Costanza Fiorillo dipinge la Bandiera del popolo palestinese su un lenzuolo bianco disteso nel cortile di casa e disegna la composizione delle illustrazioni per la poesia di Yousef Elqedra: «Posso scrivere una poesia con il sangue che sgorga», tratta dal libro “Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza”.


Posso scrivere una poesia con il sangue che sgorga …





M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Josè Saramago (1922-2010) – Oggi gli ideali socialisti stanno attraversando il deserto, ma dire che l’idea socialista è morta significa cadere in una tentazione molto comune all’uomo che, avendo una vita breve, tende sempre a pensare che qualche altra cosa muoia prima di lui. Io sono ancora comunista. Certo che lo sono e non riesco a immaginare me stesso essere qualcosa di diverso.

José Saramago, Io sono comunista

«Oggi gli ideali socialisti stanno attraversando il deserto, ma dire che l’idea socialista è morta nel 1989 significa cadere in una tentazione molto comune all’uomo che, avendo una vita breve, tende sempre a pensare che qualche altra cosa muoia prima di lui».

«Qualche volta ho riflettuto sul fatto che io sono ancora comunista. Certo che lo sono e non riesco a immaginare me stesso essere qualcosa di diverso. Ma ho capito che avevo bisogno di aggiungere qualcosa a questo dire “io sono un comunista,” e quello che sto aggiungendo è che io sono un comunista libertario.
Il comunismo in Unione Sovietica è crollato per le stesse ragioni per cui crollerà la democrazia: perché non si può sopportare un sistema che si suppone sia democratico, che viene proclamato come un governo del popolo, che mette ogni giorno in bocca alla gente la parola democrazia, senza che nessuno si fermi per lo meno a chiedere se davvero quella che stiamo vivendo abbia qualcosa a che vedere con la realtà che avrebbe dovuto creare. Viviamo in un epoca in cui tutto può essere discusso, tranne la democrazia. Nessuno in questo mondo si domanda se davvero la democrazia sta facendo ciò che per sua stessa definizione è chiamata ad essere. Il nome della democrazia non si tocca, la sua fallacia non si disvela e rimaniamo con gli occhi bendati, riempiendo la bocca con una parola che funziona come una rappresentazione falsata di qualcosa che non ha cominciato a esistere. La democrazia non può essere limitata alla semplice sostituzione di un governo con un altro. Abbiamo una democrazia formale, abbiamo bisogno di una democrazia sostanziale.
Io ero ospite del programma di Bernard Pivot, il giornalista francese, e mi ha chiesto: “Come mai sei diventato un comunista?”. E io, che non ci avevo pensato, ho detto: “voglio lasciare un importante contributo al marxismo e alle idee di sinistra ed è che, come la barba o hanno alcuni tratti genetici attribuiti agli ormoni maschili, io sono un comunista ormonale “. Può essere attribuito agli ormoni, anche se senza dubbio, sarebbe meglio attribuirli alla coscienza. Ultimamente sto dicendo: comunista sì, però credo che si debba cambiare il qualificativo: sono un comunista libertario.
Marx ed Engels hanno scritto nella Sacra famiglia: «se l’uomo è formato dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente». Niente di più chiaro, niente di più eloquente, niente di più ricco di senso. Non avevo ancora trent’anni quando, per la prima volta, lessi quelle parole. Furono, per così dire, la mia via di Damasco. Capii che mi sarebbe stato impossibile tracciare una rotta per la mia vita al di fuori di quel principio e che solo un socialismo integralmente inteso (dunque, il comunismo) avrebbe potuto soddisfare i miei aneliti di giustizia sociale. Molti anni più tardi, in una intervista con Bernard Pivot, che voleva sapere perché continuassi a essere comunista dopo gli errori, i disastri e i crimini del sistema sovietico, risposi che, essendo un comunista «ormonale», mi era impossibile avere delle idee diverse: gli ormoni avevano deciso. La spiegazione è più seria di quanto sembri: e forse si capisce meglio se dico che, in qualche modo, ha un equivalente nel «non possumus» biblico. Recentemente, suscitando lo scandalo di certi compagni dediti alla più canonica ortodossia, ho osato scrivere che il socialismo – e a maggior ragione il comunismo – è uno stato dello spirito. Continuo a pensarlo. E la realtà si incarica giorno dopo giorno di darmi ragione.
Come è che dopo la caduta dell’Unione Sovietica, il crollo del muro di Berlino, i processi di Mosca, l’invasione dell’Ungheria, come si continua a essere comunista? Mi piacerebbe rispondere chiedendo: ‘Voi siete cattolica? Come è che siete ancora cattolica dopo l’Inquisizione? ‘ Io sono quello che si potrebbe chiamare un’ comunista ormonale ‘. Che cosa significa questo? Proprio come nel corpo ho un ormone che mi fa crescere la barba, c’è un altro ormone che mi obbliga che lo voglia o no , per una sorta di fatalità biologica, ad essere comunista. E’ molto semplice. Più tardi, ho cominciato a dire che essere un comunista è uno stato d’animo. E lo è. Potete leggere Marx, le opere più importanti che Lenin scrisse, ma in fondo, in fondo, è uno stato d’animo. (…) Marx non ha mai avuto tanta ragione come ora.
Nella mia vita ho capito che l’alienazione è uguale che provenga da un potere o da un altro, da un colore o un altro. Ecco perché sto dicendo che sono un comunista libertario. Forse si può credere che tra questi due termini vi sia una contraddizione, ma io l’ho piuttosto bene risolta. Io dico comunismo, sì, io dico che si può. Però non per ripetere quanto è stato fatto. Alcune cose sì. Quello che ho capito è che non si può, nel nome di qualsiasi cosa, cercare di imporre quella che si suppone sia la felicità senza ascoltare l’altro. Non sei più importante o migliore dell’altro. Lui potrebbe aver ragione.
Il socialismo non può essere costruito contro cittadini o senza i cittadini, e per non aver compreso questo che a sinistra c’è oggi un campo di rovine, dove, dopo tutto, alcuni ancora insistono a cercare e incollare i frammenti delle vecchie idee con la speranza di essere in grado di creare qualcosa di nuovo … ‘riusciranno a farlo?’, mi hanno chiesto, e ho detto, ‘Sì, un giorno, ma io già qui non ci sarò a vederlo …’
Come scrittore, credo di non essermi mai separato dalla mia coscienza di cittadino. Ritengo che dove va l’uno dovrà andare l’altro. Non rammento di aver scritto una sola parola che fosse in contraddizione con le convinzioni politiche che difendo, ma questo non significa che abbia mai messo la letteratura al servizio diretto dell’ideologia che è la mia. Vuol dire, questo sì, che quando scrivo cerco, in ogni parola di esprimere la totalità dell’uomo che sono. Lo ripeto: non separo la condizione di scrittore da quella di cittadino, ma non confondo la condizione di scrittore con quella del militante politico».

Josè Saramago




Josè Saramago (1922-2010) – Mi lascia indifferente il concetto di felicità, ritengo più importanti la serenità e l’armonia
José Saramago (1922-2010) – Quanti anni ho, io? Ho l’età in cui le cose si osservano con più calma, ma con l’intento di continuare a crescere. Ho gli anni che servono per abbandonare la paura e fare ciò che voglio e sento. Per continuare senza timore il mio cammino, perché porto con me l’esperienza acquisita e la forza dei miei sogni.
Josè Saramago (1922-2010) – Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono.
Josè Saramago (1922-2010) – Marx ed Engels hanno scritto nella “Sacra famiglia”: «Se l’uomo è formato dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente». Il comunismo è per me uno stato dello spirito.
Josè Saramago (1922-2010) – Ecco cos’hanno di simpatico le parole semplici, non sanno ingannare.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Hugo von Hofmannsthal – «Prologo all’Antigone di Sofocle». Introduzione e traduzione di Gherardo Ugolini. Testo tedesco a fronte.

Hugo von Hofmannsthal
Prologo all’Antigone di Sofocle
Introduzione e traduzione di Gherardo Ugolini
Testo tedesco a fronte

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Carlo Natali – Aristotele, Marx, la contraddizione. Cinque saggi.

Premessa



Tra le molte pubblicazioni di Carlo Natali


Cosmo e divinità. La struttura logica della teologia aristotelica. , L’Aquila, Japadre, 1974


Aristotele e l’origine della filosofia pratica in
C. Pacchiani, Filosofia pratica e scienza politica, Abano Terme, Francisci, vol. 3, pp. 99-122, 1980


Évenément et poiesis. La théorie aristotélicienne des évenements naturels in
J.L. Petit, L’événement en perspective, Paris, Éditions de l’EHESS, vol. 2, pp. 177-201, 1991


Bios theoretikos. La vita di Aristotele e l’organizzazione della sua scuola , BOLOGNA, Il Mulino, pp. 1-213, 1991


Sei lezioni sulla sofistica , Roma, Jouvence, 1991


Azioni e movimenti in Aristotele in
A. ALBERTI A CURA DI, Realtà e ragione. Studi di filosofia antica, FIRENZE, Olschki, vol. 1, pp. 159-184,1994


 Lieux et écoles du savoir in
J. BRUNSCHWIG; G.E.R. LLOYD, Le savoir grec, Dictionnaire critique, PARIS, Flammarion, pp. 229-249, 1996


Aristotele, azione e responsabilità in
C. VIGNA, La libertà del bene, MILANO, Vita e Pensiero, pp. 85-103, 1998


Artristotele, Etica Nicomachea,
tredicesima edizione traduzione e cura, Laterza, 1999


Etica stoica , ROMA-BARI, Laterza, pp. 1-107, 1999


Le plaisir dans l’Ethique à Nicomaque’
in M. DIXSAUT , F. TEISSERENC, La fêlure du plaisir. Etudes sur le Philèbe de Platon, PARIS, Vrin, 1999


Modelli di ragionamento nella filosofia moderna, con Franco Ferrari, Aracne 1999


Aristotele e la nascita della retorica , L’attualità di Aristotele, a cura di S.L. Brock, ROMA, Armando, pp. 15-32,
Convegno. L’attualità di Aristotele, 22-23.2.1999, 2000


IIntroduzione alla storia della filosofia antica , Venezia, Cafoscarina, vol. 1, pp. 1-290, 2004


L’action efficace. Etudes sur la philosophie de l’action d’Aristote , LOUVAIN-LA-NEUVE, Peeters, pp. 1-251, 2004


 Etica stoica. , ROMA-BARI, Laterza, vol. 1, pp. 1-107, 2008


RUGGIU L.; NATALI C.; MASO S. Ontologia scienza mito. Per una nuova lettura di Parmenide , Milano, Mimesis, 2011


Reading Aristotle’s Physics VII.3, “what is alteration?”, 2012


A note on Metaphysics Theta 6, 1048b18-36 in RHIZOMATA, vol. 1, pp. 104-11, 2013


A note on Metaphysics Theta 6, 1048b18-36 in RHIZOMATA, vol. 1, pp. 104-11, 2013


Aristotle. His Life and School , Princeton, Princeton University Press, vol. 1, pp. 1-296 , 2014,


L’amicizia secondo Aristotele. in
PHILOSOPHICAL INQUIRY, vol. 37, pp. 66-8, 2013


Aristotele e il determinismo ,
Libero arbitrio Storia di una controversia filosofica, Roma, CAROCCI EDITORE, 2014


Aristotele, Carocci 2014.


Introduction , AITIA II. Avec et sans Aristote., Louvain-La-Neuve, Peeters, vol. 1, 2014


 Introduzione alla Retorica. , La Retorica di Aristotele e la dottrina delle passioni, Pisa,
Pisa University Press, vol. 1, pp. 1-32, 2015


The search for definitions of justice in
Nicomachean Ethics 5 , BRIDGING THE GAP BETWEEN ARISTOTLE’S SCIENCE AND ETHICS,
Cambrdge, Cambridge University Press, vol. 1, pp. 148-168, 2015


La vertu selon Aristote. , Lire Aristote., Paris,
Presses Universitarires de France, vol. 1, pp. 161-176, 2016


 Il metodo e il trattato. Saggio sull’«Ethica Nicomachea», Storia e Letteratura, 2017


Aristoteles , Stockholm, Fri Tanke, 2018


Cosmo e divinità, la struttura logica della teologia aristotelica, Japadre 2018


 L’amicizia secondo Aristotele, i
REVISTA IDEAÇÃO, vol. 36, pp. 15-50, 2018


Un fossato da riempire? Nuove tendenze nell’interpretazione delle Etiche di Aristotele, in
REVUE DE PHILOSOPHIE ANCIENNE, vol. 36, pp. 131-152, 2018


Studi sul medioplatonismo e il neoplatonismo. , Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, vol. 9 – 2019


The Preambles to the Ethics in
C. Natali, Investigating the Relationship Between Aristotle’s Eudemian and Nicomachean Ethics.,
London – New York, Routledge, pp. 17-33 – 2022


Aristotele: paura, vergogna e altri affanni, in
Carlo Natali, Cristina Viano, Il Pathos nella filosofia antica,
Edizioni di Storia e Letteratura, 2023


Aristotle’s Causes and the Problem of the Necessity of Our Actions,
Routledge 2024




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Afghanistan della disinformazione. La guerra per l’oppio.

Salvatore Bravo

 

Afghanistan della disinformazione

 

 

L’infosfera dell’Occidente turbo-capitalista è finalizzata alla disinformazione manipolata. Il suddito-consumatore aggiogato al mainstream ha la percezione di essere informatissimo, in realtà il sistema mediatico ripete in modo ossessivo informazioni filtrate a priori. La decadenza della democrazia è nell’impossibilità di ricostruire eventi e circostanze in modo reale e razionale. Si vive, di conseguenza, in una realtà semi-onirica, in cui le parole e le immagini, in un numero volutamente ingestibile, sembrano farci vivere in una democrazia trasparente e realizzata. Siamo nella gabbia d’acciaio della disinformazione e non ne abbiamo, in genere, la consapevolezza. L’Italia nel 2024 risulta essere al 46 posto per la libertà d’informazione. Si finanziano le guerre per i diritti umani, ma in patria vi è un deficit notevole di diritti, di informazione e di cultura politica.

In questi decenni a liberismo integrale, in cui i diritti sociali sono stati tagliati e la formazione dei cittadini europei è drammaticamente curvata ai voleri della classe al potere, la vera protagonista è stata la guerra. Il neocolonialismo si è mascherato con la propaganda dei diritti umani, e in nome della democrazia e dei diritti umani propagandati dai trombettieri delle oligarchie si è proceduto a devastare intere aree geografiche e a massacrare i popoli indisponibili ad entrare nell’Eden occidentale. La religione unica del mercato e del denaro non tollera le differenze, esse sono vissute come una minaccia alla verità dell’economicismo. La superiore civiltà dell’Occidente ha divorato un numero non indifferente di popoli: Serbia, Libia, Iraq, Siria, Afghanistan ecc. La democrazia è arrivata a suon di bombe e ha lasciato paesi devastati e popoli nel dolore. In questo clima vi sono testi che possono esserci d’ausilio per comprendere la pericolosa direzione verso cui l’Occidente si sta posizionando. Il saggio di Filippo Rossi è una fonte di informazioni, spesso diretta, sul conflitto in Afghanistan. Ci svela la verità sull’operato NATO abilmente occultato dai mainstream, i quali si soffermano esclusivamente sulla condizione femminile, la quale è diventata lo strumento mediatico per strappare un facile e irriflesso consenso e per celare la realtà tragica di questi anni terribili di guerra. L’autore specifica nel testo che cosa intenda per Occidente. Non sono i popoli occidentali ad essere responsabili, ma le oligarchie anglofone, le quali occultano la verità in Occidente, rendendo i cittadini sudditi. Le plutocrazie sono le responsabili di una serie di guerre che non hanno eguali per la conduzione spregiudicata e per le tecnologie messe in campo:

 

«Bisogna, invece, intendere l’Occidente come sistema di governo, di controllo finanziario, come politica neocolonialista e imperialista che domina, invade e opprime chiunque non la pensi come desiderato dal potere, e cerca di imporre con mezzi subdoli e con tecniche avanzate la propria visione del mondo per cercare di modificarlo a piacimento e renderlo sempre più omologato, abbattendo frontiere culturali, barriere e usi sociali per arrivare a creare un essere umano ibrido (ciò che, nella sua accezione fenomenologica, può essere considerato transumanesimo). E l’opera è già in stato avanzato, anche se barcollante. Questo avviene senza tenere minimamente conto di ciò che la popolazione occidentale pensa di queste azioni e di questa espansione».[1]

 

Compelle intrare

Le guerre di rapina sono venate da un razzismo occultato dalla fumisteria dell’uguaglianza. La civiltà occidentale è la migliore possibile, pertanto bisogna radere al suolo le altrui civiltà per portare l’irenica pace dell’Occidente. L’Occidente è divenuto con la sua religione-missione della civilizzazione, ad ogni costo, la laica e pericolosa religione del nostro tempo. Si tratta di ideologia, in quanto la retorica della religione dei diritti cela l’occupazione e il saccheggio quali fini reali delle missioni di pace. Il capitalismo è il “bene assoluto” per cui va imposto ai popoli retrogradi che bisogna costringere ad entrare nel mondo della superiore civiltà del dollaro nella quale l’uguaglianza è divenuta eguagliamento:

 

«In Occidente si parte dal presupposto che almeno in Europa e negli Stati Uniti la struttura della propria società sia la migliore al mondo. Da qui il bisogno di doverla proporre con le “buone o le cattive” agli altri. La cosa più sconcertante è che spesso sono gli ambienti della cosiddetta “sinistra” a difendere questi diritti inalienabili imponendola a tutti senza accorgersene».[2]

 

“Compelle intrare” è il motto che distingue la democrazia occidentale, coloro che resistono devono essere indotti a suon di bombe ad entrare nel mercato e a “condividere le loro risorse con i liberatori”. Caduta l’unione Sovietica, la NATO ha cominciato ad estendersi sempre più ad Est. Il crollo delle torri gemelle ha decretato la contrazione della democrazia in Occidente in nome della sicurezza. Si esporta la democrazia dei diritti, mentre in Occidente la stessa si contrae:

 

«Oltre alla guerra, il progetto di creare più ostacoli ed erodere le libertà dei cittadini funzionò alla perfezione con l’introduzione del Patriot Act, firmato e introdotto i 26 ottobre del 2001. Si fece credere al cittadino comune che meno libertà garantiva più sicurezza. La dittatura nascosta raggiungeva un alto livello in tutto il mondo, essendo tutti gli Stati in un qualche modo soggiogati dallo strapotere della finanza USA».[3]

 

 

La realtà-verità della guerra

Le ragioni della guerra in Afghanistan e della sua democratica occupazione non sono da individuare nell’attacco alle Torre gemelle, ma nella sua posizione e nelle ingenti risorse minerarie. La democrazia è esportata solo dove vi sono risorse minerarie a cui le oligarchie occidentali sono particolarmente sensibili. Il capitalismo occidentale può sopravvivere solo mediante la predazione delle risorse minerarie che non possiede:

 

«L’Afghanistan non solo si trova in una posizione strategica molto importante per l’attraversamento di risorse come il gas e petrolio dalle vaste e ricche pianure centrasiatiche verso l’Oceano Indiano, ma possiede lui stesso ingenti risorse naturali sul suo territorio. Non solo petrolio e gas ma anche uranio e litio, per citarne alcune. Possiede però qualcosa di speciale e più allettante ancora: l’oppio, l’eroina, l’efedrina. Il narcotraffico, un mercato miliardario per chi lo controlla. Più di quanto sia stato rilevato».[4]

 

Il sangue dell’Occidente è il denaro. Il capitalismo si connota per il suo sviluppo ipertrofico, e a tal scopo necessita di denaro. Si forma un ciclo vertiginoso in cui si investe denaro per ottenerne altro ed espandersi senza limiti e confini. Il “deserto della crematistica” avanza ad un ritmo ingestibile, e specialmente, è occultato alla vista cognitiva e politica degli ordinari cittadini occidentali. L’Afghanistan è il più grande produttore d’oppio, pertanto l’Occidente ha gestito la produzione per ricavarne denaro da investire nelle guerre di “liberazione” prima dai sovietici e poi da Talebani:

 

«L’Afghanistan e il Pakistan però, sono passati da centri di piccola produzione locale a veri e propri centri di grande produzione, con l’inizio dell’invasione sovietica in Afghanistan alla fine degli anni Settanta. La CIA cominciò a sostenere la resistenza dei mujahidin, i quali necessitavano di supporto logistico e bellico fornito attraverso i canali pakistani e sauditi. L’oppio divenne perciò indispensabile per riciclare il denaro e fornire ancora più supporto alla continuazione della lotta fornendo armi senza essere tracciabili».[5]

 

L’oppio ha una doppia valenza produce denaro e distrugge i popoli che ne fanno largo uso. Le due Guerre dell’oppio dell’Inghilterra per conquistare la Cine nell’Ottocento (dal 1839 al 1842 e dal 1856 al 1860), sono un fulgido e tragico esempio. La storia si ripete in modo simile nei nostri anni. L’oppio è uno strumento per dominare i popoli e indebolirli politicamente e nel medesimo tempo si ottengono guadagni da investire nella politica di potenza e di dominio:

 

«La grande potenza distruttrice dell’oppio risiede nella dipendenza che ne consegue dopo il consumo (sia oppio che eroina raffinata ecc.). Difatti, secondo molti analisti, ancora oggi l’oppio commerciato dall’Afghanistan ed esportato con l’aiuto dell’occupazione NATO, è usato come arma appositamente per distruggere le popolazioni iraniche, russe e cinesi non solo con la dipendenza ma anche con l’aumento del crimine e delle malattie veneree come l’AIDS».[6]

 

La guerra alle piantagioni dell’oppio è stata propaganda, in quanto come si rileva nel saggio, la distruzione dei campi di oppio e dei laboratori ha avuto lo scopo di far lievitare il prezzo dell’oppio[7]. Il mercato ha le sue leggi.

 

 

Effetti collaterali

Il disprezzo degli occupanti ha portato a una serie incalcolabile di bombardamenti ed eventi luttuosi durante l’occupazione NATO. Gli afgani portano ancora oggi nella carne e nella psiche le tracce delle violenze dei “liberatori”. Per gli innocenti che hanno subito violenze inenarrabili, mentre la NATO era a caccia di Talebani, la guerra non è finita. I casi di innocenti ammazzati durante i bombardamenti sono innumerevoli. Ogni giorno essi rivivono in una nazione ridotta in macerie la guerra e questo impedisce loro di immaginare il futuro. Molti afgani sono prigionieri del tempo della guerra:

 

«Said Abdullah non riuscì più ad andare a scuola per i problemi di concentrazione e i forti mal di testa. Rimase analfabeta, ancora oggi, anche se lui vorrebbe uscirne e diventare dottore. Tuttavia, il suo futuro, per ora, è coltivare campi e il grano per sopravvivere. E tutti si sono dimenticati di lui, dei fatti di Granai e dei danni indelebili che le forze internazionali hanno fatto».[8]

 

La frettolosa ritirata dall’Afghanistan nel 2021 dopo vent’anni di guerra è sospetta. Si può ipotizzare che la ritirata sia stata concordata, ovvero che i Talebani al potere in qualche modo siano legati all’Occidente. Nulla è come appare, il semplicismo manicheo non è la categoria da utilizzare per comprendere eventi che ad uno sguardo cognitivo più attento appaiono stranamente sorprendenti. Tutti i popoli desiderano la pace e il rispetto della loro identità, solo su queste fondamenta si può elaborare una nuova fratellanza nel segno del concreto rispetto delle differenze. Siamo lontani dalla pace e dalla fratellanza che può esserci solo se impariamo a riconoscere l’altro e a non depredarlo. Nulla è impossibile, malgrado il periodo storico, la prassi della speranza è ciò che ci umanizza, pertanto informarsi per capire è passo fondamentale verso una prospettiva storica semplicemente umana. I versi di Alda Merini ci guidino verso la speranza, nessuno si salva da solo; la pace non si costruisce con le armi come ci raccontano i cinici cantori della guerra. Ognuno di noi può diventare una scialuppa di salvataggio verso l’esodo. Non bisogna rinunciare ad immaginare un mondo diverso che inizi nel presente:

 

 

Una volta sognai

 

Una volta sognai

di essere una tartaruga gigante

con scheletro d’avorio

che trascinava bimbi e piccini e alghe

e rifiuti e fiori

e tutti si aggrappavano a me,

sulla mia scorza dura.

Ero una tartaruga che barcollava

sotto il peso dell’amore

molto lenta a capire

e svelta a benedire.

Così, figli miei,

una volta vi hanno buttato nell’acqua

e voi vi siete aggrappati al mio guscio

e io vi ho portati in salvo

perché questa testuggine marina

è la terra che vi salva

dalla morte dell’acqua.

 

[1] Filippo Rossi, NATO per uccidere, Arianna editrice, Bologna 2024, pp. 56-57.

[2] Ibidem, pag. 40.

[3] Ibidem, pag. 68.

[4] Ibidem, pag. 71.

[5] Ibidem, pag. 92.

[6] Ibidem, pag. 99.

[7] Ibidem, pp. 117-120.

[8] Ibidem, pag. 179.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Eric Donald Hirsch, Jr. – «Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo» [The Schools We Need, And Why We Dont’t Have Them, Doubleday, 1996]. Traduzione e cura di Paolo Di Remigio e Fausto Di Biase.

Vi è conflitto tra pedagogia e didattica perché nascono da diversa origine,
così come due circonferenze che si intersecano non hanno lo stesso centro:
Ἐὰν δύο κύκλοι τέμνωσιν ἀλλήλους, οὐκ ἔσται αὐτῶν τὸ αὐτὸ κέντρον.
Euclide, Elementi, III libro, V teorema.



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Lilith Fiorillo – «Il colosso. Il mio amico Guido è come l’Albero di Farnia, maestoso simbolo di forza e di longevità nella natura.

Lilith e Lapo, il cavallo abbandonato di cui si ha avuto cura.
Per rappresentare il mio amico Guido, ho scelto un Albero di Farnia: simbolo di forza e longevità nella natura.
L’Albero di Farnia ha una ricca storia culturale. Nel corso dei secoli, è stato utilizzato per la costruzione di navi, mobili e edifici grazie al suo legno resistente e di alta qualità. In molte culture, la quercia è considerata un simbolo di forza, saggezza e longevità, attributi che si riflettono perfettamente nell’albero di farnia.
L’Albero di Farnia, con la sua maestosità e la sua importanza ecologica e culturale,
merita sicuramente di essere celebrato e protetto.
È un simbolo vivente della bellezza e della grandiosità della natura. Ogni sforzo dovrebbe essere fatto per preservare e valorizzare questo tesoro verde, affinché possa continuare a ispirare e a incantare le generazioni future.
Il tronco dell’Albero di Farnia è massiccio e robusto, caratterizzato da una corteccia grigio-brunastra e solcata. Man mano che l’albero invecchia, la corteccia diventa più ruvida e può presentare crepe e rigonfiamenti.
Questo conferisce un aspetto caratteristico all’albero e ne testimonia la sua longevità.
Le farnie sono alberi a crescita lenta, ma possono raggiungere altezze notevoli.
Alcuni esemplari hanno superato i 40 metri di altezza, rendendoli uno degli alberi più alti del continente europeo.
La chioma della farnia è ampia e densa, formata da rami robusti e tortuosi che si estendono in diverse direzioni.
Questa struttura ramificata conferisce all’albero un aspetto imponente e maestoso.



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“Produrre e lobotomizzare” sono gli attributi della sostanza (quantità) del capitalismo. Ad esso popoli e vite sono sacrificati con un olocausto quotidiano. La guerra, a cui stiamo assistendo, è un’estensione dei processi di valorizzazione a livello reale e simbolico. La produzione delle armi incorpora il lavoro vivo e lo traduce in morte. Tale produzione è anche una visione del mondo, è “antiumanesimo militante”.

Salvatore Bravo

Produrre e lobomotizzare

 

Il ciclo del capitale con i suoi processi di valorizzazione è trattato da Marx nel II Libro de Il Capitale. Nell’esposizione marxiana vi è la condanna etica ai processi di monetarizzazione del lavoro umano. La condanna assiologica è il fondamento della critica marxiana. Il capitale è ciclo improntato all’accrescimento illimitato del plusvalore nel quale gli esseri umani (i sussunti) sono cannibalizzati da tale processo e incorporati nel sistema produttivo. Il capitalismo è, quindi, una visione del mondo in cui si converte la vita in morte, è “antiumanesimo militante”.

Il lavoro vivo è trasformato in lavoro morto, ovvero in accrescimento del profitto e in allargamento delle spire del mercato. Su tutto campeggia la sola categoria di quantità: il totalitarismo della quantità condanna ogni essere umano a vendersi al capitalista; è il rapporto di forza a determinare le relazioni di dominio legalizzate dai diritti astratti che li “definiscono” eguali. La logica di dominio è inoculata nel sistema sociale fino alla sua naturalizzazione mediante l’addestramento all’astratto. Si educa a pensare senza valutare le condizioni materiali in cui il soggetto opera. La quantità è il fine che muove il capitalismo, esso deve spogliare ogni esperienza del suo contenuto soggettivo, creativo e assiologico per immetterla nel mercato e per convertirla in strumento-azione che sostiene il capitalismo. Le macchine con cui i capitalisti si pongono in competizione incorporano il lavoro muscolare e intellettuale, esse “non sono solo macchine”, perché sono l’effetto dell’incorporamento nell’acciaio dei subalterni. Sono vampiri animati dal sacrificio dei popoli. La schiavitù salariata dell’operaio come dei tecnici non è solo nel prodotto finale ma in tutto il sistema produttivo. Il capitalismo è divenuto “il sistema”, l’unico pensabile, ha lobomotizzato gli aggiogati alla macchina-sistema. “Produrre e lobomotizzare” sono gli attributi della sostanza (quantità) del capitalismo. Ad esso popoli e vite sono sacrificati con un olocausto quotidiano.

La guerra, a cui stiamo assistendo, è un’estensione dei processi di valorizzazione a livello reale e simbolico. La produzione delle armi incorpora il lavoro vivo e lo traduce in morte. Da tale processo le oligarchie traggono le eccedenze finanziarie per la competizione globale e per investire i proventi in scalate finanziarie e in nuovi prodotti da vendere sul mercato. Tutto è morte. La natura è l’immagine più vera e immediata della verità del ciclo di valorizzazione, essa è solo res extensa da riconvertire in denaro. Un intero pianeta è minacciato dalla monetarizzazione di ogni vita e di ogni elemento naturale.

Marx descrive l’incapsulamento della forza lavoro nel ciclo produttivo. Il lavoro, espressione della creatività umana e della produzione finalizzata alla soddisfazione dei bisogni primari, è reso esperienza di annullamento e di cosalizzazione del lavoratore. Il lavoratore è incastrato in automatismi che determinano la morte dell’uomo e la nascita di un ibrido: l’uomo-macchina. Il trasumanesimo non è che il punto finale di tale processo di disumanizazione, il salariato è valutato in rapporto alle macchine, è una macchina tra le macchine, in disperata competizione con esse:

«Dalla parte dell’operaio: la messa in opera produttiva della sua forza lavorativa non è possibile se non quando, dopo essere stata venduta, essa viene posta in rapporto con i mezzi di produzione. Essa esiste prima d’essere venduta distinta dai mezzi di produzione, dalle condizioni oggettive della sua messa in opera. Così isolata non può essere utilizzata direttamente nella produzione di valori d’uso per il suo proprietario, né nella produzione di merci, che gli darebbero di che campare con la loro vendita. Ma allorchè tramite la sua vendita essa è posta in rapporto con i mezzi di produzione, diviene, al pari dei mezzi di produzione, una parte costitutiva del capitale produttivo del suo acquirente».[1]

 

Il fuco del capitale

Il capitalista è anch’egli una funzione del sistema, che con le sue leggi e con il suo gigantismo globale diviene “assoluto”, ovvero si autonomizza con la smisurata espansione. In tale sistema, in cui tutto dev’essere convertito in produzione, il capitalista è improduttivo, è il fuco del sistema, egli prospera senza produrre, si è installato all’interno dell’alveare-industria. Egli è l’addetto-funzione alla compra-vendita delle anime vive per farne anime morte. Il capitalista è il Cerbero-fuco del modo di produzione capitalista, traghetta le vite dei lavoratori verso “la loro mortale usura”. Il capitalista è sterile, non produce e non crea concetti, è la tragica e pericolosa funzione che muove masse umane verso l’inferno della negazione di sé; gli aggiogati sono solo forza muscolare-intellettuale da vendere-comprare o da licenziare-distruggere:

«Per il capitalista il quale faccia lavorare altri al suo posto, la compra-vendita diviene una funzione fondamentale. Dato che egli si appropria il prodotto di molti in una misura sociale più grande, deve anche venderlo in tale misura e convertirlo poi di nuovo da denaro in elementi di produzione. In ogni caso il tempo di compra-vendita non dà luogo a valore alcuno. […] Tuttavia, senza approfondire, oltre, sin dall’inizio è evidente: qualora per mezzo della divisione del lavoro una funzione che è in se stessa improduttiva, ma è un momento necessario della riproduzione, viene trasformata da compito secondario di molti in compito esclusivo di pochi, viene trasformata nel loro affare particolare, non muta tuttavia il carattere della funzione stessa».[2]

 

I fuchi-padroni del capitale gestiscono il sistema produttivo e la politica. Gli improduttivi sono idrovore di plusvalore che come re Mida convertono ciò che toccano in oro, ma l’immensa ricchezza prodotta uccide la vita e affama corpi e spirito, perché il capitale nega la relazione comunitaria dell’economia, l’unica in grado di umanizzare, la vuota di ogni componente dell’umanità. I fuchi-padroni sono i vampiri dell’umanità. Per essi gli esseri umani sono solo numeri; si estraggono da essi numeri da vendere alle aziende per organizzare il consumo. Si è ad un un passo dalla riproduzione delle medesime logiche di funzionamento già sperimentate nei campi concentrazionari nel Novecento. Per i fuchi-padroni tutto è numero, niente è vivo.

 

Svelare il “feticcio capitale”

Il lavoratore è così cosalizzato, è solo quantità muscolare attraverso cui il processo di valorizazione si decuplica. Similmente al processo di trasustanzazione, dalla sostanza uomo – attraverso un processo apparentemente oscuro e velato da parole e pubbliche liturgie – si ottiene per “merito miracoloso” il prodigio (il profitto). Il processo va riportato alla sua verità storica e reale. Il capitalismo è un “feticcio”, non è la verità ultima, esso è esperienza storica posta dalle oligarchie, che i subalterni – caduti nella rete della propaganda e della violenza organizzata – hanno divinizzato. Marx, invece, dimostra che il dio capitale è umano troppo umano, e dunque, il divelamento dei meccanismi non può che liberare le vite intrappolate nell’ingannevole ordito. Il capitalismo con il salario schiavile paga al lavoratore il sufficiente per riprodurre la forza lavoro, ciò che non è pagato è il bottino del capitalista, è il “merito del Cerbero/fuco” che ha condotto le anime dei lavoratori nell’inferno del capitalismo. Il lavoratore è disumanizzato, è soltanto energia da usare secondo le leggi del mercato. L’essere umano è solo corpo, a cui si concede di usare le facoltà intellettuali che consentono al sistema di funzionare fatalmente. La morte è in questa negazione della natura sociale, creativa ed etica di ogni essere umano:

«Come abbiamo già osservato, il denaro che il capitalista paga all’operaio per l’uso della forza lavorativa non è in realtà che la forma generale di equivalente per i mezzi di sostentamento indispensabili all’operaio». [3]

 

Obbedienza

Il processo di valorizzazione non è controllato dai capitalisti, essi sono gli obbedienti esecutori delle leggi che hanno innescato e che si sono rese autonome. Il capitalismo – con suo accrescersi smisurato – imprigiona nelle sue maglie e nella sua gabbia d’acciaio gli stessi capitalisti. La rete del capitalismo per sopravvivere produce la guerra globale. Per il capitalismo e i capitalisti la guerra è un prodotto utile ad attrarre investimenti e a liberare energie monetarie accumulate. il capitale non può che volere nuove guerre di conquista dei popoli da sacrificare ai processi di accumulo. La globalizzazione del profitto è il fine aspansivo del capitalismo. Come il dio spinoziano il capitalismo non può non obbedire alle sue leggi. La libertà è solo un orpello giuridico per consentire al sistema di proliferare senza impedimenti.

Nulla deve sopravvivere, ogni sistema di produzione dev’essere annichilito, solo il capitalismo deve sopravvivere. A tale logica il capitalista deve attenersi: ecco che il Cerbero/fuco diventa il manager della vita e della morte, deve vendere il “progresso” che il capitalismo apporta con la menzogna, deve illudere per conquistare fette di mercato da cannibalizzare. Il processo non ha katechon, perché non ha fondamento metafisico e assiologico, deve mettere in atto solo la hybris:

«Quanto più acute e continue si fanno le rivoluzioni di valore, tanto più il movimento del valore resosi autonomo, automatico, agente con l’irruenza d’un processo elememtare della natura, si fa valere contro la previsione e il calcolo del singolo capitalista, tanto più l’andamento della produzione normale viene sottomesso alla speculazione anormale, tanto più grande si fa il rischio per i singoli capitali. Queste rivoluzioni di valore periodiche danno la riprova proprio di quello che, come si vorrebbe, dovrebbero confutare: il rendersi autonomo del valore in quanto capitale, condizione che esso conserva e rafferma attraverso il suo movimento». [4]

 

Qual è dunque l’essenza del capitale?

Marx è chiaro e inequivocabile nella risposta: il capitalismo è nel segno della morte. La mercificazione e la quantificazione sono gli unici processi pensabili e possibili, esse sono la morte in Terra.

Con il vivo lavoro scambiato con la morte il processo risorge, esso procede per salti quantitativi ed estensivi. Ad ogni salto l’esperienza della morte diviene sempre più incombente fino al punto, lo viviamo nel nostro tempo, da minacciare la vita nella sua interezza. La morte è parte del paradigma ideologico del capitalismo, per cui “l’uccidere” non reca scandalo, è la normalità della vita negata al tempo del capitale. L’automatismo non arretra neanche dinanzi al pericolo dell’autodistruzione del sistema-capitale. Il collasso di un pianeta non turba il capitalismo con i suoi fedeli sicari, anzi il pericolo diviene un affare potenziale da manovrare attentamente per estrarne plusvalore. Il tempo del capitalismo è inchiodato alla sola produzione di profitto:

«La materia reale del capitale investito in forza lavorativa è proprio il lavoro, la forza produttiva che si pone in movimento, che crea valore, il vivo lavoro che il capitalista ha scambiato con il lavoro morto, oggettivato, incorporandolo al proprio capitale, al quale soltanto è dovuta la trasformazione in valore autovalorizzantesi del valore che si trova nelle sue mani».[5]

La perversione del “senso” è il sostrato che dà il movimento al capitalismo. L’economia, come la sua etimologia indica (οἶκος “casa” e νόμος “legge”), è attività che consente la vita, è prassi che deve soddisfare i bisogni della comunità, in primis la famiglia. Il capitalismo muta la qualità dell’economia in crematistica (quantità senza misura) della morte. Sull’altare del profitto si sacrificano uomini e popoli. I subalterni sono sfruttati sul lavoro e nel tempo libero. La catena del capitale è invisibile, non molla mai le sue vittime, non dà loro mai pace, deve incutere inquietudine per dominare. I lavoratori sono chiamati al sacrificio perenne. A prescindere dalla classe sociale di origine tutti devono restituire al mercato ciò che “hanno guadagnato” nella forma del consumo per sopravvvire o per soddisfare desideri e voglie che il mercato ha indotto. Tutto ritorna al capitale; il saccheggio non conosce pause. I lavoratori nel tempo libero sono erosi dai desideri infiniti e dall’infelicità indotta. Essi sono macchine desideranti che con la loro abissale insoddisfazione nutrono la crematistica. Ancora una volta per poter riprendere le fila della storia è necessario smascherare il capitale nelle sue metamorfosi. La prassi non può che “passare” per la definizione del senso dell’economia e, quindi, del bene.

La politica di opposizione senza la chiarezza del fine dell’economia, non può inaugurare una “nuova stagione di lotta”. Senza il giudizio etico e la chiarezza del “senso” nulla può iniziare, si è condannati a subire il giogo del capitale.

L’economia capitalistica uccide “rubando” la gioia di vivere e il tempo di ogni singola vita, le divora mai sazio.

Nel tempo di Marx uomini, donne e bambini erano negati con lo sfruttamento lavorativo. Oggi prevalgono l’adattamento coercitivo ai desideri del mercato e l’addestramento al narcisismo che preparano ad un’esistenza di solitudine e di impotenza politica compensate dal consumo vorace. Il capitalismo somministra il consumismo alle sue vittime per “curare” il dolore, le avvelena con il male (consumismo) per destrutturarle e renderle obbedienti schiavi. La strumentalizzazione dell’essere umano assume nuove forme, ma in modo sempre eguale si scambia la vita con la morte:

«Le macchine, dando la possibilità di fare a meno della forza dei muscoli, divengono il mezzo per impiegare operai senza forza muscolare o dal fisico non ancora sviluppato, ma di membra maggiormente flessibili. Lavoro di donne e bambini, questo è stato il primo grido del capitale quando iniziò ad usare le macchine!».[6]

Il grido del capitale ha attraversato i secoli ed è giunto fino a noi. Quel grido attende una risposta che possa donare giustizia ai vivi e ai morti. Al linguaggio dell’impero grondante di fango, sudore e sangue, bisogna opporre un nuovo linguaggio, che possa aprire scenari e prospettive che riportino “l’anticapitalismo e la lotta agli sfruttamenti” nella progettualità politica. Solo in tal modo le grida di coloro che invocano giustizia saranno ascoltate. L’antiumanesimo dev’essere ribaltato in un nuovo Umanesimo, nel quale l’essere umano deve riportare la cura dove vige la violenza organizzata dell’incuria pianificata dal mercato.

[1] K. Marx, Il Capitale, Libro II, Newtin Compton Editori, Roma 2015, p. 583.

[2] Ibidem, pp. 647 648.

[3] Ibidem, p.671.

[4] Ibidem, p. 631.

[5] Ibidem, p. 709.

[6] Ibidem, Libro I, p. 293.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Arianna Fermani … in viaggio alato nel «Fedro» di Platone … vivere è stare nella luce, è vedere la luce … Platone ci insegna che dobbiamo imparare a “vedere sempre le cose diversamente e con altri occhi”, a volare alto senza mai rinnegare la nostra umanità, perché il razionale non sempre è ragionevole, e perché un eccesso di razionalità può essere tossico e disfunzionale alla realizzazione della nostra esistenza.

Sinossi

Ci sono libri che ci accompagnano per una vita, quasi segnando le svolte della nostra esistenza e le trasformazioni che in essa si compiono. Uno di questi è il Fedro di Platone, dialogo che parla della bellezza in tutte le sue forme (da quella dei corpi a quella dei discorsi, scritti e orali, da quella della natura a quella dell’anima) e che è, a sua volta, di una bellezza abbagliante, nella forma e nei contenuti e, come un dono prezioso e fragile, va scoperto con delicata lentezza.

Il Fedro è un vero proprio inno alla vita, alle sue trame sottili, visibili e invisibili, e alla sua infinita e insostenibile “luce”, e un invito a goderne, con saggezza, misura e intelligenza, sì, ma a pieno e senza sprechi.

In questo dialogo, multifocale come pochi altri, Platone insegna che dobbiamo imparare a “vedere sempre le cose diversamente e con altri occhi”, a volare alto senza mai rinnegare la nostra umanità, che abbiamo bisogno di nutrire ogni componente della nostra esistenza, anche quelle più basse, che non tutto può essere dimostrato o spiegato ma che, a volte, bisogna limitarsi a credere e, ancora di più, a sentire.

Indice del volume


Alcuni libri di Arianna Fermani

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Valentino Saccà – Le armi della commedia per scardinare i paradigmi di una guerra assurda e senza fine e per giungere alla “soluzione dei due Stati”, uno arabo e uno ebraico.

Valentino Saccà

Le armi della commedia per scardinare i paradigmi
di una guerra assurda e senza fine,
e per giungere alla
“soluzione dei due Stati”, uno arabo e uno ebraico

 

Mentre ascolto le notizie dell’ultima ora sul fronte del conflitto Israeliano-Palestinese, e avendo negli occhi quanto si verifica a Gaza, ripenso due film palestinesi come Intervento divino (2001) di Elia Suleiman e Tutti Pazzi a Tel Aviv (2018) di Sameh Zoabi, ambedue legati al tema della sanguinosa  eterna guerra. Ma attenzione! Entrambi i film sono delle commedie!

La commedia, viene troppo spesso considerata un genere cinematografico minore e relegato al semplice e immediato intrattenimento umoristico, quando invece la storia del cinema (e della cultura in genere) ci insegna che a volte l’umorismo può avere uno sguardo profondo che va oltre la superficie, in grado di scardinare con il sorriso a fior di battuta stereotipi e convenzioni che alimentano l’odio ideologico, culturale o più semplicemente l’odio tout court. Un tema delicato e tragico come il genocidio ebraico, che ancora oggi ci tocca da vicino, è stato riletto attraverso la lente della commedia per esempio con La vita è bella (1997) di Roberto Benigni, o con il geniale delicatissimo Train de vie. Un treno per vivere (1998) del romeno Radu Mihăileanu, e possiamo risalire fino a capolavori come Vogliamo vivere! (1942) di Ernest Lubitsch e Il grande dittatore (1940) di Charlie Chaplin (più legato all’ascesa del nazionalsocialismo). Tutti film che hanno saputo usare la chiave del riso e della commedia a un tema profondamente serio come quello della shoah, senza svilirne il portato tragico.

Nelle commedie di Suleiman e Zoabi avviene lo stesso. Se applicato al conflitto arabo-israeliano e rivedendo oggi quelle pellicole, quando si è aperta una nuova e sanguinosa pagina di questo scontro senza fine, si fa più evidente lo spettro della tragedia che aleggia sinistramente dietro il velo dell’umorismo.

Elia Suleiman resta uno degli ultimi grandi comici della storia del cinema, la sua maschera candida e imperturbabile, che fonde Buster Keaton con Harry Langdon, attraversa le tragedie politico-sociali del suo paese facendone emergere le assurdità e le incongruenze, attraverso un humor surreale e lunare, che non nasconde la sua profonda umana tenerezza.

Intervento divino è sicuramente il suo film più noto in Occidente (vincitore del premio della giuria al 55° Festival di Cannes) e racconta le difficoltà del protagonista diviso tra un padre malato e la donna che ama, mentre nella città di Nazareth le tensioni tra arabi e israeliani si fanno sempre più accese. Il film di Suleiman è un gioiello di umorismo nonsense, puntellato di gag che ricordano Jacques Tati, in grado di far riflettere sulla demenzialità di una guerra che sta spersonalizzando gli individui e prosciugando i sentimenti umani.

Tutti pazzi a Tel Aviv presenta invece una doppia struttura temporale e narrativa, il film è ambientato nell’odierna Gerusalemme, ma in parallelo viene riscostruita in forma di soap opera la Palestina del 1967, durante la «Guerra dei sei giorni».

Due piani narrativi, la realtà contemporanea e la rappresentazione di un fatto storico in forma di serie televisiva. Il gioco che mette in scena Sameh Zoabi tra passato e presente e finzione nella finzione, permette di rileggere e reinterpretare la Storia attualizzandola e di smontare (attraverso l’ironia satirica della scrittura di una finta soap) i paradigmi assurdi che muovono il conflitto. Il protagonista si improvvisa sceneggiatore della serie Tel Aviv brucia (che nella finzione filmica monopolizza l’attenzione collettiva), per poter cavarsela durante un interrogatorio al check point israeliano, diventando realmente uno sceneggiatore del programma Tv ma scrivendo i dialoghi su ordine del militare israeliano.

Il meccanismo comico-brillante che avvia la storia può ricordare quello di Pallottole su Broadway (1994) di Woody Allen, ma Zoabi evita qualsiasi forma derivativa, creando una scrittura intelligente, limpida e originale, in grado di rovesciare con sarcasmo i fondamenti culturali e politici che proseguono a dilaniare il Medio Oriente.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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