Domenico Segna – L’assurdo e la felicità: Albert Camus.

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A. Camus, La peste

A. Camus, La peste.

«[...] solo nei libri come La peste di Camus regalatomi da una donna avara, [...] si trova scritto in modo nitido, che il bacillo della pestilenza, il suo essere il male può restare addormentato per anni tra i mobili del salotto buono e la biancheria racchiusa in un armadio. Pazientemente aspetta anno dopo anno per poi improvvisamente svegliare i suoi schifosi topi aizzandoli contro uomini e donne che vivono in una città felice. Solo una continua resistenza può per qualche tempo salvarli: il tempo farà la sua parte».

 

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Cosa avrei potuto dire, o fare, a quale Dio avrei potuto rivolgere l’esclamazione di una donna: “È così difficile vivere!”. Quella donna rimaneva in silenzio per ore ed ore davanti alla finestra della sua stretta cucina. Trascorreva pomeriggi interi facendo a maglia, un unica preoccupazione le corrugava di tanto in tanto la fronte: assicurarmi una vita felice. Quella donna era mia madre. Vivevamo la luce distillata dalle tende, rammendava losanghe di sogni, uncinetti di rimpianti. Giù in strada il corteo delle ore lento marciava, inesorabile avanzava, nel crepitio del giorno mostrava la sua inconsistenza. Procedeva sino a che c’era chiaro, sino a che il sole iniziava il suo viaggio notturno: era un esercito ben addestrato che dilagava abbattendo difese, proverbi, ansie. La guardavo mentre sferruzzava calze di lana. Aveva freddo mia madre. Tutti avevano freddo. – Chi ha tempo, non aspetti tempo! –  era il suo detto. Se di buon umore cantava. Erano canzoni di prima della guerra. A volte le chiedevo “A cosa pensi?”, “A niente” rispondeva. Ed era vero. In fondo credere in Dio la domenica pomeriggio è un atto di coraggio. Lei lo possedeva, io no. Con gli occhi, però, bevevo il distillato puro della notte. Un tram interrompeva, turbandolo per qualche attimo, il silenzio. Poi esso riprendeva come una fatica di Sisifo.Un nuovo tram sarebbe passato e la fatica di ricomporre il silenzio sarebbe ripresa.
Avevo poco più di sedici anni quando morì mio padre, … [Continua a leggere]

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Domenico Segna, Libro, Pendrago, 2007Domenico Segna, Libro, Pendragon, 2007

 

«C’è, qua dentro, qualcosa di lucido e riflettente, che si insinua a interferire, ma non a sovrapporsi, nel testo; come un mosaico disteso sul pavimento, su cui si può camminare ma con il rispetto della suggestione e senza mai distogliere lo sguardo; con l’impressione, che è un brivido, di vederci riflettere il proprio volto e forse anche un frammento della propria vita» (dalla Nota di Roberto Roversi).

 


 

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Domenico Segna, Estetica della pace in Simon Weil,
in I. Malaguti (a cura di), Filosofia e pace, ed. Fara, 2000.


Domenico Segna, Le chiese scomparseDomenico Segna, Le chiese scomparse, con-fine edizioni, 2014.

Una raccolta che ci riporta indietro nel tempo, quella di Domenico Segna. Le chiese scomparse è infatti un viaggio a ritroso, razionale e sentimentale, alla ricerca di un tempo perduto di ricordi privati, famigliari, già fluiti nel tessuto di un’esperienza comune. Anche nello stile, che accoglie esperienze moderniste e surrealiste, l’autore sembra guardarsi alle spalle, a quel Novecento da cui proviene e a cui questi testi rendono esplicito omaggio, tra letteratura e vita. Al lettore non resta che avventurarsi tra questi versi, misteriosi e squillanti, avvertire il sentimento del sacro che li anima e che anima il loro autore, sospeso tra una parola catartica, quasi profetica, e una dimensione seriosamente giocosa, pienamente surrealista. Una poesia che scaturisce dal silenzio, questa, che ci fa abbandonare “i cortili dell’istante” verso la conquista d’una terra di “eremite abbondanze”.

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