uno stato di precarietà completa, di virtuale nullità e dunque totalmente dominabile.[12] Il pensiero marxista, che si propone di modificare la realtà, è considerato come una forma evoluta della volontà di potenza. Tuttavia, in quanto tensione verso una meta precisa e limitante, la società senza classi, ed in quanto erede della concezione universalistica di Hegel, esso è a sua volta e inesorabilmente, secondo Severino, un Immutabile destinato, come testimonierebbe il crollo del “socialismo reale”, al tramonto. La sconfitta di Trotskij e della “rivoluzione permanente” su scala mondiale nei confronti della concezione staliniana del “socialismo in un solo paese”, sarebbe già stata, a suo tempo, un chiaro indice di questo tramonto. Così, comunque, si ignora a priori l’eventualità che possano esistere interpretazioni e sviluppi che rendano la dottrina di Marx (indipendentemente dal crollo del “socialismo reale”) un patrimonio aperto e attuale. Pensiamo certo al “marxismo occidentale”, pur con i suoi limiti, ma soprattutto alla più recente necessità di una riformulazione della filosofia idealistica implicita nel pensiero originale di Marx, secondo il magistero del recentemente scomparso Costanzo Preve.
Oggi, dunque, secondo l’impostazione di Severino, ogni sistema politico e/o economico, ogni ideologia e religione, ormai manifestamente private di verità, si configurano come altrettante fedi o come altrettante volontà in lotta contro altre volontà. La democrazia diretta viene liquidata come ingenuamente utopica, cioè come una specie di “angelo caduto dal cielo”. Di norma, comunque, per democrazia Severino intende , a seconda dei casi, o la democrazia liberale (contrapposta al socialismo, a sua volta sempre inteso come “reale” e dunque fallito inesorabilmente), o la “sovranità della maggioranza” (in una accezione che ne rimarca un aspetto assolutistico). Queste forme di democrazia trarrebbero la loro legittimazione esclusivamente dalla forza di prevalere su altri sistemi di governo più esplicitamente autoritari, come quelli propugnati da coloro che ritengono di avere scoperto la Verità e di doverla imporre a tutti, come, per es., nello stato teocratico. Analogamente, l’antifascismo è legittimo solo finché ha la capacità pratica di prevalere sul fascismo, ma potrebbe essere indifferentemente il contrario. Un pluralismo come quello sancito dalla Costituzione italiana, che prevede una convivenza di culture diverse che non mirino a sopraffarsi vicendevolmente, viene implicitamente considerato un mito.[13] È superfluo aggiungere che la possibilità di un comunismo considerato come l’essenza stessa della democrazia (autogoverno politico e autogestione economica) non viene nemmeno presa in considerazione da Severino.
Una conseguenza non da poco di questa impostazione è che verrebbe a cadere la comunque apparente dicotomia originaria fra “mito” (inteso come interpretazione soggettiva e favolistica della realtà, la cui forma compiuta è la religione) e “logos” (come ricerca di una verità oggettiva), da cui nacque la filosofia. Infatti anche le verità frutto di ricerca razionale appaiono ormai come fedi.[14]
Comunque sia, la forza che prevale sulle altre, attualmente, è il capitalismo, con tutto il suo carico di miserie e di dolore. Ebbene, «l’accusa di immoralità, oggi rivolta al capitalismo […] si fonda sull’etica. Ma l’etica non è più in grado di essere un ‘fondamento’. Essa è una volontà, alla quale si contrappongono altre forme di volontà».[15] Ogni valore, come abbiamo visto, sarebbe ormai evidentemente anacronistico. “Liberté, Egalité, Fraternité”, al di là della funzione distorta o astratta che hanno avuto per le democrazie borghesi, non avrebbero quindi motivo di sussistere nemmeno come concretamente realizzabili dal comunismo. Ora, una definizione di “valore” è: «Carattere delle cose che consiste nel loro essere più o meno degne di stima. – ‘Il vero compito della ragione è di esaminare il giusto valore di tutti i beni la cui acquisizione sembra che in qualche modo dipenda dalla nostra condotta’ (Descartes)».[16] E quale «carattere delle cose» è più «degno di stima» della sopravvivenza della specie umana? Se, come è evidente, lo sfruttamento e l’alienazione portati dal capitalismo hanno condotto il mondo sull’orlo della distruzione, che altro mai potrà salvarlo se non la “nostra condotta” ispirata ai genuini valori comunitari di quella civiltà greca tanto deprecata dal nostro autore? Ma Severino invece afferma che «la distruzione dell’uomo non è la definizione dell’errore» e che «è follia (cioè errore), perché essa è negazione della verità. Ma che ne è oggi della verità».[17] La verità epistemica tradizionale e incontrovertibile oggi non esiste più nella civiltà moderna e dunque questo vuoto lascerebbe spazio alla verità, all’essere, alla «filosofia futura» del Severino stesso, per la quale «se il destino di tutte le cose, dalle più umili alle più grandiose, è di essere non trasformabili, non producibili e non distruggibili, non creature di un dio, non manipolabili, allora esse sono l’inafferrabile, il non dominabile, il necessario, l’eterno. Il destino è l’impossibilità del dominio».[18] Ogni azione umana, anche la più nobile, in quanto conseguente inesorabilmente a una forma variante di volontà di potenza, sarebbe minata dallo stesso male che intendesse curare e dunque destinata al fallimento. «Che cosa dovremo fare, allora, per evitare l’errore e la violenza? Ma è proprio necessario che si debba fare qualcosa? Il ‘fare’ è uno dei tanti nomi della vita; e se la vita è errore, anche la domanda ‘che fare?’ è errore ed è errore rispondervi. (Ma anche l’inerzia e la rinuncia alla vita sono modi di fare, cioè di vivere)».[19]
Ma affermare che la devastazione e la sofferenza sono una illusione e che tutto e tutti sono da sempre e per sempre nella gioia dell’essere, come può dispiacere all’essenza della devastazione e della sofferenza? Se esistesse una «Nous» capitalistica (secondo una espressione di Pasolini in una lontana trasmissione televisiva) sarebbe ben felice di sentirsi così assolta da ogni colpa…
Per Severino, dunque, il costruire (trarre le cose dal nulla) ha la stessa natura del distruggere (spingere le cose nel nulla), poiché entrambi condividono l’illusione della totale dominabilità delle cose stesse. Chi scrive, tuttavia, ritiene che non si possa sfuggire all’agire, secondo il senso ficthiano caro al filosofo Diego Fusaro, e di conseguenza vede nel costruire (per es. rapporti positivi tra gli uomini tramite la politica) il mezzo di una volontà che può essere più decisiva della volontà avversa. Non è credibile che guerre, devastazioni e sfruttamento avvengano necessariamente, all’interno del “divenire greco”, altrimenti anche il contenuto di questa tesi diverrebbe una di quelle verità dogmatiche che non si possono giustificare. Lo stesso Severino, auto-obbiettandosi se non abbia comunque un senso, anche all’interno della cultura occidentale, adoperarsi per evitare la guerra e costruire la pace, concede: «Certamente. E per ottenere questo risultato si danno da fare coloro che hanno a cuore le sorti dell’umanità», ma «lavorano per la pace dei morti [quali saremmo tutti all’interno del senso greco del divenire; A.F.]. E meritano riconoscenza da parte dei morti che sognano di essere vivi per merito loro».[20]
Quindi, ribadendo che all’interno dell’Occidente le devastazioni e le ingiustizie sono sostanzialmente conseguenti, di fatto Severino giudica inemendabili le modalità sociali che le causano. La tesi proposta è che se si viola ciò che si considera inviolabile, come la dignità umana, significa che non è veramente inviolabile e le lamentele in tal senso sarebbero solo il pianto del perdente.[21] Di fronte a questa logica si va al di là di ogni confutazione disapprovazione. Ma per Severino affidarsi all’indignazione non ha significato: «Per migliaia di anni gli uomini sono vissuti senza avvertire questa indignazione. E l’indignazione può tornare nell’oscurità».[22] Dunque il filosofo dichiara un punto di vista non al di sopra, ma al di là di ogni parte in campo sul pianeta. Ma nei suoi giudizi, l’operazione intellettuale che di fatto si realizza è la svalutazione di ogni aspirazione e di ogni tentativo pratico di superare l’orizzonte dell’orribile presente, per fornire una prospettiva talmente irreale da non poter sussistere nemmeno come speranza, cioè un preteso tramonto dell’Occidente (sempre inteso come la dimensione filosofica e pratica scoperta dai Greci), cui comunque assisterebbero in pochi o nessuno, se nel frattempo la distruzione non sarà fermata.

La scienza e la tecnica (ovvero il feticismo tecnologico)

Essenziale, nel pensiero del nostro filosofo, è il rapporto con la scienza e la sua applicazione pratica, la tecnica. Non esiste una reale dicotomia fra la cultura filosofica e la cultura scientifica. È vero che mentre la prima si propone una visione globale del reale, la seconda, invece, isola settori di indagine particolari e sempre più ristretti. Ma questo sezionamento separa le cose tra di loro e dal tutto allo scopo di renderle più facilmente dominabili. Ne risulta una efficacia di intervento sulla realtà nemmeno lontanamente paragonabile alle forme pre-scientifiche. Quindi la tecno-scienza realizza sempre più compiutamente ciò che comunque è sempre stata l’esigenza ultima anche dell’umanesimo che l’ha preceduta e preparata: la volontà di potenza.[23]
D’altra parte, se una qualsiasi forma umanistica di pensiero rappresenta una struttura immutabile e dunque una fede, a sua volta «l’azione tecnologica [che si basa sulla presunta ripetibilità dei fenomeni; A.F.] è possibile solo in quanto si ha fede, ossia non si dubita di ciò che la coscienza scientifica conosce come ipotesi e quindi come dubitabile».[24]
L’insieme di uomini e mezzi che esercitano la potenza nella sua forma moderna viene definito «Apparato tecnico-scientifico». Esso è sorto come uno strumento, in particolare del capitalismo, ma la competitività sfrenata con il socialismo reale e all’interno del capitalismo stesso, nonché la necessità dell’Occidente di mantenere la supremazia nei confronti del resto del mondo, avrebbero generato, secondo Severino, un’inversione da mezzo a scopo. E cita come precedente il suggestivo esempio del denaro, che, sorto inizialmente come strumento per far circolare gli oggetti, poi diviene scopo della produzione degli oggetti stessi, ormai concepiti come merci. Le ideologie e i sistemi economici sarebbero costretti dalla loro stessa logica interna ad aumentare indefinitamente la loro potenza tecnico-scientifica, fino a subordinare a questa e a snaturare progressivamente i loro scopi iniziali. Per es., secondo Severino, il crollo del socialismo sovietico non sarebbe dovuto a motivi economici e/o politici, ma all’esplodere della contraddizione insita nell’esistenza di un sistema con retaggi ideologici tali da costituire un ostacolo all’incremento della Potenza tecnologica. Stadio finale dell’evoluzione dell’Occidente (e, ormai, di tutto il pianeta), l’«Apparato» incarna e riassume l’esigenza di beatitudine del Paradiso cristiano, nonché esprime compiutamente il Superuomo nietzscheano. Esso non è neutrale e non può essere guidato: «Ha un’etica propria e un proprio scopo da realizzare: l’accrescimento indefinito della propria potenza».[25] Per questo inesorabile scopo, alcuna importanza possono avere ingiustizie e miserie, ma nel momento in cui ne fosse raggiunto il culmine, sarebbero possibili perfino l’«autogoverno democratico» dei popoli e il soddisfacimento di tutte le esigenze umane prima ineluttabilmente neglette perché considerate d’ostacolo al Fine ultimo e purché tali, naturalmente, da non pregiudicare la Potenza stessa, che assumerebbe i requisiti del Dio della tradizione.
Questa visione complessiva sembra distante dalla realtà. È vero che i sistemi economici affidano alla scienza e alla tecnica le loro ambizioni di supremazia, ma è anche vero che senza interessi pratici, concreti, e in particolare di una potenza sociale di cui il capitalista è l’agente, secondo la lezione di Karl Marx, questo «Apparato» non solo non sarebbe sorto, ma la sua evoluzione-corsa verso l’onnipotenza non avrebbe motivo di esistere. È vero che l’«Apparato» è prodotto dalla civiltà occidentale, ma sempre, con ogni evidenza, solo come strumento per l’ascesa indefinita di quel sistema di rapporti sociali e materiali che di questa civiltà è l’attuale, ma non necessariamente definitivo, compimento: il modo di produzione capitalistico. Ciò non toglie che in questo contesto l’«Apparato» possa anche assumere una connotazione mistica, un significato astratto, come la “merce” o lo “Stato democratico” di marxiana memoria, ma sempre e comunque in modo funzionale, come negli esempi citati, ai rapporti di forza nella società. In definitiva, se la fuoriuscita dal capitalismo sarebbe la Tecnica, cioè lo stesso principio di dominio espresso in modo asettico, metaforico e dunque innocuo, ci troviamo di fronte a una tesi inutilizzabile ai fini dell’emancipazione dell’uomo.

Il modello giapponese

Un significativo esempio di banalizzazione della realtà si nota nell’analisi, compiuta da Severino, del «modello giapponese». Per un verso essa è condivisibile: i principi socialdemocratici del welfare e della democrazia industriale sono estranei alla cultura giapponese, ma il prevalere pratico del modello di produzione nipponico, afferma Severino, non è un semplice fatto storico riguardante quella particolare civiltà. Tutto, però, si riduce alla riaffermazione del consueto schema generale: «Nel successo del modello giapponese dell’impresa si rende più visibile che altrove l’inevitabilità del processo in cui ogni forza ideologica [il sistema aziendale militarizzato impregnato di spirito nazionalista; A.F.] che tenta di controllare l’Apparato e di servirsene come mezzo per la realizzazione di uno scopo ideologico, è destinata a fallire e a subordinare la realizzazione dei propri scopi alla realizzazione dello scopo che l’Apparato possiede di per sé stesso».[26]
In tal modo, intanto, non si tiene conto che è il capitale ad appropriarsi di tutto ciò che favorisce i suoi scopi (come attesta appunto l’espansione del modello toyotista, e precedentemente fordista, con lo smantellamento e la sussunzione di modi di vivere, culture, nonché istituzioni preesistenti). Ma soprattutto qui non c’è coscienza, invece, del fatto che «la tecnologia viene inclusa come parte integrante della strategia aziendale, nello studio di quelle che complessivamente vengono definite ‘attività’ che creano ‘valore’, non in forma separata, tecnicistica e neutrale, ma a fianco del lavoro vivo rappresentato, quale risorsa fondamentale e centrale, come capitale umano. La razionalità del sistema viene spinta al di là della massimizzazione del profitto, il che non vuol dire che non sia più il profitto stesso il fine della produzione capitalistica, bensì che l’orizzonte decisionale deve progettare la profittabilità d’impresa in un più lungo andare, proprio per garantirne una permanenza certa a fronte del suo movimento in caduta».[27] Dunque l’applicazione della tecnologia in realtà viene sapientemente dosata dal capitale, poiché se diminuisce troppo la quota di lavoro vivo fornita dall’operaio, si verifica la temuta tendenziale caduta del saggio di profitto. Sono fattori di questo tipo, dunque, a risultare sempre preminenti e non, invece, lo sviluppo di questo fantomatico apparato fine a sé stesso. A chi analizza la nuova organizzazione tecnologica del lavoro, anche da un punto di vista cronologico risulta che essa è stata applicata solo come completamento di un precedente programma di ristrutturazione volto ad «aumentare intensità e condensazione del lavoro, e non la produttività»,[28] poiché è principalmente il lavoro vivo, umano, per ammissione degli stessi tecnici aziendalisti, che conferisce valore al prodotto finale, la merce. Certo Severino potrebbe affermare che da una contraddizione di questo tipo si evincerebbe solo un ipotetico singolo conflitto di interessi fra tecnologia e capitale destinato a risolversi, a lungo termine, con il prevalere della prima. Ma, daccapo, da dove trarrebbe , la tecnologia, questa presunta tendenza all’affermazione, essa che è sorta e sussiste totalmente sussunta al capitale, come ormai ogni realtà di questo pianeta?

Storia e ideologia

Funzionale e conseguente alla visione generale di Severino è una parte descrittiva contenuta nei suoi libri, dove più facilmente si può cogliere un determinato grado di distorsione. Citiamo solo qualche esempio: «Le democrazie prevalgono sulle dittature e i totalitarismi, lo stesso capitalismo non concepisce più sé stesso come legge naturale eterna».[29] Tesi opposta a quanto constatiamo giorno per giorno con la globalizzazione e tutta l’ideologia neoliberista che vi è cresciuta sopra, nonché con il tramonto dei principi giuridici fondamentali della civiltà occidentale. Inoltre, il Cristianesimo e la democrazia, anziché essere , caso mai, sostanzialmente funzionali o sovrastrutturali al capitalismo (sebbene la religione abbia ormai perso la funzione di legittimazione del potere e sia considerata solo un intralcio per la liberalizzazione consumistica dei costumi), secondo Severino sarebbero forme ideologiche in concorrenza con esso. Di conseguenza, «non si profila allora una situazione in cui anche il Cristianesimo e la democrazia dovranno o cedere alla strapotenza dell’organizzazione capitalistica della società, oppure resistere e organizzarsi secondo i criteri dell’efficienza scientifico-tecnologica, rinunciando sempre di più a se stessi?».[30]
Sinceramente, è difficile concepire dei “partigiani” del Cristianesimo o della “democrazia” impegnati in una corsa tecnologica per battere il capitalismo.
Ancora: «Il capitalismo dovrà rendersi conto che distruggendo la terra, distrugge sé stesso». Dunque esso sarebbe costretto a limitare la corsa al profitto per salvaguardare la base naturale della produzione economica, cioè, secondo Severino, a rinunciare a sé stesso e volgere al «declino».[31] Non solo sembra troppo debole e artificioso come argomento, ma allora, inoltre, il capitalismo sarebbe già declinato per il semplice fatto di aver consentito, a suo tempo, uno stato sociale.
Inoltre: «Oggi si riconosce che, contrariamente a quanto pensava Marx, la produzione capitalistica fa aumentare il livello di vita delle masse delle società industriali»,[32] affermazione, questa, che lasciamo alla riflessione del lettore sufficientemente informato sullo stato di cose esistente anche nelle “società industriali”, che vede un ineluttabile degrado della qualità di vita di masse sempre più imponenti.
Poi: il capitalismo si sarebbe convinto, a suo tempo, «che il perfezionamento del macchinario, il cui sottoprodotto era il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’elevazione del salario, avrebbe consentito un maggior incremento del profitto».[33] Ebbene, questo «miglioramento» e questa «elevazione» sembrano quanto meno discutibili. Inoltre, «il capitalismo è anche la forza che oggi consente la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra»,[34] e di conseguenza, secondo Severino, la sua esistenza sarebbe da considerarsi necessaria. Forse è così per la banale constatazione che si tratta dell’unico modo di produzione ormai rimasto e in ogni caso è il primo che non garantisce la sopravvivenza dei suoi schiavi salariati.
Proseguiamo con gli argomenti storici. La lotta contro il comunismo, nel dopoguerra, «per essere efficace doveva essere segreta», e quindi «inevitabilmente illegale (e chi se ne meraviglia e se ne scandalizza o è ingenuo o mente), giacché in regime di democrazia parlamentare tutto ciò che è legale deve essere pubblico».[35] Per cui, «sembra dunque necessario depenalizzare le forme illegali della lotta anticomunista,[36] tranne che nel caso del terrorismo di Stato, con relative stragi. Ma solo perché – si affretta a specificare il filosofo – ciò sarebbe improponibile davanti all’opinione pubblica… Infine Severino afferma che a suo tempo il Partito Comunista avrebbe rinunciato (sottinteso: a malincuore) alla sua scontata natura antidemocratica per adeguarsi ai canoni della Costituzione. Dunque il PCI avrebbe compiuto solo perché costrettovi dalla situazione internazionale post-bellica il doloroso passo di giungere al rispetto di quell’insieme di super-norme che esso stesso – ignora Severino – come grande componente della società, in sede di Assemblea Costituente, aveva grandemente contribuito a elaborare! E tutto il lungo travaglio degenerativo di questo partito, conseguente alla sua natura storicista e produttivista, dall’iniziale intransigenza bordighiana, alla guerra di posizione gramsciana, alla democrazia progressiva togliattiana, al consociativismo, ecc. fino allo auto-scioglimento finale, è rimosso in maniera stupefacente.
Si nutriva, dunque, la speranza di udire quasi un nuovo verbo o quantomeno di ricevere un conforto, da una sponda autorevole, nel confronto impari con il grigio “pensiero unico” filocapitalista dominante. Purtroppo, invece, nei suoi testi E. Severino elabora poche tesi tagliate con l’accetta, entro le quali costringe quella realtà che si vede andare in ben altre direzioni, compiendo così un’operazione avente lo scopo di comprovare la validità delle sue analisi sulla cultura occidentale e che diventa comunque funzionale all’ideologia dominante qualunque sia la sua intenzione soggettiva. C’è un aspetto sostanzialmente ignorato nella visione “politica” di Severino. Si tratta dell’aspirazione dei popoli al miglioramento delle condizioni di esistenza, che può essere più o meno consapevole o evoluta, ma è una forza sostanzialmente mai completamente riducibile alle costrizioni oggettive, economiche, politiche o “tecnologiche” che la comprimono.
Nelle analisi sull’esistente elaborate da Severino domina un pragmatismo cinico e assoluto. Dunque, per quanto il filosofo miri a porsi al di là di ogni parte ideologica , è difficile non scorgere in questa linea di pensiero delle conseguenze che infine si sposano con le istanze di una cultura di “destra economica”, per usare ancora questa vecchia categoria. Infatti il preconizzato trionfo del pragmatismo tecnologico non costituisce la vittoria di una tendenza neutra, bensì rappresenta l’affermarsi di un totalitarismo inedito, ma pur sempre classista. C’è il sospetto che Severino sia sostanzialmente ben accetto nel mondo della cultura dominante non solo perché considera ineluttabile il trionfo della Tecnica (cioè il capitalismo) come Heidegger e Galimberti, ma anche perché il suo ripristino dell’ontologia è apparente e fuorviante, dunque innocuo per il potere. Il concetto severiniano dell’essere (che lo scrivente ritiene inconcepibile, sul piano strettamente logico, senza il suo contraltare, il nulla) non ha niente a che fare con l’eternità dei significati umani,[37] né con la totalità sociale, e ovviamente, se si accetta la dottrina della deduzione sociale delle categorie , nemmeno con la interpretazione dell’essere parmenideo come metafora di una stabile e buona legislazione come difesa dall’attacco crematistico , interpretazione cara al compianto filosofo Massimo Bontempelli. Infine, l’estensione integralista del principio di non contraddizione alla nientificazione degli enti empirici ricorda – mutatis mutandis – l’arbitrarietà con la quale Engels applicò la dialettica hegeliana al mondo della natura. Tutto questo si può interpretare come l’apoteosi di un “intelletto astratto”.

Antonio Fiocco

Note

[1] E. Severino, Il declino del capitalismo, Rizzoli,1993.

[2] E. Severino, Il giogo, Adelphi,1989, pag. 61.

[3] Ibidem, pag. 85.

[4] Ibidem, pagg. 85-86.

[5] E. Severino, La filosofia futura, Rizzoli, 1989, pag. 10.

[6] Ibidem, pag. 16.

[7] Ibidem, pag. 119.

[8] E. Severino, Il giogo, op. cit., pag. 88.

[9] E. Severino, Destino della necessità, Adelphi,1980. Il saggio in questione è contenuto in questo testo.

[10] E. Severino, La filosofia futura, op. cit., pag. 17.

[11] Eschilo viene considerato da Severino come un grande filosofo che si esprime nella forma della tragedia.

[12] «La grandezza del pensiero greco porta sulla terra il bagliore della follia estrema in cui tutte le cose sono annientate», in: E. Severino, La guerra, Rizzoli, 1992, pag. 96.

[13] «Il dialogo è lo scontro tra due fedi, che ancora non si è tradotto nella bruta violenza fisica […]. Il dialogo è il momento teorico della violenza», in: E. Severino, La guerra, op. cit., pag. 85.

[14] Ma, se è così, non è una “fede” anche quella «filosofia futura» indicata dal Severino quale radicale alternativa al pensiero occidentale?

[15] E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag. 106.

[16] André Lalande, Dizionario critico di filosofia, edizione italiana, Mondadori,1980.

[17] E. Severino, La guerra, op. cit., pagg. 21-22.

[18] Ibidem, pag. 136.

[19] Ibidem, pag. 70.

[20] Ibidem, pag. 96.

 [21] E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag.110: «Ogni decisione è dunque innocente. Innocente anche ogni uccisione».

[22] E. Severino, La guerra, op. cit., pag.134.

[23] «La religione, l’arte, la morale sono azioni tecniche che si trovano in contraddizione con la propria essenza tecnica e quindi sono destinate a risolversi in quella forma tecnica che non è in contrasto con la propria essenza», in: E. Severino, Destino della necessità, op. cit., pag. 250.

[24] Ibidem, pag. 390

[25] E. Severino, La filosofia futura, op. cit., pag. 114.

[26] Ibidem, pag. 81.

[27] Carla Filosa, Gianfranco Pala, La qualità è quantità: totale, in “Marx centouno” n. 15, pag. 61.

[28] Ibidem, pag. 59.

[29] E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag. 18.

[30] Ibidem, pag. 51.

[31] «Il capitalismo è la volontà che il profitto non sia limitato da alcunché. Perseguire il profitto insieme a qualche altro scopo complementare – come la salvaguardia della Terra – significa uscire dal capitalismo», in E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag. 94. Infatti, per inciso, tutto indica comunque che il capitalismo non intenda salvaguardare la Terra.

[32] Ibidem, pag. 74.

[33] Ibidem, pag. 77.

[34] Ibidem, pag. 101.

[35] Ibidem, pag. 176.

[36] Ibidem, pag. 188.

[37] Per questo si rimanda al grande saggio di Massimo Bontempelli, Filosofia e Realtà, C.R.T.- Petite Plaisance.

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