«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Questo saggio intende attraversare quel complesso crocevia di emozioni, desideri e memorie rappresentato dalla spinosa questione del pentimento, su cui Aristotele si impegna in alcuni passaggi delle sue riflessioni. Tali passaggi si rivelano di grande interesse per la serie di implicazioni e ripercussioni, nel campo etico, antropologico e anche giuridico. Dopo una ricerca lessicografica sui termini del campo semantico della nozione in questione (metameleia, metamelo, metameletikos, e anche, e contrario, ametameletos) all’interno del corpus aristotelicum, l’Autrice studia il tema del pentimento sulla scorta del modello teorico (già verificato su altri terreni), del Multifocal Approach, “approccio multifocale”. Questo è il paradigma, tipicamente aristotelico (e, più in generale, caratteristico del pensiero antico), consistente nella costante moltiplicazione dei modelli esplicativi della realtà e nel rifiuto della logica alternativa aut-aut. Ecco l’orizzonte concettuale in cui si ricostruiscono le molteplici connessioni e le diverse cornici concettuali della nozione di pentimento in rapporto con altre cruciali nozioni: la passione (pathos) – e, più in particolare, con la passione del dolore (lype) –, il pudore (aidos), la vergogna (aischyne), ignoranza, scelta, vizio e incontinenza (akrasia). Viene inotre offerta una riflessione sulle diverse valutazioni espresse da Aristotele sul pentimento, che in un certo senso rappresenta un segno del rincrescimento dell’agente, mentre, in un altro senso, viene collegato all’errore e alla consapevolezza avere compiuto un’azione sbagliata.
Introduzione
«Le persone malvagie (phauloi) sono divorate (gemousin) dal pentimento (metameleias)»,
scrive Aristotele in Etica Nicomachea.1 Chi è malvagio, dunque, è così (letteralmente) «pieno di pentimento»2 da esserne «disgustato».3 Ma tale sensazione, che nausea il soggetto che la sperimenta, insieme, lo “divora”, facendogli provare, contemporaneamente, sensazioni di “riempimento” e di “svuotamento” estremi. La penosa situazione di chi si pente, in realtà, era stata già anticipata poche righe prima, in cui, mediante un’immagine estremamente icastica, lo si descrive come un soggetto vittima di una dolorosa scissione interiore:
una parte [dell’anima] prova dolore a causa del suo vizio e si astiene da certe azioni, mentre una parte prova piacere, e una parte tira da un lato, l’altra da un altro, come se volessero farlo a pezzi.4
Ci troviamo, insomma, di fronte a individui lacerati e sofferenti («le passioni lacerano il loro animo e il pentimento li soffoca» commenta San Tommaso),5 come “spezzati in due”, sospesi tra il ricordo del piacere sperimentato e il dolore del rimorso derivante dal fatto di aver provato quello stesso piacere.6 In questo complesso e intricato crocevia di emozioni, desideri e ricordi, si situa la delicata questione del pentimento, su cui Aristotele si sofferma in alcuni passaggi della propria riflessione, passaggi che risultano essere di grande interesse per la serie di implicazioni e di ricadute, sul terreno etico, antropologico, sociale e anche giuridico. D’altro canto, come emerge anche dal recente saggio di Laurel Fulkerson, No Regrets: Remorse in Classical Antiquity,7 il tema del pentimento, nel suo difficile rapporto con il variegato mondo delle passioni, individuali e sociali, costituisce uno degli assi portanti della morale e dell’antropologia sin dall’età omerica,8 sebbene al tema, come è stato rilevato, non sia finora stata prestata la necessaria attenzione.9 Questo contributo intende concentrarsi sulla questione del pentimento (metameleia) nella riflessione di Aristotele, ricostruendo gli “scenari concettuali di appartenenza” e i suoi crocevia più significativi. Inoltre si intende attraversare il tema del pentimento sulla scorta del modello teorico (già verificato su altri terreni) del Multifocal Approach:10 ovvero mediante quel paradigma, tipicamente aristotelico (e, più in generale, caratteristico del pensiero antico), consistente nella costante moltiplicazione degli schemi esplicativi della realtà e nel rifiuto della logica alternativa dell’aut-aut, a favore della continua associazione di possibilità (sia-sia, et-et).
Note
1 Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 4, 1166 b 24-25. La traduzione di questa e delle altre Etiche aristoteliche è di chi scrive in Aristotele, Le tre Etiche (con testo greco a fronte), presentazione di M. Migliori; traduzione integrale dal greco, saggio introduttivo, indici e apparati di A. Fermani, Bompiani “Il Pensiero Occidentale”, Milano 2008. 2 La presenza della terza persona plurale (ghemousin) del verbo ghemo (“essere pieno”, “essere carico”) legittima pienamente traduzioni letterali, come ad esempio quella di Carlo Natali, in Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari 1999 («le persone ignobili sono piene di pentimenti») o di Marcello Zanatta, in Aristotele, Etica Nicomachea, 2 voll., Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1986, 20022 («i malvagi sono pieni di pentimento»). La traduzione (certamente più libera) di ghemousin con “sono divorati” intende restituire in italiano anche l’elemento del tormento interiore determinato da tale dolorosa “pienezza”. 3 «Le mot gemousin fait image: il ne veut pas dire seulement être plein, mais être rassasié jusqu’au dégoût, jusqu’à vomir» (R.A. Gauthier – J.Y. Jolif, in Aristote, Éthique à Nicomaque, Paris 2002, 4 voll., II, 2, p. 735). 4 Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 4, 1166 b 19-22. 5 Tommaso d’Aquino, Commento all’Etica Nicomachea di Aristotele (a cura di L. Perotto), 2 voll., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1998. 6 Naturalmente non ogni forma di pentimento deriva dalla sperimentazione di un piacere precedente. Ad esempio si può provar rimorso per il fatto di non aver compiuto azioni che erano sì moralmente corrette ma che per il soggetto si sarebbero rivelate dolorose. In questo caso il dolore del pentimento deriverebbe, a sua volta, dal tentativo di evitare un altro dolore. Il modello (presentato qui e nelle pagine che seguono) del pentimento come dolore che segue un piacere rappresenta, pertanto, una semplificazione (realizzata sulla scia dell’esempio riferito dallo stesso Aristotele), di una questione estremamente più ampia e complessa. Per una complessificazione di tale quadro risulta utile, ad esempio, S. De Wijze, Tragic-Remorse–the Anguish of Dirty Hands, «Ethical Theory and Moral Practice», 7 (2005), pp. 453-471. 7 L. Fulkerson, No Regrets: Remorse in Classical Antiquity, Oxford University Press, Oxford 2013. 8Ivi, p. 5: «This book is based on the premise that the remorse plays a significant role in ancient classical literature, and therefore, in ancient ethical life». 9Ivi, pp. 5-6: «Its importance has not previously noted, I suspect primarily due to the fact that regret and remorse have rather different roles to play in ancient and modern cultures». Sul tema del pentimento in generale cfr. anche I. Thalberg, Remorse, «Mind», 72 (1963), pp. 545-555. 10 Cfr. M. Migliori, E. Cattanei, A. Fermani (eds.), By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach, Academia Verlag, Sankt Augustin.
Sommario
Riflessioni introduttive I nomi del pentimento e le declinazioni della “cura di sé” Tra “pentimento” e “patimento”: lungo i molteplici legami tra metameleia e pathos Tra metameleia, pudore e vergogna I nessi fra pentimento e responsabilità dell’agire Riflessioni conclusive Riferimenti bibliografici
È passato un anno da quando Mario Vegetti ci ha lasciati. La Casa della Cultura lo ha voluto ricordare con un convegno, “Amicus Plato”, e ora con questo numero della rivista che raccoglie gli interventi di quella giornata di studi a lui dedicata. Possiamo dirlo senza timori di scadere nella retorica: Mario Vegetti ci manca. Perché non era solo un insigne ellenista: era un maestro. Basta scorrere i contributi raccolti in questo numero della rivista per capire cosa vuol dire essere stato un maestro. A lui i suoi allievi e una cerchia ampia di studiosi riconoscono il merito di avere aperto nuovi campi di ricerca: aveva collocato gli studi del mondo greco – ellenista nel campo più vasto dell’antichistica, aveva scavato le interazioni con le altre culture dell’antichità e aveva portato alla luce anche i lati oscuri di quella straordinaria vicenda storica. Le parole dei suoi ex colleghi sono dense di riconoscimenti. Eva Cantarella gli attribuisce il merito di averla stimolata a mettere a fuoco la condizione della donna nel mondo greco mentre Fulvio Papi, il collega – amico di una vita – gli ha voluto porgere un riconoscimento inconsueto: nel manuale di storia della filosofia, scritto assieme, le parti migliori e più innovative, ci ha detto Papi, erano quelle pensate e scritte da Vegetti. Il termine “maestro” evoca anche qualcos’altro: il rigore e l’efficacia del suo stile di lavoro. Un lavoro tenace, metodico, riservato, segnato dalla convinzione che ai risultati ci si arriva con il puntiglio e con la lunga fatica della ricerca, non con operazioni ad effetto amplificate da un po’ di applausi pubblici. Basti pensare al monumentale lavoro, costato anni di fatica, per la riedizione critica de La Repubblica di Platone: un’impresa collettiva decennale, da lui guidata, nella quale ha impegnato un ampio gruppo di studiosi.
Questo accanito lavoro filologico su La Repubblica ci introduce alla sua passione per Platone. Chi scrive ha nell’orecchio le sue memorabili lezioni sulle opere di Platone in Casa della Cultura: nel filosofo greco ammirava la tensione progettuale, l’ostinata volontà di non adattarsi all’immediata naturalità delle cose, il rischio di proporre ciò che poteva apparire impensabile. Platone era davvero il suo autore, l’amicus Plato per l’appunto. Il suo rapporto con l’utopia progettuale di Platone ci apre lo sguardo sull’opzione politica cui Vegetti è rimasto fedele tutta una vita: Mario si è sempre definito un comunista, sostenitore di una visione ideale e aperta di comunismo. In alcuni passaggi cruciali del secolo scorso si è anche impegnato pubblicamente a sostegno delle sue idee. Anche se l’impegno pubblico di Mario Vegetti si è manifestato essenzialmente attraverso lo sforzo tenace di valorizzare e di fare vivere la sua ricerca culturale anche al fuori del mondo accademico. Possiamo così comprendere la ragione profonda del legame tra Vegetti e la Casa della Cultura. In tanti possono testimoniare il suo attaccamento al centro culturale di via Borgogna, a quella che era solito definire la “sua” Casa della Cultura. In più occasioni si è esposto pubblicamente a sottolineare la funzione che era andata assumendo nel corso dei decenni: arrivò a scrivere che la Casa della Cultura era “un’isola benedettina di resistenza”. Vi era qui la sua convinzione profonda dell’importanza della battaglia delle idee: la Casa della Cultura era il luogo in cui l’intellettuale poteva incontrare i cittadini, misurarsi con l’opinione pubblica, mettere alla prova l’efficacia delle sue ricerche e delle sue proposte. Tra la Casa della Cultura e Mario Vegetti si è sviluppata una collaborazione decennale che è andata sempre più intensificandosi: negli ultimi anni avevamo preso l’abitudine di ragionare assieme sui nodi culturali più complessi e di costruire di comune accordo alcuni degli incontri più impegnativi, come in occasione del centenario della rivoluzione russa. Mario Vegetti è stato a lungo uno dei collaboratori più prestigiosi e autorevoli della Casa della Cultura. Ci ha lasciato una lezione di stile nella ricerca culturale e nell’impegno pubblico. Ha condiviso con noi la sua conoscenza e la sua passione civile. Ci ha onorato della sua amicizia. Si tratta di un patrimonio che non può andare perduto. La sua presenza in via Borgogna non può che continuare, come sempre.
Silvia Gastaldi
Silvia Gastaldi è professore ordinario di Storia della Filosofia antica nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia. Le sue ricerche riguardano soprattutto la riflessione etico-politica greca del V e del IV secolo a. C. Ha pubblicato numerosi studi sulla Repubblica e sulle Leggi di Platone, sulle Etiche e sulla Politica di Aristotele. Tra le sue principali pubblicazioni si collocano i volumi: Aristotele e la politica delle passioni (Tirrenia Stampatori, Torino 1990); Storia del pensiero politico antico (Laterza, Roma-Bari 1998); Generi di vita e felicità in Aristotele (Bibliopolis, Napoli 2003); Aristotele. Retorica, Introduzione, traduzione e commento (Carocci, Roma 2014).
Designare con il termine “rivoluzione” tutto l’insieme di novità
– dai temi affrontati alla metodologia adottata – introdotte da Mario Vegetti
nell’ambito degli studi di antichistica non deve suonare come un’esagerazione
retorica. Fin dall’inizio della sua carriera scientifica, Mario ha percorso vie
nuove. Basti pensare ai suoi studi sulla medicina greca, condotti negli anni Sessanta,
quando questo ambito non era ancora del tutto riconosciuto come parte
integrante del pensiero filosofico antico, studi culminati con la pubblicazione
delle Opere di Ippocrate nel 1965 e delle Opere biologiche di
Aristotele nel 1971, curate, queste seconde, in collaborazione con Diego Lanza.
Se guardiamo alla bibliografia di Mario nel periodo compreso tra gli anni Sessanta
e Settanta, notiamo subito la prevalenza degli studi dedicati alla scienza
greca: se vogliamo individuare un punto di svolta, che lo conduce a occuparsi
del pensiero politico antico, dobbiamo assumere come data di riferimento il
1975, anno in cui viene pubblicato il saggio L’ideologia della città.
In questo mio
intervento, cercherò di mostrare in che cosa è consistita la novità introdotta
negli studi sulla città greca da questo lavoro, che ha dato avvio alla
fondazione di vere e proprie “nuove antichità”, come suona il titolo del
fascicolo monografico di Aut Aut curato da Mario nel 1981.
Partirei dai
presupposti teorici che stanno alla base della composizione dell’Ideologia
della città. Al primo posto collocherei la presa di distanza dal
classicismo. La visione di un mondo classico popolato da individui armoniosi e
perfetti come le statue che ci sono pervenute o, per usare le stesse parole di
Vegetti, sede di un «repertorio metastorico di paradigmi di perfezione, tanto
estetici quanto etico-politici e filosofici» (Intervista sul classico) è
durata molto a lungo. Lo stesso Mario ricordava sempre come alla metà degli
anni Cinquanta all’Università di Pavia, Remo Cantoni, uno dei suoi maestri, con
cui poi si laureò, leggesse, durante il suo corso, Paideia di Werner
Jaeger, «ultimo e più influente corifeo del classicismo», come lo definisce
sempre nell’Intervista sul classico.[1]
Il
distanziamento dal classicismo comporta come prima conseguenza un significativo
mutamento lessicale: la sostituzione del termine “classico” con “antico”.
Questa nuova dizione è priva del valore assiologico implicito nel termine “classico”
e produce una distanza rispetto a noi, proprio quella che il classicismo
intende invece colmare, valorizzando il cortocircuito tra passato e presente.
Parlare di “antico” non significa tuttavia intendere gli oggetti di cui si
parla come “remoti”: la lontananza nel tempo non è di ostacolo al nostro
tentativo di comprensione, anzi colloca gli oggetti che intendiamo studiare
nella corretta prospettiva rispetto a noi, al nostro presente.
Con quali modalità, dunque, ci si deve
accostare all’antico? Vegetti riconosce come modello positivo l’atteggiamento
archeologico di Michel Foucault, finalizzato – utilizzando le sue stesse parole
– al «reperimento critico dei modi nei quali il rapporto con la tradizione, o
con le tradizioni, dell’antico ha contribuito a forgiare la nostra modernità e
a determinare la nostra visione del mondo» (Intervista sul classico).
Nella bella intervista
rilasciata a Marco Solinas nel 2008 e pubblicata su Iride con il titolo
significativo di Lo strabismo dello storico (fra gli antichi e noi),
Vegetti dichiara di aver iniziato a leggere Foucault verso la metà degli anni Settanta
e di averne tratto, anzitutto, gli strumenti per uscire dall’alternativa tra
l’autonomia (e relativa astoricità) del pensiero teorico e la sua riduzione a “ideologia”
intesa in senso marxista, cioè come sovrastruttura intellettuale rispetto alla
struttura socio-economica.
Mi sembrano essere questi i
presupposti che stanno alla base della composizione del saggio L’ideologia
della città, redatto insieme all’amico Diego Lanza e pubblicato nel 1975 su
Quaderni di Storia. Si tratta di una versione ampia, cui farà seguito
una versione più breve, pubblicata nel volume omonimo, edito nel 1977 presso
Liguori e infine la ripubblicazione nel reading, curato da Vegetti, dal
titolo Marxismo e società antica, uscito per Feltrinelli sempre nel
1977.
Le pagine iniziali del saggio
nella sua “edizione maggiore” mostrano una seconda presa di distanza. Ora ci si
allontana da quella che F. M. Cornford aveva definito la marxist view della
Filosofia antica[2] e che aveva circolato in molte
pubblicazioni di ambiente anglosassone tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento
proprio come reazione all’ancora imperante classicismo. I nomi che vengono
citati ne L’ideologia della città sono, tra gli altri, quelli di Thomson
e di Farrington.[3] A questi studiosi viene
imputato di non aver dato alcun rilievo alla specificità della società antica e
di avervi individuato invece la presenza e lo sviluppo di fenomeni quali, come
scrivono Lanza e Vegetti, «il mercantilismo, la produzione per il mercato,
l’emergere come classe di una borghesia precapitalistica». Insomma, concludono
gli autori, secondo questi studiosi «Il capitalismo appare già maturo tra il VI
e il V secolo a. C. ».
Se la marxist view viene criticata, non sono invece ignorati quelli che
Vegetti, sempre nell’intervista con Solinas, definisce «gli straordinari
strumenti di comprensione delle realtà politico-sociali che il marxismo offre»,
sebbene applicati senza la preoccupazione – estranea anche a Diego Lanza – di
mantenersi fedeli a una rigida ortodossia. Vegetti allude, a questo riguardo,
alle critiche che erano giunte proprio dagli intellettuali più ortodossi. In
questo senso mi sembra esemplare la recensione di Domenico Musti, esponente di
spicco dell’Istituto Gramsci, a Marxismo e società antica,[4] in cui le affermazioni di Vegetti sono messe a
confronto con passi dei testi marxiani per mostrarne la distanza, cioè la non
ortodossia.
Sotto il profilo
dell’utilizzazione degli strumenti di analisi marxisti, un contributo
particolarmente fecondo proviene dagli studiosi francesi che, negli anni Sessanta,
innestano su questi stessi strumenti un impianto strutturalistico. Il
riferimento è a Vernant e alla sua scuola, che, pur partendo dallo studio del Capitale
e dei Grundrisse marxiani, applicano alla società greca,
riconoscendone la specificità, il concetto weberiano di status piuttosto
che quello marxiano di classe, vedendo nella polis un centro di consumo
piuttosto che di produzione, in assenza di un’economia di mercato. In questo
ambito assumono una grande rilevanza per Lanza e Vegetti, anche gli studi di
Karl Polanyi e di M. I. Finley.[5]
Ma è il modo di rappresentare la
polis greca da parte degli esponenti della “scuola francese” che appare
a Lanza e a Vegetti carente proprio sotto il profilo dell’individuazione
dell’ideologia della città. Nelle loro opere, e soprattutto in quelle di
Vernant, essa si identifica con una coscienza collettiva estesa a tutto il
corpo sociale, che coincide a sua volta – sulla scorta degli studi di
psicologia storica condotti con Meyerson – con una “mentalità”, cioè con una
caratteristica globale del pensiero greco. In questo senso, la polis viene
a configurarsi sì come «il luogo primario di appartenenza identitaria dell’uomo
greco», come dice Vegetti nell’intervista a Solinas, ma rappresenta una
formazione sociale coesa, un modello statico.
Da qui, dunque, nasce un’altra
presa di distanza e l’elaborazione di quella “ideologia della città” cui fa
riferimento il titolo dell’articolo di Lanza e Vegetti. La loro indagine si
incentra sulla città per eccellenza, Atene, non solo perché è quella che ci
tramanda la documentazione più vasta, ma che, come scrivono gli autori, è lo
spazio in cui si costituisce la figura ideologica della città. In che cosa
consiste l’”ideologia della città”? Con questo termine Lanza e Vegetti
designano l’insieme di pratiche – dalle istituzioni politiche, alla produzione
culturale, ai processi formativi – finalizzati all’integrazione di tutti i
cittadini. La città deve pensarsi come una comunità, elemento fondamentale per
superare le scissioni e le contrapposizioni che da sempre la percorrono. La polis
non rappresenta davvero un modello statico, come lo era invece per la
corrente classicistica e in un certo modo anche per Vernant e la sua scuola:
l‘ideologia che si sviluppa e si alimenta al suo interno costruisce quello
spazio politico che tiene sotto controllo le tensioni e produce l’omogeneità
della comunità. Tra tutti gli aspetti che confluiscono a produrre l’ideologia
della città, una particolare rilevanza è assegnata alla produzione culturale, e
tra tutte al teatro, e in particolare alla tragedia, in cui il dialogo
presentato sulla scena riflette le dinamiche dialettiche presenti tra i cittadini,
oltre che i dilemmi etici e politici.
Con L’ideologia della città nascono,
come dicevo all’inizio, le “nuove antichità”, che attestano il nuovo tipo di
interesse per il «territorio dell’antico», come scrive Vegetti nell’Introduzione
al fascicolo di Aut Aut del 1981 i cui contenuti – una serie di
saggi di autori diversi (dagli stessi Vegetti e Lanza, a Vernant a Detienne, a
Burkert, agli allora colleghi antichisti pavesi, tra cui Ferruccio Franco
Repellini e Gian Arturo Ferrari, cui si univano le studiose medieviste Carla
Casagrande, Chiara Crisciani e Silvana Vecchio) incentrati sul tema Metafore
dell’immaginario, produzioni di saperi, figure del sacro, tanti aspetti
diversi di un’interrogazione sull’antico che non si aspetta di produrre risposte
certe, ma di sondare territori problematici, non ancora codificati.
Appare chiara a questo punto la
novità che gli studi di Mario Vegetti ha introdotto nell’ambito dell’antichistica
sotto il versante politico, una politicità che ha al suo centro la città e la
ridefinizione della sua ideologia, da cui scaturiscono nuove immagini, nuovi
modelli per pensare l’antico: questi studi hanno sempre costituito per noi suoi
allievi, e non solo per noi, una via tracciata, un percorso da proseguire per
comprendere anche la realtà dell’oggi.
Scritti di Mario
Vegetti citati
• L’ideologia
della città (in collaborazione con D. Lanza), ‘Quaderni di Storia’ 2, 1975,
pp. 1-37, successivamente ripubblicato in D. Lanza, M. Vegetti et al., L’ideologia
della città, Liguori, Napoli 1977, pp. 13-27 e in M. Vegetti (a cura di), Marxismo
e società antica, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 259-288.
• Intervista
sul classico, in I. Dionigi
(a cura di), Di fronte ai classici, BUR, Milano 2002, pp. 265-278, ora
in M. Vegetti, Dialoghi con gli antichi, a cura di S. Gastaldi et al.,
Academia Verlag, Sankt Augustin 2007, pp. 305- 312.
• Nuove
antichità: Metafore dell’immaginario, produzione di saperi, figure del sacro, “Aut Aut” 184-185, 1981.
• Ippocrate, Opere
scelte, UTET, Torino 1965 (seconda edizione 1976).
• Aristotele, Opere
biologiche, in collaborazione con D. Lanza, UTET, Torino 1971 (seconda
edizione 1996).
• M. Solinas, Intervista a Mario
Vegetti, Lo strabismo dello storico (fra gli antichi e noi), “Iride” 21,
2008, pp. 529-566.
Note
[1] W.
Jaeger, Paideia: Die Formung des griechischen Menschen, 3 voll., Berlin
1934-1947 (trad. it. Paideia, La Formazione dell’uomo greco, La Nuova
Italia, Firenze 1936-1953).
[2] F.
M. Cornford, The Marxist View of Ancient Philosophy, in W. K. C. Guthrie
(ed.), The unwritten Philosophy and Other Essays, Cambridge University
Press, Cambridge 1950, pp. 117-137.
[3] Si tratta dei due studiosi di cui si parla diffusamente, specie
Farrington, nello studio di Cornford. Di G. D. Thomson si ricorda, in
particolare: Studies in Ancient Greek Society: The Prehistoric Aegean,
International Publishers, New York 1949. Anche il suo libro probabilmente più
famoso, e cioè Aeschylus and Athens, la cui prima edizione risale al
1911, pubblicato a Londra presso Lawrence and Winshart, presenta un’impostazione
marxista. B. Farrington è autore, tra l’altro, di Science and Politics in
the Ancient World, Allen and Unwin. London 1939 (trad. it. Feltrinelli,
Milano 1960).
[4] D. Musti, Marxismo, sociologia e mondo antico, “Studi Storici” 19, 1978, pp. 847-854.
[5] Di K. Polanyi è da ricordare anzitutto il saggio del 1957 Aristotle
discovers the Economy, in K. Polanyi, C. M. Arensberg, H. W. Pearson, Trade
and Market in the Early Empires, The Free Press, Glencoe Illinois 1957, pp.
64-94 (trad. it. Traffici e mercati negli antichi imperi, Torino,
Einaudi 1978); The livelihood of man, ed. by H. W. Pearson, Academic
Press, New York 1977 (trad. it. La sussistenza dell’uomo. Il ruolo
dell’economia nelle società antiche, Torino, Einaudi 1983). Tra le molte
opere di M. I. Finley, sono da menzionare The Ancient Economy,
University of California Press 1973 (trad. it. L’economia degli antichi e
dei moderni, Laterza, Roma-Bari 1977); Economy and Society in Ancient
Greece, Chatto & Windus 1981 (trad. it. Economia e società nel mondo
antico, Laterza, Roma-Bari 1984).
Eva Cantarella
Eva Cantarella compie i suoi studi presso il Liceo Classico Cesare Beccaria di Milano. Nel 1960 si laurea all’Università di Milano e completa la sua formazione presso Università straniere (Berkeley, Heidelberg). Allieva del giurista Giovanni Pugliese, ha svolto attività accademica presso le Università di Camerino, Parma e Pavia oltreché all’Università del Texas a Austin e a quella di New York, della quale è stata visiting professor. Ha pubblicato saggi sul diritto e su aspetti sociali del mondo greco e romano. Dal 1990 al 2010 è stata professore ordinario di istituzioni di diritto romano e di diritto greco antico all’Università statale di Milano. Tra i suoi ultimi libri: Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma a oggi, Milano, Feltrinelli, 2017; Gli amori degli altri. Tra cielo e terra, da Zeus a Cesare, Collana I fari, Milano, La nave di Teseo, 2018.
È bello essere qui
a ricordare Mario Vegetti, anche se sembra quasi impossibile non sia qui anche
fisicamente con noi. Quello che lui è stato ed è per la Casa delle
cultura e cosa è stata la Casa della cultura per lui è cosa che sappiamo tutti
così come sappiamo tutti quanto negli anni Mario ci ha dato. Ed è questo senso di gratitudine
nei suoi confronti quello che mi fa superare l’imbarazzo di essere qui a
ricordarlo con degli amici a differenza dei quali io non ho alcuna competenza
filosofica, avendo sempre studiato e insegnato una disciplina diversa – il che
peraltro non mi ha impedito, grazie a quel che Mario ha detto e scritto, di
apprendere da lui cose fondamentali nel mio campo di studi. E devo dire che
quello che mi fa superare l’imbarazzo è il desiderio di spiegare quello che gli
devo, e come e perché quello che ha detto e scritto sia stato fondamentale non
solo per me, ma a per tutti quelli che si sono occupati del mondo antico in
prospettiva diversa da quella filosofica. Mario infatti non era solo un
professore (un grande professore). Era un maestro. E i maestri sono
pochi, perché per esserlo non basta essere grandissimi studiosi: i maestri sono
quelli che aprono prospettive nuove alla ricerca anche al di fuori del proprio
settore: quello che Mario ha fatto grazie alla sua straordinaria capacità di
collegare il discorso filosofico alla realtà sociale, di mettere in luce da un
canto la sua derivazione da questa realtà e dall’altro gli effetti che produce
su di essa. E prima di darne un esempio parlando della sua influenza nel campo
della storia del diritto antico e nella storia delle donne, vorrei darne molto
brevemente un altro legato al suo influsso sulla filologia ricordando un
articolo di Mario dedicato all’«Io collerico» (nella specie quello di Achille)
nel bel libro curato da Silvia [Vegetti Finzi; ndr.] sulla Storia delle passioni. Per decenni, nella seconda metà del secolo
scorso, i filologi hanno accettato una teoria formulata da un grande filologo,
Bruno Snell, per la quale l’uomo omerico non percepiva ancora se stesso come
un’unità, ma come un insieme di parti fisiche e psichiche slegate. La ragione
di questa singolare ipotesi era la asserita mancanza di una terminologia non
solo per indicare l’anima, ma anche per indicare il corpo: psiche sarebbe stato solo ciò che animava il corpo, tenendolo in
vita, e soma sarebbe stato solo il
cadavere. Per indicare il corpo l’uomo omerico avrebbe usato termini che ne
indicavano le parti specifiche, come melea
(membra), chros (pelle) e via
dicendo. Vegetti ha mostrato che l’uomo omerico aveva un sé non solo fisico, ma
psichico unitario, costruito attorno a una passione, vale a dire l’ira. L’articolo di Mario ha cambiato la
prospettiva con cui la grande maggioranza dei filologi guardava al problema.
Ma veniamo al tema
sul quale vorrei più specificamente soffermarmi: la storia del diritto (nella
specie antico) e quella delle donne. Per ragioni legate all’organizzazione
dell’insegnamento universitario la storia del diritto non viene insegnata in
quelle che si chiamavano facoltà di lettere, ma in quelle di giurisprudenza,
nelle quali le regole del diritto antico – in particolare quello romano
(obbligatorio) e là dove veniva insegnato quello greco – venivano studiato in
sé e per se, indipendentemente da quelli che venivano chiamati “sociologismi”.
Venivano insegnate
vale a dire al di fuori di qualunque riferimento alla realtà storica nella
quale erano nate ed erano state applicate. Una specie di diritto in vitro, in
provetta, la cui funzione avrebbe
dovuto essere quella di insegnare le regole che sono alla base del diritto
privato non solo italiano ma di quasi tutti i diritti europei, eccezion fatta
per i sistemi di common law (quello
inglese e quindi nordamericano). Un diritto fuori della storia
Ebbene: leggere
Vegetti voleva dire vedere aprirsi percorsi, sentieri, strade lungo le quali
(in un’epoca in cui l’interdisciplinarità non era solo sospettata, era
malvista) i maestri di allora non amavano che i loro allievi si avventurassero.
E di questa apertura a nuove praterie hanno beneficiato non solo quelli che
allora erano studenti, ma anche quelli come me, che erano allora giovani
studiosi.
Mario, insomma, è
stato un maestro anche per me e per la mia (e sua) generazione perché quello
che lui pensava, diceva e scriveva indicava percorsi esterni al mondo separato
da rigide partizioni disciplinari, all’interno del quale sino a quel momento ci
eravamo mossi.
E per darvi un
esempio e una prova di quello che sto dicendo faccio un breve riferimento al
filone di studi al quale in quel momento mi dedicavo e al quale ho continuato a
dedicarmi con particolare interesse, vale a dire la storia della condizione
femminile.
E lo farò partendo
dall’influsso che ha avuto in questo campo un libro bellissimo e molto
importante intitolato Madre Materia,[1] dedicato appunto
alla condizione femminile, del quale avevo cominciato a occuparmi da alcuni
anni, e alla quale avevo dedicato da poco (per l’ esattezza, nel 1981) un
libretto nel quale, da storica del diritto, mettevo in evidenza le pesantissime
discriminazioni giuridiche di cui le donne greche e in particolare ateniesi
erano state vittime.
Madre Materia era uscito nel
1983, con una Presentazione di Mario, che iniziava con queste parole: «Nel campo degli studi sulla donna
nell’antichità non è più tempo dello scandalo e delle denunce. L’uno e le
altre, erano stati motivati, a dire il vero, da un’evidenza nota da sempre, ma
ricoperta e occultata dalla patina del classicismo: la radicale inferiorità
della donna, nelle società antiche, fondata dalla catena dei pregiudizi di una
mentalità che sfiora talvolta la ginofobia. Non appena scalfito il classicismo
con gli strumenti dell’antropologia sociale e della critica all’ideologia,
questa evidenza tornava a imporsi, e la figura della donna si aggiungeva, nella
fenomenologia dell’esclusione sociale, a quelle dello schiavo, del barbaro, per
altri versi del povero. Ma proprio l’impiego metodico di questi strumenti ha
imposto di sostituire l’emozione con il lavoro dell’analisi, con l’indagine
della funzione dei ruoli sessuali nei processi complessivi di riproduzione
sociale e nelle forme di cultura che li accompagnano».
Così scriveva
Vegetti, introducendo i tre saggi che componevano il volume, che affrontavano
il problema femminile «non
direttamente al livello della sua collocazione sociale, ma nell’ambito della
formazione di saperi forti, come quello aristotelico e la tradizione della
medicina ginecologica».
E qui si impone una
precisazione, che rende Madre Materia un libro che illustra meglio di
qualunque discorso un altro aspetto della sua natura di maestro: i saggi in
questione non erano firmati da lui, ma da tre sue giovani allieve. Io non so se
fosse stato lui a suggerire esplicitamente i temi, che certamente comunque non
aveva imposti (come, allora, era abitudine pressoché generale). I temi dei tre
saggi erano evidentemente nati dalle suggestioni, dagli input che le sue
lezioni e i suoi seminari davano a chi li seguiva. E quando i risultati del suo
insegnamento producevano i loro frutti, come quelli che compongono Madre
Materia, il maestro generosamente si ritraeva, attribuendo esclusivamente
agli allievi meriti e paternità (nella specie maternità!) dei risultati.
Credetemi, al termine della mia lunga carriera accademica, posso dirvi che non
è cosa abituale.
Ma veniamo più
specificamente ai contenuti. Il primo saggio, di Silvia Campese (Madre
materia: donna, casa, città nell’antropologia di Aristotele) ricostruisce
la funzione di riproduzione sociale affidata alle donne attraverso la lettura
della Politica e dell’Etica Nicomachea;il secondo saggio, diGiulia Sissa, intitolato Il corpo della donna:
lineamenti di una ginecologia filosofica (basandosi a sua volta su
Aristotele) ricostruisce – attraverso la Historia anumalium e il De
generazione – i paradigmi della riproduzione biologica; il terzo, di
Paola Manuli, dedicato a Donne mascoline, femmine sterili, vergini perpetue.
La ginecologia greca tra Ippocrate e Sorano, individuava i percorso
attraverso il quale la ginecologia antica studiava la patologia della
riproduzione identificando la sterilità come la causa e al tempo stesso come
effetto della «sindrome isterica».
Ed è al crocevia di
questi saperi forti, osserva Vegetti, che «si costituisce la figura epocale della madre materia – Madre perché la donna è pensabile (e accettabile)
solo come sessualità riproduttiva della famiglia e della città, come “strumento
animato”, quindi, delegato al prolungamento biologico del “padre cittadino”. Materia,
perché questo ruolo la vincola a una fecondità potenziale e quindi amorfa e
passiva, ma docile all’informazione maschile […]». Una forma di riconoscibilità
del femminile che «mette immediatamente in opera potenti dispositivi di
esclusione di qualsiasi forma di desiderio non riproduttivo, di presenza
sociale non strumentale: desideri e presenze che i saperi sulla donna sono in
grado di codificare come degenerazioni patologiche del corpo, della famiglia e
della città». Non credo ci sia bisogno di dire altro per mostrare
l’importanza di un libro come Madre Materia, che andava ben oltre la denuncia
dell’esclusione, alla quale in quegli anni si era ancora fermi: identificando i
paradigmi con i quali i saperi alti dei greci l’avevano giustificata
consentiva, tra l’altro, di constatare la lunghissima durata di questi nelle
storia europea. A dare alcuni esempi della quale, facendo un salto cronologico
molto ampio, possiamo vedere qualche esempio nella Germania dell’Ottocento, quando
Josef Görres (nato sul finire del secolo precedente), vedendo tradite le
speranze rivoluzionarie – ovviamente della Rivoluzione Francese – dedicandosi
in pieno clima romantico alla mitologia e alla cosmologia formula una teoria
secondo la quale la differenza sessuale sulla terra sarebbe stata il riflesso
della differenza sessuale che percorreva il cosmo, che identificava il maschile
con le nature spirituali, la luce e la libertà; il femminile con quelle
materiali, gravitazionali e con la necessità.
Né le cose cambiano
molto se da Görres passiamo, sempre in Germania nell’Ottocento, a un altro
celebre esempio: Jacob Grimm, uno dei famosi fratelli Grimm, che formula una
teoria della differenza sessuale in campo linguistico secondo la quale la forma
attiva del verbo è maschile, la forma passiva è femminile, e le vocali più
elementari sono femminili, mentre le consonanti, frutto più elaborato della
riflessione, sono maschili.
Gli esempi
potrebbero continuare: questi sono alcuni tra i moltissimi che aiutano a capire
l’importanza dell’insegnamento dato da Mario opponendosi a un classicismo che
degli antichi vedeva solo i grandissimi lasciti, ignorando gli aspetti meno
gloriosi e glorificati della loro cultura e gli importanti e non meno duraturi
effetti che anche questi hanno lasciato nella nostra storia, per arrivare a
volte sino al presente.
[1] Silvia
Campese – Paola Manuli – Giulia Sissa, Madre Materia. Sociologia e biologia
della donna greca, presentazione di Mario Vegetti, collana “Società
antiche” diretta da Mario Vegetti, Boringhieri, Torino 1983.
Franco Ferrari
Franco Ferrari (1964) è professore ordinario di Filosofia antica presso l’Università di Salerno. È stato allievo di Mario Vegetti a Pavia; con lui ha collaborato alla traduzione commentata della Repubblica di Platone. Humboldt-Stipendiat presso l’Università di Münster, ha collaborato al progetto «Der Platonismus in der Antike» diretto da Matthias Baltes (1997-2002). Attualmente è coordinatore del comitato editoriale della International Plato’s Society. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla filosofia di Platone e sul platonismo antico. Nella collana dei «Classici Greci e Latini» della Bur ha tradotto e commentato il Parmenide, il Teeteto e il Menone di Platone. A Platone ha recentemente dedicato un’esposizione di carattere generale: Introduzione a Platone (Il Mulino).
In apertura di una bella intervista biografica pubblicata
sulla rivista «Iride» nel 2008, Mario Vegetti spiegava che l’incontro con
Platone e in particolare con il «Platone politico» era avvenuto in lui
relativamente tardi. In effetti, sebbene di Platone Vegetti si fosse occupato
fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, soprattutto nell’ambito delle sue
ricerche sul corpus ippocratico, il confronto serrato con la filosofia
politica platonica divenne ineludibile, come lo stesso studioso ha
riconosciuto, dopo la pubblicazione del volume L’etica degli antichi,
una sintesi magistrale della riflessione etico-morale sviluppata dagli autori
greci e latini. Qui Vegetti non si limitava a ricostruire, servendosi anche
degli strumenti offerti dalla filosofia analitica con la quale era nel
frattempo entrato in contatto, le argomentazioni fornite dai filosofi antichi a
favore di questa o di quella concezione etica, ma si proponeva di valutarne la
consistenza filosofica e l’eventuale spendibilità all’interno del dibattito
contemporaneo. Esattamente a questo livello si situavano le sue riserve nei
confronti di un approccio etico di tipo prevalentemente descrittivo, in
qualche modo implicito nel nesso stabilito da Aristotele (e in misura diversa
probabilmente anche dagli Stoici) tra «naturale», «normale» e «normativo» (si
veda anche Aristotele e la filosofia pratica).
Il pensiero etico e politico di Platone si presentava
agli occhi di Vegetti come un formidabile antidoto a un’attitudine di questo
genere, perché sembrava effettivamente rompere il legame tra natura e norma e
progettare un piano dei fini del tutto irriducibile tanto alla realtà
storico-politica, quanto alla normalità naturale. Ciò significa che,
contro la diffusa tendenza a vedere in Aristotele l’interlocutore antico
privilegiato per la riflessione etica (e politica), Vegetti avvertì l’esigenza
di rivolgersi a Platone, concepito come il modello di una «grande politica»,
vale a dire di una politica animata dall’ambizione di trasformare
demiurgicamente il mondo morale e sociale degli uomini. Scriveva in proposito
lo studioso: «quando parlo di grande politica intendo, in primo luogo, una
politica che abbia relazioni esplicite, fondative, con un’etica, e oltre essa
con un’antropologia: una politica cioè orientata da un qualche insieme di
valori, che a loro volta abbiano un rapporto con la natura umana e con la sua
(eventuale) perfettibilità» (Un paradigma in cielo, p. 174 sgg.).
Il confronto con il pensiero etico e politico di Platone
fu per Vegetti prima di tutto, sebbene non esclusivamente, un confronto con il
dialogo più celebre, complesso, problematico e spesso frainteso del grande
filosofo, ossia la Repubblica, alla quale egli ha consacrato almeno due
decenni di ricerche, destinate a trovare la loro sintesi nella spettacolare
traduzione commentata in sette volumi dell’opera, pubblicata nella prestigiosa
collana «Elenchos» dell’editore Bibliopolis tra il 1998 e il 2007. La realizzazione
di una simile impresa «collettiva» costituiva agli occhi di chi la
progettò una reazione all’individualismo competitivo che anima la nostra epoca
(anche nel mondo universitario), e insieme un omaggio alla consuetudine
collaborativa, ossia alla synousia, che doveva caratterizzare la vita dell’Accademia, la
scuola fondata da Platone. Per comprendere il significato dell’operazione
esegetica compiuta da Vegetti, è opportuno spendere due parole sullo stato
della ricezione del pensiero politico platonico e in particolare della Repubblica
nel corso del dopoguerra. Come Vegetti ha mostrato analiticamente nel suo
bellissimo libro Un paradigma in cielo, la fruizione della Repubblica
è stata vincolata a una serie di assunti esegetici finalizzati nella
sostanza a neutralizzare (o a disinnescare) il formidabile atto di accusa mosso
da Karl Popper nel celebre libro The Open Society and its Enemies,
scritto durante l’esilio in Nuova Zelanda e pubblicato nel 1944. Come è noto,
Popper considerava Platone il capostipite del filone totalitario,
organicista, collettivistico-tribale, antiliberale e antidemocratico del
pensiero occidentale, che avrebbe avuto in Hegel e Marx i suoi epigoni, e nel
nazismo (via Hegel) e nel bolscevismo stalinista (via Marx) le ultime e terribili
manifestazioni. Dal punto di vista filosofico Popper rimproverava a Platone, di
cui riconosceva comunque l’abissale profondità di pensiero, due assunzioni
teoriche, dalle quali sarebbe discesa l’impostazione totalitaria della sua
concezione politica e l’opzione in favore di una società «chiusa»: si tratta
dello storicismo regressivo, che àncora la perfezione a un modello
eterno e astorico, e dell’ingegneria sociale utopica, accompagnati
entrambi da una forte componente estetizzante. Vegetti ricostruisce in questi
termini la strategia che Popper ascrive a Platone: «c’è in primo luogo l’ordine
dei fini: la teoria delle idee è lo strumento teorico che consente di
delineare, e di fondare, il modello dello stato perfetto, per
definizione immutabile e invariante. Ciò posto, il problema dell’ingegnere
sociale utopico è quello di progettare i mezzi adeguati al conseguimento della
finalità così stabilita» (Un paradigma in cielo, p. 115). Tanto la
determinazione dell’orizzonte normativo, quanto l’individuazione dei fini atti
a realizzarlo risultano sottratti a ogni forma di dibattito e finiscono
inevitabilmente per esporsi all’arbitrio e alla violenza. Alle spalle di simili
critiche si legge la ragione di fondo dell’aspra polemica di Popper,
consistente nel rifiuto radicale di ogni pensiero utopistico e la sua opzione
in favore di una politica gradualistica, che rifugga da ogni tentazione
rivoluzionaria.
I tre provvedimenti intorno ai quali prende forma il
programma “utopico” delineato nella Repubblica attengono, come è noto,
a) all’uguaglianza dei generi rispetto ai compiti di governo, b) alla
soppressione, limitatamente al ceto dei governanti e a quello dei difensori,
della dimensione privata, sia sul piano affettivo, sia su quello patrimoniale,
ossia all’abolizione dell’oikos, luogo degli affetti e
dell’accumulazione di ricchezza, e c) all’assegnazione ai filosofi del governo
della città. La natura eversiva e per certi aspetti rivoluzionaria di simile
provvedimenti dovette essere avvertita dallo stesso Platone, che infatti li
assimila a vere e proprie «ondate» (kymata), che rischiano di esporre
alla derisione chi si avventuri a proporle, e fu certamente la ragione del
sarcasmo con cui il tradizionalista Aristofane si scagliò contro la kallipolis
immaginata nella Repubblica. Del resto, come ha mostrato in maniera
convincente Luciano Canfora, il tema dell’utopia costituì il principale,
sebbene non l’unico, motivo di frizione tra Platone e il grande commediografo. È
poi appena il caso di ricordare come l’abolizione della famiglia e della
proprietà, sia pure solamente per i ceti chiamati a funzioni direttive,
costituisca qualcosa di simile a uno scandalo sia per la coscienza naturaliter
cristiana dell’Occidente, sia per l’individualismo liberista sul quale si
fonda, in forma diretta o indiretta, la modernità.
Si comprende, dunque, come la circolazione di Platone nel
dibattito etico e politico del dopoguerra sia transitata attraverso un processo
di depotenziamento o di vera e propria neutralizzazione della portata eversiva
delle tesi esplicitamente affermate nella Repubblica. Si direbbe, come
Vegetti ha affermato numerose volte, che per molti decenni l’esegesi della
filosofia politica platonica sia ruotata intorno all’obiettivo di «difendere
Platone da Popper» (e forse da se stesso). Le strategie di difesa approntate a
questo scopo sono state diverse e articolate, e tuttavia non tutte si collocano
sullo stesso piano per profondità filosofica e solidità filologica. In questa
sede mi limito a segnalare le due più interessanti: a) la prima è tesa a
dimostrare, attraverso una lettura ironico-trasversale dei testi, che
Platone non considerò né desiderabili né realizzabili i provvedimenti esposti
nella Repubblica, i quali costituirebbero o il prodotto di un gioco
razionale presentato all’interno del genere letterario dell’utopia
(Gadamer), oppure la dimostrazione, – effettuata per mezzo dell’attribuzione a
Platone del metodo della dissimulazione, – dell’impossibilità
antropologica di un progetto che stabilisca l’unità di filosofia e politica
(Strauss e, con accenti diversi, Vogelin, anch’egli animato comunque da una
forte vis polemica nei confronti di Popper); b) la seconda,
particolarmente diffusa nell’area culturale anglosassone e la cui massima
esponente è Julia Annas, è orientata a negare al percorso teorico delineato
nella Repubblica ogni significato politico, dal momento che lo scopo del
dialogo sarebbe unicamente quello di argomentare sul piano etico-morale in
favore della tesi dell’autosufficienza della virtù per il conseguimento della eudaimonia.
Pur riconoscendo a entrambe queste strategie di difesa
una certa consistenza filosofica e una qualche legittimità storiografica,
Vegetti ne mette in luce, in maniera efficace, i presupposti e le finalità più
o meno esplicitati, che nel caso di Strauss e Vogelin consistono nel tentativo
di sottrarre Platone alla modernità per farne in qualche modo il capostipite
della filosofia classica, conservatrice, costitutivamente estranea a
ogni forma di utopismo, consapevole dei limiti strutturali della politica e
della sua sostanziale incapacità di realizzare sulla terra il «regno della
perfezione», per Gadamer nel tentativo di costruire una tradizione
cristiano-liberale capace di integrare anche Platone, mentre nel caso di Annas
e degli interpreti «moralisti» vanno individuati nell’obiettivo di fare di
Platone un pensatore estraneo alla politica, unicamente rivolto al
miglioramento etico dell’uomo e dunque perfettamente omogeneo al filone «etico»
che da Socrate giunge fino allo stoicismo.
Sia gli uni che gli altri tradiscono, secondo Vegetti, il
senso del pensiero platonico, ne neutralizzano la componente utopica e
progettuale, azzerando il ruolo che in esso esercita la forza
dell’immaginazione (mythologein), in grado di costruire un orizzonte di
finalità irriducibile all’esistente. Nello sforzo di rendere Platone omogeneo a
una presunta filosofia classica aliena dall’utopia o di farne un interlocutore
integrabile nel dibattito filosofico contemporaneo, entrambe queste linee
esegetiche depotenziano il significato di un pensiero la cui grandezza risiede
proprio nella sua irriducibilità al nostro modo di concepire la politica e
dunque in una certa forma di inattualità. Vegetti riconosce in Popper un
lettore attento e largamente affidabile di Platone, certamente più profondo di
tanti laudatores contemporanei. In particolare a Popper si deve il
merito, contro una tendenza diffusa da circa un secolo e risalente a Hegel, di
avere preso sul serio le «indicazioni programmatiche» esposte nella Repubblica
relative alla kallipolis e di averne messo in luce l’assoluta
irriducibilità a ogni forma di pensiero «liberal-democratico». Contro Gadamer,
Strauss, Vogelin e i loro epigoni, Vegetti può sostenere, appellandosi a una
serie di riflessioni metadiscorsive sviluppate da Platone nei libri V-VII della
Repubblica, che le tre «ondate» contenute nel V libro risultano per
l’autore sia desiderabili (ta beltista), sia in qualche misura possibili
(dynata), cioè realizzabili. In conclusione del VII libro Socrate arriva
ad affermare che la costituzione descritta «non è del tutto un pio desiderio,
ma cosa bensì difficile da realizzarsi, in qualche modo però possibile, e non
diversamente da come si è detto, una volta che i veri filosofi avranno assunto
il potere nella città» (540d).
Secondo Vegetti lo statuto del programma descritto nella Repubblica
è quello di un’utopia progettuale, del tutto irriducibile all’utopia
di evasione prospettata da Gadamer: «progettuale, perché la sua realizzazione è
desiderabile e possibile, o almeno non impossibile, benché difficile e
necessariamente imperfetta» (Un paradigma in cielo, p. 163). Del resto
Platone stesso sembra alludere alla natura paradigmatico-normativa della città
perfetta ricostruita dall’immaginazione filosofica quando, verso la fine del V
libro, invita a trovare una forma di governo che si approssimi in massimo grado
(hos engytata) a quella di cui ha parlato (473a-b). Nel linguaggio della
filosofia contemporanea si tratterebbe di una teoria normativa, che
stabilisce i fini e gli strumenti atti a realizzare una società giusta. Tralascio
di discutere le obiezioni che Vegetti muove all’interpretazione «etica» della Repubblica,
la quale può appellarsi, oltre che alla celebre analogia tra il microcosmo
dell’anima e il macrocosmo della città stabilita da Platone nel II libro, a
un’affermazione contenuta alla fine del IX libro (il celebre sintagma heauton
katoikizein, solitamente tradotto con «fondare una città giusta in se
stesso»), di cui tuttavia Vegetti propone un’interpretazione alternativa e
filologicamente meglio fondata, il cui esito consiste nel richiamo alla valenza
normativa che il modello eidetico, collocato en ourano, ossia nel cielo,
esercita per l’attività politica. Vegetti ha spesso assimilato la filosofia
politica di Platone a un programma illuministico, perché si fonda
sull’idea di un’alleanza tra sapere e potere, tra la ragione filosofica e il
governo della città. In realtà l’importanza di Platone, le ragioni che motivano
l’esigenza di fare i conti con la sua filosofia politica, si situano a un altro
livello, e in particolare dipendono dalla natura di un progetto che assume il
profilo della grande politica. Da questo punto di vista il richiamo a
Platone nel dibattito filosofico-politico odierno comporta, per Vegetti, prima
di tutto la consapevolezza di trovarsi di fronte a un pensiero irriducibile a
quello contemporaneo, ma che forse proprio per questa ragione consente di
mettere in discussione la presunta naturalità di quest’ultimo. Non si tratta di
difendere Platone dagli attacchi del liberal-democratico Popper, ma di valutare
senza pregiudizi i presupposti filosofici, politici e antropologici di
entrambi, anche con l’obiettivo di relativizzare ciò che nella modernità appare
assoluto, ossia l’individualismo proprietario.
Vorrei chiudere questo breve profilo del mio maestro
menzionando un libretto da lui preparato per una collana di «Falsi
d’autore». Si trattava di immaginare il ritrovamento di un manoscritto
contenente un libro perduto della Repubblica
di Platone (e la Lettera XIV).
Vegetti attribuisce questa sensazionale scoperta, avvenuta nel 1937 in un
convento dell’Armenia, a uno studioso sovietico dal non casuale nome di Josiph
Vissarionovich. Il protagonista di questo immaginario XI libro della Repubblica
è «uno straniero piuttosto tozzo e tarchiato, con una gran testa,
un’incolta barba grigia e lo sguardo penetrante, cui faceva da seguito una
piccola folla di manovali o di schiavi da poco liberati dalle loro catene».
Questo Marx che dialoga con Socrate e con Trasimaco, delineando i contorni di
una società certamente impensabile per Platone, una società senza sfruttati né
sfruttatori, senza ricchi né poveri, rappresenta l’estrema concessione di
Vegetti – nella forma di un ironico divertissement – alla passione
politica che lo ha sempre accompagnato, alla sua fiducia in un comunismo aperto
e libertario, tanto inattuale quanto ineludibile, almeno per una
riflessione che non si accontenti di registrare passivamente il presente, ma si
proponga di immaginare criticamente – forse platonicamente – il futuro.
# # NOTA
BIBLIOGRAFICA# # Una versione più ampia di questo contributo è in corso di
pubblicazione presso la rivista «Iride». I lavori di Mario Vegetti utilizzati
per la stesura di questa pagine e di cui nel testo si dà menzione in forma
abbreviata sono i seguenti: # L’etica degli antichi. Roma-Bari: Laterza
1989. # Aristotele e la filosofia pratica: qualche problema,
«Paradigmi», 11 (1993) pp. 237-248. # Platone e la medicina, Venezia: Il
Cardo 1995. Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, vol. I-VII,
Napoli: Bibliopolis 1998-2007. # Guida alla lettura della Repubblica di
Platone, Roma-Bari: Laterza 1999. # Quindici lezioni su Platone,
Torino: Einaudi 2003. # Platone, Repubblica, libro XI / Lettera XIV. Socrate
incontra Marx, lo Straniero di Treviri, Napoli: Guida 2004. # Lo
strabismo dello storico (fra gli antichi e noi). Intervista teorico-biografica,
a cura di M. Solinas, «Iride», 21 (2008) pp. 529-566. # “Un Paradigma in
cielo”. Platone politico da Aristotele al Novecento, Roma: Carocci 2009. # Il
potere della verità. Saggi platonici, Roma: Carocci 2018. # Tra gli altri
contributi menzionati o comunque utilizzati nel testo si segnalano: # J. Annas,
Platonic Ethics: Old and New, Ithaca-London: Cornell University Press
1999. # L. Canfora, La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone,
Roma- Bari: Laterza 2014. # F. Ferrari, Platone illuminista? A proposito di
un libro di Mario Vegetti, «Rivista di Storia della Filosofia», 65 (2010)
pp. 507-514. # H.G. Gadamer, Platone e il pensare in utopie, in L’anima
alle soglie del pensiero nella filosofia greca, Napoli: Bibliopolis 1988,
pp. 61-91. # K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. 1: Platone
totalitario, trad. it. Roma: Armando 1996. # L. Strauss, La città e
l’uomo. Saggi su Aristotele, Platone, Tucidide, edizione italia a cura di
C. Altini, Genova-Milano: Marietti 2010. # E. Vogelin, Ordine e storia. La
filosofia politica di Platone, trad. it. Bologna: Il Mulino 1986. # F.
Zuolo, Platone e l’efficacia. Realizzabilità della teoria normativa, Sankt
Augustin: Academia 2009.
Fulvia de Luise
Fulvia de Luise è professore Associato di Storia della Filosofia Antica presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. Ha conseguito la Laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Napoli e il Diploma di Perfezionamento in Storia della Filosofia Antica presso l’Università degli Studi di Pavia con una tesi dal titolo «Scrittura del dialogo e comunicazione filosofica in Platone». Dal 1994 al 2007 ha partecipato al seminario di studio sulla Repubblica di Platone, diretto dal prof. Mario Vegetti presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università agli Studi di Pavia. Ha svolto un’intensa attività di ricerca sui modelli antropologici ideali nel pensiero antico e sul tema della felicità nel pensiero antico e moderno, pubblicando due monografie, in collaborazione con G. Farinetti (Felicità socratica, Hildesheim 1997; Storia della felicità. Gli Antichi e i moderni, Torino 2001). I suoi studi si sono rivolti inoltre all’interpretazione della scrittura platonica, con particolare riferimento, oltre che alla Repubblica, al Fedro e al Simposio, di cui ha curato edizioni commentate.
Restituire alla Repubblica
il suo carattere eminentemente politico è stato il movente principale del
progetto di ricerca che Mario Vegetti ha concepito nei primi anni Novanta.
L’esigenza di farlo aveva come sfondo la grande disputa sui paradigmi
interpretativi degli anni Settanta-Ottanta, in cui a un modello ermeneutico
centrato su ciò che nei dialoghi c’è scritto si era opposto un modello
orientato alla ricostruzione della parte non-scritta delle cosiddette
‘dottrine’ platoniche. C’era poi una diffusa tendenza a difendere il testo della
Repubblica da se stesso, cioè dalle sue tesi più urtanti per la
coscienza liberal-democratica, quelle denunciate come radici del totalitarismo
da Karl Popper (1944) e derubricate a provocazioni intrise di ironia da Leo
Strauss (1964); il che significava in molti casi, anche per alcuni interpreti
autorevoli, come Julia Annas (1997 e 1999) e Giovanni Ferrari (2003),
privilegiare i significati morali della ricerca platonica a scapito di quelli
politici: un vero rovesciamento dell’ordine seguito nel dialogo della Repubblica
per la ricostruzione politica della giustizia, prima nella città e poi
nell’anima. Mario Vegetti ha dedicato uno studio attento e continuo ai motivi
profondi per cui nella storia delle grandi interpretazioni del pensiero di
Platone, e soprattutto nel quadro culturale segnato dalle tragedie politiche
del Novecento, «la Repubblica è diventata impolitica».[1] Ed
è dalla comprensione storica e filosofica di queste ragioni che nasce
l’esigenza di rimuovere il loro impatto sulla lettura della Repubblica,
per restituire al dialogo il carattere progettuale che gli è proprio e che si
presenta al lettore come la scrittura di un’utopia politica. Il progetto di
commento integrale concepito da Mario Vegetti, e realizzato con l’edizione
commentata dei dieci libri della Repubblica in sette volumi (1998-2007),
comportava un impegno più che decennale, che doveva concludere il suo personale
percorso scientifico, ma realizzarsi nella forma di un’impresa collettiva: un
seminario permanente sull’interpretazione del monumentale testo platonico che
avrebbe dato vita a un commentario a più voci sul significato del testo. Io non
credo di aver capito subito le implicazioni dirompenti di questo stile di
lavoro, che da un lato si presentava con il tratto comunitario di una scuola,
ma dall’altro non poneva alcuna pregiudiziale o scelta di indirizzo
interpretativo. Come se la verità del testo dovesse emergere direttamente dalla
forza comunicativa della scrittura platonica, in ciascuna delle parti che
sarebbero state affidate ai partecipanti all’impresa.
2. Una lettura di grado zero vincolata solo alla
struttura semantica del testo
Ciò che in realtà era
presente fin dall’inizio, ma che solo progressivamente ho compreso nella sua reale portata di rivoluzione metodologica,
era l’idea di procedere a una rilettura radicale del testo, completamente
fedele alla sua struttura semantica, prendendo sul serio tutto ciò che il
dialogo effettivamente dice, senza omissioni e senza immissioni di concetti e
criteri elaborati a partire da altri luoghi platonici. Che questa fosse la sua
intenzione, Vegetti lo dice con estrema chiarezza, in quella che è forse la sua
ultima presa di posizione in materia di metodo e in difesa della «fedeltà ai
testi», cioè nell’introduzione alla sua ultima raccolta di scritti platonici,
che ha l’impegnativo titolo Il potere della verità (in stampa al momento
della sua morte): «Mi preme soprattutto sottolineare l’esigenza di non
integrare i testi, supplendo a quello che non dicono, e di non
correggere o ignorare quello che invece dicono esplicitamente; si tratterà
piuttosto, nel primo caso di interpretare le ragioni di silenzi e omissioni,
nel secondo di interpretare tesi magari inaccettabili per il lettore».[2]
Ancora più significativo e rivelatore anche delle ragioni extra-filologiche di
questa scelta è ciò che soggiunge subito dopo tra parentesi: «non è detto che
lo studioso di Platone debba condividere tutto ciò che Platone dice: questa
identificazione patologica è il principio e la ragione di tante forzature dei
testi, che mirano a far loro dire ciò che vorremmo dicessero per poter essere
d’accordo. Amicus Plato…».[3]
Che cosa significa ammettere la possibilità di non essere d’accordo con quanto
Platone dice? Significa stabilire un rapporto dialettico, un rapporto di
distanza e non di patologica vicinanza, col testo: chiudere la strada
all’appropriazione indebita con cui ci si mette sotto l’ombrello del principio
di autorità, e sviluppare invece un dialogo onesto e produttivo con ciò che
l’autore trasmette e significa attraverso il testo, entrando in un rapporto
vivo con le sue intenzioni strategiche, sul terreno da lui scelto, che per
Platone è quello caldo e potenzialmente conflittuale della politica. Di qui
l’attenzione estrema al modo di produrre significati della scrittura platonica:
stili linguistici e singole parole, personaggi e dinamiche teatrali, campi
metaforici e strutture argomentative diventavano specifici oggetti di indagine,
senza un ordine ‘filosofico’ di importanza che prefigurasse il rilievo dei risultati
a venire. Una sorta di katharsis, una depurazione da tutte le
incrostazioni ermeneutiche, precedeva idealmente l’apertura del lavoro
analitico, che avrebbe fatto emergere dal testo le sue figure di senso, senza
attribuirgliene nessuna in anticipo. Da vincolo generale funzionava il rispetto
dell’autonomia di ogni singolo libro della Repubblica: l’unità dialogica
cui poteva applicarsi con una certa sicurezza la regola di coerenza che Platone
aveva enunciato nel Fedro, dicendo che ogni discorso ben scritto deve
avere la forma di un «organismo animato (zoon)» (Fedro 264c). Ma
con ben altra cautela, e certo solo dopo lo scavo analitico nei singoli libri,
il modello del ‘corpo vivente’ avrebbe potuto essere applicato all’insieme
della Repubblica. Guidando la ricerca dei punti chiave nella rete
semantica del testo, Vegetti segnalava luoghi e aspetti meritevoli di
particolare attenzione, che si distribuivano tra i partecipanti all’opera
collettiva. Una volta scelto il terreno di indagine, ciascuno aveva libertà di
scavare a piacere in quella particolare zolla. Di anno in anno, sempre più
sorprendente, non prevedibile, quasi interamente privo dei filtri di una
coerenza preordinata o censoria, era il risultato complessivo dell’analisi, che
si prestava a diversi tipi di sintesi.
3. I capisaldi finali dello scavo di Vegetti. Tra κατέβην e κατοικίζειν
Da questa fedeltà alle strutture
semantiche del testo sono emersi quelli che, a lavoro finito, mi sono parsi i
capisaldi del lavoro di scavo che Vegetti ha condotto in prima persona, nel
quadro dell’opera collettiva. Lo troviamo non a caso attento a presidiare i
luoghi di inizio e di fine del discorso con cui Platone dà vita e visibilità al
paradigma di una città «perfettamente buona». Dell’importanza
di questi due punti per la comprensione del disegno e del movimento complessivo
della Repubblica vorrei ora accennare brevemente, per dire in che senso
essi mi si sono rivelati, attraverso l’analisi di Vegetti, dispositivi cruciali
per capire come funziona, a livello teorico e pratico, il paradigma politico
delineato nel dialogo. Letteralmente: per capire come si mette in moto un
paradigma costruito per essere normativo, cioè per dare
una disciplina all’azione. Si tratta in realtà di due parole, tra cui l’intero
lavoro di costruzione teorica si sviluppa. La prima è κατέβην, «scendevo», la prima parola della Repubblica, con cui il
personaggio Socrate enuncia l’azione che lo porterà ad immergersi nel mondo
umano che si raccoglie al Pireo, porto di Atene, ambiente misto di cui dovrà
assimilare fino in fondo gli umori e i conflitti. La seconda è κατοικίζειν, che significa ‘andare ad abitare’ o ‘colonizzare’, usata alla
fine del libro IX per indicare quale sia l’uso possibile del modello, appena
costruito «en logois» (cioè solo a parole e in teoria), di una città che
ora si rende visibile ben in alto al termine del percorso compiuto, come «un
paradigma in cielo». L’attenzione
analitica che Vegetti dedica a queste due parole, il modo in cui riesce a farne
le chiavi di volta di una lettura profondamente politica, teorica e pratica
allo stesso tempo, del testo platonico è qualcosa che non cessa di suscitare in
me la meraviglia: quel tipo particolare di meraviglia che l’interprete prova
quando un particolare rivela d’improvviso il senso dell’insieme; e più
specificamente la meraviglia di scoprire che il potere delle parole non resta
sulla carta, ma va a modificare il senso della realtà.
3.1. κατέβην
La scelta della parola κατέβην, come inizio del racconto di Socrate, non dice soltanto della sua
‘discesa’ al Pireo, dove, sorprendentemente, proprio nella casa di un facoltoso
straniero residente ad Atene (il meteco Cefalo), si svolgerà il dialogo sulla
giustizia nella città. La parola è immediatamente evocativa di un’altra, κατάβασις, la discesa agli inferi, ben presente
nella cultura arcaica come possibilità di accesso a un percorso di iniziazione,
di rivelazione e di possibile rinascita. Attivarne i significati simbolici –
sottolineava Vegetti[4]
– prepara il lettore ad attendersi significati altrettanto profondi e
rivelatori dal percorso, diversamente ‘katabatico’, cui Socrate dà inizio,
disponendo chi legge a comprendere il movimento di discesa e risalita che
caratterizzerà il ritmo del dialogo. La novità di questa discesa socratica, di
cui danno conto i primi tre libri della Repubblica, sarà scoprire che
l’inferno è la selva oscura dei discorsi della città reale: discorsi che hanno
la forza argomentativa del teorema di Trasimaco,[5]
il più agguerrito tra gli antagonisti di Socrate, il quale sostiene la
necessaria dipendenza della giustizia dagli interessi del potere politico (Repubblica
I 338c-339a); o che, appoggiandosi alla naturalità antropologica del
desiderio di sopraffazione, ne fanno una legge che si oppone al debole
artificio delle regole civili, degradando la giustizia a bene di terza scelta,
accettato controvoglia da chi ha l’intelligenza e la forza per prevalere (Repubblica
II 357a-358a). Discorsi disorientanti per il nobile Glaucone, che dichiara
di avere «le orecchie assordate» (Repubblica II 358c8) dal loro
ripetersi e perciò si rivolge a Socrate perché gli dimostri che non è così che
deve pensare. È il suo disagio a vivere immerso nella città reale, dove le
parole e i comportamenti umani offrono continue conferme di uno stato di cose
degradato, che dà il via alla ricerca socratica di un altro modo di pensare la polis,
un modo più aderente a ciò che essa dovrebbe essere per garantire la vera
funzionalità dell’ordine politico. Socrate dovrà regredire fino alle origini
della socialità per rintracciare i moventi arcaici del vivere civile e dare
inizio alla risalita, con l’esperimento teorico che disegna artificialmente una
città degna di questo nome: una polis unita, le cui norme paradossali
contrastano a tal punto quelle su cui si regge la città reale da costituire il
suo virtuale rovesciamento.
3.2. κατοικίζειν
κατοικίζειν è invece la parola con cui la costruzione teorica della kallipolis si
chiude, indicando una prospettiva d’azione che segna in un certo senso il
ritorno alla realtà. La ricostruzione che Vegetti fa del suo significato,[6]
gettando una luce inedita sulla strategia di fondo del dialogo, è forse
l’esempio più efficace di riuscita del suo programma di revisione (o
sovversione) ermeneutica. Il passo in cui la parola κατοικίζειν compare è
quello – sottolinea Vegetti – «su cui hanno da sempre insistito gli interpreti
che tendono a negare, o a ridimensionare, il carattere politico della Repubblica,
e ad accentuarne invece l’interesse per la moralità individuale e
interiorizzata».[7] La parola κατοικίζειν è il cuore della sua ambiguità. Socrate sta rispondendo a Glaucone, che
si domanda dove e come potrà mai fare politica chi, come lui, ha partecipato
alla costruzione teorica della kallipolis, ma pensa che
una città come «quella che sta nei discorsi» non esista «da nessuna parte sulla
terra» (Repubblica IX 492a10). La risposta di Socrate stabilisce uno
stretto rapporto tra visione della città ideale e tipo di azione che ne
consegue: «Ma forse – dissi io – è posta in cielo (en ourano) come un
modello (paradeigma), offerto a chi voglia vederlo (boulomeno horan),
e avendolo di mira (horonti), insediarvi se stesso (heauton
katoikizein). Ma non fa alcuna differenza se essa esista da qualche parte o
se esisterà in futuro: egli potrebbe agire solo in vista della politica di
questa città e di nessun’altra» (Repubblica 592b1-4). La traduzione di
Vegetti, puntigliosamente giustificata sul piano semantico e sintattico, legge
l’indicazione come un invito a trasferire se stessi nel paradigma, e ad agire
in funzione delle norme che esso racchiude, non a «rifondare sé stesso» o
addirittura a «fondare una città in se stesso» (secondo la traduzione
dell’autorevole Adam: «found a city in himself»), come se la cittadella
interiore dell’anima fosse l’unico luogo in cui il paradigma possa realizzarsi.
Nella lettura di Vegetti, le istruzioni per l’uso del paradigma, che Socrate
fornisce al suo interlocutore eccellente, segnalano piuttosto la necessità di
collocare se stessi altrove, ovvero in una prospettiva d’azione diversa da
quelle praticate nella città esistente. La rilevanza della questione, per
comprendere in che senso l’intenzione di Platone resti politica, è così
sottolineata nell’Introduzione a Il potere della verità: «Non si
tratta quindi di passaggio dall’esteriorità politica all’interiorità
dell’anima, ma di dislocazione delle finalità dell’azione politica (ove essa
sia possibile): dalla città storica, per la quale il filosofo non agirà
affatto, all’orizzonte della città utopica, alla cui creazione egli dedicherà
le sue energie» (Vegetti 2018, p. 13).
3.3. Tra le due parole: lo spazio
dell’utopia
È abbastanza evidente ciò che
quell’inizio e questa conclusione riverberano sull’intero spazio racchiuso tra
le due parole, lo spazio occupato nella Repubblica dalla scrittura
dell’utopia: possiamo leggervi il disegno di un paradigma ideale che nasce dal
disagio a vivere secondo le regole (o l’assenza di regole) della città reale e
si sviluppa nella ricerca dei tratti di desiderabilità di una città che
funzioni secondo giustizia; fino a farne un modello perfettamente visibile, che
non ha la funzione consolatoria di una fantasia della mente, ma quella di
stimolo ad agire e di ricerca delle condizioni di efficacia dell’azione
politica. Chiamare ‘utopia’ la kallipolis non è una forzatura rispetto
al testo, che più volte problematizza l’assenza di esempi simili sul piano
dell’esistente e la scarsa probabilità che si dia l’occasione per realizzare
nei fatti quel che si enuncia a parole. Ma l’idea di un uso immediatamente
attivo del paradeigma conferma il significato progettuale e il valore
normativo che Platone attribuisce alla costruzione teorica, vietando di
considerare il suo modello un «pio voto (ευχή)», un ‘castello in aria’, un rifugio per sognatori. La lettura di Vegetti induce a
pensare che la funzione assegnata da Platone alla scrittura dell’utopia sia
piuttosto quella di consentire al soggetto che soffre per il disordine politico
esistente di espatriare, ma in una dimensione praticabile, pensando un altro
ordine come reale e possibile. La teoria, rendendo visibile il «paradigma in
cielo», aiuta a configurarlo e, in mancanza delle condizioni per un’azione efficace, a persistere in quel «diniego del
consenso» alla città esistente, che – scrive Vegetti – «è in ogni caso già un
atto politico».[8]
4. Il valore etico-pratico del Platone
politico
Oltre il distacco dell’interprete, c’era
dunque una consonanza profonda che metteva Vegetti in relazione empatica con
Platone, al di là e oltre ogni punto specifico di disaccordo con lui: la
fiducia nel valore politico della costruzione teorica, che non si misura sulla
possibilità immediata di tradursi in pratica, ma sulla capacità di agire al
livello della “grande politica”, pagando il prezzo della lunga attesa di
momenti opportuni. «Un viaggio di mille anni», diceva Vegetti in un discorso
del 2000, prendendo ancora una volta in prestito una formula platonica, quella
con cui Platone evoca una prospettiva oltremondana alla fine del libro X della Repubblica:
«e così sia qui sia nel cammino di mille anni di cui abbiamo discusso staremo
bene (eu prattomen)» (621d1-3). Con quel discorso, pronunciato alla Casa
della Cultura (e poi raccolto in volume con altri saggi in Vegetti 2007), Mario
prendeva atto della fine di ogni improbabile filosofia della storia e della
rinnovata difficoltà di immaginare forme di azione sul corso del mondo. Ma
concludeva con una singolare risposta alla domanda di sapore kantiano “Che cosa
possiamo sperare?”, e cioè prospettando un paradossale «ritorno all’etica»
nella forma di una pratica dell’utopia: «Intendo con questo la riapertura di un
discorso sulla giustizia, sui valori, sui fini; la decisione di tornare a
pronunciare parole come libertà, uguaglianza, fraternità, di chiedersi che cosa
può essere oggi la virtù – dopo quelle antiche e quelle giacobine – e quale il
suo rapporto con la felicità» (Vegetti 2007, p. 318). Il ‘lungo viaggio’ del
riferimento platonico «porterà forse alla città abitata dal senso e dal
valore», ma avrà bisogno «che qualcuno decida di intraprenderlo, costrettovi
magari dalla desolazione del presente, e questa stessa decisione costituisce
il principio della riconfigurazione di una soggettività progettuale vincolata,
e destinata, a quel viaggio. Se ciò è possibile, allora […] qualche embrione di
quella comunità millenaria dello “star bene” può essere già presso di noi»
(Vegetti 2007, p. 322).
Bibliografia: Annas J. (1997), Politics and Ethics
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platonici, Carocci, Roma 2018.
[1] Vegetti [2010] 2018, p. 61. Sul tema cfr anche Vegetti 2000 a e b,
Vegetti 2005 e la più ampia trattazione storica in Vegetti 2009.
[5] Vegetti 1998b dimostra che hanno la forma di un vero e proprio
teorema le stringenti argomentazioni costruite da Trasimaco a sostegno delle
sue tesi sulla giustizia.
[6] Cfr. Vegetti 2005, in CR vol. VI, libri VIII-IX, con particolare
riferimento al par. 5, Katoikizein, pp. 156-161.
[8] Vegetti 2000, p. 141, ora in Vegetti 2018, p. 160.
Alberto Maffi
Nato a Trento nel 1949, già docente di Diritto greco antico e Storia dei diritti dell’antichità presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Trieste, dal 1994 al 2016 ha insegnato Storia del diritto romano dapprima nel secondo corso di laurea della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano, poi nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano-Bicocca, presso la quale ha in seguito insegnato Istituzioni di diritto romano e Diritto greco. Ha partecipato a tutti i convegni internazionali (Symposia) di Storia del diritto greco ed ellenistico dal 1974 al 2017. È condirettore della rivista di storia del diritto greco “DIKE” e membro del Comitato di direzione della “Révue d’Histoire du droit français et étranger”. È membro del Collegium Politicum. Ha tenuto corsi presso l’Ecole de Hautes Etudes di Parigi, la Sorbonne e presso l’Università di Shangai. È autore di: «Studi di epigrafia giuridica greca», Milano 1983; «L’iscrizione di Ligdamis,» Trieste 1988; «Ricerche sul postliminium», Milano 1992; «Il diritto di famiglia nel Codice di Gortina», Milano 1998.
L’acceso confronto fra Trasimaco e Socrate nel I libro della Repubblica ha destato in più di un’occasione l’interesse di Mario Vegetti.[1] Vorrei qui ripartire in particolare dall’importante commento che egli ha dedicato alla figura dell’inquietante sofista nel Commento al I libro da lui curato nel 1998. Vegetti ritiene che Trasimaco esponga due tesi distinte. La prima, contrassegnata dalla sigla Ta, riduce to dikaion[2]all’utile del più forte (338 c). Nella seconda, identificata con la sigla Tb, Trasimaco sostiene che dikaiosyne e dikaion sono essenzialmente “un vantaggio per altri” (allotrion agathon), ribadendo che si tratta dell’utile di chi è più forte e (quindi) comanda, mentre si traducono in un danno (blabe) per chi obbedisce e serve. Di conseguenza l’ingiustizia (adikia) è propria di chi comanda a uomini che sono realmente ingenui e giusti, tanto che essi realizzano ciò che risulta vantaggioso per colui che è più forte e, ponendosi al suo servizio, lo rendono felice, ciò che non si può dire di loro stessi (343 b ss.).
La
tesi Ta viene sviluppata da Trasimaco attraverso ulteriori passaggi. Innanzi
tutto occorre tenere presente che esistono tre regimi politici principali: la
tirannide, la democrazia e l’oligarchia (che Trasimaco chiama aristocrazia)
(338 d). In ognuno di tali regimi c’è un elemento dominante, definito appunto to
archon. È attraverso le leggi che ciascuno di questi regimi rende noto agli
archomenoi[3]che
cosa devono considerare giusto, e che coincide con l’utile dei governanti:
coloro che non si adeguano saranno puniti come persone che violano la legge e
commettono un illecito (338 e). Il giusto è dunque ciò che è vantaggioso per l’arche
costituita che ha il potere. Per questo il giusto è in ogni regime ciò che
avvantaggia chi esercita il potere.
Vegetti
sostiene che la tesi Tb non può derivare logicamente dalla tesi Ta,
perché in base a quest’ultima il potere è eticamente neutro, né giusto né ingiusto,
mentre in base a Tb chi comanda è ingiusto. Infatti, proprio perché è più
forte, il detentore del potere finirà col cedere alla pleonexia, quindi
all’ingiustizia. Secondo Vegetti (1998 p. 250), si passa così dal livello
politico alla dimensione morale. E qui Trasimaco, ricorrendo ad argomentazioni
retoriche di stampo tipicamente sofistico, tenterà di rovesciare la valutazione
negativa, che attiene per definizione all’ingiustizia, in una valutazione
positiva.
In
un articolo relativamente recente Franco Trabattoni ha criticato
l’interpretazione di Vegetti in particolare per quanto riguarda la Ta.
Il punto di partenza è dato da Resp. 338 e: θέμεναι δὲ ἀπέφηναν τοῦτο δίκαιον
τοῖς ἀρχομένοις εἶναι, τὸ σφίσι συμφέρον, καὶ τὸν τούτου ἐκβαίνοντα κολάζουσιν ὡς παρανομοῦντά τε καὶ ἀδικοῦντα.
Le
traduzioni di questo brano sono relativamente concordi: le leggi, una volta
promulgate, hanno stabilito nei diversi regimi che è dikaion ciò che è
vantaggioso per i governanti; perciò puniscono chi non vi si attiene in quanto
infrange la legge e commette ingiustizia.[4]
Secondo Trabattoni la legge non determina la natura del giusto e dell’ingiusto,
come vorrebbe Vegetti, ma si incarica di rendere noto il principio secondo cui
il giusto è l’utile di chi comanda. Inoltre la legge esercita un ruolo
coercitivo, costringendo coloro che sono comandati a realizzare la “giustizia”
che essa ha rivelato loro, ossia l’utile dei governanti. Per qualificare la
legislazione nella definizione Ta non si può quindi parlare di
“Rechtspositivismus”, come fa invece Vegetti, perché i governanti non sono
liberi di definire come giusta qualunque cosa piaccia loro definire come tale.
La giustizia non è altro, e non può essere altro, che l’utile, cioè il
benessere, dei governanti. L’unico elemento variabile consiste dunque nel
numero dei beneficiari del comportamento “giusto” dei governati, numero che
varia appunto a seconda del tipo di regime. Se l’ho ben compresa, la critica di
Trabattoni su questo punto non mi sembra convincente. Intanto per rendere noto
che il giusto è l’utile di chi comanda non c’è bisogno di leggi: basta che i
governanti, essendo i più forti, dispongano di adeguati strumenti coercitivi
per assicurare l’osservanza dei loro ordini. In secondo luogo le leggi non sono
generalmente formulate in modo da rendere esplicito che le disposizioni in esse
contenute mirano ad assicurare l’utile dei governanti. Infine l’utile, o, se si
preferisce, il benessere dei governanti non corrispondono a realtà uniformi e
costanti: il benessere degli oligarchi è certo qualitativamente e
quantitativamente diverso da quello che perseguono i regimi democratici.
Quanto
alla tesi Tb, Trabattoni giunge alla conclusione che, se la giustizia è
definita come “il bene altrui”, gli unici che praticano la giustizia sono
appunto i governati, mentre i governanti, che realizzano il bene proprio,
praticano l’ingiustizia. Questa affermazione apodittica (che corrisponde in
effetti a quanto Trasimaco dichiara in 343 b-d) non risolve però l’incongruenza
fra Ta e Tb rilevata da Vegetti. Mi pare che ciò sia confermato
dal fatto che la discussione relativa a Ta, così come Socrate la
imposta, riguarda dapprima la nozione di utile (339 b-e), poi il significato da
attribuire a più forte (341b – 342e), non l’eventuale ingiustizia dei
governanti. Occorre tuttavia considerare che Trasimaco stesso, senza esservi
stato provocato da Socrate, introduce il riferimento all’ingiustizia dei
governanti in 343 c. Viene quindi fatto di pensare che anche in Ta fosse
per lui implicito che il conseguimento dell’utile del più forte realizza
comunque un’ingiustizia. Si tratta di un dato che a mio parere indebolisce la
tesi di Vegetti secondo cui vi sarebbe un’incompatibilità sostanziale fra Ta
e Tb. Ma nemmeno la riduzione ad una coerente unità delle
argomentazioni di Trasimaco, propugnata da Trabattoni, convince del tutto. A
mio parere, infatti, dal discorso di Trasimaco emerge una duplice considerazione
della giustizia. Non parlerei però di due definizioni di giustizia, quanto
piuttosto di due ambiti di applicazione della giustizia. Distinguerei cioè una
giustizia “politica”, che attiene all’archein, più precisamente alla
distribuzione del potere all’interno della cittadinanza, da una giustizia
“civile”,[5] che
attiene ai rapporti fra privati e ai rapporti fra privati e polis. La prima tesi di Trasimaco (Ta)
si riferisce alla giustizia “politica”, mentre la seconda tesi (Tb),
come mostra la lunga e accesa tirata di Trasimaco in 343 b – 344 c, si
riferisce alla giustizia “civile”. Le due definizioni si sovrappongono soltanto
nella figura del tiranno, che incarna il massimo di ingiustizia “politica” e di
ingiustizia “civile” (ten teleotaten adikian: 344a).
Provo
ora a motivare la distinzione tra le due forme di giustizia/ingiustizia.
Nell’illustrare la sua prima tesi, Trasimaco insiste sul fatto che ogni regime
politico emana una legislazione coerente con le caratteristiche che lo
contraddistinguono (338 d-e). Ma Socrate, nel replicare, non si sofferma su
questo aspetto squisitamente politico di Ta. Come ho anticipato, gli
argomenti che Socrate mette in campo per contrastare il suo interlocutore fanno
dapprima un generico riferimento ad archontes e archomenoi, dato
che a Socrate interessa infatti mettere in rilievo la contraddizione logica
derivante dall’ammissione di Trasimaco che gli archontes possono
sbagliare se e quando prescrivano ciò che non è loro utile (339 d). In una
seconda fase Socrate ricorre al paragone con il medico e il capitano della nave
per dimostrare che anche il governante persegue l’utile dei governati (342 c).
Ciò conduce quasi inevitabilmente a identificare gli archontes con i
governanti in senso stretto, ossia con la ristretta élite che ricopre le
magistrature supreme in qualsiasi tipo di regime. Tuttavia, se teniamo presente
che Trasimaco ha incluso anche l’oligarchia e la democrazia fra i regimi che
attuano una giustizia “politica”, dovrebbe risultare chiaro che, tanto nei regimi
oligarchici quanto, a maggior ragione, nei regimi democratici, gli archontes
non si identificano soltanto con i magistrati bensì includono l’intera
componente della cittadinanza che detiene il potere.[6]
Quanto alla giustizia “civile”, gli esempi con cui Trasimaco illustra Tb sono
riferiti appunto, da un lato, ai rapporti obbligatori di natura privata,[7] e,
dall’altro, ai rapporti con la città (en tois pros ten polin: 343 d): in
entrambi i casi si tratta quindi di situazioni e di comportamenti che prescindono
dalla natura del regime politico in cui si verificano.
Nell’esposizione
di Platone i due ambiti di applicazione della giustizia/ingiustizia, che
ritengo si possano identificare nel discorso di Trasimaco, tendono però a
confondersi e a sovrapporsi, perché, così come era accaduto per Ta,
anche con riferimento a Tb le argomentazioni di Socrate non entrano nel
merito dei contenuti esposti da Trasimaco. La Politica di Aristotele
consente forse di mettere meglio a fuoco sia le posizioni sostenute da Trasimaco
sia la critica che di esse svolge Platone. Infatti, benché Aristotele non citi
mai Trasimaco, ritengo che alcuni tratti distintivi della sua indagine sulle
costituzioni si possano considerare direttamente ispirati dal dibattito della Repubblica
fra Socrate e Trasimaco.[8]
Prima di tutto va osservato che per Aristotele ogni regime politico emana una
legislazione adeguata alle caratteristiche e allo scopo che lo
contraddistinguono. Non solo, ma Aristotele sottolinea che la solidità del
regime, riferendosi in particolare a oligarchia e democrazia, dipende
soprattutto dalla partecipazione attiva e consapevole alla cosa pubblica dei
cittadini di pieno diritto. Di qui la distinzione fra il buon cittadino, che
pensa e agisce in modo consono al regime in cui vive, e l’aner agathos che
conforma il suo agire ai dettami della giustizia intesa come virtù perfetta.[9]
Ora, per quanto riguarda le legislazioni, in uno dei suoi ultimi lavori[10]
Vegetti ha sottolineato che, per Aristotele, tutte le legislazioni vigenti nei
regimi attualmente esistenti devono essere considerate ingiuste (Arist. Pol.
1282 b 8-13) in quanto non perseguono il bene comune. Ciò implica che
favoriscano l’elemento dominante in perfetta corrispondenza con la prima tesi (Ta) di Trasimaco: dunque chi vuol essere
“buon cittadino” non può evitare di praticare l’ingiustizia “politica” nei
confronti di quella componente, libera e formalmente inclusa nella
cittadinanza, della popolazione che è esclusa, o si autoesclude, dalla gestione
del potere. Aristotele scioglie così l’ambiguità insita nelle nozioni di “più
forte” e di “chi comanda” che si riscontra nella discussione di Ta fra Socrate e Trasimaco. A mio parere
nel confronto fra Socrate e Trasimaco c’è anche un altro elemento che trova
riscontro nella Politica aristotelica.
A partire da 351c inizia una sezione della confutazione socratica in cui
Socrate ritorna alla dimensione politica chiedendo a Trasimaco: “Ti pare che
una città o un esercito o dei briganti o ladri […] che si propongano in comune
qualche impresa ingiusta, possano combinare qualcosa se si fanno ingiustizia
gli uni con gli altri?” (trad. Gabrieli). La risposta è negativa, perché, se
così fosse, ne nascerebbero odio, scontri e in definitiva la stasis, la
guerra civile (351 d). Di conseguenza ottiene (implicitamente) l’adesione di
Trasimaco all’affermazione che, quando gli ingiusti hanno intrapreso un’azione
comune, non possono aver praticato un’ingiustizia assoluta, ma hanno dovuto
trattenersi e accondiscendere reciprocamente a una certa dose di giustizia. Con
riferimento alla città, ciò si deve intendere riferito non solo ai rapporti fra
coloro che esercitano il potere, ma anche nei confronti di coloro che ne sono
esclusi, dato che, se così non fosse, non si potrebbe parlare di un’iniziativa
di una città. Aristotele riprenderà questo spunto platonico trasformandolo
nella proposta di accorgimenti di ingegneria costituzionale per evitare che un
regime (come sappiamo, di per sé ingiusto) accentui i suoi caratteri distintivi
fino a provocare una rottura insanabile al suo interno con conseguente rovina
del regime stesso (Pol. 1298b con particolare riferimento agli organi
deliberativi, su cui v. Maffi 2016).
Per
quanto riguarda la pratica della giustizia “civile”, questa discende dalla scelta
personale di ciascuno, la quale dipenderà a sua volta soprattutto dall’educazione
ricevuta.[11]
Normalmente, a proposito della Politica aristotelica, si contrappone la dimensione
politica del buon cittadino (buono – spoudaios – in quanto coerente nel
pensiero e nel comportamento con il regime di cui è parte attiva) alla
dimensione etica dell’uomo buono (aner
agathos). Ed è effettivamente riconducendo la discussione al piano etico
che Socrate controbatte Tb, ossia la seconda esternazione di Trasimaco (343b –
344c). Socrate contrappone infatti la giustizia intesa come virtù (arete)
all’ingiustizia intesa come vizio (kakia) (348c). Ma Trasimaco non
intende seguirlo per questa via: per giustizia intende euetheia (dabbenaggine),
e per ingiustizia intende euboulia (la capacità di prevedere e decidere
con intelligenza); ovvero, per esprimersi in italica Umgangssprache, contrappone i fessi ai furbi, arrivando ad
apprezzare in questa prospettiva, sia pure con un certo imbarazzo, anche i
tagliaborse, in quanto si dimostrino abbastanza furbi da non farsi scoprire
(348 c-d). Questo costringerà Socrate a “dimostrare” che l’uomo ingiusto è
anche ignorante (349e ss.). L’uomo buono aristotelico non è dunque soltanto
colui che pratica la virtù, ma anche colui che si astiene dal compiere azioni
malvagie secondo quanto già enunciato da Aristotele nell’Etica Nicomachea (EN
1129b 14-25).[12]
Quindi l’uomo “buono” si potrà trovare anche nei regimi deviati nei limiti in
cui il sistema educativo non baderà soltanto alla formazione di una mentalità
conforme al regime vigente (Pol.
1310a 12 ss.). Tuttavia la coincidenza tra le due figure sarà garantita solo
nella polis ideale teorizzata nei libri VII-VIII della Politica.
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M. Vegetti 20181, Antropologie della pleonexia. Callicle, Trasimaco e Glaucone in Platone, in Il potere della verità. Saggi platonici, Roma 2018
M. Vegetti 20182, I fondamenti del sapere politico. Aristotele contro Platone?, in “Teoria Politica” N.S. >/ Annali VIII, 2018, pp. 23-34.
[1] Mi
riferisco in particolare a Vegetti 1998 e 2018¹.
[2] Occorre
ricordare che l’aggettivo sostantivato può indicare tanto ciò che è giusto
quanto ciò che è conforme al diritto vigente.
[3] In
italiano è abituale tradurre archomenoi con sudditi – v. lo stesso
Vegetti, Commento, p. 240. Ora, è vero che in relazione ai governanti
più forti, coloro che sono tenuti a obbedire ai loro ordini sono definiti
inferiori o più deboli; ma, tenendo conto che fra i regimi presi in
considerazione da Trasimaco c’è anche la democrazia, caratterizzata per
definizione dall’alternanza dei cittadini nelle magistrature, mi pare meglio
tradurre “i governati”.
[4] Ho
volutamente evitato di tradurre dikaion, perché a mio parere qui
significa insieme giuridicamente vincolante e, di conseguenza, giusto: la
coesistenza dei due significati nel medesimo termine (v. n. 2) è confermata
dalla presenza dei due participi paranomounta e adikounta.
Aggiungo, ma è un punto che andrebbe naturalmente approfondito, che
verosimilmente Socrate non si riferisce solo al dettato di legge, ma anche alle
decisioni degli organi deliberativi e alle ordinanze dei magistrati: in questo
senso mi sembra deponga l’uso dei verbi prostatto e keleuo.
[5] Per
quanto riguarda la giustizia “politica” adopero questa qualifica in senso
diverso da Vegetti 2016, p. 192. Per quanto riguarda la giustizia “civile” non
mi riferisco ovviamente alla “giustizia civile” in senso tecnico, dato che,
valutando dal dal nostro punto di vista, Trasimaco si riferisce soprattutto
alla giustizia penale. Occorre tuttavia considerare che nella lista di
delinquenti, che troviamo in 344 b, compaiono anche gli aposteretai. A
mio parere questo termine è da mettere in relazione con il verbo aposterein,
che negli oratori designa l’inadempimento contrattuale.
[6] Ce
lo conferma il fatto che in particolare i magistrati di un regime democratico
non si possono certo definire “più forti” del resto dei cittadini, se non
nell’ambito delle competenze coercitive che la legge conferisce loro.
[7]Tois
pros allelous symbolaiois (343
d) viene in genere riferito nelle traduzioni a rapporti contrattuali. Ma symbolaion
va qui considerato un sinonimo di quei synallagmata che in EN 1131
includono le obbligazioni derivanti sia da atto lecito che da atto illecito.
[8] Sugli
echi del discorso di Trasimaco in Aristotele si veda De Luise 2015, pp. 52 ss.
[11] Si
vedano Vegetti 2016 cap. XII, e Gastaldi 2017.
[12] Vegetti 2018², p. 30-31, scorge una contraddizione fra il canone di giustizia come virtù, rappresentato dal nomos in EN 1129b 14-25, e l’attribuzione a tutti i regimi costituzionali esistenti di una legislazione ingiusta. Mi sembra, però, che proprio il confronto con le due prese di posizione di Trasimaco nella Repubblica (Ta e Tb) consenta di comprendere che le leggi qualificate “ingiuste” nella Politica non riguardano il comportamento quotidiano del cittadino nei suoi rapporti con i concittadini e con la città, ma riguardano le strutture costituzionali (ho tentato di dimostrare quest’opinione in Maffi 2018).
Fulvio Papi
Filosofo, politico, scrittore e giornalista italiano. È stato direttore del quotidiano del Partito socialista italiano Avanti!. Studia a Milano, a Stresa sul Lago Maggiore negli anni della seconda guerra mondiale, poi di nuovo all’Università di Milano fino alla laurea nel 1953. Politicamente attivo nella corrente lombardiana del PSI, segue un percorso che lo vedrà varcare le porte del Parlamento ed assumere la vice-direzione dell’Avanti!. Nel 1963, sospettando un aumento del tenore affaristico nella politica – così come lui stesso dichiara in un’intervista del 1989 – abbandona bruscamente tutto e si dedica all’insegnamento universitario che lascerà solo nel 2000. È insignito nello stesso anno del titolo di Professore Emerito dall’Università di Pavia e dell’Ambrogino d’oro. Nello stesso anno 2000 fonda inoltre la rivista di filosofia Oltrecorrente, che tuttora dirige. Con Mario Vegetti, Franco Alessio e Renato Fabietti, ha curato inoltre, per l’editore Zanichelli, il manuale di filosofia per i licei, in tre volumi, Filosofie e società.
E
sempre molto difficile trovare per un intellettuale di primo piano una
definizione che sia, almeno approssimativamente, adeguata. E questo accade pure
nel caso del mio carissimo amico perduto Mario Vegetti, ellenista di fama,
filosofo per una fine educazione intellettuale. Mario Vegetti avrebbe potuto
essere compreso alla luce dell’inattualità. Significato che non serve per
nostalgie di altre epoche costruite con una immaginazione perita, ma che vuole
indicare solo lo stile di uno studioso della cultura greca che ha saputo
ereditare le virtù fondamentali della modernità, abbandonando il superfluo, il
manierato, l’esibizionismo, il catastrofico, lo spettacolare, per valorizzare –
al contrario – il lavoro tenace e amato, la coerenza morale della propria vita,
il necessario riserbo critico della ricerca, i risultati storici controllati
con un metodo in via continua di perfezionamento: una figura pubblica costruita
su questo sfondo. Né va trascurata la sua sensibilità etica per le sorti collettive
e sociali che furono di un comunismo privo di compromessi, sino a una razionale
saggezza che era il modo per rispondere alle trasformazioni del mondo che
invitano a complesse dimensioni analitiche della conoscenza e a una figura
completamente trasformata della soggettività nella sua capacità potenziale.
Naturalmente
ci sono eccezioni, e anche pregi e ricerche che hanno trovato il loro spazio,
ma il mondo culturale della contemporaneità, nei suoi effetti più rilevanti,
sembra divaricato tra un uno specialissimo puntiglioso fine a se stesso – che
quindi studia i fenomeni della cultura come fossero raccolte di minerali – e,
al contrario, un costume dominante che desidera proseguire solo l’effetto del
consenso, il battimani pubblico con i vantaggi che ottiene l’abilità dello
spettacolo. “Taglia e incolla”, ho letto in una importante rivista. Le culture
hanno sempre avuto i loro luoghi dominanti, i poteri conformisti, le loro
pratiche condivise. Ci vuol poco a immaginare che cosa accade in uno spazio dominato
dal mercato e dalla comunicazione di superficie. Si diffonde una innocente
corruzione.
Mario
appartiene, all’opposto, a quelle virtù della modernità che sono il rigore nel
proprio lavoro, il desiderio che esso sia comparato a un “meglio possibile”, a
un amore e a una dedizione a questi compiti, a una presenza sociale laddove
questo stile veniva apprezzato per i suoi risultati, e l’autore era un
personaggio pubblico stimato per quanto aveva saputo dare di se stesso.
Sembrano banalità, ma – al contrario – segnano uno spazio positivo che ha
salvato se stesso dalle tragedie, dai conflitti, le violenze, le imposture, i
ludi del Novecento e della sua crisi. Sapere conservare questo spazio nel mondo
attuale richiede una scelta di sé che diviene una spontanea e quasi
inconsapevole virtù. Mario era fatto proprio così, e la sua frequentazione era
un’offerta di senso che doveva avere qualcosa di simile…
Il
soggiorno al mare era la forma di riposo amata nel suo semplice privilegio,
come per Banfi, Cantoni, Paci, Fornari, Sereni, Fortini e (si parva…) io
stesso. Mario era un poco più moderno e voleva vivere il mare con una
condivisione più intensa. Si era comperato una barca che non ho mai visto, ma
che mi è stata presentata all’Università in un modo sconcertante. Mario mi
disse: «D’ora in poi chiamami ammiraglio».
La
sua filosofia nasceva certamente in un ambito razionalista. Non l’ho mai
sentito discutere il mondo greco “alla Nietzsche” e secondo i suoi non
entusiasmanti epigoni toccati dall’onda verbale di Heidegger. La sua tesi su
Tucidide voleva mostrare, tra l’altro, il processo di razionalizzazione della
narrativa storica greca. Questa misura razionalistica non lo lasciò mai,
comunque fu il modo sapiente attraverso cui Mario ampliò e perfezionò con
successo il suo stesso comprendere storico attraverso i nuovi strumenti che
nascevano nella cultura contemporanea: la complessa riflessione sul linguaggio,
il patrimonio semiologico, una sociologia capace di ascoltare il timbro vivente
dei suoi oggetti, una trasformazione della ricerca storica molto meno
“categorizzante” e sempre più prossima alle forme, alle istituzioni, alle
consuetudini, agli stili della vita quotidiana, alla distribuzione sociale dei
poteri, alla diffusione delle credenze. Era da questo panorama complesso che
prendeva esistenza e forma la parola filosofica.
Ho
sempre pensato quanto fosse difficile lavorare storicamente su un testo facendo
centro su tutte queste prospettive. Ne derivava un tessuto obiettivo e vivente,
quel tessuto che, in luoghi diversi, mantiene sempre la sua figura di senso ed
evita quelle interpretazioni che fanno solo una storia delle idee e non della
soggettività vivente che rende possibile trasferire il discorso in uno spazio
ideale, anch’esso vittima inevitabile del tempo, anche se, attraverso il tempo
stesso, poteva far giungere la sua voce, simile in questo alla trasformazione
dei miti.
È
molto facile, sulla scorta di indiscutibili classici (Hegel, Husserl, se non
sbaglio Russell)
sostenere che Platone segna la nascita della filosofia, ma più arduo compito è
indagare come nasce, attraverso
quali processi, quali domande, quali personaggi, attraverso quali saperi –
dalla matematica alla medicina – quali eredità, quali fini, quali conseguenze
“scolastiche”, quali appropriazioni o dispute politiche. Nel complesso una
pluralità di “sentieri” da percorrere e da coordinare. E questo era il pregio
dello straordinario libro di Mario di saggi platonici al termine della cui
lettura veniva spontaneo pensare che la filosofia fosse la modalità
intellettuale che sapeva discorrere su una pluralità di esperienze di una
cultura ampia, complessa, anche professionalizzata secondo un proposito di
verità – non la verità, ma al fine della verità.
Eppure,
come un’abitudine un poco perversa ma difficilmente ignorabile, anche quella
sera alla Casa della Cultura, quando
si discuteva il libro di Mario, risorse la domanda: ma quale è la filosofia di
Platone? Come se esistesse il rapporto tra un oggetto e una mente con un suo
nome. Quando toccò a me rispondere feci il nome di Natorp quale interprete più
attendibile. Mario mi rispose con un sorriso che voleva dire: «che altro ci si
poteva aspettare da te che in fondo non hai mai abbandonato il neo-kantismo di
Banfi». Certamente parlavo più della filosofia contemporanea che di Platone.
La
lettura della Repubblica nell’edizione critica di Mario con la sua
scuola, era, detta in breve, una lezione sui “come” si debbano leggere le opere
di filosofia, ciascuna nella sua differenza. E quindi la Repubblica come
un testo dove appaiono dottrine, personaggi, stilemi letterari, momenti
narrativi, professioni, pregiudizi, potenze e tant’altro. Per non pochi è un
avvertimento contro l’effimera felicità della generalizzazione.
Sul demos – spregevole per Platone – non c’è
molto da discutere, ma sulla impresa costruttiva della polis, ordinata
secondo una costituzione che impedisce il conflitti interni, c’è sempre il
solido e motivato giudizio dell’utopia. Ebbene, Mario ci portava a leggere con
attenzione per comprendere che Platone voleva dire che “per ora” il suo
progetto non era attuabile, ma forse un tempo… Devo dire che se il “forse” è
molto problematico: non provo una grande simpatia per autori come Popper (Mill
è un’altra cosa) che oppongono la libertà individuale delle democrazie allo
statalismo del filosofo greco. Mario non amava la democrazia liberale. E
anch’io, visto dove è finita la democrazia alla prova di un capitalismo
mondiale e della formazione di élite politiche impresentabili, ne apprezzo solo
il fatto che il privato si può difendere sia dal mercato che dalla
comunicazione. Fino a quando? A che prezzo? Qui si apre una voragine che Mario
aveva valutato positivamente in un mio breve e lontano studio. Preferisco
concludere dicendo che “il Vegetti” con la sua edizione della Repubblica ci
ha regalato una dei più preziosi gioielli della nostra biblioteca.
Mario
era comunista, com’era probabilmente suo destino poiché proveniva da una
famiglia nella quale il padre, negli anni Venti, fu uno dei primi militanti del
nuovo partito della sinistra, il fratello un valoroso partigiano, la sorella
(che Franco Fergnani mi presentò nel ‘50-‘51) godeva già di un prestigio
personale nel partito. A me, all’origine del nostro sempre felice rapporto, il
suo stile militante richiamava più il radicalismo bordighiano dei primi anni
Venti, piuttosto che la riflessione gramsciana che apprendevamo dalla prima e
scorretta (come sappiamo tutti) edizione di Einaudi. Ma di questi problemi in
realtà non ne abbiamo parlato mai. Forse la politica quotidiana copriva il
tessuto della vita. Mario sapeva della mia appartenenza socialista, anche se
non è mai stato attento alla sconfitta che nel ‘64 avevamo subito noi del
gruppo dei “riformisti rivoluzionari”, come qualcuno poi ci chiamò. Fummo
sconfitti da una potente coalizione (politici, potere industriale, apparati
dello Stato), ma certamente ne esageravo le proporzioni, e sono certo che già
da allora il PCI non vi diede gran peso nella sua visione storica.
Il
comunismo di Mario era una fede rigorosa, militante e identitaria, e ogni tanto
mi regalava qualche battuta ironica, ma priva di qualsiasi animosità. In realtà
della condizione storica della nostra sinistra non parlavamo mai. Il perché
forse porterebbe lontano; vale di più dire che tra di noi c’era un silenzio
sotterraneo che comunque sottintendeva un “insieme”. Così avvenne al tempo
della contestazione studentesca, anche se Mario era molto più esposto, con una
positiva partecipazione politica che l’aveva allontanato dalla posizione del
PCI per assumere le posizioni più rigorosamente marxiste dei “radiati” del
Manifesto.
Fu
una linea e una elaborazione politica che segnò una considerazione della
“verità” marxista per molti anni. A me ora quell’esperienza fa venire in mente
lo stile del primo «Ordine nuovo», quello torinese del 1919: una rinascita.
Nella contestazione fummo insieme soprattutto per mantenere la conflittualità
nell’interno dell’Università senza interventi autoritari o polizieschi, contro
qualche imbecille che avrebbe desiderato applicando le “leggi vigenti” come se
non si trattasse di una complesso fenomeno sociale, ma di un episodio di comune
delinquenza. Tra noi c’era qualche differenza strategica, Mario più radicale,
io molto più prudente. Il fatto era che “il Vegetti” ci metteva l’animo di un
comunista rivolto alla speranza, io quella di un riformista sconfitto che
rifletteva sulle ragioni della disfatta. Altri tempi, altre passioni.
Quale qualità d’anni passò da allora ad adesso (quasi mezzo secolo!) in qualche modo è noto. Mario però la sua partita con il senso della vita la vinse del tutto. Ampliando la sua ricerca, con lo stile che ha cercato di ricordare, divenne un maestro della cultura ellenistica che varcava le nostre frontiere: era il suo modo di mantenere la sua intransigente virtù dell’inattuale. Non ho mai sentito un suo discorso che varcasse quella soglia: “plebeo” era un aggettivo suo che segnava un altro confine, dove trionfavano gli eccessi ludici, le falsificazioni culturali i narcisismi sfrenati, gli individualismi ottusi. Personalmente era l’interlocutore cui forse tenevo di più, proprio perché sapevo che avrebbe condiviso il mio fare filosofico, anche se molto meno i soggetti della “crisi” con i quali dialogavo. Sarà così. Ma per il tempo che resta Mario è rimasto con me, con noi. «Non essere noioso, Fulvio».
Michelangelo Bovero
Michelangelo Bovero (1949) è Professore ordinario di Filosofia politica all’Università di Torino. Nel suo itinerario scientifico ha coniugato lo studio dei classici antichi e moderni con l’analisi delle teorie e dei problemi politici contemporanei, dedicandosi in particolare ai temi della democrazia e dei diritti fondamentali. È direttore della rivista internazionale «Teoria politica» e della «Scuola per la buona politica» di Torino. È membro del Comitato scientifico della rivista «Ragion pratica». Dal 1981 ha guidato numerosi gruppi e programmi di ricerca nazionali e internazionali nel campo della teoria politica. Tiene periodicamente conferenze, seminari e cicli di lezioni presso numerose Università e Istituzioni culturali in Europa e in America. È autore di oltre 300 pubblicazioni scientifiche.
Ho conosciuto Mario Vegetti
piuttosto tardi: una ventina d’anni fa, nel 1997. Ci eravamo già incrociati più
volte anni prima, in occasione di alcuni seminari in Fondazione Feltrinelli,
alla metà degli anni Settanta. Ma il vero e proprio incontro avvenne a Torino,
nell’ambito di un’iniziativa organizzata dall’Unione culturale Franco
Antonicelli – istituzione “cugina”, o forse gemella, della Casa
della cultura milanese. Si trattava di un ciclo di incontri originale e un
po’ stravagante, intitolato «Vino, poesia e virtù».
Ho ritrovato la locandina, anch’essa piuttosto originale. Per
illustrare l’iniziativa, gli organizzatori prendevano spunto da un breve
“poemetto in prosa” – così lo definivano – di Charles Baudelaire, intitolato Ubriacatevi.
Ecco il testo riprodotto sulla locandina:
«Bisogna sempre
essere ebbri. Ecco tutto: è l’unica questione. Per non sentire l’orribile
fardello del tempo che spezza le vostre spalle e vi piega verso terra, dovete
ubriacarvi senza tregua. Di che? Di vino, di poesia, di virtù, a vostro
piacimento. Ma ubriacatevi. E se talvolta, sui gradini di un palazzo, sull’erba
verde di un fossato, nella cupa solitudine della vostra camera, vi risvegliate,
essendo già l’ebbrezza scomparsa o diminuita, chiedete al vento, all’onda, alla
stella, all’uccello, all’orologio, a tutto ciò che fugge, a tutto ciò che geme,
a tutto ciò che rotola, a tutto ciò che canta, a tutto ciò che parla, chiedete
che ora è; e il vento, l’onda, la stella, l’uccello, l’orologio vi risponderanno:
“È l’ora di ubriacarsi!”. Per non essere schiavi martirizzati del tempo,
ubriacatevi senza posa! Di vino, di poesia o di virtù, a vostro piacimento».
A ragionare – sobriamente
– di virtù, anzi, della regina delle virtù, la giustizia, fummo invitati, in
coppia, Mario Vegetti ed io (ma ho sempre avuto il sospetto che chi aveva avuto
l’idea di invitare me a questo ciclo avesse pensato non alla mia identità
filosofica, bensì a quella etilica). Ci mettemmo d’accordo: Mario avrebbe
parlato di Platone, l’amicus Plato, in particolare sarebbe partito dalla
ricostruzione del discorso di Trasimaco nel primo libro della Repubblica;
io avrei parlato di Aristotele, del quinto libro dell’Etica Nicomachea.
C’era un folto pubblico, richiamato dalla presenza di Vegetti. Molti, credo, si
aspettavano un confronto tra l’antico e il moderno, anzi il contemporaneo: tra
l’antichista, amico di Platone, e il filosofo politico che, in quanto tale, si
dava per scontato (allora) fosse amico di Rawls, sintonizzato con la cosiddetta
“filosofia della giustizia” rawlsiana e post-rawlsiana. E invece no, chi aveva
queste aspettative rimase deluso. Come diceva Bobbio – e io ripetevo spesso, in
tutte le occasioni – «non siamo nati ieri». La filosofia politica non è nata
nel 1971, anno di uscita della Theory of Justice di John Rawls. Se si
vuole un dialogo fecondo e pertinente, è opportuno mettere a confronto Platone
con Aristotele, che rispondono alla provocazione di Trasimaco in due modi
differenti.
Fu così che in
quell’incontro del 1997, Vegetti si dedicò a chiarire le due tesi-definizioni
di giustizia (meglio: di “giusto”, to dikaion) sostenute da Trasimaco
nel contraddittorio con Socrate: la prima, che dikaion-“giusto” sia to
tou kreittonos sympheron, “l’utile del più forte”; la seconda, che sia allotrion
agathon, “bene altrui”. Mise in luce la debolezza delle prime risposte di
Socrate, ma sottolineò l’efficacia dell’ultima, secondo cui anche una banda di
malfattori ha bisogno al proprio interno di giustizia, la quale pertanto non si
risolve semplicemente nell’utile del più forte; e fece infine osservare che
stranamente questo argomento non viene più ripreso in modo esplicito nello
sviluppo del dialogo.
Per parte mia,
proposi un’interpretazione del quinto della Nicomachea secondo cui
Aristotele non respinge le tesi di Trasimaco come tali, anzi le accoglie
entrambe, valorizzando soprattutto la seconda, ma nega la necessità delle
implicazioni che Trasimaco ne trae: per Aristotele non è vero che l’utile della
kathestekuia arche, del potere costituito, implichi necessariamente il
danno dei subordinati, degli archomenoi; e non è vero che il bene
altrui, in cui si risolve la giustizia, implichi necessariamente il male del
giusto, di chi agisce secondo giustizia. Ne seguì una vivace discussione.
Durante la quale, incorsi in una excusatio non petita. Rivolgendomi al
pubblico, dissi: «Tenete sempre presente e abbiate ben chiaro che l’antichista
“vero” è Mario Vegetti. Nella lettura dei classici antichi io sono solo un
dilettante, un amateur, che dunque rischia spesso di dire sciocchezze
per carenza di paideia adeguata; ma che ha tuttavia imparato dal suo
maestro, Norberto Bobbio, a ragionare di politica, a “pensare la politica”,
partendo dalla riflessione sul pensiero dei classici, antichi e moderni».
La mia
frequentazione di Mario Vegetti, il dialogo con Vegetti nei vent’anni
successivi è stato per me un formidabile aiuto a pensare la politica. Una volta
glielo dissi, gli dissi proprio così: tu mi fai sempre pensare. Cerco di
spiegare ciò che intendo. Nell’analisi, nell’interpretazione e nel commento dei
classici, dell’amicus Plato e degli altri grandi (o meno grandi)
scrittori antichi, Mario Vegetti è sempre rigorosissimo, ligio a canoni
puntigliosi di acribia storica e filologica. Non indulge mai a facili
attualizzazioni del discorso degli antichi. Tuttavia, il modo in cui li fa
rivivere, ricostruendo e restituendo il senso dei loro testi, mette di fronte
al lettore (e all’ascoltatore) veri e propri paradigmi di pensiero,
argomenti e argomentazioni che appaiono subito esemplari: quasi modi della
ragione, che contengono in nuce la possibilità di ripresentarsi
sotto altre forme in altri mondi possibili, oltre al mondo reale nel quale sono
nati.
Qualche tempo dopo
quel nostro primo incontro-dialogo, invitai Vegetti a tenere una lezione nel
mio corso di Filosofia politica, dedicato quell’anno ai problemi della
democrazia. Mario presentò, anzi fece rivivere la critica platonica della
democrazia nell’VIII libro della Repubblica. Senza alcun cenno di
attualizzazione. Non ce n’era bisogno, per rendersi conto della fecondità
dell’analisi di Platone, dell’efficacia dei suoi quadri concettuali – per
l’appunto – paradigmatici.
In un’occasione
successiva ci ritrovammo invitati, un’altra volta in coppia, al “festival
Filosofia” di Modena, intitolato in quell’edizione al tema della “comunità”.
Vegetti offrì una ricostruzione del rapporto nella teoria platonica tra l’anima
individuale e il collettivo politico, la città, e tra i tipi antropologici di
cittadini e le forme di politeia. Prendendo la parola dopo di lui, io
presentai una ridefinizione del concetto di democrazia, delle sue condizioni in
senso logico, ossia le condizioni di libertà ed eguaglianza alle quali ha senso
riconoscere un regime come democratico, e delle sue condizioni in senso
clinico, cioè delle degenerazioni attuali della democrazia (eravamo nel 2008).
La simmetria tra le due relazioni – non voluta, non cercata, non prestabilita –
risultò a tutti evidente e fu feconda per una discussione unitaria.
Nei giorni
successivi, mi misi a pensare alla relazione che avrei dovuto presentare di lì
a poco alla “Feria del libro” di Guadalajara (dove poi, mi piace qui
ricordarlo, incontrai inopinatamente Eva Cantarella). Rilessi gli appunti che
avevo preso alla lezione modenese di Vegetti. Il paradigma della simmetria tra
l’anima e la città mi suggerì e mi stimolò a costruire una fenomenologia delle
specie di cittadino nella democrazia degenerata. Decisi di intitolare la mia
relazione – era uscito da non molto il film di Almodovar — La mala educación
del ciudadano. Ne Il futuro della democrazia Bobbio aveva indicato
nel «cittadino non educato» l’esito della sesta promessa non mantenuta della
democrazia, e ne aveva identificate due specie, il cittadino apatico e il
cittadino cliente. Le figure del «cittadino maleducato» dei nostri tempi sono
peggiori e più numerose, anzi continuano a crescere e a peggiorare. La prima
delle sei o sette che provai a delineare dieci anni fa, dopo aver recuperato e
rimeditato quegli appunti modenesi, aveva un netto sapore platonico: il
cittadino sfrontato e protervo, che si compiace di chiamare libertà la
trasgressione delle regole della convivenza civile. Raccontai a Mario che
l’idea mi era venuta proprio ripensando alla sua lezione modenese. Ecco quel
che intendo per “pensare la politica con Mario Vegetti”.
Negli ultimi sette
o otto anni, gli incontri con Vegetti si sono moltiplicati, diventando anzi una
consuetudine di frequentazione, grazie a un’iniziativa che abbiamo promosso
insieme Fulvia de Luise ed io: una serie di seminari alternati, a Trento e a
Torino, che abbiamo concepito come un confronto e un dialogo tra studiosi del
pensiero antico, prevalentemente di scuola vegettiana, e filosofi politici,
prevalentemente di scuola bobbiana, preoccupati con i problemi del presente e
orientati ad affrontarli anche attraverso la lezione dei classici.
L’ultimo di questi
incontri avvenne a Torino, nel maggio del 2017. Fu dedicato ai principi e
fondamenti del sapere politico in Aristotele; fu pensato anche come
un’occasione per promuovere l’edizione Bertelli-Moggi della Politica,
tuttora in corso di completamento. Le relazioni sono state pubblicate nella
prima sezione del volume VIII, 2018 della nostra rivista torinese, Teoria
politica. Mario Vegetti non ha potuto vederlo. Permettetemi di concludere
riprendendo una pagina del mio editoriale a questo volume: La prima sezione,
intitolata Aristotele. I fondamenti della politica, trae origine dal
seminario svoltosi a Torino nei giorni 11 e 12 maggio del 2017, nel quale
alcuni studiosi della cultura classica hanno aperto un confronto con filosofi
non specialisti del mondo antico intorno alla natura della politica, del
potere, della costituzione, della cittadinanza, della democrazia, a partire dal
pensiero di Aristotele e in particolare dal libro III della Politica. Il
confronto fu avviato da Mario Vegetti, con un’analisi di amplissimo orizzonte e
lucida profondità sulla concezione aristotelica dei fondamenti del sapere
politico, nella sua tensione con la concezione platonica. Mesi avanti, Vegetti
aveva accolto l’invito ad aprire il seminario con qualche preoccupazione ma
senza esitazioni: la proposta del tema lo aveva convinto. Durante l’incontro,
in un momento conviviale, mi disse sottovoce che era molto contento di essere
giunto all’appuntamento torinese con la nostra piccola comunità di dialogo.
Animò il dibattito dopo ogni relazione. Fece commenti e osservazioni puntuali
ad Alberto Maffi, impegnato a dipanare le intricate argomentazioni di Aristotele
su politeia, politeuma e legislazione; a Silvia Gastaldi, che
affrontava il tema del kyrion, centrale nel libro III; a Lucio Bertelli,
che si dedicava a ricostruire il complesso pensiero aristotelico sulla
democrazia; a Fulvia de Luise, che riesaminava, con tesi da lui giudicate
«innovative», il controverso problema del rapporto tra uomo buono e buon
cittadino; alle dotte divagazioni di Giuseppe Farinetti su virtù, felicità e
politica; alla teoria «funzionale» della cittadinanza formulata da Patricia
Mindus ripartendo dal pensiero di Aristotele; a José Luis Martí, che
ricostruiva la fortuna moderna della tesi aristotelica secondo cui i molti
giudicano e decidono meglio dei pochi o di uno solo; alle proposte avanzate da
Bovero di ritraduzione e ridefinizione dei termini fondamentali del logos aristotelico
che condividono la radice poli-. Quando giunse il momento di trasformare
le relazioni negli articoli che ora compongono questa sezione del volume,
Alberto Maffi ebbe il merito aggiuntivo di sollecitare gli altri studiosi, in
particolare gli specialisti di Aristotele, ad un confronto epistolare sulle
rispettive tesi interpretative, sui problemi incontrati, sui dubbi persistenti.
In questo dialogo aneu phonés, ripreso e rinnovato dopo l’incontro
torinese, sono certo che ciascuno ha riascoltato l’eco silenziosa della voce di
Vegetti, è tornato a discutere con lui. Ma non solo questi studiosi, tutti i
partecipanti al seminario ed ora i lettori di questo volume potranno continuare
a fruire del suo insegnamento attraverso il testo che Vegetti ha inviato a Teoria
politica nell’autunno scorso, dopo una prima revisione della sua relazione.
Mario Vegetti verrà ancora a trovarci spesso nei nostri pensieri, rimarrà tra
le voci e le luci più chiare del nostro mondo interiore. Caro Mario, a te
dedichiamo questi nostri modesti lavori.
Valentina Pazé
Valentina Pazé è Professore associato di Filosofia politica all’Università di Torino, dove è titolare dei corsi di Filosofia politica e Teorie dei diritti umani. Tra i suoi interessi di ricerca ci sono le teorie dei diritti e della democrazia, antiche e moderne, il contrattualismo, il populismo. Tra le sue pubblicazioni: Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea (Laterza 2002), Comunitarismo (Laterza 2004), In nome del popolo. Il problema democratico (Laterza 2011), Cittadini senza politica. Politica senza cittadini (EGA 2016).
1. Ringrazio gli organizzatori per avermi invitato a prendere la parola in una
giornata così speciale, e confesso di sentirmi un po’ a disagio di fronte ai
relatori che mi affiancano, tutti illustri antichisti, nonché facenti parte del
cerchio stretto degli amici e allievi di Mario Vegetti. Se mi trovo qui,
insieme a Michelangelo Bovero, è tuttavia perché anche noi, filosofi politici
cresciuti alla scuola di Bobbio, ci sentiamo un po’ allievi di Mario Vegetti, e
suoi compagni di strada. Le occasioni di incontro e di confronto tra la “scuola
di Torino” di filosofia politica e la “scuola di Pavia” di filosofia antica, in
questi anni, sono state frequenti. L’ultima è un memorabile seminario su Aristotele.
I fondamenti della politica, organizzato a Torino dalla rivista “Teoria
politica”, che si è aperto per l’appunto con una relazione di Vegetti (Vegetti
2018). Ma bisogna ancora ricordare, per lo meno, i tre incontri organizzati a
Trento da Fulvia de Luise sui paradigmi del pensiero politico (2011), le figure
del potere nel mondo antico (2014), i criteri di legittimazione politica
(2015), oltre al seminario internazionale Nomothetes, kybernetes, dikastes.
Tre figure del potere, svoltosi a Torino nel novembre 2013, i cui atti sono
stati pubblicati sulle pagine di “Teoria politica”.
Scendendo su un
terreno più personale, ricordo con emozione il mio primo incontro de visu con
Mario Vegetti, che risale al 2005, quando tenne una lezione sull’VIII libro
della Repubblica all’interno del corso di Filosofia politica di Michelangelo
Bovero. Una lezione, come sempre, di esemplare chiarezza e acume, che mi spinse
a correre in libreria a prenotare i volumi del commento Bibliopolis che ancora
mi mancavano, da quel momento divenuti punto di riferimento ineludibile nel mio
rapporto con la Repubblica. Inutile aggiungere che anche la riflessione
che sto per proporvi – sul tema della schiavitù in Platone – si è ampiamente
nutrita della frequentazione dei testi di Mario Vegetti.
2. “Esiste la schiavitù nella Repubblica di Platone?”La domanda non è nuova. Se la poneva Gregory Vlastos in un articolo pubblicato nel 1968, che per decenni ha fatto testo sul tema (Vlastos 1968). La risposta di Vlastos era positiva. Al di là di alcuni indizi testuali che farebbero pensare alla presenza di schiavi nelle strade della kallipolis, a indurre a questa conclusione era una considerazione di carattere generale. Se Platone avesse inteso sfidare un’istituzione radicata nel suo tempo come la schiavitù, ed espellerla dalla sua città giusta, avrebbe argomentato in modo esplicito contro di essa. L’abolizione della schiavitù sarebbe stata una novità non meno “inaudita” e scandalosa dell’accesso delle donne a ruoli di comando, o dell’abolizione della famiglia. Ma non c’è alcuna critica esplicita della schiavitù da parte del Socrate platonico, che si limita a deplorare l’eventualità che i greci riducano in schiavitù altri greci, anziché i barbari (469b). Su questo tema, Platone sembra essere in linea con la tradizione largamente maggioritaria tra gli utopisti antichi, più disposti ad abolire proprietà privata e matrimonio che a mettere in discussione la schiavitù (Bertelli 1985). Il suo silenzio nella Repubblica andrebbe interpretato come accettazione di una pratica talmente scontata da rendere quasi superfluo nominarla. 2. “Esiste la schiavitù nella Repubblica di Platone?” La domanda non è nuova. Se la poneva Gregory Vlastos in un articolo pubblicato nel 1968, che per decenni ha fatto testo sul tema (Vlastos 1968). La risposta di Vlastos era positiva. Al di là di alcuni indizi testuali che farebbero pensare alla presenza di schiavi nelle strade della kallipolis, a indurre a questa conclusione era una considerazione di carattere generale. Se Platone avesse inteso sfidare un’istituzione radicata nel suo tempo come la schiavitù, ed espellerla dalla sua città giusta, avrebbe argomentato in modo esplicito contro di essa. L’abolizione della schiavitù sarebbe stata una novità non meno “inaudita” e scandalosa dell’accesso delle donne a ruoli di comando, o dell’abolizione della famiglia. Ma non c’è alcuna critica esplicita della schiavitù da parte del Socrate platonico, che si limita a deplorare l’eventualità che i greci riducano in schiavitù altri greci, anziché i barbari (469b). Su questo tema, Platone sembra essere in linea con la tradizione largamente maggioritaria tra gli utopisti antichi, più disposti ad abolire proprietà privata e matrimonio che a mettere in discussione la schiavitù (Bertelli 1985). Il suo silenzio nella Repubblica andrebbe interpretato come accettazione di una pratica talmente scontata da rendere quasi superfluo nominarla.
È vero, tuttavia, che questo silenzio potrebbe essere
inteso anche in altro modo. Potrebbe essere considerato un sintomo della
marginalità della schiavitù nell’architettura della kallipolis, della
sua “inutilità”. In effetti, il lettore fa fatica ad accorgersi della presenza
di schiavi nella città giusta disegnata da Platone: tutto sembra funzionare
bene anche senza di loro. Da questa prospettiva, la questione della presenza o
meno della schiavitù nella kallipolis risulta non scontata, e degna di
qualche approfondimento. Provo qui a ricapitolare i termini della questione,
formulando quattro ipotesi. La prima ipotesi è che gli schiavi, nella Repubblica,
coincidano con i membri del terzo ceto, dediti ai lavori manuali e al commercio.
A rendere non del tutto peregrina questa soluzione c’è, nel nono libro della Repubblica,
il ricorso al termine douleia per descrivere lo stato di soggezione dei
lavoratori manuali.[1]
Si potrebbe tuttavia pensare a un uso metaforico della parola, cui Platone
ricorre per alludere a una condizione di subordinazione politica dei “peggiori”
nei confronti dei “migliori”. A una sorta di “servitù volontaria”, resa
accettabile dalla “nobile menzogna”, oltre che da una certa dose di coercizione.
Di certo, la condizione dei membri del terzo ceto appare lontana da quella
dello schiavo dell’Atene del V-IV secolo, di cui il padrone poteva disporre a
suo piacimento. Inoltre, a parte il fatto che Platone dice espressamente che i
produttori sono pagati per il loro lavoro (433d), non si vede chi potrebbero essere
i loro padroni, dal momento che famiglia e proprietà privata sono state abolite
per i phylakes, che si sono così liberati della fastidiosa incombenza di
occuparsi di “donne e domestici”.[2]
Si potrebbe, al più, descrivere la condizione dei produttori come quella di
“schiavi pubblici”, figura non ignota al tempo. Ma altri elementi non tornano.
Lo schiavo storico era, per definizione, un “senza famiglia” (Finley 1985 :
97), mentre i membri del terzo ceto sono, nella Repubblica, gli unici a
mantenere i legami familiari. Insomma, per quanto in posizione subordinata, i
produttori sembrano essere a tutti gli effetti parte della polis. Uomini
liberi, i cui figli, in linea di principio, se dotati di qualità eminenti,
potrebbero addirittura venire cooptati in uno dei primi due gruppi. La seconda
ipotesi, più convincente, è quella formulata a suo tempo da Vlastos: i membri
del terzo ceto non sono schiavi, ma sono proprietari di schiavi. Sono anzi gli
unici a poterne possedere data l’interdizione che colpisce il ceto dirigente.
Anche questa ipotesi incontra tuttavia qualche difficoltà. Quella più
significativa ha a che fare con la giustificazione della schiavitù fornita da
Platone nel Liside. Una giustificazione “paternalista”, che assimila lo
schiavo a un bambino, non dotato in modo sufficiente di razionalità, e dunque
bisognoso di essere guidato dal logos del padrone (Vegetti 2017 :
28-29). Ora, il problema è che nella kallipolis i membri del terzo ceto
si caratterizzano, a loro volta, per la carenza dell’elemento razionale – il logistikon
– che risulta subordinato, nella loro anima, alla parte desiderante. La
loro sottomissione ai primi due ceti, nel IX della Repubblica, viene
giustificata proprio con lo stesso argomento che nel Liside è usato per
la schiavitù. I produttori appaiono dunque palesemente inadatti a
possedere-guidare schiavi, ai quali sembrano somigliare parecchio, quanto a
struttura psichica. Gli unici in grado, teoricamente, di possedere schiavi
sarebbero i phylakes. Ma ciò è a loro esplicitamente precluso (Calvert
1987 : 369). La constatazione dell’inquietante somiglianza, sul piano
psicologico, tra schiavi e produttori, può indurci a fare un decisivo passo
avanti verso l’ipotesi che la schiavitù non trovi posto nella kallipolis. Questa
tesi è stata brillantemente sostenuta da Brian Calvert, che osserva come gli
schiavi nella città giusta platonica risultino sostanzialmente “inutili”,
essendo il lavoro manuale affidato a cittadini liberi in cambio di un salario.
I (peraltro rari) riferimenti agli schiavi che compaiono nel testo sarebbero
interpretabili, se non proprio come sviste, come esempi tratti dalla vita
quotidiana degli ascoltatori del dialogo, utili a chiarire particolari snodi del
discorso, e non come illustrazioni del funzionamento della città giusta.[3] Un ulteriore argomento che Calvert porta a sostegno
della tesi “abolizionista” rinvia all’omologia tra la città e l’anima.
Supponendo che, al di sotto dei produttori, vi siano gli schiavi, dovremmo
aspettarci che la teoria dell’anima platonica, da tripartita, diventi
quadripartita, per fare spazio all’elemento psichico proprio degli schiavi. Ma così non
è. Come abbiamo visto, l’anima dello schiavo sembra non differire,
qualitativamente, da quella dei componenti del terzo ceto. Esiste infine una quarta e ultima possibilità: che
l’abolizione dell’oikos riguardi, in prospettiva, l’intera città, come
suggerisce l’interpretazione retrospettiva della Repubblica proposta da
Platone nel Timeo e nelle Leggi. In questo caso, potremmo
concludere con certezza che anche la schiavitù è stata cancellata
dall’orizzonte della città giusta, insieme alla proprietà privata. Sono
tuttavia molte – e ben note – le difficoltà di una simile interpretazione della
Repubblica, su cui ha basato la sua critica Aristotele (Calabi 2000,
Vegetti 2000).
3. Senza alcuna pretesa di dire
qualcosa di definitivo, provo ad avanzare tre osservazioni a margine di questa
rassegna di posizioni. La prima: se anche si propende per la tesi
dell’implicita abolizione della schiavitù nella kallipolis, ciò non fa
di Platone un pensatore egualitario, o addirittura mosso da sentimenti
umanitari. Semmai, la previsione di un ceto di cittadini-produttori formalmente
liberi, ma con una psicologia molto simile a quella degli schiavi, incapaci di
farsi guidare dal principio razionale e bisognosi di essere etero-diretti,
testimonia dell’irriducibile pessimismo antropologico di Platone, su cui è più
volte tornato Vegetti, e della sua avversione profonda nei confronti
dell’ideologia democratica.
Secondo Finley, il sistema schiavistico inizia a
svilupparsi ad Atene ai tempi delle riforme di Solone, che aboliscono la
schiavitù per debiti e altre forme non schiavistiche di lavoro involontario
(Finley 1985 : 112 e sg.). Il ricorso massiccio al lavoro degli schiavi – e la
“caccia” ai barbari da ridurre in schiavitù – si rende necessario per
rimpiazzare la forza lavoro dei cittadini ateniesi di condizioni più basse, non
più disponibili a lavorare alle dipendenze altrui. «Uomo libero – scrive Finley
– era [ormai considerato] chi non viveva sotto la costrizione di un altro, né
era impegnato a lavorare a beneficio di un altro; chi viveva preferibilmente
sul pezzo di terra avito, con gli altari e le tombe degli antenati. La
creazione di questo tipo di uomo libero in un mondo tecnologicamente arretrato,
preindustriale, portò alla creazione di una società schiavistica. Non c’era
alcuna realistica alternativa» (Finley 1985 : 118). La conquista della libertà
e dell’eguaglianza politica da parte degli strati più umili della società
ateniese, secondo questa interpretazione, va di pari passo con lo sviluppo del
modo di produzione schiavistico. Potremmo allora intravedere nella kallipolis
di Platone un modello che guarda all’indietro, a un’epoca pre-democratica,
quando di schiavi non c’era bisogno perché il lavoro necessario era svolto da
una massa di cittadini poveri, in condizioni semi-servili. Una seconda
considerazione verte sul nesso tra ragione e storia nella filosofia platonica.
Mario Vegetti in più occasioni ha contrapposto la “naturalizzazione normativa
della normalità” di Aristotele all’«artificialismo ricostruttivo» di Platone
(Vegetti 2000). In Aristotele la “normalità” – la regolarità dei comportamenti,
osservabile sul piano sociologico – diventa criterio per identificare ciò che è
“naturale”, e dunque anche “normativo”: «normale è ciò che le cose sono o
dovrebbero essere per realizzare la propria natura essenziale» (Vegetti,
Ademollo 2016 : 209). Di qui la celebre giustificazione della schiavitù per
natura, che procede non senza qualche intoppo, dovendo fare i conti con
anomalie come quella dello schiavo che non ha un “corpo da schiavo”, come ci si
aspetterebbe.
Il riferimento alla natura, in Platone, gioca un ruolo
diverso, assumendo in molti casi un significato rivoluzionario, di critica del
costume vigente. Lo si coglie nelle pagine dedicate all’illustrazione delle
novità più scandalose del progetto illustrato nella Repubblica:
l’equiparazione delle donne agli uomini quanto a capacità di comando (la “prima
ondata”), e l’abolizione della famiglia (la “seconda ondata”). Il superamento
della discriminazione fondata sul genere, in particolare, doveva apparire del
tutto contro natura ai contemporanei di Platone. Ma il Socrate platonico, partendo dall’esempio delle femmine dei cani,
insinua il dubbio che siano “le istituzioni attuali” ad essere “contro natura”,
e a dover essere radicalmente ripensate (456c). Nel caso della proposta ancora
più destabilizzante dell’abolizione della famiglia e della messa in comune
delle donne e dei figli, il riferimento alla natura viene abbandonato. A
convincere i partecipanti al dialogo della necessità e desiderabilità di una
simile innovazione sembra essere sufficiente la dimostrazione razionale della
sua utilità per la città.
Certo, con
riferimento alla schiavitù, Platone non sfida il senso comune del suo tempo.
Vegetti osserva che egli attribuisce la stessa inferiorità di banausoi e
cheirotecnai «a motivi psicologici, e non sociali, scambiando l’effetto
con la causa (un errore che non aveva commesso a proposito del sesso femminile,
la cui inferiorità psicologica era stata attribuita a un’educazione sbagliata)».[4] Se Platone non mette esplicitamente in
dubbio la naturalità della schiavitù, non è tuttavia per scarso coraggio: il
coraggio non gli era mancato nel proporre le due prime “ondate” che avrebbero
dovuto condurre alla costruzione della kallipolis. Il che mi conduce ad
una terza, e ultima, considerazione. Mi chiedo se non sia proprio questa
attitudine rivoluzionaria, e visionaria, di Platone ad avere sedotto Mario
Vegetti e ad avere fatto sì che abbia stretto con lui quell’“amicizia” profonda
e duratura che è ben percepibile dai suoi scritti.
Riferendosi
alla critica aristotelica del comunismo platonico, Vegetti osserva che
Aristotele si mostra «forse più ‘idealista’ e probabilmente anche più
ideologico di Platone, che non aveva sicuramente dato prova di atopia nel
riconoscere nel conflitto tra ricchi e poveri l’origine della stasis nella
città, e nel pensare che se questo conflitto non fosse stato risolto alla
radice ben poco ci si sarebbe potuti attendere dai costumi, dalle leggi e
dalla filosofia» (Vegetti 1998: 158).[5] In questa capacità di andare “alla
radice” dei problemi mi sembra consista una delle principali lezioni del
Platone di Mario Vegetti. Un pensatore che non ha mai esplicitamente criticato
la schiavitù, e forse non ha neanche inteso metterla in discussione, ma ne ha
reso il superamento pensabile, offrendoci gli strumenti per andare oltre
la normalità e le convenzioni del suo – e del nostro – tempo.[6]
Bibliografia
Bertelli, L.
(1985). Schiavi in utopia, “Studi storici”, 26, n. 4, pp. 889-901.
Calabi, F.
(2000). Aristotele discute la Repubblica in La Repubblica,
traduzione e commento a cura di M. Vegetti, vol. IV, Libro V, Bibliopolis,
Napoli, pp. 421-38.
Calvert, B.
(1987). Slavery in Plato’s Republic, “The Classical Quarterly”, vol. 37,
n. 2.
Finley, M.
(1981). Schiavitù antica e ideologie moderne, tr. it. Laterza,
Roma-Bari.
Pievatolo, M.C.
(2008). La via verso l’alto: autonomia dell’anima e politica nella
Repubblica di Platone, in La filosofia politica di Platone, a cura
di G.M. Chiodi e R. Gatti, FrancoAngeli, Milano, pp. 173-84.
Vegetti, M.
(1989). L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari.
Vegetti, M.
(1998). Ricchezza/ povertà e l’unità della polis, in Platone, La
Repubblica, vol. III, libro IV, traduzione e commento a cura di M. Vegetti,
Bibliopolis, Napoli.
Vegetti, M.
(2000). La critica aristotelica alla Repubblica nel secondo libro della Politica,
il Timeo e le Leggi, in La Repubblica, traduzione e
commento a cura di M. Vegetti, vol. IV, Libro V, Bibliopolis, Napoli, pp.
439-52.
Vegetti, M.
(2000a). Normale, naturale, normativo in Aristotele, “Quaderni di
storia”, 52, pp. 73-84.
Vegetti, M.
(2017). Chi comanda nella città? I Greci e il potere, Carocci, Roma
2017.
Vegetti, M.
(2018). I fondamenti del potere politico. Aristotele contro Platone?,
“Teoria politica” n.s., Annali, vol. VII, pp. 23-34.
Vegetti, M.,
Ademollo, F. (2016). Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi,
Torino.
Vlastos, G. (1968). Does Slavery
Exist in Plato’s Republic?, “Classical Philology”, vol. 63, n. 4,
pp. 291-295.
[1] Lo osservava Vegetti in Vegetti, 1989
: 123-24.
[2] «Quanto ai minori mali di cui si
saranno sbarazzati, esito persino a parlarne perché sono cose sconvenienti:
adulare i ricchi, loro poveri, e le penose difficoltà che si incontrano
nell’allevamento dei figli e nei tentativi di guadagnare per dare ai domestici
il cibo necessario, ora contraendo prestiti, ora rifiutando di pagare i debiti,
ricorrendo a ogni espediente per cercare di procurarsi del denaro da consegnare
a donne e domestici con l’incarico di amministrarli […]» (La Repubblica, 465c).
[3] Si pensi al passo, su cui molto insiste
Vlastos, in cui Socrate sostiene l’importanza che «ogni singolo individuo
svolga il compito che gli è proprio» e fa, tra gli altri, l’esempio dello
schiavo (433d).
[4] Platone, La Repubblica, a cura di
M. Vegetti, Bur, Milano 2006, p. 1084, nota.
[6] Si potrebbe aggiungere – come mi
suggerisce Fulvia De Luise, che ringrazio – che un ulteriore indizio
dell’apertura di Platone ad “altri mondi possibili” è l’esistenza di un certo
schiavo che, nel Menone, riesce a rispondere correttamente a un quesito
geometrico… A sostegno della tesi che Platone, pur non criticando la
schiavitù, ci offra le premesse per farlo, cfr. anche Pievatolo, 2008: 182-84.
Federico Zuolo
Federico Zuolo è ricercatore in Filosofia politica presso l’Università di Genova. Ha lavorato precedentemente presso le università di Pavia e Trento ed è stato borsista della fondazione von Humboldt nelle università di Berlino e Amburgo. Ha pubblicato una monografia su Platone (Platone e l’efficacia. Realizzabilità della teoria normativa), una nuova edizione dello Ierone di Senofonte (Carocci 2012) e un’introduzione all’etica animale (Etica e animali. Come è giusto trattarli e perché, il Mulino 2018).
Abbiamo bisogno dei
classici tanto quanto non abbiamo bisogno della retorica sull’utilità dei
classici. A fasi alterne si alza un dibattito auto-referenziale e ripetitivo
tra coloro che vorrebbero fare a meno dei classici (e del liceo classico!) e i
difensori d’ufficio che ne sostengono la necessità educativa e culturale.
Eppure, a pensarci bene la questione sembra mal posta. Secondo una delle
definizioni standard, “classico” è ciò che non passa mai di moda ed è sempre a
noi contemporaneo. Questa definizione, coperta dal felice gioco di parole,
nasconde una profonda verità e un’inquietante ambiguità. La verità è che il
vero classico può dire qualcosa nonostante il passare delle epoche perché nella
complessità della tessitura del suo discorso si nascondono molteplici chiavi di
lettura aperte a diverse epoche. L’ambiguità invece è che questa apertura
polisemica possa risiedere in una sottodeterminazione concettuale. Se di
sottodeterminazione si trattasse, forse rischieremmo di sopravvalutare il
messaggio del classico in questione, che sembra avere molte cose da dirci
perché siamo noi a mettergliele in bocca.
Senza addentrarci
ulteriormente in questa diatriba senza fine, vorrei qui riportare alcune
considerazioni su ciò che io ho imparato da Mario Vegetti riguardo all’uso dei
classici. Senza concedere ulteriore spazio a un dibattito, pur importante, che
rischia però di guardare al classico come un’entità monumentale ed eterna, come
se fosse un busto marmoreo, cercherò di interrogare questi problemi a partire
da una coppia di nozioni apparentemente sempre in tensione – radicalità e
attualità – che però nel magistero di Mario Vegetti ho sempre percepito
come fruttuosamente unite. A di là delle apparenze o del gusto fine a se stesso
del paradosso, certi autori classici possono essere radicali e inattuali ma
proprio per questo dirci qualcosa di significativo e non finire per ripetere un
ruolo museale. O per lo meno questo è quello che cercherò di sostenere in
questo breve pezzo.
Prima di iniziare è
necessario esplicitare una breve premessa metodologica. Quando ci si propone di
discutere termini così ovvi e quotidiani come attualità e radicalità si corrono
due rischi. Da un lato, si rischia di muoversi sul filo della noia del
discutere l’ovvio. Dall’altro, si può dare l’impressione di essere troppo
presuntuosi, se si cerca di mettere in discussione il senso consolidato e
stratificato dei termini, come se la semplice analisi concettuale e storica fatta
a tavolino potesse realmente ribaltare il significato di una costruzione
collettiva di lunga data. A costo di rischiare la noia dell’ovvio o la
presunzione dell’arroganza penso si possa parlare dei termini in questione in
maniera non banale ma nemmeno presuntuosamente rivoluzionaria. Infatti, la
presunta ovvietà nasconde un atteggiamento irriflesso che a sua volta richiede
analisi.
Il
paradigma radicale
Per radicalità si
intende solitamente un qualcosa che pare in aperto contrasto con gli standard
etici, sociali o estetici di una certa epoca. E questa diversità non implica
solo la differenza rispetto agli impliciti normativi di un’epoca, ma anche lo
scontro e la pretesa di cambiamento che essa propone. Radicale è quella
proposta etica o politica che richiede un cambiamento complessivo di pratiche
sociali e assunti valoriali che sono incardinati in un’epoca. In tal senso e in
prima istanza ciò che è radicale sembra mettere in discussione l’attualità in
quanto insieme di pratiche, assunti e istituzioni correntemente date per ovvie
o esplicitamente sostenute. La radicalità cerca di svelare gli impliciti e di
riaprire la questione dell’ovvietà di ciò che esiste,
che persiste grazie all’inerzia pigra della consuetudine.
Nell’ambito etico e
politico l’atteggiamento radicale si inaugura, così come per molte altre cose,
con Platone e in particolare con le celeberrime tesi della Repubblica.
Nel voler rifondare la polis partendo zero, dopo una tabula rasa, e nel
volerne ricostruire le fondamenta più essenziali (proprietà, famiglia e accesso
al potere) la kallipolis platonica è sicuramente radicale e pertanto
sembra anche perennemente inattuale, tanto rispetto agli standard della sua
epoca, quanto rispetto ai nostri standard poiché ciò che ha cercato di mettere
in discussione è diventato un carattere in un qualche senso permanente delle
nostre società. Eppure, nonostante l’evidenza di questa tesi si può dubitare
della necessaria contrapposizione tra radicalità e attualità. Per capire in che
senso questa opposizione non ha necessariamente luogo, dobbiamo però fare un détour
attraverso il significato di attualità. È quest’ultima nozione, infatti, ad
essere più ambigua e sottoposta alla coperta offuscante di ciò che è ovvio ma
non discusso. Tutti diamo per scontato cosa voglia dire essere attuali, più di
quanto pensiamo riguardo al concetto di radicalità, ma specificare cosa voglia
dire attualità e in particolare attualità di un classico solleva molte
questioni.
Tre
tipi di attualità
Venendo ora al
concetto di attualità, possiamo delineare tre tipi di attualità del passato o
del classico. La prima è l’attualità di prossimità, la seconda è l’attualità
del portavoce e la terza è l’attualità come rilevanza. In tutti e tre i casi
ciò che viene considerato attuale è ciò in cui a partire dal nostro punto di
vista ritroviamo qualcosa del passato che ci sembra familiare o appartenente al
nostro mondo.
In un primo e ovvio
senso l’attualità si può caratterizzare come una sorta di prossimità o similarità
funzionale. Si possono fare molteplici esempi di similarità di un fenomeno
o di una tesi classica. Ad esempio, si può dire che il dibattito tra Platone e
i sofisti è molto attuale poiché mostra i problemi della professionalizzazione
della comunicazione (oggi diremmo di marketing) e dell’importanza della comunicazione
per ottenere il potere. Oppure si pensi al dialogo tra Ierone e Simonide nello Ierone
di Senofonte quando si dice che il governo tirannico non può che basarsi
sulle persone ingiuste, dissolute e servili perché sono gli unici di cui si può
servire il tiranno dato che sono gli unici ad apprezzare un governo ingiusto
(Senofonte 2012, V, 1-3).
Ma oltre a questi
aspetti poco controversi, la grande ambiguità del concetto di attualità ruota
attorno alla presunta esigenza di attualizzare un classico. Una delle
cose che più mi ha segnato della visione ermeneutica vegettiana è la rottura di
un malinteso riguardo alle attualizzazioni. Si potrebbe dire in termini molto
semplici che non è vero che per essere interessante o per essere sentito vicino
a noi un classico deve essere attualizzato (per lo meno attualizzato nel primo
senso di attualizzazione). Ciò che è interessante non è necessariamente
l’attualizzazione della prossimità e somiglianza, e non è necessariamente
qualcosa di vicino a noi.
Una paura
inconfessata di non riuscire a destare interesse è dietro al secondo modo di
intendere il senso dell’attualizzazione. Chiamo questa forma di attualità l’attualità
del portavoce, laddove l’attualità consiste nel cercare di far dire a un
classico una tesi sostantiva attualmente in voga. Chiaramente anche l’attualità
di prossimità in parte sfrutta questa mossa esegetica. Ma l’attualità del
portavoce più che una dinamica di avvicinamento (come la prima forma di
attualizzazione) implica una forma di sostituzione o di espressione per
interposta persona, e per questo la chiamo del portavoce. Infatti, in questa
forma di attualizzazione si scopre che un certo classico aveva già sostenuto
una tesi – solitamente normativa – e solitamente questa tesi è anche quella
preferita dall’interprete di turno. Quindi più che avvicinare il classico alla
contemporaneità si tratta di riscoprire quanto tale classico può ancora parlare
in nostra vece nel presente e sostenere la nostra tesi preferita. In tal senso
si dice che il classico “anticipa”, “prefigura”, fenomeni o esigenze care al
presente. A differenza della prima forma di attualizzazione qui non si tratta
di mostrare che il classico può parlare a noi, bensì si tratta di
mostrare che il classico può parlare per noi tra noi contemporanei.
Anche in questo
caso si possono fare vari esempi. Mi limito solo a due mosse molto note:
l’utilizzo di Aristotele da parte di Martha Nussbaum e di Spinoza da parte di
Toni Negri. Come è noto Nussbaum ha cercato di ritrovare in Aristotele le basi
di un’attività statale di tipo social-democratico (Nussbaum 1988; 1990; 1992)
che intende fornire a tutte le persone le opportunità per sviluppare le
capacità di base. Aristotele negli intenti di Nussbaum fornisce una teoria del
bene e della natura umana che si contrappone a un certo relativismo o
non-fondazionalismo del liberalismo contemporaneo. Tale teoria sostantiva e
spessa del bene è alla base dell’approccio delle capacità come teoria riguardo
a ciò che si deve distribuire in uno stato impegnato a sostenere la libertà e
l’eguaglianza. In alternativa, si pensi, con un altro tipo di anacronismo,
l’attualizzazione di interpretare Spinoza come un rivoluzionario (Negri 1981).
Secondo Negri Spinoza è il pensatore che anticipa un certo approccio
rivoluzionario perché è capace di pensare la moltitudine come generatrice
autonoma di potenza e attività politica, superando in tal modo le mediazioni
liberali e borghesi che si frappongono tra gli individui e l’agire politico.
A cavallo tra la
storia della filosofia antica e la filosofia politica ho a volte guardato con
interesse a queste proposte. Ma Vegetti mi ha mostrato la fallacia di questo
modo di fare attualizzazioni. Nell’attualizzazione del portavoce si nasconde un
problema culturale insidioso che non ha soltanto a che fare con la necessità di
essere corretti da un punto di vista esegetico. Ovviamente i testi classici
garantiscono una certa libertà ermeneutica grazia alla loro polisemia e
all’evolvere dei problemi con cui vengono interrogati. Ma un conto è
interpretare un testo in maniera aggiornata, o cercare porre questioni nuove,
un altro è far dire a un testo una tesi sostantiva (tipicamente normativa) a
lui aliena. Nel sostenere che un certo autore ha anticipato la socialdemocrazia
o la rivoluzione si rende un pessimo servizio alla socialdemocrazia, alla
rivoluzione e al classico stesso. E questo non è tanto (e soltanto) perché
abbiamo un dovere di correttezza ermeneutica, quanto perché si dà l’impressione
che si debba scavare nel passato e far dire a un classico una certa cosa
affinché tale tesi sia sufficientemente robusta. Nel fare questo si rischia di
dare l’impressione che la questione contemporanea sia debole senza l’aiuto del
classico, e che il classico abbia bisogno di essere attualizzato in questo
senso per essere in un qualche modo interessante. Allo stesso tempo si prende a
prestito l’autorevolezza del classico ma se ne diminuisce la distanza, come se
fosse impegnato realmente nella diatriba contemporanea in questione.
Se le categorie che
ho proposto sinora sono valide, possiamo discutere il terzo tipo di
attualizzazione in cui forse Mario Vegetti avrebbe potuto parzialmente
riconoscersi. Nell’interrogare il classico in maniera opportuna si apre uno
spettro di possibili interpretazioni (più o meno ampio a seconda dei casi). Nel
farlo si devono ovviamente usare le categorie più adeguate che sono state
elaborate nel corso della storia, comprese quelle più recenti. Ma non
necessariamente devono essere le più recenti per rendere il pensatore più
attuale. Benché secondo Vegetti l’attività di analisi storica ed esegetica non
abbia bisogno di giustificare il proprio senso rispetto all’attualità
(soprattutto se intesa nei primi due sensi), ciò non vuol dire che debba essere
intesa come avulsa dal presente. Ma questo senso di attualità non consiste né
in un mostrare la vicinanza (attualità come prossimità), né in un far
dire al classico tesi del presente (attualità del portavoce). Bensì
consiste in qualcosa di più sottile che ha a che fare con la questione della radicalità
e che investe i presupposti delle nostre pratiche sociali. Per questo l’ho
definita attualità della rilevanza.
Forse risuona qui
l’eco di ciò che Bernard Williams (2009) chiamava “il senso del passato”. La
ricostruzione genealogica a cui si dedica Bernard Williams serve a
riappropriarsi di una storia complessa e ramificata ma anche a mostrare la
distanza tra noi e una certa epoca storica. La distanza è un esercizio di
riflessione indiretta sull’attualità. E superando in qualche modo Williams
possiamo aggiungere che è per questo motivo che l’estremamente inattuale può
risultare in un certo senso attuale. Ma non perché attualizzabile o fattibile.
Bensì perché presente nella sua distanza.
Nel terzo tipo di
attualità che stiamo prendendo in considerazione, l’attualità non è una
categoria di somiglianza o di prossimità, e l’attualità non è nemmeno il
tentativo di mettere in bocca al classico cose che forse non ha detto. In
questo terzo senso l’attualità è una categoria di interesse. E un’idea può
essere interessante, e di conseguenza attuale, anche se si tratta di un’idea
molto distante da quelle in voga, anzi proprio perché lo è può trattarsi di
un’idea attuale.
Attualità
del radicale
Ad esempio, il
radicalismo politico platonico, tanto nascosto da molti interpreti
spiritualisti e liberali, è attuale perché mette in discussione un assunto di
molte (ma non tutte) le teorie attualmente più in voga. Ad esempio, il primato
genealogico e assiologico dell’individuo sulla collettività. Oppure
l’impossibilità di cambiare le basi strutturali della società (ad esempio
riguardo alla famiglia). È qui opportuno ricordare il volume di Vegetti, Un
paradigma in cielo. Platone politico da Aristotele al novecento (Vegetti
2009). Nella millenaria storia delle interpretazioni politiche di Platone, e
qui ci riferiamo soprattutto alle tesi scandalose e rivoluzionarie della Repubblica,
si hanno varie fasi. Dapprima si riconosce che la Repubblica ha un
contenuto dal carattere fortemente politico, ma si considera la sua
realizzazione impossibile e indesiderabile (Aristotele e successori). Poi dal
neoplatonismo in poi si inizia a interpretare la questione in termini
maggiormente moralizzati: pur senza negare la dimensione politica, si dà priorità
all’ordine dell’anima invece che a quello della città. L’autorità intellettuale
platonica deve in qualche modo essere protetta dalla pericolosità delle sue
tesi. Lo scandalo del radicalismo politico va nascosto e quindi emerge l’idea
di una Repubblica come dialogo che si occupa prevalentemente, anche se
non esclusivamente, della giustizia nell’anima. Non possiamo qui ripercorrere
tutte le vicende di una questione complessa e millenaria. Ci basti ricordare
che nel secondo dopoguerra, dopo che Popper attaccò Platone quale maestro dei
totalitarismi, in molti hanno cercato di sminuire la politicità della Repubblica.
In estrema sintesi gli interpreti hanno cercato di conciliare Platone con il
pensiero liberaldemocratico, o hanno sostenuto che Platone ironicamente voleva
dire l’opposto di quanto detto esplicitamente (Leo Strauss) o hanno ricondotto
l’intento fondamentale della Repubblica al miglioramento etico
dell’individuo, indipendentemente dalle prospettive politiche. Di fronte a
questo tipo di negazione non si può non pensare che si tratti di una forma di
rimozione semicosciente, in senso psicanalitico, ovvero la rimozione di un
conflitto tra un qualcosa che si deve onorare (il pensiero platonico) e gli
assunti morali in cui si vive. Ma il mostrare la radicalità e contrarietà di un
pensatore rispetto agli assunti morali e sociali del presente non dovrebbe
squalificarne l’interesse. Non dovrebbe se si prende sul serio il terzo tipo di
attualità e se non ci si fa abbindolare dalle sirene dei primi due tipi di attualità.
Alla luce di queste
considerazioni si può pensare all’attualità del Platone della Repubblica con le categorie
della rilevanza e dell’interesse. Senza usare giochi di parole del tipo
l’attualità dell’inattuale, ci può essere attualità-interesse in un pensatore
molto diverso e radicale rispetto all’attuale. Il presunto paradosso può essere
spiegato se ripartiamo da Platone. Come detto, la radicalità si esprime nel
mettere in discussione gli assunti fondamentali non solo della società a lui
coeva ma anche delle nostre società. Le famose tre ondate, volutamente
scandalose e sempre inattuali, attaccano i capisaldi della proprietà
(individuale e famigliare), dell’educazione dei figli (famigliare) e della
regola per esercitare l’autorità legittima (che non si basa sulla conoscenza).
Ma nel mettere in discussione le regole fondamentali della proprietà, della
crescita dei figli e dell’autorità politica il radicalismo platonico ne mostra
gli assunti costitutivi e raramente discussi.
Mario Vegetti si
trova a discutere di questi temi in termini leggermente diversi in un dibattito
impostato dall’idea di Carlo Augusto Viano di un “modello chiuso” di
interpretazione della storia della filosofia antica. Secondo questo modello la
filosofia antica non deve avere rapporti diretti né con la contemporaneità (e
quindi deve risultare inattuale) ma non dobbiamo nemmeno pensarla come
pienamente coerente e integrata con la società e la vita dell’epoca coeva.
Piuttosto dobbiamo vederla come a sua volta marginale e in opposizione con l’ethos
imperante di una certa epoca. Questa tesi serviva a Viano per opporsi sia
al classicismo secondo il quale i modelli classici possono essere direttamente
applicati poiché eternamente validi in ogni epoca, sia a interpretazioni più
storicistiche che non cercano di riappropriarsi direttamente della filosofia
classica ma la pensano comunque perfettamente integrata con lo spirito
dell’epoca. Vegetti rimarca i limiti di questa idea chiusa dell’interpretazione
della storia della filosofia antica poiché rischia di limitare il senso e
l’utilità dello studio dei classici filosofici. E propone una via d’uscita che
consiste in un diverso modello di approccio ai classici.
Forse è possibile
evitare il rischio della irrilevanza senza perdere questo vantaggio. Si
tratterebbe di capovolgere la prospettiva: cioè di usare gli antichi, e la loro
filosofia, come un punto di vista esterno e straniante su di noi. Un
punto di vista cioè che proprio in virtù della sua distanza e della sua
differenza ci consenta di vedere in modo più chiaro e radicale presupposti
inconsapevoli, pregiudizi radicati, idées reçues accettate
acriticamente, che intessono il nostro modo di pensare. (Vegetti, 2009b, pp.
344)
Questa prospettiva
critica è offerta dai classici, o per lo meno da certi classici e da un certo
modo di studiare i classici, perché i classici permettono di intrecciare
distanza e rilevanza. Sono rilevanti, come detto, perché pongono questioni
interessanti di messa in discussione dei nostri assunti. Ma hanno anche il vantaggio
di essere distanti, ovvero di poter effettuare l’esercizio critico offrendo il
contraltare di modelli teorici e storici non immediatamente spendibili
nell’agone politico e culturale contemporaneo. Questa distanza, lungi
dall’essere uno svantaggio, come potrebbero pensare i due primi tipi di
attualizzazione che abbiamo visto (di prossimità e del portavoce),
è in realtà una risorsa intellettuale formidabile perché garantisce al classico
l’autorevolezza del non immischiarsi nel limite delle polemiche e allo stesso
tempo ne mantiene l’interesse intatto.
Per fare qualche
esempio, magari banale. Siamo sicuri che la critica platonica all’egualitarismo
e alla democrazia non ci offra ancora un punto di vista critico sull’ideologia
liberal-democratica e sui rischi di un pensiero unico considerato
dogmaticamente incontrovertibile? E d’altra parte: il pessimismo antropologico
di Platone, come del resto molti hanno già osservato, non contribuisce a
spiegare l’illusione di perfettibilità che ha portato al fallimento vari
tentativi di ingegneria sociale collettivista? Oppure, e per finire:
comprendere la struttura della teoria aristotelica secondo la quale ciò che è
normale è naturale, e ciò che è naturale è normativo, non può renderci più
chiari dispositivi di pensiero tuttora attivi in molti settori? (Vegetti,
2009b, pp. 344-5)
Attualità
di Aristotele?
Dopo il paradosso
dell’attualità (di rilevanza) di Platone, siamo giunti quindi alla
questione dell’attualità di Aristotele. Da un lato, Aristotele sembrerebbe un pensatore
eminentemente attuale, soprattutto se intendiamo l’attualità nei primi due
sensi (di prossimità e del portavoce). Molti (in ambito
anglosassone e tedesco) hanno ripreso Aristotele come pensatore attuale per una
gran serie di motivi. Giusto per menzionarne alcuni e senza pretesa di
completezza, si ricordi la teoria aristotelica della politia che sembra
prefigurare la positività di un governo non ristretto all’aristocrazia dei
migliori. Oppure si pensi l’importanza del ragionamento dialettico nella dimensione
pratica poiché rende conto di diverse forme di sapere che non sono
riconducibili all’unico modello deduttivo o nomologico delle scienze naturali.
E, infine, si consideri la saggezza pratica in quanto una componente essenziale
della capacità dell’agire umano. Queste famose idee aristoteliche sembrano (e
probabilmente sono) attuali perché almeno in parte individuano caratteri
fondamentali delle interazioni umane. Ma la loro attualità come prossimità è
forse sovrastimata. Infatti, nel presentarsi come tesi ovviamente universali –
come quasi tutte le tesi propriamente filosofiche – riescono particolarmente
bene a nascondere la loro determinatezza storica. Infatti, le tesi
summenzionate hanno ovviamente dei presupposti ineludibili per poter darsi socialmente
e per avere un senso determinato. Questi presupposti sono banalmente
l’esistenza della polis, un certo ethos condiviso, le istituzioni sociali
antiche che permettono la libertà dal lavoro (la schiavitù e l’esclusione della
donna dalla politica).
Le tesi di cui
sopra sono ambigue nella misura in cui oscillano tra l’avere un contenuto
normativo e il porsi come verità generali non connotate normativamente. Ad
esempio, la saggezza pratica ha bisogno di presupposti particolari per
esercitarsi e non è necessariamente data. Però è una tesi parzialmente
indipendente dalle condizioni in cui è sorta, quindi è facilmente digeribile e
riproponibile in epoche diverse. Ovviamente non potrà avere lo stesso
significato ma non sembra così aliena dalla nostra condizione. In sostanza si
tratta di tesi molto meno cariche normativamente di quelle platoniche, o perché
si pongono come “neutrali” o perché essendo maggiormente conservatrici sono più
in linea con la nostra realtà. Quindi da un certo punto di vista sono tesi più
“attuali”. Sono più attuali nel senso della prossimità perché si pongono su una
linea di continuità con pratiche a noi presenti. E sono anche più attuali
perché nella loro presunta atemporalità possono essere rivestite in un senso
molto prossimo alle esigenze contemporanee, ovvero possono più facilmente di
altre tesi essere prese in prestito e utilizzate come portavoce e sfondo di
posizioni normative più chiaramente determinate.
Però la cosa in
Aristotele non è ovviamente così semplice dato che l’apparente trasversalità
delle tesi aristoteliche si combina con il bisogno che ci sia una sorta di
incarnazione del normativo nel reale. E qui riprendo la famosa e insuperata
analisi di Vegetti sul naturale-normale e normativo in Aristotele (Vegetti
2000b). In estrema sintesi, secondo Aristotele ciò che definisce lo standard di
bontà e giustizia sociale è la norma diffusa e accettata socialmente che si
esprime nel cittadino virtuoso (spoudaios). In tal senso la quintessenza
di una norma socialmente diffusa diventa anche ciò che è propriamente naturale,
poiché costituisce la realizzazione teleologica più piena di ciò che è per
natura umano (la vita politica). Quindi ciò che è considerato giusto
convenzionalmente, diviene anche giusto naturalmente poiché si esprime attraverso
la sua forma più propria. Di conseguenza ciò che è naturale è anche
normativamente buono poiché realizza al meglio la forma essenziale di una cosa.
Sebbene si presenti come una tesi sulla naturalità di un certo tipo di attività
e di virtù, questa naturalità nasconde la convenzionalità che vi è alla base e
veicola la distinzione di una norma.
Per questo motivo
potremmo dire che nonostante l’apparente maggiore vicinanza di Aristotele alle
nostre società, la sua attualità è forse solo apparente e per altro aumentata
dal maggiore conservatorismo sociale della prospettiva aristotelica che ci fa
sembrare più vicino a noi ciò che forse è ancora più lontano. Vi è una tensione
ben nascosta al centro della teleologia aristotelica. O ogni tipo di norma socialmente
accettata diventa normativa in generale e quindi naturale, ma così si finisce
per essere relativisti (cosa che ad Aristotele e agli aristotelici non sarebbe
andata a genio) e quindi ridursi a sostenere una mera accettazione del
presente; oppure ci sono solo alcuni tipi di norme sociali, e non altre, che
possono essere definite naturali, ma allora ciò che è normativo è definito
indipendentemente dall’incarnazione sociale.
Chiaramente la tesi
aristotelica è più vicina a questa seconda opzione, ma l’insistenza
aristotelica nel perseguire un approccio descrittivo e naturalistico lo obbliga
a far dipendere la normatività di una cosa dalla sua diffusione empirica.
Dopo aver visto il
rapporto tra Aristotele e i primi due sensi di attualità, ci possiamo ora chiedere
se si caratterizza anche come attuale nel terzo senso. È il pensiero
aristotelico attuale in quanto rilevante per il nostro sguardo contemporaneo?
In un certo senso lo è ovviamente, nella misura in cui è anche attuale negli
altri due sensi. Però non necessariamente è rilevante se ci interessa una
prospettiva critica o uno sguardo diverso sui nostri presupposti sociali.
Di altro tipo è
l’(in)attualità Platonica che attraverso il radicalismo mette in discussione
presupposti sociali più radicati. L’impossibile presenza platonica può avere
una capacità di guida non scontata nel discutere i limiti di possibilità vere o
presunte e nel pensare ciò che si può fare ed esigere. Non voglio qui dire che
Aristotele sia meno attuale di Platone, tesi solo volutamente paradossale.
Voglio solo dire che non è ovvio cosa sia più rilevante. Non è scontato
cosa sia più rilevante e interessante: una fondazione apparentemente
meta-empirica e neutrale di alcune pratiche sociali o uno svelamento della loro
convenzionalità? Cosa è più rilevante intellettualmente: l’apparente continuità
aristotelica o la rottura platonica? Senza poter fornire una risposta
conclusiva mi limito a suggerire che anche l’estremamente inattuale e radicale,
benché lontano e probabilmente impossibile, può essere estremamente attuale
poiché ci mostra i presupposti e i limiti in cui vivono le società presenti.
Estendere
il possibile tra radicalità e attualità
Sinora ci siamo
intrattenuti sul significato delle nozioni di attualità e radicalità rispetto
alle esigenze di senso e interpretazione di se stessi da un punto di vista
sociale. Ovvero ci siamo chiesti che significato hanno le proposte politiche,
ad esempio, di Platone, o le tesi di Aristotele. Non abbiamo ancora toccato la
questione collegata ma differente che concerne la possibilità degli ideali
politici in questione. A costo di risultare un po’ troppo semplificatorio, si
può dire che la dimensione del possibile è una nozione modale fondamentale che
difficilmente può essere definita senza ricorrere circolarmente a se stessa.
Per i nostri scopi sia sufficiente concentrarsi su ciò che possiamo chiamare
come il politicamente e socialmente possibile. Per definirlo non è necessario
scomodare la non-impossibilità metafisica come requisito minimo. Chiaramente
ciò che è possibile ha come limite definitorio il perimetro dell’impossibile e
include una serie di mondi possibili che partono dal mondo attuale. L’attuale è
ovviamente possibile, ma sono anche possibili tuti quegli stati alternativi di
cose che sono più o meno “vicini” al possibile. Da un lato, il possibile è una nozione
binaria che si oppone all’impossibile. Definire uno stato di cose,
soprattutto in ambito politico e sociale, come impossibile è una critica
fondamentale. Si pensi, ad esempio, alla critica aristotelica nella Politica
alla Repubblica platonica, come indesiderabile e impossibile poiché
contravviene agli aspetti fondamentali della natura e socialità umana. Ma in
realtà definire qualcosa come impossibile è solitamente un’esagerazione retorica
per sostenere che si tratta di un cambiamento molto difficile e oneroso.
Platone stesso era ben conscio del fatto che la kallipolis fosse
difficile ma non impossibile (Vegetti 2000a). Piuttosto, ci si può chiedere se
attuare certi cambiamenti sociali (ad esempio quelli proposti da Platone) sia
strettamente impossibile, o non piuttosto molto difficile da realizzare e da
mantenere. Per comprendere questi aspetti dobbiamo introdurre altre due
categorie per caratterizzare meglio il senso della possibilità sociale e
politica. In primo luogo, si deve intendere la possibilità anche come una dimensione
scalare, ovvero come una proprietà avente gradi diversi di soddisfazione.
In tal senso ci si riferisce alla nozione di fattibilità politica e sociale.
Uno stato di cose può essere più o meno fattibile, e più o meno possibile
socialmente, nella misura in cui si realizza in un mon do possibile più o meno
distante dal mondo attuale.
In secondo luogo,
si deve distinguere tra due dimensioni della fattibilità: l’accesso e la
stabilità. Accedere a uno stato di cose, ovvero mettere in pratica la
realizzazione di un mondo possibile (accesso) pone una serie di
problemi, che sono
ben diversi dal quelli che riguardano il mantenimento nel tempo di questo stato
di cose (stabilità) (Gilabert and Lawford-Smith 2012). Infatti, potrebbe
essere molto difficile e oneroso realizzare un certo stato di cose politico e
sociale per via delle resistenze tradizionali o dei gruppi di potere che vi si
oppongono. Altra questione è capire con quali risorse interne al nuovo stato di
cose realizzato si possa mantenere stabilmente la situazione.
Se questo tipo
di mappa concettuale è minimamente convincente possiamo tornare alle questioni
da cui eravamo partiti. La dimensione dell’attualità è ovviamente l’orizzonte
ineludibile da cui partire. Ma non è necessariamente l’orizzonte di senso e
normatività entro cui rimanere. L’attualità stessa è una nozione spessa poiché
può esprimere molte esigenze che mettono in crisi la solidità di ciò che diamo
per attualmente scontato. A partire da questi bisogni si può ricorrere al
radicale per mostrare stati di cose alternativi. In tal senso, il radicale è
sia una messa in discussione dell’ovvietà dell’attuale, sia un modo di
prospettare alternative, mondi possibili, che si discostano dalle vicinanze
dell’attuale. Quanto siano effettivamente accessibili e stabili è una questione
che possiamo momentaneamente mettere da parte. Quindi ciò che il senso comune
sociale definisce come radicale non è soltanto il contraltare negativo
dell’attuale, il suo lato bello ma impossibile. Ne definisce anche infatti le
aspirazioni e il campo di sperimentazione della possibilità. Quindi mettere in
campo opzioni radicali estende il dominio della possibilità e non la fa
appiattire esclusivamente sui mondi possibili molto vicini al mondo attuale.
In tal senso,
l’esercizio di radicalità svolge diverse funzioni rispetto alla persistenza
dell’attuale. Ne mette in discussione i presupposti ovvi e non discussi. Mostra
un’alternativa possibile. Estende il dominio della possibilità oltre ciò che è
immediatamente visibile. Potremmo quindi dire che l’attualità è almeno in
parte legata all’esercizio di radicalità, non soltanto come suo negativo ma
anche come termine di riferimento dell’estensione della possibilità che è
necessaria per esprimere il perimetro dell’attualità. I due termini, invece, si
distanziano nei primi due sensi di attualità (di prossimità e del
portavoce).
Conclusione
Nell’interrogare
il significato di attualità e radicalità riguardo all’uso dei classici si è
visto che queste nozioni si comportano come una coppia dialettica inscindibile.
Possono essere definite l’una indipendentemente dall’altra ma nel loro uso
sociale si mettono in gioco reciprocamente. In questa coppia i classici
svolgono una funzione molto importante perché danno linfa alla continuità e
persistenza dell’attuale (i primi due significati di attualità) o all’opposto
ne mettono in discussione la consistenza tramite la funzione radicale del
classico. Il radicale non mette in crisi soltanto le fondamenta apparentemente
ovvie dell’attualità ma configura anche un insieme di possibilità alternative
più o meno distanti dall’attuale. In tal senso si può intendere l’attualità del
classico: come un dispiegarsi di possibilità alternative che non sono
interessanti solo se prossime alla nostra attualità. Nell’essere interessanti
ci toccano in qualche modo pur rimanendo distanti e nel mostrare l’interesse
del distante non ci fanno appiattire su ciò che abbiamo già.
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Princeton University Press).
Il testo è già stato pubblicato anche sul sito della Società di Psicoanalisi Crritica (29-03-2018) con questa nota di accompagnamento: “Pubblichiamo di seguito un ricordo di Mario Vegetti, notissimo studioso e docente di Storia della Filosofia antica e intellettuale rigoroso, amico personale di alcuni di noi e della Società di Psicoanalisi Critica”.
Ricordano l’amico e il protagonista della Casa della Cultura: Ferruccio Capelli, Mauro Bonazzi, Fulvio Papi, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Salvatore Veca
Mario Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donnealle origini della razionalità scientifica.
ISBN 978-88-7588-228-0, 2018, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [82]. In copertina: Affresco raffigurante gli Istrumenta sciptoria. In quarta: bassorilievo del tempio di Esculapio di Atene.
Il coltello e lo stilo fu pubblicato nella primavera del 1979. Fin dalla sua comparsa, suscitò un vivace interesse, non solo, e non tanto, fra gli specialisti di antichistica, quanto presso un pubblico composito di lettori che frequentavano i territori che allora si chiamavano “cultura critica”: epistemologia, antropologia, psicoanalisi, ed eventualmente movimenti come quello femminista e animalista. Ne uscirono naturalmente diverse interpretazioni del senso e degli intenti del libro (dalla critica irrazionalistica ai fondamenti “violenti” della scienza, a una rivisitazione moderata di Foucault). Nell’introduzione all’edizione del 1996, riprodotta in questo volume, ho tentato di delineare le coordinate culturali entro le quali Il coltello e lo stilo era stato concepito, e di indicare un punto di vista d’autore sulla collocazione del libro. Ha fatto però bene l’editore a ristampare qui la prima edizione, quella del 1979. Da un lato, questo restituisce ai primi lettori la possibilità di un rinnovato incontro con il testo; dall’altro, e soprattutto, consente a nuovi lettori l’accesso alla forma originale del libro ormai da gran tempo esaurita. Non è immotivato pensare che questa ristampa possa apparire a qualcuno come una riscoperta, e ridestare almeno in parte l’interesse e la discussione così vivaci tanti anni or sono. Se così fosse, potremmo augurare “bentornato” al Coltello e lo stilo, e renderne il merito che gli spetta al generoso editore, Carmine Fiorillo di “Petite Plaisance”.
Mario Vegetti
Febbraio 2018
Mario Vegetti, Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico.
ISBN 978-88-7588-227-3, 2018, pp. 208, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [84]. In copertina: Frammento di cratere a calice a figure rosse [scena dell’Edipo Re di Sofocle] (330-320 a.C.) e Papiro de Oxirrinco [frammento degli Elementi di Euclide].
Edipo e Euclide rappresentano simbolicamente i due limiti estremi della razionalità greca. Il primo – nell’interpretazione che offre dell’Edipo re sofocleo il primo dei saggi qui raccolti – impersona una forma di razionalità indagatrice, che procede per indizi e per segni, e ha di mira la “scoperta”: una scoperta legata sempre alla circostanza particolare, al kairòs, all’individuo. Una razionalità, dunque, nella quale si riflettono l’indagine diagnostica e prognostica sia della medicina ippocratica sia della storiografia tucididea (che si presenta esplicitamente come una ricerca diagnostica sulla crisi di Atene).
All’estremo opposto si colloca la forma della razionalità che può andare sotto il nome di Euclide. La sua geometria costituiva già per gli antichi, e costituisce tuttora, un modello di pensiero astrattivo e dimostrativo, il luogo elettivo di un’idea forte della verità come acquisizione universalmente valida, incontrovertibile e immutabile. Come mostra l’ultimo dei saggi raccolti nel volume, la razionalità euclidea è l’asse teorico su cui si impernia gran parte della scienza ellenistica (sia pure con qualche eccezione).
Fu Galeno a tentare una sintesi di questi due stili di razionalità nel suo progetto di ricostruzione epistemologica della medicina, come indicano i due saggi che qui gli sono dedicati. Da un lato, egli continuava a ritenere che la medicina dovesse essere una techne di stile ippocratico, capace di diagnosticare e pronosticare le vicende individuali della malattia grazie a un’indagine semiologica di modello “edipico”. Dall’altro però era convinto che la medicina dovesse dotarsi di un robusto impianto teorico di tipo universalizzante e dimostrativo, alla maniera delle scienze forti di modello “euclideo”, sfidando le tensioni che questa doppia esigenza epistemologica veniva producendo nel suo pensiero.
Anche per il rigoroso razionalismo stoico conciliare la teoria di un’anima costituita dal solo logos con l’evidenza dell’insorgere nel soggetto umano di pulsioni irrazionali come le passioni costituiva un serio problema. Il capitolo IV del libro mostra come una delle spiegazioni stoiche abbia individuato nel condizionamento sociale ed educativo subito fin dalla primissima infanzia la matrice delle deviazioni passionali: la natura mette al mondo neonati buoni, ma i successivi processi di allevamento e di socializzazione lo predispongono a cedere all’irrazionalità delle passioni.
I saperi antichi vengono naturalmente forgiati da forme di razionalità intermedie od oblique rispetto agli estremi che ne abbiamo indicati. C’è il potente ricorso a modelli metaforici che rendono possibile e persuasivo il discorso scientifico intorno a fenomeni difficilmente accessibili o comprensibili. Così la metafora della politica agevola per i medici la comprensione dei processi somatici interni (cap. II), e quella derivata da un’esperienza tanto diffusa nella società romana come lo spettacolo circense orienta la costruzione del sapere di Plinio intorno al mondo animale (cap. V). La scimmia, infine, con il suo corpo troppo simile a quello umano, mette suo malgrado in contatto due mondi così lontani come quello leggero del gioco e dello spettacolo, da un lato, e dall’altro quello dell’anatomia e della vivisezione, con la sua razionalità scientifica “dura” (cap. III).
Nell’ambito dei miei studi, queste ricerche svolgono un ruolo di transizione. Da lato, continuano e sviluppano temi trattati ne Il coltello e lo stilo (1979), dall’altro anticipano quelli sull’etica antica e sulla medicina ellenistica e galenica, che avrebbero occupato i decenni successivi. Il comune orientamento metodologico di questo campo di studi è definito nel testo sulla Questione dei metodi, con il quale si apre il volume; i saggi raccolti possono venire letti come esempi e verifiche delle indicazioni che vi vengono discusse.
In questo doppio carattere, di lavori di ricerca e di esercizi di metodo, credo possa consistere il perdurante interesse dei saggi raccolti, e per questo mi è giunta benvenuta l’idea di riproporli al lettore per i tipi di Petite Plaisance.
Mario Vegetti
Dicembre 2017
Mario Vegetti, Scritti sulla medicina ippocratica.
ISBN 978-88-7588-225-9, 2018, pp. 416, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [86]. In copertina: Rilievo dal santuario di Anfiarao a Oropo, 400-350 a.C., Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Ho esitato ad accettare la proposta dell’editore Carmine Fiorillo e dell’amico collega Luca Grecchi di raccogliere in volume i miei scritti sulla medicina ippocratica. Per la gran parte, infatti, essi risalgono a quasi cinquant’anni or sono, ed era evidentemente fuori questione tentarne un aggiornamento, che avrebbe equivalso a riscrivere larga parte della ricerca ippocratica del Novecento: in effetti, questi scritti avevano un carattere pioneristico, e non solo in Italia. Erano allora rari gli studi d’insieme sulla medicina greca di epoca classica, le edizioni commentate di singoli testi ippocratici, e naturalmente non si parlava ancora di Colloqui ippocratici internazionali, la cui serie iniziò nel 1972 dando luogo ad incontri via via più affollati di studiosi e di specialisti. Ma è stata poi proprio la precocità di questa stagione di studi, nell’ambito della vicenda mia personale e in quello della ricerca ippocratica in Italia, a convincermi infine ad accettare la proposta. Si respirava in quegli scritti un’aria di scoperta: l’emozione per l’incontro con un episodio fondativo alle origini della tradizione medica e del pensiero scientifico in Occidente, l’entusiasmo per l’esplorazione del più vasto continente di sapere scientifico che la cultura greca ci abbia lasciato prima di Aristotele e della geometria euclidea. Si trattava per giunta di una techne razionale – fra le prime a varcare la soglia della scrittura durante il V secolo a.C. – che offriva il modello di un sapere capace di coniugare conoscenza ed efficacia. Essa si collocava più sul versante semiotico, individualizzante della scienza che su quello dimostrativo-astrattivo, e costituiva quindi un suggestivo modello intellettuale per le scienze dell’uomo allora in corso di formazione, dalla storia alla politica, come mostrò precocemente Jaeger e come del resto aveva già intuito Platone. Nei saggi qui raccolti venivano seguiti due approcci principali nell’accostarsi a questo ricco ambito del sapere antico, entrambi del resto consoni all’atmosfera intellettuale degli anni Sessanta del secolo scorso. Il primo, e di gran lunga prevalente, era l’interesse per il metodo, concepito come il terreno di incontro cognitivo fra ragione ed esperienza, configurate così come i due poli del processo della conoscenza. Si trattava di un approccio orientato da una epistemologia di ispirazione kantiana, com’è facile vedere, ma che risultava adatto a mettere in luce la nascente sensibilità metodologica in cui consisteva uno dei tratti di originalità teorica del pensiero medico nel V secolo. Esso sembrava infatti proporre, in forme più o meno esplicite, una funzione della ragione come strumento di comprensione e di organizzazione significativa del materiale di esperienza, e dell’esperienza stessa come territorio disponibile al controllo cognitivo e anche operativo della ragione, che da esso comunque non poteva prescindere. Con questa idea di “metodo”, la medicina ippocratica sembrava trovare una sua via – la via propria di una techne – tra le due opposte “sostanzializzazioni”, della ragione e dell’esperienza. La prima veniva concepita dagli Eleati non in rapporto ma in opposizione all’esperienza, e costituiva dunque non solo uno strumento della verità, ma il suo unico contenuto. L’esperienza dei processi naturali veniva per contro concepita dagli Ionici come autoesplicativa, perché bastava la scelta di uno o più elementi della natura per spiegarne tutto il resto, senza l’impegno a costruire un discorso capace di darsi regole e giustificazioni metodiche eterogenee rispetto al mondo naturale. Il secondo approccio, più vicino questo a un’ispirazione marxista, comportava invece un’attenzione, allora non molto diffusa, all’ambiente sociale che aveva favorito lo sviluppo della medicina e del suo peculiare profilo intellettuale. Si trattava della polis democratica, teatro della crescita delle technai profane e secolarizzate, legate all’ambiente sociale dell’agorà, e della parallela crisi dei saperi tradizionali di matrice sacerdotale: il luogo culturale, dunque, dove il medico laico di affiliazione ippocratica poteva sfidare i sacerdoti guaritori dei templi di Apollo e di Asclepio, i purificatori, i maghi e gli indovini della tradizione. Sul piano filosofico, questo stesso ambiente della medicina era condiviso da un filosofo come Anassagora, il che contribuisce a spiegarne la particolare rilevanza per l’ippocratismo, come si insiste a più riprese nei lavori qui raccolti. A tanta distanza di anni, e dopo così rilevanti sviluppi nella ricerca, i loro limiti emergono con chiarezza: in parte possono venir considerati inevitabili visto l’entusiasmo pioneristico che li animava, in parte possono esser fatti risalire alle concezioni diffuse nella cultura del tempo, oltre che a inclinazioni proprie dell’autore. Quanto a queste ultime, credo si possa definire alquanto eccessiva l’enfasi posta sul rapporto, in positivo e in negativo, tra filosofia e medicina. È indubbio che le grandi correnti filosofiche abbiano influito, o tentato di influire, sulla formazione della concettualità medica: dopo tutto, è in Antica medicina che si trova la più antica citazione (polemica) di Empedocle e della sua “filosofia”; ed è altamente probabile che il nascente pensiero “ippocratico” possa aver rivolto la sua attenzione al magistero anassagoreo. D’altra parte, è ben nota la profonda impressione che la medicina destò in tutto l’arco del pensiero di Platone, sia nel suo versante metodico (come testimoniano il Fedro e il Carmide), sia nella sua esemplarità etico-politica, a più riprese sottolineata dal Gorgia alla Repubblica, dal Politico alle Leggi. Ma è prudente non immaginare un’intensa circolazione di libri e dottrine fra due aree così intellettualmente e anche professionalmente e socialmente lontane come la filosofia e la medicina delle origini, e fra ambiti geografici distanti come la Magna Grecia e la costa ionica dell’Asia minore. La stessa pur rilevante elaborazione metodologica prodotta dai medici del V secolo non avrà probabilmente avuto quella piena consapevolezza teorica e filosofica che tendevo ad attribuirle, quasi si trattasse non di Ippocrate ma – seicento anni più tardi – di Galeno. Tipico del tempo in cui prese forma la mia ricerca è invece un certo eccessivo ottimismo nella possibilità di risolvere la “questione ippocratica”, identificando le opere autenticamente attribuibili alla figura storica di Ippocrate, e persino tentando di leggerne l’evoluzione interna. Ero allora convinto che il “vero” Ippocrate fosse riconoscibile nelle opere tradotte nelle prime due sezioni del mio Ippocrate del 1964, che Ludovico Geymonat volle accogliere nella sua storica collana di “Classici della scienza”: L’antica medicina, Le arie le acque i luoghi, Il prognostico, Il regime nelle malattie acute, Male sacro, Le epidemie (libri I e III), Le ferite nella testa, Fratture e articolazioni; e che, di conseguenza, queste opere contenessero una dottrina medica coerente e unitaria. Continuo a pensare che, se ha senso cercare un nucleo “ippocratico” del Corpus, esso andrà più o meno cercato nel perimetro indicato, e che sia tanto difficile escluderne Antica medicina quanto includervi Il regime, come molti studiosi hanno sostenuto. Ma già nell’Introduzione del 1973 alla seconda edizione dell’Ippocrate manifestavo una giusta cautela sulla possibilità di raggiungere conclusioni definitive in proposito, e anche un certo scetticismo sull’utilità della modalità filologico-attribuzionistica della ricerca ippocratica, che rischiava di mettere in secondo piano la cosa più importante, cioè la comprensione storico-critica di opere e gruppi di opere, quale che ne fosse la presunzione di “autenticità” ippocratica. Più interessante mi sembra segnalare ora un abbaglio, o un equivoco, in cui incorrevano sia la mia ricerca sia gran parte della storiografia dell’epoca. Ne era motivo il pregiudizio classicistico, che assegnava un maggior valore culturale e sociale alle forme politiche e intellettuali appunto dell’età detta “classica” (V e IV secolo a.C.), e conseguentemente considerava epoche di decadenza quelle posteriori, a partire dall’ellenismo (un pregiudizio tenace che risaliva a Hegel ed è resistito fino a pochi decenni orsono). Aleggiava dunque la convinzione che la grande età della medicina greca fosse appunto quella ippocratica, e che la medicina posteriore, per quanto tecnicamente evoluta – dagli anatomisti alessandrini a Galeno – avesse perduto la carica innovativa e l’apertura intellettuale dei fondatori. Parallelo a quello epistemico, c’era il pregiudizio storico secondo il quale la grande età della storia greca era stata quella “periclea”, insomma l’età della polis matura, e che la successiva storia dei regni ellenistici fosse a sua volta una storia di decadenza politico-sociale. Non c’è bisogno di dire che gli sviluppi della ricerca, e la critica del classicismo, hanno fatto giustizia di entrambi questi pregiudizi. La medicina ellenistica e imperiale è stata riconosciuta come uno straordinario edificio di sapere teorico e di competenza tecnica, dai vasti orizzonti intellettuali e dal forte prestigio sociale (nella mia storia personale, questa svolta ha avuto luogo nel 1978, con l’avvio degli studi su Galeno, anch’essi stimolati da Ludovico Geymonat). Quanto al mondo dei regni ellenistici, ne sono stati generalmente riconosciuti i meriti nella promozione della cultura letteraria e scientifica, i successi tecnologici ed economici, lo spirito di tolleranza nei riguardi delle religioni e delle culture che facevano parte dei loro domini. Veniva certo meno l’intensa partecipazione dei cittadini alla vita politica comune, che era stata propria della polis; ma veniva anche meno la chiusura etnica e sociale di questa comunità di “autoctoni” di fronte agli stranieri, cui essa non riconosceva alcun diritto. È almeno discutibile che le scienze e le tecniche abbiano trovato nella polis un ambiente più favorevole al loro sviluppo rispetto ai regni ellenistici: la fondazione del Museo e della Biblioteca di Alessandria, oltre che di simili istituzioni nelle altre capitali ellenistiche, sembra dare decisamente un’indicazione contraria, anche se certo in questi casi si tratta di mecenatismo regio e non di deliberazione democratica. Una rilettura di questi testi, ricollocati così nelle coordinate culturali in cui videro la luce, ritengo possa mantenere un suo valore e una sua utilità per tutti i lettori interessati a comprendere lo sviluppo storico e le strutture intellettuali della medicina greca di epoca ippocratica – cioè dell’episodio fondativo dell’intera tradizione medica occidentale. Gli scritti sono presentati in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni del 1964 e del 1973, che sono poste al termine del volume per il loro carattere di trattazione complessiva. Non sono stati inclusi in questa raccolta scritti già comparsi nei volumi La medicina in Platone, Il Cardo, Venezia 1995, e Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore, Milano 1983. Non posso concludere questa premessa senza rivolgere il mio più caloroso ringraziamento all’editore Carmine Fiorillo, per lo straordinario impegno profuso nell’allestimento di questo volume.
Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività. La selezione dei saggi qui pubblicati è stata realizzata dall’Autore negli ultimi mesi della sua vita. A causa della sua morte, avvenuta il giorno 11 marzo 2018, l’Autore non ha potuto rivedere le bozze.
Questo libro, cui l’Autore teneva tanto, ci consente di mantenere vivo il ricordo anche di questa parte della sua opera; ecco dunque il motivo per cui siamo lieti, insieme alla sua famiglia, di offrire ai lettori, soprattutto a quelli più giovani, la presente raccolta. Per la quale, innanzitutto, dobbiamo ringraziare Mario.
Sommario
Nota preliminare di Luca Grecchi
Introduzione a Galeno
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Tradizione e verità. Forme della storiografia filosofico-scientifica nel De placitis Hippocratis et Platonis di Galeno
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I nervi dell’anima
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Enciclopedia ed antienciclopedia: Galeno e Sesto Empirico
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Galeno e la rifondazione della medicina
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L’épistémologie d’Érasistrate et la technologie hellénistique
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La psicopatologia delle passioni nella medicina antica
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Historiographical strategies in Galen’s physiology (De usu partium, De naturalibus facultatibus)
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De caelo in terram. Il Timeo in Galeno (De placitis Hippocratis et Platonis, Quod animi mores corporis temperamenta sequuntur)
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Il confronto degli antichi e dei moderni in Galeno
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Galeno
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Corpo e anima in Galeno
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Corpo, temperamenti e personalità in Galeno
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Galeno, il “divinissimo” Platone e i platonici
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Fra Platone e Galeno: curare il corpo attraverso l’anima, o l’anima attraverso il corpo?
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I nuovi testi di Galeno: tra epistemologia e storia della cultura
Paola Manuli – Mario Vegetti, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico. In Appendice: Galeno e l’antropologia platonica.
ISBN 978-88-7588-028-6, 2009, pp. 288, formato 140×210 mm., Euro 25. Collana “Il giogo” [22]. In copertina: Asclepio cura un malato, rilievo in marmo, V secolo a.C.
Prefazione alla nuova edizione
Questo libro è esaurito da molti anni, e non è stato possibile ristamparlo perché la casa editrice Episteme, che l’aveva pubblicato nel 1977, ha nel frattempo cessato la sua attività. Mi è spesso accaduto di ascoltare il rammarico di studiosi che ne lamentavano l’irreperibilità, considerandolo ancora un utile strumento di lavoro. Quando l’editore CARMINE FIORILLO mi ha espresso la sua generosa disponibilità ad una riedizione del volume, ho tuttavia provato qualche incertezza. Provvedere a un aggiornamento risultava impossibile per due ragioni. La prima era la dolorosa e prematura scomparsa di PAOLA MANULI, autrice della parte sostanziale del lavoro (a me era spettato soltanto, oltre al progetto complessivo, la stesura dell’introduzione). La seconda consisteva nell’immensa mole di lavori scientifici comparsi nei trent’anni intercorsi dalla pubblicazione del libro: per limitarmi a qualche esempio, ricorderò solo gli atti dei numerosi colloqui ippocratici e galenici, le opere collettive sulla biologia di ARISTOTELE edite da GOTTHELF, LENNOX, PELLEGRIN e KULLMANN, il libro della DUMINIL sul sangue e il cuore nel Corpus Hippocraticum (1983), il volume della ANRW su GALENO (II 37.2, 1994), gli studi di G.E.R. LLOYD; e citerò da ultimo tre recentissime e importanti ricerche in lingua italiana, quella di D. QUARANTOTTO sul finalismo nella scienza aristotelica (2005), quella di R. LO PRESTI sull’encefalocentrismo ippocratico (2008), e quella di T. MANZONI sul cervello in ARISTOTELE (2007). Una rilettura del libro mi ha tuttavia convinto che nonostante tutto esso conservi ancora motivi di attualità tali da renderne opportuna e motivata una riedizione. Vorrei indicarli schematicamente in quattro punti.
1. L’opera non si limita ad una ricostruzione degli atteggiamenti del pensiero scientifico antico in merito al problema di individuare la parte egemonica del complesso psico-somatico. C’è inoltre uno sforzo intelligente e sistematico di integrare questi atteggiamenti all’interno di una serie di veri e propri paradigmi epistemologici, che mette in chiaro come le opzioni intorno a questo problema si inseriscano in un quadro complesso di posizioni gnoseologiche e di scelte filosofiche, come risultino solidali rispetto a tutta una costellazione di conoscenze scientifiche, di pratiche tecniche e anche di pregiudizi ideologici, che in ultima istanza risultano riferibili a concezioni rivali circa il rapporto fra uomo e natura. In questo senso, il libro presenta ancora a mio avviso un rilevante interesse di ordine metodico, come saggio di un’interpretazione della scienza antica che non si limita a un repertorio di “progressi” e di “errori”, ma si sforza di comprendere l’insieme delle ragioni che motivano (non certo meccanicamente) sviluppi, regressi, aporie, innovazioni e contraddizioni.
2. Il libro presenta inoltre una sostanziale novità storiografica, che non mi risulta sia stata superata dalla letteratura critica più recente, e di cui anzi forse non sono ancora state pienamente sviluppate tutte le potenzialità euristiche. Si tratta della distinzione (nel campo degli avversari dell’encefalocentrismo) fra un paradigma cardiocentrico, ben noto grazie ad ARISTOTELE, e un paradigma emocentrico, che spesso, ma erroneamente, viene identificato con il cardiocentrismo. PAOLA MANULI non solo ha identificato con chiarezza questo secondo paradigma, che risale a EMPEDOCLE, ma soprattutto ne ha seguito la persistenza, spesso meno evidente ma non per questo meno efficace, dal Timeo platonico allo stesso ARISTOTELE e persino in GALENO, dove residui emocentrici appaiono tanto insuperati quanto latori ci contraddizioni e difficoltà di ricomposizione sistematica. Si tratta a mio avviso di un contributo tuttora prezioso per una comprensione non frettolosa e schematica dell’intera storia del pensiero biologico antico.
3. Il commento al peri kardies, nonostante che le opinioni sulla cronologia tendano oggi ad una datazione più bassa, resta di grande utilità per precisione di analisi e ricchezza di informazioni critiche, che offrono un quadro problematico ancora indispensabile all’interpretazione di quest’opera per molti aspetti enigmatica.
4. L’appendice su GALENO, infine, costituisce un pionieristico repertorio critico dei problemi relativi all’anatomo-fisiologia, alla psicologia e all’antropologia galeniche – problemi che sono tuttora al centro delle ricerche in questo settore – nonché una indagine penetrante intorno alle strategie con le quali GALENO affronta la tradizione da cui dipende, operando a volte un sapiente montaggio delle sue actoritates (in primo luogo IPPOCRATE, PLATONE, ARISTOTELE), a volte invece contrapponendole per finalità polemiche (come ad esempio IPPOCRATE e PLATONE contro ARISTOTELE e gli stoici sul tema del cardiocentrismo).
Mi sono sembrate, queste ed altre, buone ragioni per accettare volentieri e con gratitudine la proposta dell’editore di ripubblicare Cuore sangue e cervello, che viene in questa nuova veste corredato da un indice delle opere e degli autori citati. Spero che l’opera risulti utile e ben accetta agli studiosi; per quanto mi riguarda, considero questa nuova edizione anche come una rinnovata testimonianza del ricordo di PAOLA MANULI, la cui persona e il cui lavoro sono tuttora ben presenti nella memoria della comunità scientifica.
ISBN 88-7588-014-X, 2007, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [18]. In copertina: Kouros, IV secolo a. C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Prefazione
1. Non avrei mai pensato di raccogliere questi scritti, se non fosse stato per la cortese e generosa insistenza dell’amico Luca Grecchi e dell’editore Carmine Fiorillo. A loro va dunque, nel bene e nel male, la responsabilità dell’esistenza di questo piccolo volume. A me spetta tuttavia di giustificare – nei limiti del possibile – l’accoglimento della loro proposta. Quello che mi ha colpito, nel rileggere questi testi dispersi in sedi molto diverse lungo l’arco di più di un quarto di secolo, è stata in primo luogo la loro coerenza. Devo dire subito che non ritengo che la coerenza sia necessariamente una virtù: essa può significare in effetti testardaggine cocciuta, miopia e sordità nei confronti di ciò che di nuovo accade nelle cose e nelle idee, insomma anelasticità intellettuale. Ci può tuttavia essere qualcosa di virtuoso nella coerenza. Si tratta – per prelevare due parole dal lessico caro a Franco Fortini – dei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso non di ribadire tesi e dogmi, ma di continuare tenacemente a porre, e a pormi, problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, e accettando invece l’apertura e la variabilità della gamma delle risposte cercate. E anche nel senso di rifiutare la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria: convincersi di “aver sbagliato” perché si è perduto rappresenta secondo me il residuo di una concezione teologica (il nemico è uno strumento divino per punirci delle nostre colpe). Qualche volta può essere così, ma più spesso l’avversario vince semplicemente perché è più forte sul terreno. E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale, da un lato, la nostra collocazione in un mondo, dall’altro (insomma, in lettere minuscole, il nostro destino). Almeno in questo senso, la coerenza può forse risultare una virtù, e questa è stata la prima ragione che mi ha indotto ad accettare la proposta di raccogliere questi scritti, affidandoli volentieri a un piccolo ma coraggioso editore. Scritti con la mano sinistra, appunto. Ovviamente nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (questa espressione non ha naturalmente a che fare con appartenenze di “tessera”, ma con una decisione di fondo, la scelta “da che parte stare”). “A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. Un futuro comunista, anche: con la necessaria precisazione che per “comunismo” non intendo un’identità ereditata e conclusa, in qualche misura “anagrafica” o certificata da un’iscrizione, ma appunto un orizzonte di ricerca e di azione, una prospettiva di liberazione e di giustizia, che si situa all’intersezione fra la parzialità della “presa di partito” e l’universalità che appartiene ai valori. Un’utopia, forse, della quale non nego l’ascendenza platonica oltre che giacobina e marxiana, che tuttavia, se vuole essere presa sul serio, deve poter individuare i suoi vettori storici di realizzabilità, le sue condizioni di possibilità, i livelli concreti di attuazione parziale e approssimata. È appena il caso di aggiungere che in questi scritti non devono venire cercati né la chiave di lettura né il senso “segreto” dei miei lavori professionali di ricerca nel campo della storia della filosofia antica. Come ogni indagine disciplinare e a suo modo “scientifica”, essi contengono in se stessi, cioè nella relazione interpretativa che istituiscono con i testi e gli autori, e negli strumenti di metodo dichiaratamente messi in opera, le condizioni per la propria validità, e presentano il proprio specifico ambito di significazione. Stabilita questa necessaria clausola di salvaguardia, sarebbe tuttavia ingenuo, e anche a mio avviso metodicamente erroneo, assumere una perfetta “neutralità” dell’osservatore di fronte ai suoi oggetti di indagine, o una totale immunità di questa indagine dalla posizione extra-scientifica dello studioso. Ingenuo, erroneo e dal mio punto di vista anche inammissibile: credo infatti che la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirino e sorveglino (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore. Può darsi, dunque, che questi “scritti con la mano sinistra”, dichiarando esplicitamente la seconda senza riguardo per la finzione di “neutralità” del primo, contribuiscano a definire più chiaramente gli interessi intellettuali, i punti di vista da cui vengono formulate le domande di senso messe in questione nell’indagine storica. Anzi, l’esser consapevoli della propria parzialità può evitare di cadere in una tentazione, di commettere un errore storiografico in cui spesso si incorre, più o meno ingenuamente: quelli di “piantare le proprie bandierine” sul campo di indagine, cioè di riconoscere nel passato “precursori” delle idee in cui si crede (che siano il comunismo o il socialismo o il liberalismo o il cristianesimo: quanto spesso xe “Platone”Platone è stato arruolato sotto queste insegne?). Si tratta di un errore particolarmente funesto, perché lo studio del passato non serve allora a conoscere il passato stesso e per suo tramite a comprendere meglio noi stessi, bensì soltanto, narcisisticamente, a specchiarsi nel passato per riconoscervisi: il che non porta ad alcun incremento di comprensione né da una parte né dall’altra.
2. Questo libro è diviso in tre parti. La prima, Tra filosofia e politica, comprende scritti che discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Che cosa significa la “crisi della ragione” e delle sue pretese universalistiche, tematizzata nel dibattito filosofico dell’ultimo scorcio del Novecento, dal punto di vista dei conflitti sociali e valoriali? Qual è il rilievo dell’esaurimento teorico della filosofia storicistico-dialettica dello “sviluppo”, e la sfida che esso propone a un pensiero non evoluzionistico della rivoluzione come progetto di emancipazione? Quale autonomia e quale ruolo restano all’intellettuale, e in particolare al filosofo, di fronte al dominio dei poteri sociali di conformazione della soggettività? Infine: c’è ancora uno spazio possibile per una prospettiva etica come orizzonte di senso della politica? Intorno a queste domande insistenti si articola la riflessione sviluppata – certo in modo solo incoativo – in questo primo gruppo di scritti. La seconda sezione si intitola, per contro, Tra politica e filosofia. Qui l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Un primo nodo problematico è costituito dalle condizioni di possibilità di una soggettività collettiva antagonista (il “partito dei comunisti”) nell’epoca del tardo-capitalismo in cui si è prodotto il progressivo logoramento delle grandi strutture di formazione di identità sociale (la fabbrica, il sindacato, l’esercito), in altre epoche capaci di esprimere una propria guida e rappresentanza politica. Emerge qui l’urgenza di pratiche collettive intese primariamente a “fare società”, cioè a creare legami sociali e progettualità collettive di cui la politica possa farsi interprete e strumento. E ancora una volta la questione dell’etica si profila come decisiva per costruire forme nuove di aggregazione sociale. Un compito imprescindibile in questa prospettiva è quello di comprendere le ragioni della crisi dei modelli di stato e di società storicamente sperimentati dal movimento operaio e dai suoi partiti nel corso nel Novecento, e in primo luogo delle forme del cosiddetto “socialismo reale”. Ma altrettanto importante è riflettere – al di fuori delle semplificazioni propagandistiche e delle deformazioni ideologiche – sui temi della guerra e della “violenza”, tanto nelle loro dimensioni antropologiche quanto nelle implicazioni politiche che vi sono connesse. Infine, e soprattutto, c’è l’esigenza imprescindibile di immaginare un futuro possibile, come orientamento della prassi quotidiana e anche come presupposto di un recupero valoriale della tradizione, ai fini della ricostruzione di una soggettività progettuale, di una nuova presa di coscienza della storicità capace di uscire dalle secche del “pensiero unico” e dalla minaccia della “fine della storia”. Al pari della società, la storicità non è un dato di fatto che si possa considerare acquisito, ma un obiettivo da costruire, un compito da perseguire, insomma una possibilità che non è garantita ma deve venir prodotta nell’azione collettiva di comprensione e di trasformazione. La terza sezione, Fra gli antichi e noi, torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche che si sono venute fin qui delineando. Da un lato si discutono le possibilità e i limiti di un’impiego delle categorie marxiane per l’interpretazione delle forme sociali e culturali del mondo antico: si tratta ancor oggi di uno strumento euristico indispensabile, anche per rettificare vedute dell’antico ingenue o ideologiche che ne oscurino il carattere profondamente conflittuale; uno strumento che va però maneggiato con cautela metodica e consapevolezza critica, vista la differenza che intercorre fra il sistema sociale del capitalismo moderno, in cui quelle categorie si sono formate, e la struttura delle “forme economiche pre-capitalistiche” su cui ci interroghiamo. Dall’altro lato sono in questione importanti episodi di reinterpretazione dell’antico da parte del pensiero contemporaneo, come le recenti indagini di M. Foucault sull’etica e l’antropologia antiche, e la vicenda novecentesca delle interpretazioni del pensiero politico di Platone, con i suoi abusi ideologici. Questo stesso pensiero viene infine indagato in due direzioni: l’utopia della comunità “giusta”, da un lato, e la critica – non disgiunta da un’inquietante attrazione – per una forma di potere politico assoluto ed efficace quale fu rappresentata nel IV secolo dalla tirannide: il circolo in questo modo si chiude, perché l’utopia della comunità giusta e la prospettiva del potere tirannico come strumento di trasformazione sociale ci riportano prepotentemente a questioni centrali della riflessione politica contemporanea.
3. Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti. Che non aspirano davvero a fornire risposte, e neppure, in molti casi, a formulare le domande in modo filosoficamente adeguato. Ma che possono, forse, rivendicare a proprio merito lo sforzo di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno. Ma se sarà riuscito a riproporre, con la sua insistenza, un richiamo a questa responsabilità, a suscitare qualche consenso e naturalmente molti dissensi intorno al suo modo (certo controvertibile) di porre questioni e di condurre il ragionamento, questo piccolo libro non avrà del tutto deluso la fiducia di coloro cui si deve il progetto della sua realizzazione, e le speranze del suo autore.
Mario Vegetti
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Arianna Fermani, VITA FELICE UMANA. In dialogo con Platone e Aristotele, eum edizioni Università di Macerata, 2006.
«Le ferite non scompaiono mai del tutto, soprattutto se profonde […] tuttavia, anche se non scompaiono, possono cicatrizzare. In questa cicatrice, che è, contemporaneamente, segno del patimento e sintomo di guarigione, si gioca la possibilità, per l’uomo che ha incontrato la morte e il dolore e che di fronte ad essi ha sofferto, di “ricominciare” a vivere» (A. Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, Eum, Macerata 2006, p. 91).
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le rifªlessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come “eu prattein”, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
Sommario
Introduzione
Prima parte
Semantica della felicità
Capitolo primo La felicità come domanda originaria * Domande “di” felicità * Domande “sulla” felicità ° Felicità: una questione terminologica ° Felicità e forma di vita
Capitolo secondo Felicità e dolore * L’esperienza del dolore ° Il dolore come accadimento ° Le forme del dolore ° Il dolore alla massima potenza: la morte ° Le figure della morte. Riflessioni conclusive * Cicatrizzazione del dolore e cura di sè ° Approcci al dolore ° Cura del dolore e cura di sè ° L’assunzione del dolore * Concludendo
Capitolo terzo Felicità e piacere * L’esperienza del piacere * Fenomenologia del piacere ° Il piacere nell’orizzonte della corporeità ° Dinamiche piacevoli e dolorose ° Il corpo e i desideri: la veemenza di un fiume in piena ° Anima e corpo di fronte al piacere ° Verità / Falsità dei piaceri ° Unità e molteplicità della nozione di desiderio. ° Alcune note a margine dei testi platonici e aristotelici ° Piaceri e criteri di scelta * Il ruolo del piacere nella vita felice
Capitolo quarto Felicità e realizzazione di sé * Profili della virtù: tentativi di un recupero ° Virtù come eccellenza ° Virtù come forza ° Virtù come disposizione ° Virtù come giusto mezzo * La virtù come architettonica della felicità ° Vita felice e accordata: la virtù come musica ° Vita felice e ordinata: la virtù come misura ° La virtù come arte del viver beneCapitolo quinto
Capitolo quinto Felicità e beni esteriori * Primi approcci al problema * Felicità e fortuna ° Lampi di felicità, colpi di fortuna ° Fortuna e virtù ° Felicità e fortuna: osservazioni conclusive * Felicità e amministrazione dei beni ° Il possesso e l’utilizzo di due beni supremi: la sophia e la phronesis
Seconda parte Prassi di felicità
Capitolo primo Felicità e valorizzazione delle proprie risorse * Vita felice e buon utilizzo dei propri talenti ° Per una eudaimonia nell’orizzonte della physis ° Felicità al singolare, felicità al plurale ° Alcune riflessioni sulle nozioni di corpo e anima in Platone e Aristotele ° Anime e progetti di vita: osservazioni conclusive * Eudaimonia ritrovamento e buona allocazione del proprio daimon ° Felicità come consapevolezza ° Percorsi esistenziali e traiettorie di felicità * Saggezza e sapienza di fronte alla felicità
Capitolo secondo Felicità come conquista di pienezza * Felicità: tra esperienze di pienezza e pienezza di vita ° Tentativi di articolazione della nozione di pienezza * Per una pienezza nell’orizzonte dell’ energeia * La difficoltà di far spuntar le ali: la felicità come conquista ° Felicità pienamente consapevole e pienamente umana * Riflessioni conclusive
Conclusioni
Per concludere
Vita felice umana: appunti di viaggio
Bibliografia Dizionari e lessici/Testi antichi/Testi moderni e contemporanei/ Letteratura critica e studi generali
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Tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani
Arianna Fermani
L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristote
«Non è una differenza da poco il fatto che subito fin
dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro ma,
al contrario, è importantissimo o, meglio, è tutto» (Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 23-25).
Questo contributo mira a mettere a fuoco
il tema dell’educazione di Aristotele, mostrando come tale riflessione
risulti essere originale ed attuale. L’indagine prende avvio dall’esame
delle occorrenze di alcuni lemmi all’interno del corpus del filosofo particolarmente significativi rispetto al tema della educazione, come ad esempio
Si intende mostrare come la riflessione aristotelica sulla paideia,
oltre ad un utilizzare una specifica metodologia di indagine, si muova
all’interno di due fondamentali scenari educativi: nel primo (che a sua
volta si articola in una serie di sotto-questioni, come ad esempio il
tema dell’insegnabilità della virtù o quello dell’emotional training e dell’educazione delle passioni) l’educazione precede l’etica, mentre nel secondo l’educazione consiste nell’etica, secondo il fondamentale modello teorico dell’energeia.
Arianna Fermani
è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica
all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente
sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi
del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È
Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’
“International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo
Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia
Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella
Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È
Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana. Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.
Arianna Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele,Editore: eum, 2006
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios,
cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare
come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi
concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto
con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i
numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i
dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la
costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra
cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica
della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein,
inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra
risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle
modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò
che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
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Arianna Fermani, L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana, Editore: Morcelliana, 2012
Utilizzando tutte e tre le Etiche
aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore
prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un
pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà
“si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora
devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”.
Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente
mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa
lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta,
persino nella loro incompatibilità, convivano.
La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di
alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte
innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli
studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di
vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.
Sommario
Ringraziamenti
Premessa
I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni
II “Essere” e “dirsi in molti modi”
Introduzione
I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele
II. Autenticità delle tre Etiche
III. Obiettivi e struttura del lavoro
PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù
Capitolo primo: Giustizia e giustizie
Capitolo secondo: La fierezza
Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia
Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza
Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio” Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio
SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca”
Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere
Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore
TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici
Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità
Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis
Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi Conclusioni
Bibliografia
Indice dei nomi
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Aristotele, Le tre etiche. Testo greco a fronte, Editore: Bompiani, 2008.
In un unico volume e con testo greco a
fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”,
l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano
tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di
ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per
raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale,
sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum,
poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato
“Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti
permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e
degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica.
Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei
principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla
trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti
delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva
degli scritti e le loro reciproche connessioni.
Il confronto tra Platone ed Aristotele è
stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli
conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del
sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per
ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia
della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa
contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di
alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a
una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a
una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità:
emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini
stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la
dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica
ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della
dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo
storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici
greche delle nostra immagine di ragione.
***
Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani, Interiorità e anima: la psychè in Platone
Vita e Pensiero, 2007
Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.
***
Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.
Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas”
1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La
riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M.
Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia.
Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la
dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono
insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani,
Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per
conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts,
and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda.
longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di
Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto
Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F.
De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo
Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.
***
J. Rowe, Arianna Fermani, Il ‘simposio’ di Platon
Academia Verlag, 1998
Cinque lezioni sul dialogo con un
ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio
Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata,
Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con
l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.
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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità
“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità; Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203
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ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE
Arianna Fermani
Vita e Pensiero, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202
In questo volume vengono raccolti cinque
saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di
ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla
filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e
all’aristotelismo di epoca imperiale.
Leggo, per quanto è possibile, soltanto ciò di cui ho fame,
nel momento in cui ne ho fame, e allora non leggo: mi nutro.
Simone Weil
A Giulio Einaudi, Torino.
Torino, 14 aprile 1942
Spettabile Editore,
Avendo ricevuto n. 6 sigari Roma – del che Vi ringrazio – e avendoli trovati pessimi, sono costretto a risponderVi che non posso mantenere un contratto iniziato sotto così cattivi auspici. Succede inoltre che i sempre rinnovati incarichi di revisione e altre balle che mi appioppate, non mi lasciano il tempo di attendere a più nobili lavori. Sì, Egregio Editore, è venuta l’ora di dirVi, con tutto il rispetto, che fin che continuerete con questo sistema di sfruttamento integrale dei Vostri dipendenti, non potrete sperare dagli stessi un rendimento superiore alle loro possibilità.
C’è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere. La Natura insomma ci chiama, egregio Editore; e noi seguiamo il suo appello.
Fatevi fare il Bini da un altro.
Cordialmente. C. Pavese
La lettera di Cesare Pavese è tratta dal libro Franco Vaccaneo, Cesare Pavese. La vita, le opere, i luoghi, Gribaudo editore, 2009.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.
Venerdì 29 marzo, su Il Fatto Quotidiano, compare un articolo dal titolo “L’ANTISIONISMO NON È ANTISEMITISMO”, a firma di Moni Ovadia. Me ne sono rallegrato, come studioso – da circa cinquant’anni – del Medio Oriente, e in particolare del popolo palestinese, e anche come lettore ormai affezionato di questo giornalino, un ottimo giornale, nella sostanza, anche in considerazione dei pessimi giornaloni circostanti.
Ho letto con attenzione tutto l’articolo e ne ho condiviso le argomentazioni, tutte improntate ad un universalismo appassionato, preoccupato del silenzio per le sorti del popolo palestinese e, quel che è peggio, di una sorta di passaparola, prevalente fra i mezzi di comunicazione di massa, che sollecita a non parlarne affatto. Moni Ovadia indica addirittura di una sorta di parola d’ordine: “evitate l’argomento”.
Dice l’autore dell’articolo:
«Quando poi in rarissime occasioni, per distrazione se ne parla, si evita accuratamente di far sentire le opinioni e le argomentazioni di coloro che criticano aspramente la politica del governo israeliano e la definiscono colonialismo, oppressione di un intero popolo, segregazionismo e razzismo. Gli oppositori di tale politica, se si esprimono con schiettezza, vengono immediatamente apostrofati e classificati con l’insultante epiteto di antisemita (!). I sedicenti amici d’Israele, hanno accolto l’equazione ‘critico del governo di Israele uguale antisionista, uguale antisemita’. Altrettali sono definiti quelli che chiedono piena dignità e diritti per il popolo palestinese».
Il quadro descritto da Moni Ovadia si riferisce ormai a quasi un ventennio e non sembra che sia vicino il tempo per una valutazione meno “ideologica” della questione, anzi! Basti pensare alla risposta di Fulvio Colombo, sullo stesso giornale, il 31 marzo. Ma, tempo al tempo!
Moni Ovadia si premura di ricordare che l’antisemitismo precede ampiamente sia il sionismo sia la nascita dello Stato d’Israele, che non ne costituiscono dunque in alcun modo la causa, e che non è esentando lo Stato d’Israele da critiche sacrosante che si allontana l’antisemitismo. A riprova, cita Gideon Levy, israeliano che scrive su Haaretz, giornale israeliano per lettori israeliani che, con riferimento ad un’inchiesta della CNN a proposito dei sentimenti antisemiti dice: «gli ebrei non sono odiati come vorrebbe Israele: solo il 10% ha dichiarato di avere sentimenti negativi nei loro confronti».
Ovadia ritiene, a proposito dell’equiparazione di antisionismo e antisemitismo, che si tratti di un uso strumentale per «ricattare i paesi dell’Occidente per legittimare l’occupazione e la colonizzazione delle terre palestinesi e per annettere terre che la legalità internazionale assegna al popolo palestinese». E cita anche lo storico israeliano Shlomo Sand che – rivolgendosi al presidente francese Macron e rimproverandogli la volontà di criminalizzare l’antisionismo come una forma di antisemitismo – fa una lunghissima lista di ebrei antisionisti del passato e del presente. Va detto, a onore (?) di Macron, che anche re Giorgio (come Travaglio ha chiamato per quasi un decennio Napolitano), si era apertamente sbilanciato con una espressione simile: «No all’antisemitismo anche quando esso si travesta da antisionismo», nel lontano 2007.
A questa affermazione di Napolitano rispose, con una lettera aperta al presidente, Mauro Manno, un mio carissimo amico, purtroppo scomparso, lettera che ripropongo in fondo a queste mie considerazioni. Dunque, più che di una strumentalizzazione israeliana si tratta di una “forzatura” occidentale ricorrente.
A Ovadia non resta che concludere con:
«Personalmente ritengo che debbano cessare retoriche, propagande, calunnie insensate e strumentalizzazioni, che non sia più tollerabile tacere sulla crudele oppressione del popolo palestinese. È ora che i paesi occidentali affrontino la questione con coraggio e onestà intellettuale».
Il senso dell’articolo di Moni Ovadia, a mio modesto parere, sta tutto nel sollecitare, con urgenza, i paesi occidentali a promuovere una qualche iniziativa che si misuri con la sofferenza del popolo palestinese, nel quadro di un’altrimenti (e a lungo) calpestata legalità internazionale.
E poi è arrivata la doccia fredda del 31 marzo. Sempre in tredicesima pagina del Fatto, l’articolo di Furio Colombo: EBREI, ISRAELIANI, SIONISTI, PERSECUTORI.
La successione non mi è parsa corretta, anche da un punto di vista cronologico. Se si parte giustamente dagli ebrei occorre dire che, almeno agli inizi, soltanto una piccola minoranza era sionista, decisa a realizzare uno Stato per gli ebrei. E solo dopo la nascita dello Stato d’Israele sono nati gli israeliani e non tutti sono sionisti o ebrei. Il ruolo di persecutori possono averlo assunto solo disponendo di un esercito potente e con la complicità della comunità internazionale, in particolare quella degli Stati Uniti. E soltanto i sionisti. In ogni caso il titolo doveva vedere i sionisti collocati prima degli israeliani. E mai costituire una successione obbligante!
Passiamo all’articolo. Un avvio che pare una sorta di obbligo («il mio compito»), assolto però volentieri, di rispondere al caro amico non più veduto dopo la morte di Umberto Eco. E subito dopo la dichiarazione di farlo malvolentieri perché la sua esperienza anche come direttore dell’Unità è stata totalmente diversa. Nessuna parola d’ordine di evitare di parlare d’Israele e anzi la certezza di essere subissato di improperi non appena avesse accennato alla sua persuasione che «Israele deve sopravvivere».
Due stranezze: la prima è che Colombo torna indietro di un quarto di secolo, non parla di oggi; la seconda è che al giusto diritto di vivere contrapponga la pura sopravvivenza. E, di colpo, siamo finiti a Rabin con un progetto di pace quasi compiuto (ma la pace o c’è o non c’è) e «molto prima che Netanyahu gettasse la sua pesante armatura di estrema destra sul corpo vulnerabile del Paese, dove si sono sempre ascoltate le voci di Amos Oz, Abraham Yehoshua, David Grossman … volti alla pace».
***
Facciamo una pausa consistente. Nel dicembre del 2003, l’Assemblea generale dell’ONU assunse un’iniziativa, consistente nel porre alla Corte internazionale di Giustizia dell’ONU, con sede all’Aja, una domanda semplicissima:
«Quali sono le conseguenze della costruzione del muro che Israele, potenza occupante, sta costruendo nel territorio palestinese occupato […] con riferimento alle regole e ai princìpi del diritto internazionale?».
Il 9 luglio 2004, la Corte dell’Aja condannò la costruzione del Muro (dei quindici giudici uno soltanto votò contro). Una risposta che aveva anche il merito della chiarezza:
«Israele deve porre fine alle violazioni del diritto internazionale di cui è artefice; è tenuto a sospendere immediatamente i lavori di costruzione del muro, […] di smantellare immediatamente l’opera costruita nel territorio palestinese occupato e di rendere immediatamente inefficace l’insieme di atti legislativi e regolamentari che vi fanno riferimento. […] La Corte evidenzia inoltre che Israele ha l’obbligo di porre riparo a tutti i danni causati a tutte le persone fisiche o morali coinvolte. […] Di conseguenza, deve restituire tutte le terre, i frutteti, gli oliveti e gli altri beni immobiliari in gioco».
E, il 21 luglio, l’Assemblea generale dell’ONU votò una risoluzione contro la costruzione del Muro, i voti contrari si contavano quasi sulle dita di una mano, furono infatti soltanto sei, compresa la Micronesia! L’Europa votò compatta a favore, 150 furono i voti favorevoli e 10 quelli degli astenuti).
Il 27 luglio 2004 comparve un articolo di Mario Pirani su La Repubblica, dal titolo Quante rimozioni dietro le critiche al Muro d’Israele. Ho risposto a suo tempo al testo di Pirani, su Rosso XXI, con un articolo intitolato Una vergognosa difesa del Muro della vergogna. Qui mi interessa riportare, con le sue parole, la tesi di fondo, dalla quale rimasi sconvolto, tenendo conto della laicità del personaggio e della sua dichiarata attenzione all’equilibrio:
«Personalmente sono aduso a non meravigliarmi e indignarmi soverchiamente di fronte al manifestarsi dell’antisemitismo. Penso sia da sempre una patologia cronica che accompagna la storia dell’uomo: nell’era pagana nasceva per avversione e paura del monoteismo giudaico, con l’avvento dell’era volgare segnò l’odio cristiano per il popolo deicida, con l’epoca dei Lumi suggerì il disprezzo della specificità religiosa e culturale israelitica come retriva superstizione, con il secolo XX e con il nazifascismo nutrì fino all’estremo le insorgenti dottrine razzistiche, con il comunismo si tradusse nei processi staliniani contro il ‘cosmopolitismo’, con il ritorno del fondamentalismo islamico, che giura sulla distruzione della patria ritrovata, alimenta il terrorismo e il rifiuto d’ogni prospettiva di pace. Il ritegno nei confronti di ogni retorica e inutile indignazione non implica, però, la rinuncia a riconoscere il male e a combatterlo. Senza grandi illusioni. In un aureo libricino, ‘Antisemitismo e sionismo’ (ed. Einaudi), Yehoshua ricorda un brano delle Sacre Scritture, contenuto nel Libro di Ester, che recita: ‘Poi Aman andò a parlare con il re e gli disse: ‘C’è un popolo, disperso tra gli altri popoli del tuo impero, che vive separato dagli altri, a modo suo. Ha leggi diverse e, per di più, non osserva la tua. Non ti conviene lasciarlo vivere in pace. Se sei del mio parere, dà ordine scritto che sia sterminato…’ il re allora si sfilò dal dito l’anello col sigillo e lo consegnò ad Aman… e disse a questo persecutore di ebrei … quel popolo è in tuo potere: fanne quel che vuoi’ (Libro di Ester 3.8-11). Queste righe vennero scritte tra il IV e il II secolo a. C. Contengono già la storia dei millenni successivi, compreso il Genocidio».
Le sottolineature in grassetto sono mie.
C’è un vecchio proverbio arabo che dice: «Il bugiardo occorre accompagnarlo fin sull’uscio di casa», e io ho deciso oggi di accompagnare Pirani (e Yehoshua), nella Bibbia, nel libro di Ester. Lo faccio con ritardo, perché quando ho risposto, nel 2004, a Pirani, mi sono fidato di lui!
Nelle conclusioni di Pirani tornava tutto troppo bene nella pur sempre azzardata argomentazione. Effettivamente, l’editto del re Assuero, suggerito da Aman, avrebbe avuto conseguenze tremende per gli ebrei, poiché ordinava che «si distruggessero, si uccidessero, si sterminassero tutti i Giudei, giovani e vecchi, bambini e donne, in un medesimo giorno, […] e si saccheggiassero i loro beni».
Ma Aman aveva fatto i conti senza l’Ester!
Le cose, con l’intervento della regina e Mardocheo, volgono rapidamente al peggio per Aman, che viene impiccato al palo che aveva fatto preparare nella sua casa per impiccarci Mardocheo, e Ester si insedia nella casa di Aman. Nel frattempo, il re Assuero aveva, per lo stesso giorno, modificato radicalmente l’editto iniziale esaltando la fedeltà dei Giudei.
Ed ora lascio la parola alla Bibbia:
«Il decimosecondo mese, cioè il mese di Adàr, il tredici del mese, quando l’ordine del re e il suo decreto dovevano essere eseguiti, il giorno in cui i nemici dei Giudei speravano di averli in loro potere, avvenne invece tutto il contrario; poiché i Giudei ebbero in mano i loro nemici. I Giudei si radunarono nelle loro città, in tutte le province del re Assuero, per aggredire quelli che cercavano di fare loro del male; nessuno poté resistere loro, perché il timore dei Giudei era piombato su tutti i popoli. Tutti i capi delle province, i satrapi, i governatori e quelli che curavano gli affari del re diedero man forte ai Giudei, perché il timore di Mardocheo si era impadronito di essi. Perché Mardocheo era grande nella reggia e per tutte le province si diffondeva la fama di quest’uomo; Mardocheo cresceva sempre in potere. I Giudei dunque colpirono tutti i nemici, passandoli a fil di spada, uccidendoli e sterminandoli; fecero dei nemici quello che vollero. Nella cittadella di Susa i Giudei uccisero e sterminarono cinquecento uomini e misero a morte i dieci figli di Amàn figlio di Hammedàta, il nemico dei Giudei, ma non si diedero al saccheggio. Quel giorno stesso il numero di quelli che erano stati uccisi nella cittadella di Susa fu portato a conoscenza del re. Il re disse alla regina Ester: “Nella cittadella di Susa i Giudei hanno ucciso, hanno sterminato cinquecento uomini e i dieci figli di Amàn; che avranno mai fatto nelle altre province del re? Ora che chiedi di più? Ti sarà dato. Che altro desideri? Sarà fatto». Allora Ester disse: «Se così piace al re, sia permesso ai Giudei che sono a Susa di fare anche domani quello che era stato decretato per oggi; siano impiccati al palo i dieci figli di Aman”. Il re ordinò che così fosse fatto. Il decreto fu promulgato a Susa. I dieci figli di Amàn furono appesi al palo. I Giudei che erano a Susa si radunarono ancora il quattordici del mese di Adàr e uccisero a Susa trecento uomini; ma non si diedero al saccheggio. Anche gli altri Giudei che erano nelle province del re si radunarono, difesero la loro vita si misero al sicuro dagli attacchi dei nemici; uccisero settantacinquemila di quelli che li odiavano, ma non si diedero al saccheggio. Questo avvenne il tredici del mese di Adàr; il quattordici si riposarono e ne fecero un giorno di banchetto e di gioia».
Ora, non è pensabile che Pirani non conoscesse l’esistenza, nella tradizione ebraica, di una festa, quella appunto del Purim, che celebra questa vittoria cruenta, ben settantacinquemila morti! Non riesco proprio a capire come abbia potuto accettare il suggerimento di Yehoshua e rifarsi a questo brano della Bibbia per leggervi l’eterna storia dell’antisemitismo e dell’Ebreo come eterna vittima! E sapeva senz’altro che le bugie hanno le gambe corte! O si è fatto prendere troppo dall’entusiasmo per l’aureo libretto?
***
Questa pausa è servita a evidenziare come, almeno una voce dei numi tutelari citati da Colombo qualche pregiudizio nei confronti dei Gentili ce l’avesse, per non dire di Pirani! Ma a parte le posizioni degli intellettuali israeliani che si sono espressi genericamente per la pace, senza però andare fino in fondo in questo loro impegno, Colombo dimentica una coraggiosa schiera, i nuovi storici israeliani, da Benny Morris a Ilan Pappe che hanno raccontato una diversa storia e hanno espresso un giudizio sul sionismo ben diverso dalla vulgata corrente. Per amor di verità, va detto anche che Benny Morris ha poi fatto marcia indietro, unico fra i suoi colleghi.
Torniamo ora all’articolo di Furio Colombo.
Che va subito fuori tema, visto che sta rispondendo a Moni Ovadia. E si allarga sulla corsa dell’estrema destra negli USA, fa una puntatina in Italia sulla nave Diciotti e sui maneschi libici per passare agli israeliani, “le vittime diventate carnefici”, insorgendo per le mancate accuse contro i generali birmani, “carnefici che non siano state vittime”.
Ma gli israeliani sono ebrei … che hanno stretto tutte le mani che potevano portare alla pace (per due volte quasi raggiunta … idem come sopra, a meno che Colombo non intenda dire che non si è raggiunta la pace per colpa dei palestinesi e pensi magari alle “generose offerte di Barak)”!
Ma ora viene la sostanza dell’argomentazone. Con un po’ di veleno subito, non nella coda. A Moni Ovadia, Furio Colombo rimprovera tout court di non essere un ebreo che ama “fare Aliyah”, anche se riconosce del tutto legittima la sua scelta! Aliyah in ebraico significa salita, ritorno e soprattutto così erano denominate le migrazioni della fine del diciannovesimo secolo dalla Russia delle persecuzioni antiebraiche in Palestina e anche le successive, tanto da numerarle. E il ritorno a Sion ha caratterizzato l’ideologia sionista. Dunque il torto di Ovadia (anche se la sua scelta è legittima), è quello di non essere sionista!
E … gli ebrei sono sionisti. E parte così l’elogio della nazione. Petrarca, Leopardi per secoli hanno aspirato a questo anche se tante grandi famiglie milanesi erano “austriacanti”, e anche se Moni Ovadia dice che molti ebrei non sono sionisti non si può negare che il sionismo non sia diverso dal nostro Risorgimento. E qui non sono più riuscito a seguire l’argomentazione. Non che io me ne muoia per il Risorgimento. Da meridionale conosco la violenza dell’unificazione e quanto di ignobile abbia fatto l’esercito piemontese nelle terre del vecchio regno borbonico! Ma una cosa è certa: gli austriaci occupavano una terra abitata da persone che parlavano una lingua diversa, con tradizioni culturali diverse che avevano una giusta aspirazione a liberarsi dell’occupante straniero. I sionisti non avevano guerre d’indipendenza da combattere, tanto da fondare la loro ideologia sullo slogan “Una terra senza popolo, per un popolo senza terra” e sosterranno di aver combattuto la loro guerra d’indipendenza, a partire dagli anni 1940, … dagli inglesi, che con la Dichiarazione Balfour avevano legittimato (?) la nascita di un focolare nazionale ebraico in Palestina!
Ma Furio Colombo è di diverso avviso. E delira:
«Ma niente permette di separare il sionismo, come una specie di degenerazione nazionalistica, dalla storia del mondo contemporaneo, del formarsi dell’Europa moderna. Per forza, oggi, essere “antisionisti” vuol dire essere antisemiti. È un’altra forma di negazionismo. […] Non dimentichiamo il dramma che la vittoria della destra estrema ha portato nel mondo. […] Isolare la vicenda palestinese (che a sua volta è in preda alla estrema destra Hamas) come se fosse l’inevitabile conseguenza del sionismo è un errore, a cui si giunge sottraendo molti fatti alla brutta avventura che stiamo vivendo».
Però, dare del negazionista ad un caro amico, … Capito Moni? Non si può essere ebrei e non essere sionisti, sei una contraddizione vivente, ma io sono con te, perché penso che l’universalismo che ti ispira sia l’unico antidoto alle concezioni che permettono di opprimere un popolo escogitando le più stravaganti argomentazioni. E mi viene in mente la favola del lupo e dell’agnello.
Haec propter illos scripta est homines fabula qui fictis causis innocentes opprimunt. Questa favola è scritta per quegli uomini che opprimono gli innocenti con falsi pretesti.
Io naturalmente intendo restare gentile!
Giancarlo Paciello
Roma, 4 aprile 2019
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Lettera aperta di Manno Mauro
al Presidente della Repubblica Italiana
Signor Presidente,
da quanto leggo su televideo lei avrebbe dichiarato:
“No all’antisemitismo anche quando esso si travesta da antisionismo”.
“Antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele”.
Se questo è realmente il suo pensiero, e naturalmente mi auguro che non lo sia, mi lasci dire che queste sono affermazioni errate e gravi e mi auguro che suscitino, da parte di numerosi italiani, una reazione calma e ragionata ma ferma.
Signor Presidente,
mi consenta di dissentire dalla prima frase da lei pronunciata. Lei sostiene che l’opposizione al sionismo è antisemitismo mascherato. Né si può pensare che Lei abbia voluto dire che solo alcuni antisemiti nascondono il loro antisemitismo reale dietro un preteso o falso antisionismo. Lei ha formulato il suo pensiero in modo inequivocabile: per Lei chi è antisionista è antisemita sic et simpliciter. Io sono d’accordo con lei che l’antisionismo è la “negazione della fonte ispiratrice dello stato ebraico e delle ragioni della sua nascita” ma sostengo con decisione che la negazione delle ragioni della nascita dello Stato ebraico e la sua sostituzione con uno Stato democratico unico di ebrei e palestinesi su tutta la Palestina non potrà che arrecare bene agli ebrei, ai palestinesi, ai popoli mediorientali e del mondo intero. Ritengo, e non sono l’unico visto che molti ebrei antisionisti sono dello stesso avviso, che lo Stato sionista per soli ebrei è uno Stato razzista, coloniale e espansionista, non diversamente da quello che era lo Stato razzista per soli bianchi del Sud Africa. La natura sionista di Israele è una minaccia per la pace mondiale e per gli stessi ebrei.
Signor Presidente,
non sono un negazionista dell’Olocausto e non nutro sentimenti anti-ebraici. Desidero solo che gli ebrei in Palestina non neghino ai palestinesi un diritto che rivendicano per loro stessi. I palestinesi, profughi e residenti in Israele o nei territori occupati, hanno diritto a vivere in Palestina in pace e in armonia, godendo delle libertà democratiche che tutti i popoli del mondo meritano. Questo principio che noi non neghiamo agli ebrei di Palestina, Israele lo nega ai palestinesi.
Lei forse è favorevole agli stati etnici? Mi sembrava di aver capito che Lei e il partito da cui proviene eravate favorevoli agli Stati democratici in cui tutti i cittadini sono uguali indipendentemente dalla religione, dall’etnia, dalla cultura o altro, a cui appartengono. Forse mi sono sbagliato. Non capisco perché l’Italia e l’UE si sono impegnati per l’uguaglianza dei diritti tra bianchi e neri in Sud Africa, o si impegnano oggi per l’uguaglianza e la convivenza tra serbi e kossovari in Kossovo, tra macedoni e albanesi in Macedonia, tra musulmani, ortodossi e cristiani in Bosnia, tra sciiti, sunniti e cristiani in Libano e poi sostengano il carattere esclusivamente ebraico di Israele?
Forse Olmert ha chiesto anche a Lei, come ha fatto con il Signor Prodi, di difendere Israele in quanto Stato esclusivamente ebraico e sionista?
Se questo è il suo pensiero, voglio chiederLe:
se Israele decidesse di deportare i cittadini israeliani non ebrei, come chiede da tempo il ministro razzista Avigdor Lieberman, Lei appoggerebbe questa politica in nome della difesa del carattere ebraico dello Stato israeliano?
ignora Lei forse che i cittadini non ebrei d’Israele non hanno gli stessi diritti degli ebrei? Non sa forse che è proibito per legge ad un cittadino israeliano non ebreo di acquistare proprietà terriere da un ebreo? Ignora forse che esistono strade che collegano Israele alle colonie nei territori occupati su cui non possono circolare (non i palestinesi dei territori occupati, questo tutti lo sanno) ma i cittadini arabi di Israele? Le ricordo, inter alia, anche che è negato il ricongiungimento al coniuge ad un cittadino arabo d’Israele se questo coniuge proviene dai territori occupati. Spero che Lei sia informato sulla proposta di legge nella Knesset che prevede di togliere la nazionalità israeliana ad un cittadino arabo d’Israele se costui non dichiara fedeltà al sionismo. Si renderà conto che questo corrisponde a volere l’accettazione dell’ingiustizia storica che il sionismo ha fatto ai palestinesi da parte delle stesse vittime dell’ingiustizia.
Non ritiene che portare quegli ebrei (per fortuna non sono tutti gli ebrei) che sostengono Israele a liberarsi di una forma statale che discrimina i cittadini non ebrei, che impianta colonie su territori fuori dai suoi confini, che conduce una guerra contro una popolazione occupata e indifesa, che possiede armi nucleari e non aderisce al trattato di non proliferazione nucleare e all’AIEA, che è stata condannata mille volte nell’ambito dell’ONU, non equivalga ad un bene per loro e per i palestinesi?
e infine l’ultima domanda: se l’Italia (che lo ha già fatto nel passato) dovesse attuare una politica discriminatoria verso i suoi cittadini ebrei come Israele discrimina i suoi cittadini non ebrei e dovesse riprendere, malauguratamente, una politica coloniale, Lei non riprenderebbe la lotta contro il regime o il governo che così si comportasse?
Allora perché non si può combattere un regime, quello sionista, che è discriminatorio, razzista e colonialista? Nessuno sta proponendo un nuovo olocausto ebraico, gli antisionisti vogliono solo uno Stato non confessionale, non etnico, non razzista in Palestina, per gli ebrei e per i palestinesi. Non diversamente da quello che sono tutti gli stati autenticamente democratici nel mondo.
Signor Presidente,
si dà il caso che sono uno studioso del sionismo. É quindi sulla base dei miei studi di questa ideologia politica che Le scrivo. Le ricordo alcuni fatti:
Primo tra tutti la collaborazione dei sionisti (di destra e di sinistra) con gli antisemiti, con il fascismo e il nazismo. Si è trattato di una collaborazione lunga ed estremamente dannosa per gli ebrei non sionisti (che allora erano la stragrande maggioranza). Per quanto ciò possa apparire incredibile, la collaborazione dei sionisti con i fascisti, i nazisti e gli antisemiti, storicamente documentata, si fondava su una logica di scambio criminale a danno degli ebrei. I sionisti hanno appoggiato i regimi fascisti e antisemiti prima e durante la seconda guerra mondiale, chiedendo in cambio di permettere loro di portare gli ebrei in Palestina per realizzare il loro progetto coloniale. Gli ebrei che non accettavano di emigrare in Palestina sono stati abbandonati al loro destino. Gli antisemiti erano ben contenti di liberarsi degli ebrei in questo modo. Non è vero che gli antisemiti sono antisionisti come lei sostiene ma è vero proprio il contrario. Non metterà in dubbio, spero, le parole dello scrittore israeliano Yehoshua che qualche anno fa ha dichiarato:
«I gentili‚ hanno sempre incoraggiato il sionismo, sperando che li avrebbe aiutati a liberarsi degli ebrei che vivevano tra di loro. Anche oggi, in una maniera perversa, un vero antisemita deve essere un sionista». [1]
Lo scrittore israeliano dimentica però di dire che anche i sionisti, in maniera perversa, hanno incoraggiato gli antisemiti affinché allontanassero gli ebrei dai loro paesi e li consegnassero agli attivisti sionisti pronti a portarli nelle colonie in Palestina. Un vero sionista è un amico degli antisemiti.
Questo aspetto vergognoso della storia del sionismo inizia con il suo stesso fondatore, Theodor Herzl. Nell’agosto del 1903, Herzl si recò nella Russia zarista per una serie di incontri con il Conte von Plehve, ministro antisemita dello Zar Nicola II e Witte, ministro delle finanze. Gli incontri avvennero meno di 4 mesi dopo l’orrendo pogrom di Kishinev, di cui era direttamente responsabile von Plehve. Herzl propose un’alleanza, basata sul comune desiderio di far uscire la maggior parte degli ebrei russi dalla Russia e, a più breve termine, allontanare gli ebrei russi dal movimento socialista e comunista. All’inizio del primo incontro (8 agosto) von Plehve dichiarò che egli si considerava «un ardente sostenitore del sionismo». Quando Herzl cominciò a descrivere lo scopo del sionismo, il Conte lo interruppe affermando: «Predicate a un convertito».
In un successivo incontro con Witte, il fondatore del sionismo si sentì dichiarare apertamente: «Avevo l’abitudine di dire al povero imperatore Alessandro III: se fosse possibile annegare nel mar Nero sei o sette milioni di ebrei, io ne sarei perfettamente soddisfatto; ma non è possibile; allora dobbiamo lasciarli vivere». E quando Herzl disse di sperare in qualche incoraggiamento dal governo russo, Witte rispose: «Ma noi diamo agli ebrei degli incoraggiamenti ad emigrare, per esempio dei calci nel sedere».[2]
Il risultato degli incontri fu la promessa di von Plehve e del governo russo di «un appoggio morale e materiale al sionismo nel giorno in cui alcune delle sue azioni pratiche sarebbero servite a diminuire la popolazione ebraica in Russia». [3]
«Se noi [sionisti] – diceva Jacob Klatzkin – non ammettiamo che gli altri abbiano il diritto di essere anti-semiti, allora noi neghiamo a noi stessi il diritto di essere nazionalisti. Se il nostro popolo merita e desidera vivere la propria vita nazionale, è naturale che si senta un corpo alieno costretto a stare nelle nazioni tra le quali vive, un corpo alieno che insiste ad avere una propria distinta identità e che perciò è costretto a ridurre la sfera della propria esistenza. É giusto, quindi, che essi [gli anti-semiti] lottino contro di noi per la loro integrità nazionale. Invece di costruire organizzazioni per difendere gli ebrei dagli anti-semiti, i quali vogliono ridurre i nostri diritti, noi dobbiamo costruire organizzazioni per difendere gli ebrei dai nostri amici che desiderano difendere i nostri diritti».[4]
Queste parole, e l’atteggiamento conseguente dei sionisti, hanno certo dato argomenti preziosi ai nazisti che sostenevano appunto che gli ebrei erano una nazione estranea nella loro nazione.
«Per i sionisti – affermava senza vergogna Harry Sacher, un sionista inglese – il nemico è il liberalismo; esso è anche il nemico per il nazismo; ergo, il sionismo dovrebbe avere molta simpatia e comprensione per il nazismo, di cui l’anti-semitismo è probabilmente un aspetto passeggero».[5]
Non è solo cecità politica, è collaborazione criminale col nemico degli ebrei. E Lei, Presidente, vuole chiudere gli occhi su questo aspetto della storia del sionismo? Le ricordo poi che i nazisti rispondevano molto positivamente alle offerte dei sionisti come dimostra questo brano di una loro circolare:
«I membri delle organizzazioni sioniste non devono essere, date le loro attività dirette verso l’emigrazione in Palestina, trattati con lo stesso rigore che invece è necessario nei confronti dei membri delle organizzazioni ebraico-tedesche (cioè gli assimilazionisti)».[6]
E Reinhardt Heyndrich, capo dei Servizi Segreti delle SS dichiarava:
«Il momento non può più essere lontano ormai in cui la Palestina sarà in grado di nuovo di accogliere i suoi figli che aveva perduto da oltre mille anni. I nostri buoni auguri e la nostra benevolenza ufficiale li accompagnino».[7]
La colonizzazione della Palestina era ben vista dai nazisti. Tra colonialisti ci si intende. Questo per ricordarLe che i nazisti, con l’aiuto consapevole dei sionisti, hanno colpito solo quegli ebrei che intendevano vivere nei paesi in cui erano nati e non volevano rendersi responsabili dell’occupazione della Palestina e della conseguente e inevitabile cacciata dei palestinesi. Queste vittime ebraiche non erano sioniste, erano semmai assimilazionisti o antisionisti. Dopo l’Olocausto, l’Occidente non ha fatto altro che premiare i sionisti consegnando loro la terra dei palestinesi e facendo pagare a chi non aveva nessuna colpa, il caro prezzo dello sterminio degli ebrei avvenuto per diretta responsabilità di alcuni paesi europei e per l’ignavia di altri nonché per il folle piano sionista. La collaborazione tra sionisti e nazisti é stata possibile anche, al di là dell’aspetto pratico della comune volontà di portare gli ebrei in Palestina, perché l’ideologia sionista e quella nazista avevano un punto in comune, come riconosce l’ebreo sionista Prinz:
«Uno Stato costruito sul principio della purezza della nazione e della razza (cioè la Germania nazista) può solo avere rispetto per quegli ebrei che vedono se stessi allo stesso modo».[8]
Lo stesso personaggio si rendeva conto della situazione paradossale che si veniva a creare, e ammetteva:
«Per i sionisti era molto disagevole operare. Era moralmente imbarazzante sembrare essere considerati i figli prediletti del governo nazista, in particolare proprio nel momento in cui esso scioglieva i gruppi giovanili (ebraici) antisionisti, e sembrava preferire per altre vie i sionisti. I nazisti chiedevano un “comportamento più coerentemente sionista” ».[9]
E tuttavia la collaborazione andò avanti. Fu una collaborazione multiforme che ricostruisco nel mio saggio La natura del sionismo[10]. Le voglio ricordare, per finire, l’invito di Dov Joseph, caporione dell’Agenzia Ebraica, che sul finire del 1944, quando gli ebrei morivano a centinaia di migliaia nei lager, parlando a giornalisti sionisti in Palestina preoccupati delle notizie dei massacri, li mise in guardia contro «la pubblicazione di dati che esagerano il numero delle vittime ebraiche, perché se noi annunciamo che milioni di ebrei sono stati massacrati dai nazisti, poi ci chiederanno, a ragione, dove sono i milioni di ebrei per i quali noi rivendichiamo una patria quando la guerra sarà finita». [11]
Questo può bastare, ma ho l’ardire, signor Presidente, di consigliarLe di approfondire l’argomento.
La storia del sionismo è una storia criminale, non è sorprendente quindi che i sionisti e lo Stato sionista continuino a trattare così barbaramente i palestinesi. Ma la mia preoccupazione va al di là della tristissima situazione del popolo palestinese che tutti sembrano dimenticare.
Sinceramente, signor Presidente, vogliamo fare la fine degli Stati Uniti in Iraq? Oggi personaggi importanti negli USA, come l’ex presidente Jimmy Carter, o gli studiosi universitari Mersheimer e Walt si sforzano di aprire gli occhi ai loro compatrioti sulle conseguenze della cieca politica estera elaborata a Tel Aviv e nei circoli dei neoconservatori sionisti di Washington che gli Stati Uniti stanno conducendo in Medio Oriente. Crede che la guerra in Iraq sia stata fatta per le armi di distruzione di massa di Saddam? Per la minaccia che l’Iraq rappresentava per l’Occidente? Per l’esportazione della democrazia? Per gli interessi petroliferi americani? Molti sostengono quest’ultima ipotesi (le altre sono miseramente crollate). Ma il petrolio non si compra sul mercato? E poi quanto verrebbe a costare se dobbiamo fare una guerra ad ogni paese produttore? Signor Presidente, la guerra è stata fatta per eliminare un possibile rivale di Israele e per consolidare il dominio sionista in Medio Oriente. Adesso Tel Aviv invita l’Occidente a distruggere l’Iran, e ricatta tutti facendo capire che se non lo facciamo noi, sarà proprio Israele a farlo. Come? Invadendo l’Iran? No Presidente, sappiamo tutti che Israele ricorrerebbe alle sue armi nucleari.
Gli americani si stanno accorgendo, a proprie spese, di cosa voglia dire essersi fatti invischiare in una guerra assurda in Iraq per gli interessi di Israele. E noi non ce ne vogliamo rendere conto. Vogliamo veramente farci coinvolgere nella guerra nucleare contro l’Iran? Nella guerra mondiale contro l’Islam?
Prenda esempio dall’ex-presidente Carter e denunci l’Apartheid di Israele. Se non lo vuole fare Lei, lasci che qualcun altro, per il bene dell’umanità, degli ebrei e dei palestinesi, continui a denunciare il sionismo e si batta per uno Stato unico, democratico, pacifico in Palestina per tutti i suoi abitanti, nessuno escluso.
Signor Presidente,
Lei non si ricorderà di me, eppure noi ci siamo conosciuti e ci siamo parlati. Fu in una triste occasione. Qualche anno fa, all’aeroporto di Fiumicino, Lei in rappresentanza del suo partito venne a portare solidarietà a mia sorella, Marisa, che, dopo aver partecipato ad una manifestazione pacifista a Gerusalemme, solo perché guardava da dietro la vetrata dell’albergo i poliziotti israeliani che massacravano un ragazzino palestinese per strada, perse un occhio quando da un idrante con la stella di Davide spararono uno spruzzo talmente violento da infrangere il vetro e conficcarle una scheggia nell’occhio. Allora veniva a porgere un saluto a mia sorella che aveva pagato per difendere i diritti e la dignità dei palestinesi. Oggi con la sua dichiarazione inaccettabile accusa gli antisionisti, e molti sono ebrei, che si battono per uno Stato democratico in Palestina mettendoli nello stesso immondezzaio degli antisemiti.
Credo, signor Presidente, che i sionisti sono riusciti a fare con Lei, ancora peggio che con mia sorella.
A lei sono riusciti ad accecare non uno, ma tutti e due gli occhi!
[2] Maxime Rodinson, Peuple juif ou problème juif? Parigi, Petite collection Maspero, 1981, pp. 174-75.
[3] Maxime Rodinson, Peuple juif ou problème juif? cit. p. 174.
[4] Jacob Klatzkin, (1925), citato in Jacob Agus, The Meaning of Jewish History, in Encyclopedia Judaica, vol II, p. 425.
[5] Harry Sacher, Jewish Review, settembre 1932, p. 104, Londra.
[6] Circolare della Gestapo bavarese indirizzata al corpo di polizia bavarese, 23 gennaio, 1935, pubblicata in Kurt Grossman, Zionists and Non-Zionists under Nazi Rule in the 1930’s, Herzl Yearbook, vol VI, p. 340.
[7] Reinhardt Heyndrich, capo dei Servizi Segreti delle SS, The Visible Enemy, articolo pubblicato in Das Schwarze Korps, organo ufficiale delle SS, maggio 1935.
[8] Joachim Prinz, (1936), citato in Benyamin Matuvo, The Zionist Wish and the Nazi Deed, Issues, (1966/67), p. 12.
[9] Joachim Prinz, Zionism under the Nazi Government, in Young Zionist, Londra, novembre 1937, p. 18.
[10] La natura del sionismo, supplemento al numero 56, novembre 2006, di Aginform.
[11] Yoav Gelber, Zionist Policy and the Fate of European Jewry, p. 195.
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Filosofo e storico Massimo Bontempelli coniugava storia e filosofia, poiché la storia senza la metodologia filosofica resta incompresa: è semplice cronologia. La storia è il campo di azione e di battaglia della filosofia, per cui è nella storia, come nel quotidiano, che la filosofia non solo adopera la sua metodologia di indagine, ma ne verifica anche il peso cognitivo. L’asse storico – per avere valore conoscitivo e critico – necessita della filosofia: solo attraverso la storia compresa e mediata dalla razionalità filosofica è possibile porre le condizioni per un movimento di emancipazione. Massimo Bontempelli da insegnante di scuola superiore aveva verificato quanto l’aziendalizzazione della scuola avesse comportato il depauperamento dell’insegnamento della storia fino a renderla una presenza formale. La geostoria nel biennio del liceo è il riduzionismo applicato a due discipline: la storia e la geografia. La sottrazione della storia al processo formativo ha evidentemente lo scopo di necrotizzare la conoscenza dei processi di trasformazione per eternizzare il presente e formare al dogmatismo del presente astratto:
«Il problema che dobbiamo porci è: quale potrebbe essere l’asse culturale della scuola attuale? Secondo me, per varie considerazioni che qui non posso svolgere, l’asse culturale della scuola oggi dovrebbe essere la dimensione della storicità. Occorrerebbe cioè reintrodurre la storia là dove è stata svuotata, e quindi insegnare la lingua e la letteratura dal punto di vista storico. La dimensione storica è poi di importanza cruciale per l’insegnamento delle materie scientifiche. Per esempio, quando si insegna la geometria euclidea non si dice chi era Euclide, dove aveva studiato, perché aveva costruito quel sistema deduttivo. Se si riscoprissero tutti i legami fra la geometria euclidea, i progetti dell’accademia platonica, la continuità e la separazione di Euclide rispetto alla filosofia platonica, la sua geometria acquisterebbe un profondo significato culturale ed educativo. Pensate che bello se l’insegnante di storia insegnasse la storia dell’età ellenistica, e l’insegnante di matematica insegnasse la geometria euclidea, e le cose si incastrassero. In mancanza di ciò, l’insegnamento scientifico, che dovrebbe quasi per definizione essere un insegnamento critico, diventa, paradossalmente, come ci spiega Lucio Russo, il più dogmatico. Perché le persone imparano delle leggi scientifiche, dei procedimenti, delle soluzioni di problemi in maniera totalmente dogmatica, tant’è vero che lo studente della scuola secondaria generalmente non sa che la scienza non è mai definitiva, che è un modello, che la fisica newtoniana non è più vera in senso assoluto, perché addirittura le sue disconferme sono state quasi cooriginarie alla sua formazione. Ad esempio le leggi di Keplero sulle orbite dei pianeti vengono imparate a scuola completamente svuotate di significato storico. Non si immagina che le ipotesi che hanno guidato quello scienziato nella scoperta dell’orbita di Marte sono ipotesi metafisiche, di tipo neoplatonico e neopitagorico. Io penso che una scuola dovrebbe coordinare le materie, i programmi, gli insegnamenti, insegnare cioè arte, letteratura, scienza, filosofia dal punto di vista di una connessione storica e penso che questo sarebbe molto importante».[1]
Pianificazione dell’oblio alienante e nichilistico
Si organizza l’oblio per rafforzare e rendere adamantini i processi di alienazione delle esistenze. L’oblio pianificato non è solo la dimenticanza di sé, ma è rendere impossibile il presentare a se stessi l’identità comunitaria e linguistica, le quali, in quanto innominabili, insegnano l’incultura della decontestualizzazione acritica.
Si spingono verso il limbo dell’astratto professori ed alunni, in modo da decretare la fine della storia. Naturalmente il capitalismo assoluto dichiara in ogni modalità espressiva la fine della storia: pertanto la storia diventa disciplina superflua. La storia, invece, è forza plastica e vitale che mentre guarda al passato, si orienta al futuro. Si vuole giungere al termine di “ogni possibile”, di ogni transizione dalla potenza all’atto. In tal modo la temporalità si chiude su stessa, si rende monade senza passato e senza futuro.
I forchettoni
I forchettoni sono l’esempio simbolico e metaforico del nichilismo economico quale substrato della politica. Se per le “sinistre” è stato possibile adattarsi tanto facilmente al nuovo stato di cose post-1989 ciò è dovuto al fondamento economicistico e non veritativo che le ha connotate. Nel periodo immediatamente successivo la seconda guerra mondiale il nichilismo era contenuto dalla presenza di culture diverse, dalla memoria aggregatrice della Resistenza. Con la fine del comunismo storico novecentesco e, in assenza di ogni limite e di una autentica opposizione culturale e di massa nei confronti del liberismo edonistico, il nichilismo economicistico si è reso prevalente e tracotante.
Il termine forchetta già nell’immediato secondo dopoguerra denunciava la politica finalizzata al potere e non al servizio dei cittadini:
«Contrariamente a quanto potrebbe sembrare a prima vista, per “forchettoneria” s’intende, all’epoca, non tanto la ladroneria personale del politico, quanto piuttosto la sua voracità di potere istituzionale per il proprio partito e per se stesso in quanto uomo di partito. Ciò risulta chiaro dal referente in relazione a cui fu coniata l’espressione “regime della forchetta”: si tratta di un discorso di Scelba all’indomani del trionfo democristiano del 18 aprile 1948, in cui quel ministro aveva dichiarato che il suo partito era autorizzato dalla sua vittoria su tutti gli altri nella competizione elettorale ad occupare i centri del potere pubblico a porre i suoi uomini alla testa delle aziende statali».[2]
Massimo Bontempelli riscontra le tracce del nichilismo, la lunga scia che ha portato all’attuale condizione, già nella logica del potere per il potere presente nei partiti della prima Repubblica:
«Forchettone è dunque, nell’accezione originaria del termine, colui che intende la politica come manovra volta all’acquisizione di quote di potere istituzionale, concepite anche come risorse da impiegare nell’attività a cui riduce la politica manovriera».[3]
La cannibalizzazione del pubblico
La spirale nichilistica attraversa la storia e presto il re sarà nudo: l’indebitamento pubblico, l’evasione fiscale, la normalità della corruzione condurranno a rendere sempre più esplicito l’esito nichilistico. Prodi rappresenta la trasversalità della logica acquisitiva ed economicistica, mentre è presentato dalla propaganda come il risanatore dell’Iri, ricoprendo l’incarico di dirigente liquidatore dal 1982 al 1989. In realtà la svende ai soliti noti. Ma c’è di più. Prodi è il punto di congiunzione delle destre con le sinistre, è un democristiano di “sinistra”. Prodi è il simbolo della perversa logica economicistica che attraversa l’arco dei partiti, ne è l’archetipo:
«L’Iri era allora carico di debiti, dovuti anche al fatto che vi si approvvigionavano i Forchettoni democristiani, così come i Forchettoni socialisti si servivano dell’Eni, dopo la morte di Mattei e l’estromissione di Cefis. Prodi è passato alla storia come il suo “risanatore”, che ne ha rimesso in pari bilanci grazie ad una competenza tecnica non succube della voracità dei partiti. Ma questa storia è una falsa leggenda, creata dalla stampa di proprietà dei poteri economici forti, la cui rapida circolazione e accettazione rivela quanto la figura pubblica di quest’uomo sia stata programmata per agire al servizio di quei poteri sotto l’opposta apparenza dell’indipendenza personale del “tecnico”».[4]
Il nichilismo acquisitivo assimila il pubblico a fini privati, lo divide tra i detentori del potere economico. Il fine è eliminare l’economia mista che si colpevolizza di ogni male per legittimare le logiche acquisitive ed individualistiche: è la premessa per l’aggressione alla Costituzione ed ai suoi valori comunitari.
I bombardamenti etici e l’astuzia conformistica
Un altro passo in avanti nella storia del nichilismo economicistico che funge da liquido fondamento del capitalismo si ha con la fine dell’Unione Sovietica e la corsa all’adattamento alla nuova contingenza storica: D’Alema ben rappresenta la fuga dalla realtà per il regno dell’astratto. Il nichilismo è la smaterializzazione di ogni contesto e senso, il soggetto prende le distanze dalla concretezza per ritrovarsi solo con la razionalità strumentale. D’Alema pur di conservare il potere si allea con la finanza internazionale ed accetta prono il bombardamento della Serbia (1999) a “fini umanitari”, la liquidazione dello stato sociale, il finanziamento alle scuole private:
«Fuori dall’ambiente politico non sarebbe nessuno, non saprebbe far niente. La sfera politica è la sua unica dimensione professionale. Si tratta, inoltre, non della politica intesa come fino a qualche decennio fa, non cioè della politica in senso etimologico del termine, ovvero di quell’attività che decide le sorti della polis, ma della politica in senso odierno del termine, come attività che, senza nulla decidere sulle sorti della vita collettiva, plasmate solo dalla dinamica autoreferenziale dell’economia, consiste nella lotta per la spartizione del potere di amministrare gli effetti sociali del meccanismo economico. D’Alema agisce come tutto il ceto politico di cui fa parte, esclusivamente entro questa cornice, che per lui, in particolare, è l’unico schema di realtà, cosicché ha potuto sviluppare il talento ad essa più congruo, appunto l’astuzia conformistica». [5]
Bontempelli definisce astuzia conformistica l’assenza di ogni fine etico e comunitario, la capacità tattica che si sostituisce alla politica, ad ogni valore oggettivo. L’astuziaconformistica è il carattere del nichilismo economicistico, vive e prolifera in un mondo di soli mezzi. E può farlo, poiché non discerne il bene dal male, ogni logica universale è sostituita dall’autoreferenzialità personale, dai propri interessi di carriera. Al partito dei tempi della forchetta, ora si è sostituito il carrierismo amorale personale.
Tatticismi e scacchiere
L’espressione massima del tatticismo nichilistico Massimo Bontempelli lo individua in Bertinotti che fa cadere il governo Prodi per aiutare D’Alema, che così accusa il massimalismo di Bertinotti ed appare, in tal maniera, come difensore dei diritti sociali, ma in realtà ha il solo fine di rafforzare la propria posizione di potere:
«Facendo cadere il governo proprio in quel momento, egli fa il gioco di D’Alema, che può così liberarsi di Prodi scaricandone la responsabilità sul massimalismo bertinottiano e apparendo addirittura il suo difensore. In questo comportamento di Bertinotti, se fosse davvero ciò che appare, cioè il rifiuto di sacrificare le ragioni sociali alle esigenze del compromesso politico, non ci sarebbe nulla di censurabile, per quanto D’Alema ne tragga vantaggio. Ogni lotta politica condotta per la giustizia sociale ha infatti ricadute indirette sulla scacchiera dei poteri istituzionali, da cui qualche giocatore di quella scacchiera viene svantaggiato e qualcun altro avvantaggiato, senza che ciò debba preoccupare, perché è quella scacchiera in se stessa che nei nostri tempi è nemica della giustizia sociale. Senonchè, come D’Alema appare in quella circostanza un difensore di Prodi contro Bertinotti quando in realtà si serve di Bertinotti contro Prodi, così Bertinotti appare radicalmente contrapposto a Prodi e a D’Alema, mentre non solo fa il gioco di D’Alema indirettamente, ma lo fa volontariamente in maniera tale da aiutarlo a vincerlo sulla scacchiera in cui viene giocato – scacchiera alla quale non è affatto disinteressato, ma al contrario molto interessato». [6]
In assenza di assi culturali ed assiologici non resta che il tatticismo, il gioco delle pedine. La razionalità nichilistica vive in un mondo di mezzi senza fini. In fondo il nichilismo, nella definizione nietzscheana, non è che l’assenza di fini.
L’omologazione della destra e della sinistra
Il fine di queste tattiche conformistiche è smantellare la Costituzione la quale – con la sua presenza giuridica, sempre più formale – rappresenta un limite all’aziendalizzazione integrale, vero ed unico fine dell’economicismo, e rappresenta e rammenta anche la resistenza culturale e civile all’integralismo del fascismo:
«Ogni Costituzione, si sa, è originata da un fatto storico: quello del testo del 1948 è la Resistenza uscita dall’antifascismo, quello del testo auspicato da D’Alema è una crostata uscita dal forno di casa Letta. Di fronte a tanta bassezza di mentalità, persino Occhetto (ed è tutto dire) sembra un gigante intellettuale quando osserva, intervenendo nella Bicamerale, che il testo in preparazione è costruito respingendo tutte le indicazioni dei giuristi pur di raggiungere un compromesso tra gli interessi diversi delle due coalizioni, tra aree diverse all’interno di ciascuna coalizione, e tra partiti grandi e piccoli partiti, e che ha per questo enormi incongruenze di cui è priva la Costituzione del 1948, in quanto nata da compromessi tra partiti, ma da un incontro tra tre culture, quella cattolica, quella marxista e quella liberale». [7]
Nel gioco del nichilismo destra e sinistra si ritrovano ad essere sostanzialmente interscambiabili, poiché sono accomunate dall’astuzia conformistica, dal tatticismo finalizzato al potere e specialmente perché sono entrambe organiche all’economia, in un circolo vizioso, in cui diviene difficile distinguere la politica dall’economia. La storia del nichilismo finisce con l’essere la storia del trionfo del capitalismo assoluto. Marino Badiale che ha condiviso con Bontempelli una parte della sua storia intellettuale, fa dell’autoreferenzialità la cifra della politica asservita al liberismo. L’autoreferenzialità implica il pervertimento della politica, perché il senso della politica è rispondere ai bisogni reali dei popoli. L’autoreferenzialità risponde solo alle carriere personali, alle ambizioni di piccoli gruppi mediaticamente onnipresenti:
«Al contrario, è proprio nella sua autoreferenzialità che la politica è funzionale alla logica profonda della fase attuale dell’economia capitalistica. Infatti, come abbiamo detto, la fase contemporanea è quella in cui l’economia del profitto si estende a tutti gli ambiti della realtà sociale piegandoli alla propria logica. La politica autoreferenziale non fa che giocare i propri giochi di potere, usando le carte che questa situazione le fornisce, e abbandonando così l’intera realtà sociale all’invasione devastante della logica del profitto. L’autoreferenzialità della politica è dunque nella situazione attuale, la migliore garanzia del procedere indisturbato dell’economia capitalistica». [8]
L’autoreferenzialità coincide con la crisi del linguaggio ridotto a distrattore di massa. La parola, non più dialogo, è solo un mezzo per distrarre le masse con la chiacchiera (Gerede), per spingerla verso temi che possano obliare le urgenze della vita. I potentati mediatici ed il clero orante sono lo splendore del nichilismo mediatico, del valore di esposizione che mentre illumina brucia significati e senso della realtà, e dunque la politica: tutto si consuma nel teatrino della parola-immagine che comunica la coazione a ripetere del sempre uguale senza prospettiva. La necessità di un linguaggio privo di contenuti è accentuata dalla globalizzazione che con il suo dinamismo estremo, non consente progettualità, ma esige adattamenti perenni per conservare il potere:
«L’unico modo per evitare questo grave rischio è allora non dire mai nulla, cioè usare un linguaggio completamente privo di contenuti razionali. Ai politici serve un linguaggio malleabile, manipolabile, piegabile all’esigenza del momento. I politici hanno bisogno di un linguaggio – argilla, che non faccia resistenza».
L’asse storico
La necessità di riportare la storia nelle scuole, nella formazione di ciascuno si rende evidente in questo breve iter dello sviluppo nichilistico. Capire la discesa verso il capitalismo assoluto, le sue contraddizioni ed i suoi inganni è la priorità del nostro tempo. Il riduzionismo applicato alla formazione, alle capacità critiche, lo smantellamento della scuola pubblica sono la realizzazione del modello liberista, il quale è oltre sia della destra come della sinistra, poiché non vuole altro che autoriprodursi omologando ogni centro di resistenza e pensiero, per cui destra e sinistra terminano la loro corsa nel ventre dell’ideologia dell’azienda per non creare più nulla. L’alternativa è il sovrapporsi di tanti visi tutti con le stesse finalità, per cui l’essere coincide con il nulla. Il trionfo del nichilismo, dell’assenza del fondamento veritativo, unica vera urgenza, non può che portare al trionfo dell’omologazione nel nulla. Il nulla dei volti come delle parole si sussegue con esiti esiziali. Se nulla accade, forse la causa profonda è l’assenza di ogni fondamento veritativo, di ogni dialettica della parola. La Filosofia e la storia sono trattate con sufficienza, ma la loro assenza nella cultura di un popolo ne decreta la sudditanza a logiche che ne minacciano la sopravvivenza culturale e biologica.
Il nulla non ha limite, è uno spazio infinito in cui perdersi. Affinché possa affermarsi una vita umana degna di essere vissuta è necessario che al caos si dia un fondamento, senza il quale non vi è progetto e non vi è storia.
L’asse storico è il terreno su cui ricostruire il fondamento veritativo, e per Bontempelli è l’antidoto al nichilismo crescente. Il bivio a cui siamo è tra un futuro nella storia ed un futuro senza storia. Il tempo storico necessita di riconciliazione, di trascendere le scissioni, per sostituire all’abbaglio del disvalore di esposizione dello spettacolo – che mentre illumina il narcisismo col suo niente brucia tutto intorno a sé – il principio di realtà che guarda gli effetti del saccheggio in assenza del senso veritativo.
Vorrei concludere ricordando un breve scritto di Gramsci, Il topo e la montagna, dedicata al figlio, sulla necessità di ricostruire dinanzi agli effetti del capitalismo acquisitivo:
«Carissima Giulia, puoi domandare a Delio, da parte mia, quale dei racconti di Puskin ami di piú. Io veramente ne conosco solo due: Il galletto d’oro e Il pescatore. Vorrei ora raccontare a Delio una novella del mio paese che mi pare interessante. Te la riassumo e tu gliela svolgerai, a lui e a Giuliano. Un bambino dorme. C’è un bricco di latte pronto per il suo risveglio. Un topo si beve il latte. Il bambino, non avendo latte, strilla, e la mamma dice che non serve a nulla correre dalla capra per avere del latte. La capra gli darà il latte se avrà l’erba da mangiare. Il topo va dalla campagna per l’erba e la campagna arida vuole l’acqua. Il topo va dalla fontana. La fontana è stata rovinata dalla guerra e l’acqua si disperde: vuole il maestro muratore; questo vuole le pietre. Il topo va dalla montagna e avviene un sublime dialogo tra il topo e la montagna che è stata disboscata dagli speculatori e mostra dappertutto le sue ossa senza terra. Il topo racconta tutta la storia e promette che il bambino cresciuto ripianterà i pini, querce, castagni ecc. Così la montagna dà le pietre ecc. e il bimbo ha tanto latte che si lava anche col latte. Cresce, pianta gli alberi, tutto muta; spariscono le ossa della montagna sotto il nuovo humus, la precipitazione atmosferica ridiventa regolare perché gli alberi trattengono i vapori e impediscono ai torrenti di devastare la pianura. Insomma il topo concepisce un vero e proprio piano di lavoro, organico e adatto a un paese rovinato dal disboscamento. Carissima Giulia, devi proprio raccontare questa novella e poi comunicarmi l’impressione dei bimbi. Ti abbraccio teneramente».
Senza la storia e la filosofia gli esseri umani non vedono le ossa della terra e dunque non se ne assumono la responsabilità. La svolta può avvenire in qualsiasi momento storico, poiché la minaccia è tale che è sempre più improbabile distogliere lo sguardo. Contro la cultura dei forchettoni, l’asse storico è un antidoto imprescindibile, poiché ricostruisce la genealogia dei processi del reale, permettendo la consapevolezza della gettatezza della propria condizione, e di elaborare risposte collettive:
«C’è però un ambito di studi che è capace di rammemorare, da un punto di vista diverso da quello filosofico, possibilità antropologiche cancellate dall’attuale distruttività sociale del mercato e della tecnica. Si tratta degli studi storici. Torniamo, per capirlo, agli esempi di prima. La possibilità dell’individuo di autodeterminarsi come soggetto libero, e la sua possibilità di partecipare a una sfera di finalità pubbliche separate dalla sfera privata degli interessi particolari, sono due grandi realizzazioni della civilità borghese moderna disperse dal totalitarismo del mercato e della tecnica. Perciò, lo studio storico della progressiva dissoluzione, per effetto del progressivo estendersi del capitalismo nella vita collettiva, dell’identità sociale e culturale delle classi borghesi, trasformate in meri aggregati di agenti atomizzati della produzione capitalistica, riconducendoci all’epoca in cui le classi borghesi si identificavano ancora con valori umanistici indipendenti dal mercato e dalla tecnica, ci consente di accedere alle possibilità antropologiche di cui abbiamo parlato. La conoscenza storica, d’altra parte, in un’epoca della cultura che non ammette più alcuna gerarchia ontologica dei saperi, rappresenta l’unico possibile riferimento unitario per settori disciplinari distinti. Ad esempio, saperi di tipo diverso come la geometria di Euclide, la statica di Archimede, l’astronomia di Aristarco, la filosofia morale di Epicuro, possono trovare una collocazione concettuale unitaria nella trama culturale del mondo storico ellenistico. Si delinea, così, la possibilità di un asse culturale dell’insegnamento delle discipline scolastiche costituito dalla conoscenza storica. Un grande valore educativo della conoscenza storica è, come si è visto, quello di far accedere a modi di essere umani che sono prima comparsi e poi divenuti inoperanti nel corso del tempo, e di cui sarebbe importante tornare a disporre per contrastare la degradazione della vita sociale. Ma non si tratta solo di questo. Si è visto, infatti, come il dominio totalitario sulla società di un meccanismo economico autoreferenziale richieda il contrappeso di uno spirito critico capace di relativizzare il primato del momento economico».[9]
La formazione storico-filosofica è dunque antinichilistica, poiché trascende le scissioni che non sono solo nella forma dell’atomismo sociale, ma specialmente si esprimono nella frammentazione della temporalità, la quale risulta in tal maniera ridotta al solo attimo consumante. L’educazione storica è dunque la condizione per formare al senso al quale si giunge attraverso la lettura della scissione nella storia.
Salvatore A. Bravo
[1]Massimo Bontempelli, La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana, Petite Plaisance, Pistoia 2003, pp. 7-8.
[2]I Forchettoni rossi, con testi di M. Bontempelli, M. Nobile, M. Badiale, A. Marazzi, A. Furlan, Massari editore, 2007, p. 119.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.
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L’ospite inquietante, il nichilismo, è fra di noi.
Perché possa esserci vita degna d’essere vissuta è necessario riportare il fondamento veritativo nella vita degli esseri umani. Costanzo Preve ha fatto dell’esodo dal nichilismo economicistico il telos del suo filosofare. Dalla periferia in cui si è posto ha guardato la complessità del problema e il suo volto meduseo, senza distogliere lo sguardo. Ha testimoniato con la vita e le opere che il nichilismo non è un destino, ma una condizione trasmutabile. Sentiamo l’assenza di uomini dalla passione durevole.
Questo testo è dedicato a Costanzo Preve e a coloro che vogliono accostarsi al problema avendo deciso di non distogliere lo sguardo, di non voler più vivere nell’indifferenza, in un mondo di sole merci.
Nel pensiero di Costanzo
che vivendo ci fu caro,
pensiamo la sua memoria, e… Venturi non immemor aevi.
Il cartiglio sullo stemma di uno dei protagonisti della Rivoluzione napoletana del 1799, Gennaro Serra di Cassano, reca una scritta che, per la sua espressione incipitale (Venturi), sollecita a proporne la lettura (o la rilettura) anche a tutti gli estimatori e amici di Costanzo:
Venturi non immemor aevi*
Parole che ci ricordano quanto forte fosse in Costanzo Preve l’esigenza di saldare il passato al futuro, di leggere il presente con gli occhi del futuro, un presente che non dimentica il passato e sa trarne insegnamenti. Il futuro che trova dunque riverberi di senso in un passato e che – transitando per il presente – sembra attendere la sua ventura rammemorazione, orientando così il futuro stesso. Come se il futuro svernasse nel passato, raccogliendo aspettative e speranze sinora inascoltate in vista della loro realizzazione. Noi siamo storia e siamo la nostra storia nella storia. Siamo una trama di significati. La storia è soprattutto trama di significati universali. E per ogni essere umano è trama di significati di quel che la persona è stata ed è, le scelte che ha compiuto e che ha in animo di compiere, le azioni che ha messo in atto per concretizzare la propria progettualità sociale e il proprio cammino di conoscenza, come pure le azioni che non ha messo in atto per preservare la propria identità in questo cammino. La storia di chi ha cercato (e cerca) di vivere con profondità di senso e di valori ogni esperienza di comunicazione è costituita dalla traccia di significato di quei fatti che continuano ad essere in lui vitali e, preservati in spirito, ad illuminare il proprio presente nella progettazione di ponti verso il futuro. Siamo storia e siamo la nostra storia nella storia. Dobbiamo sempre cercare una possibile strada per liberarci dalla “gabbia d’acciaio” del “puro presente” e per combattere il nichilismo moderno che ci avvolge da ogni lato cercando di convincerci che sia possibile vivere solo “al presente”, senza bisogno di storia, senza bisogno di passato, senza bisogno di futuro. Le nostre tracce di significato sono ponti, sono ciò che unisce “quel che è stato” a “quel che sarà”. Perché i ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero che pongono in comunicazione.Attraverso questi ponti eidetici noi consentiamo, e ci consentiamo, un passaggio, un attraversamento, non solo da un luogo ad un altro, ma soprattutto dal passato al presente, dall’oggi al futuro, dalla vita alla vita. L’antropologia capitalistica ci riserva solo distopia: offre “in dono” il “presente assoluto” obliando che il senso profondo della cultura e della storia, anche della nostra storia, lo dobbiamo trovare progettando quei ponti su cui si sedimentano tracce di significato. Ponti che ci portino ad amare e generare il bene e il bello, promuovendoli nella relazione con tutti coloro che incontriamo nell’attraversamento della quotidianità, generando ciò che davvero vale e che ci sopravvive, ponti generazionali.
E dunque, caro Costanzo, ad multos annos per i semi che hai lasciato: questo l’augurio, per una sempre nuova “avventura” che occorre però desiderare (avventura, andare verso le cose future, ad ventura), impegnandosi sempre a dare un senso alla propria vita, proiettandola nell’altrove della buona utopia, che è negazione dell’indeterminato capitalistico, una concreta utopia comunitaria perseguita con itinerari da progettare insieme, non immemor aevi venturi. Ecco la sostanza della passione durevole che, a partire da Lukács, hai trasmesso a molti.
Carmine Fiorillo, 2019
*[Non immemor, Non immemore / Aevi (genitivo di aevus, aevi; età, vita, epoca, periodo della storia passata, esistenza, speranza o durata della vita umana) / Venturi (genitivo di venturus, venturi; venturo, futuro; come sostantivo neutro venturum, venturi: il futuro)].
Introduzione
«Una prospettiva di lunga durata. Dal momento che la storia non è caratterizzata dalla prevedibilità, ma dall’aleatorietà, non possiamo sapere se il profilo culturale che proponiamo avrà successo o meno, resterà a lungo minoritario e marginale oppure si diffonderà in tempi non biblici. Non lo sappiamo. Teniamo però la barra del timone diritta, se siamo convinti di quello che pensiamo e soprattutto non giudichiamo i successi e/o i fallimenti con il parametro errato ed illusorio del cosiddetto “breve periodo”. La commedia del ciclo di illusioni e di successivi pentimenti ha già caratterizzato la generazione del sessantotto. Direi che ne basta ed avanza una».1
Costanzo Preve
Questo saggio è dedicato a Costanzo Preve
Non è stato un facitore di parole, ma un pensatore libero.
Mi sono dedicato alla lettura della sua produzione filosofica per una semplice ragione: leggendo i suoi testi ed ascoltando i suoi interventi, non poche volte ho sentito da lui pronunciare una frase, la quale è l’essenza del suo pensiero, e racchiude il telos2 del suo filosofare:
«Capire è molto più importante che appartenere».3
Per poter capire è necessario rimettere in moto con il pensiero la catena dei perché. La passione durevole per la Filosofia si struttura nella perenne domanda: “Perché?”. Si abbattono le abitudini, gli stereotipi di un sapere burocratizzato e parte del dispositivo di riproduzione sociale. Con la catena dei perché Costanzo Preve porta il lettore verso il riorientamento gestaltico. La domanda profonda è libertà nella mediazione concettuale domandante e senza di essa non vi è che l’animalizzazione dell’essere umano, il suo farsi ente ideologico negli automatismi della riproduzione sociale dei poteri e della produzione: il nostro è un mondo senza domande in cui regna la distopia dell’esattezza.
Preve ha scelto la Filosofia, non l’ideologia, la libertà, non il conformismo del “politicamente corretto”.
La disposizione alla libertà ha affinato la metodologia di indagine, per emancipare le domande dalle sovrastrutture ideologiche.
Se prevale l’appartenenza non si può filosofare: il filosofo è un cercatore perenne di concetti e superamenti.
Ci sono tanti modi di donarsi.
Costanzo Preve ha testimoniato la libertas philosophandi, ancora possibile, malgrado le burocrazie plutocratiche e mediatiche del sapere.
La postura periferica scelta da Preve, rispetto ai contesti strutturati delle accademie, ha consentito alla sua indagine di solidificarsi con il tempo senza chiusure. Pertanto, la sua priorità è stata: “Capire”. Ha sentito fortemente la vocazione politica e filosofica e, dato che filosofare è capire e vivere il proprio tempo, ha posto il problema del fondamento veritativo.
Trasgressivo – in un’epoca di nichilismo, nella quale la libertà è dimenticanza di sé e della propria identità umana – egli ha teorizzato l’uscita dal deserto del nichilismo, dell’alienazione, osando ricondurre la Filosofia nell’alveo della sua storia.
Contro la dispersione dei nichilismi, ha riportato in luce la verità quale fondamento della pratica filosofica.
L’integralismo economicistico ha indotto a teorizzare il consumo dell’essere.4
Nella dipintura della Scienza Nova Vico utilizza un’immagine metaforica per rappresentare il suo progetto: il globo poggia di lato sull’altare e su di esso una donna simbolizza la metafisica. Il globo non occupa tutto lo spazio, ma lascia un ampio spazio libero, simbolo di libertà creativa.
La Storia è il campo del possibile che si coniuga con l’eterno (la luce). Nella contemporaneità la dipintura dovrebbe essere notevolmente diversa: l’economicismo potrebbe essere il globo che regge la nuova metafisica che a sua volta guida il mondo, ma che occupa tutto lo spazio dell’altare.
Nell’epoca dell’intemperanza, degli orci bucati,5 Costanzo Preve ha posto l’urgenza del problema: l’illimitato sta divorando la nostra natura umana ed il nichilismo di conseguenza va giudicato e compreso nei suoi effetti, per ipotizzare una collettiva via d’uscita dall’ospite inquietante.
In generale coloro che oggi si occupano di filosofia hanno legittimato il pensiero debole finendo in tal maniera per sclerotizzare il presente contribuendo alla sua riproduzione.
Costanzo Preve, dinanzi al bivio dóxa (opinione)/“lÉqeia (verità), ha scelto il percorso più difficile: si è assunto il rischio del nuovo e della verità.
Non si tratta di santificarne il pensiero e la testimonianza, operazione che risulterebbe fortemente antifilosofica, ma di riconoscere un percorso, la cui onestà è di tutta evidenza.
Non oso propormi come esperto del pensiero di Costanzo Preve: l’abbondanza di fonti cartacee, digitali, mediatiche rende non semplice la genetica del suo pensiero.
Ho solo tentato di rintracciare – attraverso l’immagine del deserto in Nietzsche e nella Arendt – il processo genealogico di uscita dal nichilismo indicatoci da Costanzo Preve.
Nel deserto attuale, la Filosofia di Costanzo Preve è come l’Albero del Ténéré nel deserto del Niger: un punto di riferimento in quel nulla in cui tutti i grani di sabbia sembrano uguali. Per attraversarlo, per uscirne, occorre una bussola.
Salvatore A. Bravo
***
*
Note
1 Costanzo Preve, Torino, ottobre 2007.
2 Dal termine greco τέλος, “fine”.
3 «Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido» (C. Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia 2004, p. 6).
4 «Nel mondo filosofico italiano è stata dominante per almeno due decenni l’interpretazione di Heidegger data da Gianni Vattimo, un pensatore con cui sono in disaccordo radicale e nello stesso tempo stimo come un produttore di proposte minimamente originali. Secondo Vattimo, Heidegger non avrebbe soltanto sostenuto che la lunga storia della metafisica occidentale si risolve in tecnica planetaria, ma addirittura che l’Essere si è consumato come fondamento ontologico ed è rimasto solo come prospettiva linguistica ed ermeneutica. Questo “consumo”, tuttavia, non deve essere vissuto come perdita da piangere in modo inconsolabile, ma come risorsa da valorizzare per un mondo post-metafisico. E sull’inesorabile avvento di un mondo post-metafisico da salutare come un destino e come una risorsa insieme sono d’accordo due fra i filosofi più conosciuti oggi al mondo, il tedesco Jürgen Habermas e l’americano Richard Rorty. Vorrei terminare questo terzo capitolo con una riflessione su questo punto. Io ritengo la teoria di Vattimo del cosiddetto “consumo” dell’Essere una formulazione spontanea (certamente inconsapevole e non avvertita come tale dal suo incauto formulatore) del segreto del momento storico che si sta aprendo, e cui accennerò nel prossimo capitolo. Non si tratta più del fatto, già noto agli antichi greci, che il tempo (chronos) ci consuma e ci divora e dunque ci trasforma in polvere» (ibidem, pp. 45-46).
5 «Socrate – Allora voglio riportarti un’altra similitudine, che proviene dalla stessa scuola da cui viene quella di cui ti ho appena parlato. Considera la vita dell’uno e dell’altro, la vita cioè dell’uomo temperante e quella dell’uomo senza freni, se si può dire che è come se, di due uomini, ciascuno di essi possedesse molti orci, e l’uno avesse i suoi sani e pieni, uno di vino, un altro di miele, un altro ancora di latte, e molti altri orci pieni di molti altri liquidi, e i liquidi contenuti in ciascuno di essi siano rari e ottenibili a prezzo di molte e dure fatiche: costui, dopo averli riempiti, non dovrebbe più portarvi altro liquido né darsene alcun pensiero, ma riguardo ai suoi orci potrebbe stare tranquillo. Anche per l’altro, come per il primo, è possibile procurarsi quei liquidi, sebbene siano difficili da ottenere, ma i suoi orci sono forati e logori: costui sarebbe costretto a riempirli continuamente, notte e giorno, perché, se così non facesse, patirebbe i dolori più grandi. Ebbene, supponendo che sia tale la vita di ciascuno di costoro, puoi dire che la vita dell’uomo dissoluto è più felice di quella dell’uomo ben regolato? Con questo mio ragionamento ti persuado ad ammettere che la vita ben regolata è migliore di quella sfrenata, o non ti persuado?» (Platone, Gorgia, Acrobat in Internet, p. 26).
Indice
Venturi non immemor aevi
Introduzione
Il problema
Deserto e oasi
Nichilismo e macchinismo
Crescere senza nascere
La tecnoeconomia del nichilismo
Il nichilismo dello scambio interiorizzato
La categoria del possibile contro i nichilismi
L’oasi
La Filosofia come eterotopia
L’irrilevanza, paradigma del nichilismo
La megalopoli
La smart city
Intensità, estensione, automatismo
Behemoth
Il nulla nulleggia ancora
Guardare negli occhi il nichilismo/deserto
Nichilismo e riorientamento gestaltico
Misura, isonomia, isogoria, isorropia
Intermezzo
Oltre il nichilismo
Fuori dal deserto
Laico ma non ateo
Quale Rivoluzione?
La Filosofia: una difficile definizione
Conclusione Indice dei nomi
L’albero del Ténéré (in francese arbre du Ténéré),
esemplare di Acacia tortilis (Acacia a ombrello), pianta che si ergeva solitaria nel deserto del Ténéré, una regione desertica nella parte centromeridionale del Sahara, nordovest del Niger. Costituiva un punto di riferimento per le carovane di cammelli che attraversavano questo deserto, in quanto non ve n’erano altri nel raggio di alcune centinaia di chilometri tutt’intorno.
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Per “cifra” si può intendere sia la connotazione essenziale, sia l’esito necessario e quindi la conseguenza. In entrambi questi sensi il “nichilismo” è stato inteso come cifra del moderno da parte di alcune filosofie postmoderne, che pertanto si presentano come la denuncia del nichilismo moderno e al tempo stesso come forma più compiuta del nichilismo. Tali sono le filosofie che si richiamano alla genealogia formata da Nietzsche, da un certo Heidegger, dal poststrutturalismo francese e dal “pensiero debole” italiano.
Il “nichilismo” moderno secondo l’interpretazione post-moderna
L’interpretazione della filosofia moderna come nichilista a causa della centralità da essa assegnata al sovrasensibile (Nietzsche), o alla tecnica (Heidegger), o alla metafisica del soggetto (Vattimo), fa propria, in realtà, l’interpretazione dell’intera storia della filosofia elaborata da Hegel e diffusa dalla storiografia hegelianizzante (Zeller, Fischer, Gentile), così come fa propria la periodizzazione su cui essa si fonda. Questa, però, non ha un valore cronologico, bensì assiologico, perché trae dalla successione temporale un giudizio di irreversibilità ed assume la storia come suo argomento (l’unico, in verità).
L’esistenza, pertanto, di tradizioni moderne alternative a quella interpretabile come nichilismo può costituire una vera e propria confutazione di tale interpretazione. Se si ammette ad esempio, come ha osservato Del Noce, che l’ateismo debba essere il risultato finale del processo, fa difficoltà il riconoscimento di filosofie ateistiche all’inizio o nel corso di esso (cfr. il libertinismo), come fa difficoltà il riconoscimento di una tradizione teistica all’interno della filosofia specificamente moderna (cfr. la tradizione platonizzante che va da Descartes a Pascal, a Malebranche, a Vico, a Kant ed a Rosmini).
Emblematico è, al riguardo, il modo di intendere il rapporto fra teoria e prassi. Questo, nella linea specificamente moderna, cioè antitradizionale, comporta la riduzione della teoria (filosofia) alla scienza (matematica) e la concezione della prassi o come non razionalizzabile affatto (Descartes) o come suscettibile di razionalizzazione rigorosamente scientifica (Spinoza per l’etica, Hobbes per la politica, Petty per l’economia, Pufendorf per il diritto). Conseguenza di ciò è la separazione fra descrizione e prescrizione (Hume), la negazione di qualsiasi capacità conoscitiva alla «ragione pratica» (Kant), la concezione delle Geisteswissenschaften come scienze descrittive (neocriticismo) e la dichiarazione della loro “avalutatività” (Weber).
Da ciò l’incapacità della conoscenza ad orientare la prassi, l’impossibilità per la ragione di affrontare i problemi di senso, l’estraneità della scienza «al mondo della vita» (Husserl), e quindi il nichilismo.
Le tradizioni alternative in età moderna
Si potrebbe facilmente mostrare, ed è stato fatto recentemente da Paolo Rossi, che la filosofia moderna non è tutta, in realtà, quale la presenta l’odierno nichilismo, ma è almeno in parte essa stessa alternativa alla sua immagine. Oppure si potrebbe segnalare l’esistenza, all’interno di essa, di una tradizione platonizzante alternativa a quella dominante, come ha fatto Del Noce. Ma nessuna di queste due alternative è sufficientemente radicale per costituire una confutazione dell’interpretazione dominante. La tradizione, invece, più radicalmente alternativa alla filosofia specificamente moderna, quella a cui quest’ultima soprattutto si oppone, è l’aristotelismo. Ebbene, proprio questo sopravvive nei primi tre secoli dell’età moderna, sia nella sua versione “laica” sia in quella “scolastica” .
Nei secoli XVI e XVII l’aristotelismo laico si diffonde, ad opera di Zabarella e di Melantone, nell’Europa protestante ed eretica, influenzando sia la logica, sia l’etica e la politica (sino a giungere poi, attraverso Priestley e Jefferson, negli Stati Uniti). L’aristotelismo scolastico si diffonde, invece, ad opera dei Gesuiti, nell’Europa cattolica, alimentando filosofie politiche alternative alle teorie dello Stato sovrano.
Entrambi mantengono viva, specialmente nelle università, la tradizione della philosophia practica, la quale, sempre a proposito del rapporto fra teoria e prassi, evita sia la razionalizzazione matematistica della prassi, sia la sua completa separazione dalla teoria. Questa tradizione dà luogo all’economia cameralistica, alla concezione della politica come «dottrina dell’amministrazione» o scienza del «buon ordinamento» (Polizey) ed alla teoria della «prudenza» come virtù del principe.
Essa viene tuttavia progressivamente logorata, nel secolo XVIII, dal giusnaturalismo, che si insinua nella stessa filosofia pratica (con Thomasius e soprattutto con Wolff), e viene definitivamente spazzata via da Kant (che non a caso critica violentemente la stessa prudenza). Malgrado il breve tentativo di restaurazione dell’aristotelismo compiuto da Hegel con la filosofia dello Spirito oggettivo, tentativo reso vano dalla scissione tra Stato e società civile, la tradizione in questione scompare quasi totalmente sia dalle università che dagli stessi seminari ecclesiastici lungo tutto il secolo XIX, il quale vede invece il trionfo della linea innovatrice ad opera del positivismo e del neocriticismo. Solo un aspetto alquanto parziale, cioè il tomismo, sarà oggetto di un tentativo di restaurazione, peraltro effimero, alla fine del secolo, ad opera del papa Leone XIII.
Il nichilismo postmodermo e le sue alternative attuali
Il nichilismo postmoderno, ponendosi come legittimo erede del nichilismo moderno, nella forma di un nichilismo “compiuto”, non è, in realtà, diverso dal suo genitore, perché continua ad usare come unico argomento la storia, sia pure non più intesa come progresso o superamento, bensì soltanto come Verwindung o “congedo”. Esso mantiene infatti la categoria dell’“ora” (modo), che è mera funzione temporale (C.A. Viano), come criterio assiologico d’irreversibilità («ora non è più possibile … »). Al mito giovanilistico del progresso esso sostituisce l’ossessione del declino, che è in realtà l’angoscia dell’invecchiamento: espressioni entrambi di un sentimento del tipo biologico. Anch’esso viene confutato dall’esistenza di posizioni alternative, nate tutte dopo la crisi della “modernità”, ma non derivanti da quest’ultima.
Basti menzionare sommariamente, sempre in riferimento al modo di concepire il rapporto fra teoria e prassi: la nuova «filosofia politica» di Strauss, di Voegelin e della Arendt o quella di Maritain, di Simon e del “gruppo di Chicago”, sviluppatesi entrambe in America intorno alla metà del secolo XX; la «teoria dell’ argomentazione» come logica delle discipline non formalizzabili (Perelman); «l’urbanizzazione» di Heidegger compiuta da Gadamer con la riproposta della filosofia pratica di Aristotele (ripresa da Hennis, Bubner, Höffe); l’uso in senso cognitivistico della filosofia pratica kantiana inaugurato da Apel e l’«etica discorsiva» o «comunicativa» di Habermas (da quest’ultimo proposta esplicitamente come alternativa al «discorso filosofico della modernità»); i recenti sviluppi della filosofia analitica nella direzione di un’«etica pubblica» (Rawls, MacIntyre); più in generale la nuova domanda di etica, prodotta dalle nuove tecnologie, e di filosofia politica, suscitata dal declino dello Stato moderno.
Al di là del rapporto fra teoria e prassi, si potrebbero menzionare gli sviluppi della filosofia analitica nella direzione ontologica (Strawson, Kripke, Wiggins), ed altre posizioni ancora (la nuova epistemologia, ecc.).
Quasi tutte queste posizioni sono ancora eccessivamente “deboli”, e perciò forse insufficienti come autentiche alternative al nichilismo, a causa del persistente sospetto, che esse condividono col nichilismo stesso, verso la metafisica.
Enrico Berti
Articolo già pubblicato su Avvenire, 6 novembre 1988, e ripubblicato su Grande Enciclopedia Epistemologica, n. 108, Edizioni Romane di Cultura, 1997, pp. 53-56.
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“L’ammiraglio Antoine Sanguinetti, messo anticipatamente in pensione in virtù di un decreto di Valery Giscard d’Estaing per aver fatto uso del diritto di parlare, di questo diritto ne fa oggi un dovere. Con l’autore, alla sua quarta fatica, si sfoglieranno le pagine degli annuari militari che indicano il bilancio reale delle forze Est/Ovest; si scopriranno rapporti pubblicati dalla N.A.T.O., dalla Commissione Trilaterale, sconosciuti al grande pubblico, e che svelano l’origine dell’evoluzione (antidemocratica delle democrazie occidentali); con la lettura di questo libro si prenderà conoscenza di leggi dimenticate che ci ricordano i nostri diritti di cittadini. Questo libro si rivolge a tutti coloro che si interessano ai problemi politici internazionali e nazionali; Contiene informazioni ed analisi abitualmente riservate agli specialisti; espresse qui con un linguaggio volutamente semplice e chiaro …”.
Ecco quanto è scritto sul retro di copertina del libro di Antoine Sanguinetti, Le devoìr de parler, Editions Fernand Nathan, 1981. Presentiamo al lettore italiano la traduzione del sesto capitolo (Un mythe dangereux, la “sécurité”). Nella Prefazione (pp. 7-8), Sanguinetti scrive: “In questa fine di secolo, i paesi del mondo intero sono divenuti la posta in gioco e gli oggetti di un processo di gigantesca colonizzazione, attuata dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica; un processo che tende a stabilire un nuovo ordine mondiale, fondato su una nuova suddivisione di zone d’influenza. Ora, con il pretesto della minaccia di una forza sovietica sistematicamente sopravvalutata dai mass-media occidentali e dalla NATO per giustificare l’Alleanza, gli Stati europei si schierano per la dominazione americana. Le voci che denunciano questo fatto si perdono in un brusio di idee acquisite che ci si sforza, con tutti i mezzi, di inculcare negli europei. Per perpetuare, la rassegnata obbedienza dei popoli a questo sistema, questi ultimi sono mantenuti in uno stato che è a mezza strada tra l’ipnosi e l’ignoranza Si mette iri opera di tutto per persuadere i popoli europei. che gli affari mondiali sono loro ormai inaccessibili tanto essi sono incomprensibili ai comuni mortali, quanto appare ineluttabile e fatale il corso che essi prendono. I grandi mezzi moderni di informazione, agli ordini dei governanti e dei possidenti, si incaricano di accentuare questa anestesia, che piace a ‘coloro che sanno’, e serve ai disegni di ‘coloro che dirigono’ gli affari dell’Occidente”.
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La nozione di sicurezza è. relativamente recente. Da sempre, in Europa, e fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, si parlava in realtà di difesa, non di sicurezza. La difesa era 1’approccio tradizionale delle nazioni europee che riguardava soprattutto il loro territorio. Consisteva nel battersi quando si era attaccati, o quando si credeva di esserlo: era chiaro e senza ambiguità. Ciò avveniva soltanto quando un vicino turbolento decideva d’invadervi per strapparvi una provincia o una garanzia, o più raramente un impegno. Gli eserciti, nati o meno dal popolo, si dirigevano allora in massa contro il “nemico”, “per difendersi dall’aggressione”, per respingerlo al di là delle frontiere. Si era così in guerra per un certo tempo; ma, altrimenti, si era più spesso in pace.
Oggi tutto è cambiato perché gli Stati Uniti hanno inventato, per giustificare la loro partecipazione a due guerre mondiali, una nozione di sicurezza che apre orizzonti molto diversi e che essi hanno imposto come dottrina alle alleanze militari alle quali partecipano e che dominano in virtù della loro potenza.
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La genesi del concetto di sicurezza
Tutto è cominciato dalla partecipazione degli Stati Uniti alle due guerre mondiali, 1914-’18 e 1939-1945. Dal punto di vista dei cittadini americani, terribilmente conformisti, c’erano state due deroghe fragranti, e che richiedevano delle spiegazioni, alla sacrosanta dottrina Monroe, di cui essi si nutrivano fin dalla nascita, come uno dei dieci comandamenti che governavano il loro Stato: in politica estera, divieto di immischiarsi nei fatti estranei al loro continente.
Come giustificazione, il pretesto di difesa, così comodo in Europa, non era sufficiente. Innanzitutto, il governo americano, almeno nel 1940, aveva fornito materiali agli Alleati, fin dall’inizio delle ostilità; poi, ci si è sempre posti la domanda di sapere se Roosevelt non fosse al corrente dell’attacco di Pearl Harbour e non lo avesse deliberatamente lasciato compiere per poter impegnare il suo paese nella guerra; infine, il territorio degli Stati Uniti (il territorio propriamente detto, non era mai stato direttamente minacciato. Evidentemente! Il suolo stesso degli Stati Uniti è in realtà inaccessibile ad ogni nemico e le sue frontiere sono fisicamente inviolabili. Al Nord e al Sud, ci sono il Canada ed il Messico, due nazioni talmente pacifiche che sarebbero incapaci di scalfire il loro grande vicino anche se lo volessero; quanto all’Est ed all’Ovest, due immensi oceani, rigorosamente insormontabili in forze, quando si pensi ai prodigi d’immaginazione, di preparazione e di esecuzione ai quali furono costretti gli Alleati nel 1944, per superare il magro fossato della Manica.
È stato detto, perciò ai più accaniti discepoli di Monroe che, dal momento che degli interessi esterni degli Stati Uniti erano stati attaccati – navi mercantili o colonia (Hawaii) era stato indispensabile battersi, per garantirsi la sicurezza. È con la stessa ottica che dovette giustificarsi nel dopoguerra Truman nel mettere in piedi l’Alleanza atlantica: la sicurezza futura degli Stati Uniti esigeva che essi non potessero essere trascinati in un terzo conflitto per difendere 1’Europa, ivi compreso il nemico di ieri, il giorno in cui gli staliniani, assimilati agli hitleriani per facilitare l’adesione popolare all’uscita dalla guerra, tenteranno di impadronirsene. Così reggeva: certo non si andava a dire al popolo che il vero obiettivo era di integrare 1’Europa in un Impero che stava nascendo.
Si tratta in realtà di un’ideologia
Era il momento in cui gli Stati Uniti, ubriacati dalla vittoria, cedevano al complesso di potenza. Nello stesso tempo, il Pentagono, impegnato in un’alleanza firmata per cinquant’anni, codificava la dottrina di sicurezza che doveva regolarla. Non bisogna perdere di vista che ciò è stato realizzato sotto la presidenza di Truman, venditore d’ombrelli del suo Stato, e nel quale dunque il politico era largamente superato dallo spirito di un commerciante molto sensibile a problemi relativi a grossi guadagni. Infine la dottrina della “sicurezza nazionale” è stata presentata al Congresso da Harry Truman il 12 marzo 1947, due anni prima della firma del trattato dell’Alleanza Nord-Atlantica. In questo trattato, molto breve, proprio la parola “sicurezza” compare nove volte; ma mai nel contesto ideologico che manifesterà apertamente sette anni più tardi, nell’articolo 30 del rapporto del Comitato dei Tre. E tuttavia, si tratta proprio di un’ideologia.
La base della dottrina è che gli interessi degli americani, che non hanno molti territori esterni come la Francia, sono sostanzialmente collegati tal concetto di “libera impresa”, fondamento del capitalismo, che ha fatto la loro potenza, consentendo loro di prendere il controllo dell’economia mondiale. Molto logicamente perciò, ogni minaccia a questo controllo, contro le multinazionali che lo esercitano, o contro l’ideologia economica sulla quale poggia, diventa una minaccia alla loro sicurezza ed esige la loro ingerenza negli affari degli altri. Anche qui, la cosa si regge, pur non essendo molto entusiasmante per noi. A partire da ciò, in modo più che semplicista, la dottrina divide il mondo contemporaneo in due campi antagonistici e due soltanto [secondo i più puri principi del manicheismo. Da una parte il Bene, l’Occidente – vocabolo rassicurante, evocatore di cultura e di storia molto più di quanto faccia il capitalismo – ed il suo succedaneo, il colonialismo. Dall’altra, il comunismo, identificato con il Male assoluto. Tra i due non può esserci nulla, perché le due ideologie antinomiche si abbandonano ad una guerra permanente che assume su tutti i piani i caratteri di un conflitto totale e non sopporta perciò alcun compromesso. Secondo questa dottrina, la sicurezza degli Stati Uniti è in gioco perciò dovunque il comunismo rischia di affermarsi, o democraticamente attraverso le elezioni, o attraverso rivolte interne di minoranze, o attraverso pressioni esterne sulle nazioni. Ogni ricerca di una terza via ideologica più sfumata è pericolosa e viene qualificata immediatamente e preventivamente come “assurdità neutralista”, perché, tutto ciò che allontana dal capitalismo ortodosso avvicina al comunismo. Del resto, a ben riflettere, anche se si tratta di soluzioni rispettose delle libertà, oltre che più conformi ai valori tradizionali dei popoli cui ci riferiamo, come il socialismo europeo, non possono risultare che manovre sovversive nelle quali si riconosce evidentemente la mano di Mosca: perché chi potrebbe, senza essere manipolato, desiderare altro che l’“american way of life” (la concezione americana della vita)? E, dicendo così, gli americani sono certamente in buona fede, tanto è forte il loro sentimento che non possa esservi nulla di meglio.
Questa dottrina della “sicurezza” presenta evidentemente dei vantaggi considerevoli quando ci si è fatti carico, come gli Stati Uniti, della protezione di un certo numero di clienti: perché il confondere la sicurezza del “mondo libero” con quella del capitalismo internazionale offre evidentemente delle facilitazioni per imporre la sua egemonia economica ai suoi partner ed integrarli così, progressivamente, al proprio Impero. l militari americani che affinavano la dottrina due anni prima della firma del trattato Nord-Atlantico sapevano quello che facevano. In quel momento, ormai, per ogni nazione che si preparava ad associare la propria sicurezza a quella degli americani nel quadro di un’alleanza ineluttabilmente dominata da questi ultimi, ciò comportava l’accettazione dei principi del sistema capitalistico e di schierarsi ipso facto sotto la bandiera yankee; l’accettazione della loro egemonia, economica innanzitutto, ma anche, di conseguenza, culturale e politica. È quello che è capitato all’Europa Occidentale, noi compresi. Ma questo pericolo di rinuncia alla propria indipendenza, già grande e che avrebbe dovuto bastare per far condannare il sistema, non era la sola cosa dell’operazione.
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I pericoli insiti nella dottrina
Perché bisogna anche saper vedere la terribile pericolosità di questo “concetto di sicurezza” sul piano della democrazia alla quale non può fare che dei danni; alla quale ha già fatto, e realmente, dei danni. E ciò, per diverse ragioni. La prima è che, dal momento che la sicurezza è uno stato precario per natura, la nazione che si richiama ad essa si mette, ipso facto, in uno stato di guerra permanente. Ciò significa, sembra proprio di sfondare una porta aperta, che lo stato di pace. non esiste più. Bisogna trarne interamente le conseguenze: la nazione sarà dunque in stato di assedio, la qual cosa comporta sempre un allontanamento dal diritto comune; l’azione preventiva, anche all’esterno, diventa legittima; con il pretesto dell’urgenza di risposte necessarie si può finire con l’escludere ogni controllo democratico di queste risposte. Inoltre, in nome della travolgente ricerca di una sicurezza inaccessibile in assoluto, si rischia di portare indietro i limiti della legittimità d’azione del potere incaricato di questa sicurezza. E poi, chiunque esprima l’idea che il sistema economico. di libera impresa non è, obbligatoriamente, il migliore, e che potrebbe essere cambiato, diventerà per ciò stesso un pericolo, un nemico che deve essere perseguito in quanto sovversivo. C’è così, in tutto questo, un attentato diretto e specifico alle libertà d’opinione e d’espressione, che inceppa automaticamente il gioco normale della democrazia. Infine, nella misura in cui posizioni politiche divergenti – senza arrivare a parlare di opposizione – possono manifestarsi ovunque, senza riferimento alle frontiere, si aggiunge alla nozione classica di avversario dell’esterno, quella di nemico dell’interno, il famoso nemico interno. E si sopprime con l’occasione la distinzione essenziale tra l’Esercito e la Polizia. In ogni caso, per questo accumulo di restrizioni delle libertà fondamentali e di lotta eventuale contro i suoi stessi cittadini, si creano ineluttabilmente condizioni di dissidenza e di repressione, di terrorismo e di contro-terrorismo al limite della rivolta armata e della guerra civile. C’è di che diffidare, almeno. E, comunque, di che riflettere.
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La degradazione della democrazia americana
Effettivamente sul continente americano, dopo che il Pentagono ha promosso la sua nuova dottrina al rango di una mistica che ha sostenuto gli Stati Uniti da Truman in poi e che continua ancora oggi, i risultati non si sono fatti attendere. Anche in questo paese, dove gli animi sono pure in via di principio impregnati di democrazia e di Diritti dell’Uomo, la dottrina ha immediatamente spinto alla caccia dei comunisti, sotto l’alta direzione di McCarthy, dal 1948 al 1952. Chiunque esprimeva un dubbio sull’azione del governo, o sulla giustizia del sistema sul piano internazionale, economico, sociale, razziale o altro, era tacciato di comunismo, e trascinato di fronte alla Commissione d’Inchiesta. Fu in quegli anni che si verificò l’abominevole caso dei coniugi Rosemberg, di cui recentemente, si è occupata anche la televisione. Le cose poi, si sono molto ridimensionate fortunatamente. Ma, 1’ho già detto, la nozione stessa di guerra permanente e totale esige una sottomissione assoluta di tutti allo Stato, e che questo possa reagire immediatamente ai pretesi attacchi dell’avversario. Si rischia così che, molto presto, esso non tolleri più alcun freno.
E così, com’era prevedibile,1o Stato americano ha subito progressivamente una degradazione delle sue istituzioni: potenza crescente degli uomini dell’apparato e, parallelamente, deterioramento del controllo del legislativo sull’esecutivo, controllo che è pur sempre la base di ogni democrazia; fino alla battuta d’arresto del Watergate, diretto inizialmente proprio contro gli uomini d’apparato prima di coinvolgere Nixon con loro.
Oggi, tuttavia, si vedono ancora a Washington “consiglieri personali” del Presidente, per esempio, proprio per la sicurezza, l’illustre Brzezinski: il fatto è che si sono prese delle nefaste abitudini, e la famosa democrazia americana le conserva come una ferita cronica, una piaga aperta. Detto questo, se i danni della dottrina fossero rimasti limitati agli Stati Uniti, non me ne sarei preoccupato troppo: tanto peggio per loro, bastava che non la inventassero. Ma loro l’hanno imposta, per favorire la loro potenza, ad altri popoli intrappolati in alleanze, decennio dopo decennio, senza che se ne veda la fine. E noi francesi, come gli altri europei, siamo direttamente coinvolti.
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Danni in America Latina
Ma, prima di parlare dell’Europa; voglio fermarmi un momento, rapidamente, sull’America Latina. L’insieme delle Americhe, è, da molto tempo, la principale riserva di caccia degli Stati Uniti, ed è considerata come strettamente legata alla loro sicurezza. La dottrina di difesa del sistema politico-economico nord-americano doveva perciò almeno qui cavarsela con onore, se così posso esprimermi. In queste nazioni latino-americane feudali e sottosviluppate, nelle mani di persone meno impregnate di tradizioni democratiche dei nord-americani, era evidente che avrebbe fatto dei danni, C’era da aspettarselo, ed è successo! Numerosi militari dell’America Latina, da 80 a 90mila, sono stati istruiti nelle scuole specializzate degli Stati Uniti, in particolare a Panama, dove hanno preso a grosse dosi questa dottrina militare straniera, che identifica la sicurezza della nazione con quella del sistema economico. In queste condizioni, una volta rientrati a casa loro, ogni volta che la miseria e l’ingiustizia sociale provocavano delle sommosse popolari che puntavano più che comprensibilmente a cambiare lo stato delle cose, costoro hanno applicato la lezione imparata, attribuendone la causa alla “sovversione del comunismo internazionale”, alla “mano di Mosca”, per reprimerle selvaggiamente. In questa ottica, essi hanno spesso preso il potere per dichiarare una guerra permanente ai loro concittadini, sospettati di essere complici del “nemico”. E quando la disperazione spingeva degli intellettuali ad un terrorismo incapace dopo tutto di coinvolgere le masse, questi ufficiali hanno promosso un contro-terrorismo assolutamente sproporzionato rispetto a quello cui diceva di opporsi, e rispetto ai pericoli reali della “sovversione”.
La maggior parte delle nazioni latino-americane si trovano così oggi sotto il tallone di dittature sanguinarie: né con la complicità né con l’approvazione del popolo americano, sempre annegato nei buoni sentimenti, ma con l’appoggio attivo della CIA che non si fa certo mettere in imbarazzo dagli scrupoli. E’ molto comoda, e molto pratica, questa dualità d’apparenza e d’azione che permette di conservare una buona immagine di marca e una coscienza angelica, mentre la CIA fa tranquillamente i suoi tiri mancini. Si trovano, così, “giunte” di sicurezza nazionale in Cile – che non aveva tuttavia mai ceduto alle delizie dei colpi di Stato militari – e poi in Brasile, in Argentina, in Paraguay ed in Uruguay, in Bolivia ed in El Salvador. In Nicaragua il popolo, guidato dai sandinisti, è riuscito a sbarazzarsene malgrado l’appoggio americano a Somoza.
In tutti gli altri paesi che ho appena citato, in diverso grado e con sfumature diverse, regna sempre l’orrore e l`arbitrio: in El Salvador, dove quattordici famiglie, che controllano l’esercito e posseggono le terre, rifiutano ogni riforma agraria e fanno assassinare dai 30 ai 40 contadini al giorno, quando non è la volta dell’arcivescovo Romero, per perpetuare il sistema; in Paraguay, che geme da trenta anni sotto la dittatura sanguinosa del generale Stroessner; in Uruguay, che detiene il record mondiale dei prigionieri politici in rapporto alla sua popolazione. Del resto, è proprio là che un altro generale, Liber Seregni, è stato condannato a 14 anni di reclusione dai suoi pari, ed è stato degradato, per aver presentato la sua candidatura alla presidenza come un volgare civile, invece di usare i metodi normali della sua casta. Ed è stato condannato per perversa inclinazione alla democrazia. Per il Brasile, l’Occidente è abbastanza contento e le sue relazioni internazionali sono buone. Là, i militari applicano la dottrina di sicurezza nazionale ortodossa: uccidono, ma moderatamente; praticano una selezione. E poi, sono più ricchi di altri: bisogna, perciò, tenerseli da conto. Il Cile, invece, è stato più maldestro, al punto da diventare imbarazzante. Non si può incominciare massacrando un Presidente. E anche un po’ miope, ed è necessario che il mondo condanni, compresa Washington, senza giungere tuttavia alla rottura delle relazioni diplomatiche. Perché, alla fin fine, il colpo di Stato di Pinochet ha comportato il ritorno massiccio ed il ristabilimento degli interessi americani in Cile, e non bisognava esagerare nello storcere la bocca, correndo il rischio di offendere i nuovi dirigenti di questo paese. E poi, il Pinochet – non lo si dirà mai abbastanza –, resta comunque relativamente moderato rispetto ad altri come Videla. È vero che ha imprigionato migliaia di persone, che ne ha fate uccidere centinaia, ma a costoro veniva sempre contestato qualcosa. Venivano arrestati per essere giudicati: per ragioni più o meno credibili, ma sempre per giudicarli, con un capo di accusa. Quanto al nome degli uccisi, lo si conosce di quasi tutti: ci sono relativamente pochi scomparsi. Non è come in Argentina!
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Il caso particolare, ed estremo, dell’Argentina
In Argentina, ciò, che c’è di sconvolgente, è il metodo messo a punto: non si sa chi è in carcere, non si sa chi è morto, non si sa chi sopravvive. È questo l’aspetto peculiare e che può condizionare nel terrore un’intera popolazione. E tutto ciò dura da anni. Sono scomparse, a dir poco, diciamo 15.000 persone, uomini, donne, adolescenti o bambini di pochi anni, spesso bambini di pochi mesi, colpiti evidentemente dal virus della sovversione, e tutto questo continua. Tutto è cominciato, d’altronde, con le 3A, l’Alleanza Anticomunista Argentina, un’organizzazione paramilitare fascista di cui si sostiene sia un’illustre membro l’ammiraglio Massera, capo della Marina ed uno dei quattro della giunta che prese il potere. Ora, dell’AAA, non si parla più, è superata. Siamo ora in presenza delle “bande incontrollate”, come dicono loro. Quando sono andato in Argentina, nel gennaio 1978, per indagare per conto della Federazione internazionale dei Diritti dell’Uomo, non avevano che queste parole in bocca. Sono stato ricevuto per tre quarti d’ora dal ministro degli Affari esteri, l’ammiraglio Montès; per due ore dal ministro degli Interni, il generale Harguindeguy; per una mezz’ora dall’ammiraglio Massera, già citato; tutti ammiragli o generali, ovviamente. E il discorso era sempre lo stesso: “Ci calunniano. Noi non abbiamo che 3.472 prigionieri politici; presto renderemo nota la lista dei loro nomi; tutti gli altri, non è che li neghiamo, ma si tratta dell’operato di bande incontrollate”. Solo l’ammiraglio Massera – tra colleghi ce lo si può’ permettere – mi lascerà intendere confidenzialmente che la Marina è senz’altro pura, ma che “l’Esercito è imbottito di fascisti”. Queste “bande incontrollate”, ho avuto occasione anch’io, come tutti, di vederle passare a Buenos Aires: sono membri della polizia e delle forze armate, in borghese, salvo quando non hanno avuto il tempo di cambiarsi, ma che non esitano mai a far mostra della loro identità, ostentando loro documenti ufficiali; che circolano su macchine dell’Esercito senza targa; con una dotazione molto omogenea, di armi dell’Esercito, non pistole come capita sempre per gli oppositori o per i terroristi improvvisati. E la Polizia bloccava in ogni occasione il traffico per lasciarli passare, la qual cosa dimostrava con chiarezza la volontà del governo di por fine a queste pratiche. Sembra che un certo numero di persone che scompaiono, vengano bruciate di notte. Una volta si ritrovavano dei cadaveri galleggianti sui fiumi, in mare, ma ciò si notava troppo; oggi, più niente di tutto ciò. Ma si vedono correntemente camion dell’Esercito che trasportano corpi, di notte, ai forni crematori dei cimiteri di Buenos-Aires. Il lavoro non viene fatto su grande scala tanto da giustificare le camere a gas, come sotto Hitler.
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Una internazionale del terrorismo di Stato
C’è disgraziatamente un fatto ancor più grave, ammesso che ciò sia possibile, di tutte queste situazioni particolari di ciascun paese dell’America Latina: è la nascita di una vera «internazionale del terrorismo di Stato, organizzato, sembrerebbe, sotto l’egida dell’Argentina. Questa internazionale estende ormai le sue ramificazioni senza rispetto delle frontiere, a spese dei rifugiati politici che hanno commesso l’imprudenza di restare nel loro continente, in prossimità del loro paese. Molto presto, dopo il colpo di Stato del 24 marzo 1976, i rapimenti e gli assassinii in Argentina dell’ex-presidente boliviano, il generale Juan José Torres, e dei dirigenti politici uruguayani Zelmar Michelini e Hector Gutierez Ruiz, così come di numerosi rifugiati cileni, uruguayani, paraguayani, brasiliani.
Ma, anche fuori dell’Argentina, i fatti si moltiplicano. All’inizio del 1977, a Lima, scompare l’argentino Carlos Maguid. Poi, nel novembre e del dicembre del 1977, in Uruguay, le incarcerazioni, la scomparsa o gli assassinii di diversi argentini: così, Oscar de Gregorio, trasferito illegalmente in Argentina; Jaime Dri, trasferito illegalmente alla famosa Scuola di meccanica della Marina di Buenos Aires, da dove evade nel luglio l978; il pianista Miguel Angel Estrella, che resterà incarcerato a Montevideo fino alla sua liberazione, alla metà di febbraio del 1980, sotto la pressione internazionale. In Brasile: scomparsa nell’agosto del l978 a Rio dell’argentino Norberto Habegger; poi, nel marzo 1980, di Susanna Winstock e di Horatio Domingo Campiglia, che avevo avuto personalmente occasione di incontrare a Parigi. Non era un terrorista. Nei primi giorni di luglio. del l980, scomparsa nel sud del Brasile del reverendo padre Jorge Adur, che si era spostato dall’Argentina in Brasile con la speranza di incontrarvi papa Giovanni Paolo II. Io avevo avuto ugualmente occasione di incontrarlo a Parigi, nel 1978. Non era in nessun caso un terrorista: piuttosto un giusto, preoccupato della sorte dei miseri.
A metà giugno del l980, scomparsa in Perù di cinque argentini. Si sostiene e si scrive sulla stampa di Lima, che l’operazione è stata eseguita da un commando argentino con l’appoggio degli ambienti più reazionari dell’esercito peruviano. Comunque sia, un mese più tardi, uno dei cinque scomparsi, la signora Noemi Esther Gianotti de Molfino, di 54 anni, membro del “Movimento delle madri della piazza di Maggio”, viene ritrovata assassinata a Madrid, in Europa questa volta.
Al di là delle operazioni puntuali contro alcuni individui, la stampa internazionale denuncia infine la partecipazione di consiglieri militari argentini agli sforzi sanguinosi di Somoza per restare alla testa del Nicaragua; ai massacri repressivi che colpiscono l’Honduras e El Salvador; al colpo di Stato dei militari boliviani il 7 luglio 1980, contro le-autorità legali, elette, del loro paese.
Tutti questi militari d’America Latina che hanno la fellonia – grazie alle armi fornite dal loro popolo per la sua Difesa – di arrogarsi il diritto di vita o di morte su di esso in funzione di concetti venuti dall’estero, dovranno certo un giorno render conto dei loro crimini davanti ad un tribunale internazionale. Come hanno fatto prima di loro, a Norimberga, i responsabili e gli esecutori dei massacri totalitari in Europa.
È normale che ci si indigni per il modo in cui l’URSS o la Cecoslovacchia trattano i loro oppositori. Ma, quando si conosce la storia di queste torture, di questi assassinii e di queste decine di migliaia di scomparsi, bisogna comunque constatare che esistono delle gradazioni, ai nostri giorni, anche nell’orrore. E, se non è monopolio di nessuno, è disgraziatamente in questi paesi dell’America Latina – che ci fiancheggiano nella “cristianità occidentale” – che è massimo oggi, sotto l’effetto di una dottrina che sta per contaminarci a nostra volta, noi europei.
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La posizione speciale dei francesi in Argentina
Ciò sembra in realtà impossibile agli europei, e la maggior parte rifiuterà, senza dubbio, di crederci fino a quando sarà troppo tardi. Noi ci sentiamo molto lontani da questo terrore, da queste dittature che si sono diffuse in America in questi ultimi anni. Eppure!
Ciò che in generale non si conosce sono i legami privilegiati tra alcuni francesi e il regime di Videla: la giunta militare argentina opera in realtà seguendo una variante della dottrina di sicurezza, detta “lotta contro la sovversione”. Questa variante è stata messa a punto dall’Esercito francese sotto l’egida di colonnelli-pensatori, a partire dall’ortodossia NATO, per giustificare ed organizzare i suoi metodi di “lotta” in Algeria. Essa consisteva in una combinazione del Terzo Ufficio “Operazioni militari” e del Quinto Ufficio “Azione psicologica”. In conclusione, questi co1onnelli, che rifiutavano di riconoscere il loro errore e di confessarsi vinti dalle aspirazioni di, un popolo all’indipendenza, si sono ritrovati nell’OAS. Dopo la sconfitta, una parte degli attivisti si rifugiò in Argentina dove gravitavano già, intorno all’ambasciata, alcuni sopravvissuti della collaborazione Vichy-nazisti: un certo Jean-Pierre Ingrand, presidente dell’Alleanza francese, che aiutò De Brinon nella sinistra faccenda delle “selezioni speciali” di Vichy, e fu costretto per questo ad andarsene in esilio; o, nella colonia francese, il dottor Verger, vecchio capo della milizia di Haute-Vienne; la cui donna si vantava, a torto o a ragione, di essere in possesso di un sacco di pelle di partigiano. Con l’aureola dei loro gloriosi precedenti in fatto di tortura e di ratonnádes [violenze esercitate contro un determinato gruppo etnico], alcuni si sono messi al servizio della giunta argentina e attraverso loro, per nostra grave onta, di vecchi ufficiali francesi: accaniti nel voler provare che, se avessero avuto carta bianca, avrebbero conservato l’Algeria alla Francia. Certamente, ma al prezzo di quale massacro? Si cita il generale Gardy, che fu ispettore generale della Legione e che aiuterebbe Videla come esperto anti-sovversione; mentre invece colonnelli, come Trinquier, sono andati ad insegnare in alcune caserme. I suoi libri sono in vendita in tutte le librerie di Buenos Aires: nessuno dubita che l’ultimo, La guerra, recentemente comparso nelle edizioni Albin Michél, e nel quale Roger Trinquier giustifica ancora una volta, in modo particolarmente convincente, l’uso della tortura da parte delle forze dell’ordine, risulterà un grosso successo.
La collaborazione raggiunge a volte delle vette: secondo France-Soir del 3 febbraio 1978, è un veterano dell’OAS che ha rapito, nel dicembre 1977, le due religiose francesi che non sono mai ricomparse. Questo veterano dell’OAS, di cui il giornale non cita disgraziatamente il nome, è stato riconosciuto da un testimone, da lui torturato tre mesi prima; dirigeva un gruppo di servizi speciali dell’Esercito, a La Plata. Diversi reduci dalle carceri argentine, come Cecilia Vasquez o Estella Iglesias, liberate nell’agosto del l979 per intercessione del re di Spagna, testimoniano anche loro di essere state “interrogate” da francesi. E così Jean-Píerre Lhande, presidente francese dell’Associazione dei parenti e degli amici dì scomparsi in Argentina, e sua moglie, torturati uno di fronte all’altro sotto un fiotto di parole proprie di casa nostra.
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Esistono rapporti privilegiati tra Videla e la Francia?
Va detto che, a più riprese, davanti alla Commissione dei Diritti dell’Uomo dell’ONU a Ginevra, il rappresentante francese ha espresso ufficialmente disapprovazione per il regime di Videla. Ma la parte nascosta dell’iceberg è, come si conviene, molto più importante. Già nell’ottobre 1977, è Michel Poniatowski, ricevuto ufficialmente a Buenos Aires come “ambasciatore personale” del presidente Gíscard, che pronuncia un discorso, rimasto celebre laggiù, per felicitarsi con i suoi ospiti per i loro metodi. È Raymond Barre che si intrattiene personalmente con Videla in Vaticano, il 4 settembre l978, in occasione dell’investitura di Giovanni Paolo I. È il ministro francese del Budget, Maurice Papon, che fa un viaggio ufficiale a Buenos Aires il 6 agosto 1979. È il segretario di Stato all’Agricoltura, Jacques Fournier, che fa visita a Videla all’inizio d’agosto del 1980, accompagnato dalla moglie; la qual cosa ha permesso, all’ambasciatore argentino a Parigi di affermare che “le relazioni trai due paesi sono assolutamente normali”.
Sono «anche» più che normali. Il 18 ottobre 1979, una commissione, senatoriale che si era recata in Argentina ed in Cile in settembre sotto la guida di Adolphe Chauvin dell’UDF, veniva ricevuta, al suo ritorno, dal ministro francese per gli Affari esteri. Essa si è lamentata della passività della Francia a fronte delle scomparse in Argentina e dell’ardore dimostrato invece nel vendere armi al Cile: “l6, Mirage sono stati venduti al Cile”, ha ricordato Adolphe Chauvin “io avrei preferito che la Francia non l’avesse fatto. Certamente, come avrebbe preferito anche che non avesse venduto all’Argentina, nel l979, dopo delle Alouettes-3, due aerei avviso-scorta, il Drummond e il Guerrico. Avrebbe preferito che il Quai d’Orsay (Ministero degli Affari Esteri) non avesse scelto per la Jeanne d’Arc, la nave scuola francese, un itinerario che l’ha condotta a Buenos Aires dall’1l al 17 gennaio l980, e poi in Cile, Punta Arenas e Valparaiso, dal 22 gennaio al 4 febbraio. Senza dubbio si potrebbero trovare esempi migliori da mostrare ai nostri giovani ufficiali.
A meno che, a Parigi non si condivida la valutazione dell’attaché militare francese a Buenos Aires, che additava – il 9 settembre 1979 – l’esempio esaltante dell’esercito argentino. In fondo, quel che ci interessa è che sarebbe preferibile che esistessero minori legami, minori simpatie proclamate tra il regime di Videla, i rifugiati francesi a Buenos Aires, ed un governo parigino, diversi membri del quale furono vicini all’OAS. Si sarebbe contenti che non fosse apparso che la Francia si fosse fatta carico, durante l’interim Carter negli USA, di garantire il sostegno a questa dittatura – ed anche ad altre – in attesa di un Reagan affiancato da un vice-presidente che ha diretto la CIA. Si vorrebbe soprattutto esser sicuri, nel momento in cui cresce dappertutto l’autoritarismo in Europa, che l’Argentina non serva come banco di prova, per piccolo che sia, per una eventuale normalizzazione della situazione europea.
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La contaminazione progressiva dell’Europa
Insomma, tutti gli europei non sono perciò innocenti. In ogni caso, sotto l’effetto di questo concetto di sicurezza importato dagli USA con la NATO, il nostro continente è visibilmente sul punto di “sud-americanizzarsi” a sua volta. Gli indizi sono numerosi; aumento dell’amalgama tra la difesa della nazione e quella del sistema economico – ciò che si chiama la società – anche in Francia; controffensiva generalizzata della destra per riconquistare il potere o per rimanerci, anche in Francia; aumento in parallelo di una violenza fascista riconosciuta di estrema destra, anche in Francia; tentativi di attacco ad alcune libertà fondamentali, anche in Francia, nella pratica o nella legge.
In Europa, che costituisce dopo Yalta la seconda zona privilegiata d’influenza americana, gli Stati Uniti hanno potuto realizzare subito dopo la guerra, con la NATO, una forza armata internazionale sotto il comando americano che è sempre stata rifiutata in America Latina. Ciò permetteva perciò, ancor più facilmente che laggiù, l’indottrinamento degli ufficiali sulla nozione di pericolo sovversivo. Detto questo, i militari del nostro continente non rappresentano, come in America Latina, il mezzo migliore per ancorare il loro paese all’Impero americano. Essi sono troppo solidamente tenuti in pugno dai politici. E loro stessi sono stati istruiti, da lunga data, dalla pratica democratica, a non gettarsi sul potere in funzione dei loro capricci o delle loro ambizioni.
Le strutture generali dell’Alleanza, al contrario, con il loro susseguirsi di riunioni periodiche di capi di Stato, di ministri, di parlamentari, permettono agli americani di fare a meno del tramite dei militari e di trovare direttamente, al livello degli uomini politici conquistati all’atlantismo, gli strumenti per il mantenimento delle buone scelte ideologiche. Hanno così potuto indottrinare e legare a sé il personale politico, incosciente in gran parte della manipolazione e della minaccia.
Le parole non sono neutre, ed il vocabolario usato è spesso la causa diretta del processo di ragionamento. Ora, è un. fatto che oggi la parola-chiave di “sicurezza”, caratteristica dell’approccio ideologico ai problemi di Difesa, è passata nel linguaggio corrente dei governi europei, e testimonia del loro impegno.
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La destra rialza la testa un po’ dovunque
Nella logica di questo processo, sembra che i campioni della libertà d’impresa e del capitalismo selvaggio ritengano che sia giunto il momento di ritardare i tentativi di emancipazione economica dei popoli occidentali. Le aspirazioni socialiste crescono dovunque nel mondo, e l’emancipazione dovrà pure realizzarsi un giorno: perché non si possono sfruttare o asservire indefinitamente i popoli. Ma, più si ritarda, più costerà cara.
Oggi, in ogni caso, la destra si sente sempre più sicura di se stessa e rialza la testa in tutta l’Europa. Anche le forme più morbide di socialismo, come la socialdemocrazia, sono minacciate. Si poteva credere, tuttavia, che questa non costituisse una difficoltà ma piuttosto un alibi, per i ricchi insaziabili che dirigono il mondo. Ebbene no! Vi ricordate delle grida di gioia quando questa è stata battuta in Svezia, il 19 settembre l976, dopo 44 anni di governo, con un infimo scarto di voti, del resto? Negli altri paesi nordici (si era nel 1977, in Danimarca a febbraio, in Olanda a maggio, in Norvegia a settembre) i socialisti non sono stati battuti. Ma sono piccoli paesi, dal peso politico, limitato. ln Gran Bretagna, al contrario, è la vittoria: Margaret Thatcher, la dama di ferro, la Giovanna d’Arco dei conservatori, accede al potere il 3 maggio 1979. Anche il Portogallo, colpevole della “rivoluzione dei garofani” contro una aspra dittatura, è stato ricondotto «progressivamente, ad una maggiore ortodossia attraverso pressioni economiche ben impiegate; e le elezioni del 5 ottobre l981 lo hanno confermato. Mentre in Spagna, dove c’era stata una speranza reale di democratizzazione, le pressioni dei nostalgici del franchismo si accentuano sempre di più. Aggiungiamo, infine, a questa rubrica la vittoria inattesa della “Maggioranza” alle elezioni legislative francesi del 1978, vittoria amplificata certamente dallo scrutinio maggioritario in. esercizio, ma sempre vittoria.
La realtà profonda infine, sotto questo camuffamento di un “liberalismo” indefinito, è il riemergere dei peggiori fascismi; che si appoggiano l’un l’altro in un’internazionale neonazista. Non avendo reagito a tempo in Europa negli anni trenta, il mondo ha conosciuto 50 milioni di morti negli anni ’40. È necessario soprattutto, che non lo dimentichi, quando è ancora in tempo. Bisogna prendere coscienza che non sarà facile liberarsene. Più si aspetta, e più ci saranno sangue e lacrime.
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Primi attacchi ai diritti democratici
È evidentemente nelle grandi nazioni, Francia, Germania, Italia o Spagna, quelle che hanno fatto la storia, che si giocherà l’avvenire della nostra società ed il destino europeo. E’ questa la ragione per cui la Germania occidentale e l’Italia vivono una fase preoccupante. In questi paesi, sebbene a livelli molto diversi, è nata e cresciuta – in alcuni intellettuali usciti dalla classe privilegiata –, una tentazione di violenza totalmente inaccettabile. Che deve essere combattuta in quanto tale. Detto questo, è deplorevole che ciò avvenga; spesso con mezzi incompatibili con i valori ai quali la nostra civiltà sostiene di richiamarsi: gli stessi mezzi dell’avversario. Andiamo più lontano. Il terrorismo non ha giustificazioni. Ma che ruolo possono svolgere in esso la provocazione, o la manipolazione?
In Italia, l’Esercito al completo, compreso quello di leva, ha ricevuto, in occasione del rapimento di Aldo Moro, il compito di scendere in strada per completarvi l’azione della polizia. Ora, noi sappiamo – noi francesi –, attraverso l’esperienza dell’Algeria, che l’Esercito non deve mai immischiarsi nelle lotte all’interno, né soprattutto delle violenze all’interno: perché è orientato verso metodi di guerra che fanno astrazione dal diritto comune e generano immancabilmente degli abusi inammissibili. Si poteva perciò temere il peggio tanto più che l’apparato legale di repressione fascista non è mai stato totalmente abolito. Fortunatamente questo popolo civile, che sa cosa vuole dire il fascismo, dà testimonianza della sua maturità politica, reagendo con una moderazione e una dignità esemplari di fronte agli atti più barbarici, come l’attentato di estrema destra alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980.
Quanto alla Germania federale, come in America Latina, la repressione si rivela sproporzionata rispetto alla minaccia: per 16 terroristi ricercati nel l977, autori di 24 attentati in otto anni, attività minore in rapporto a ciò che abbiamo conosciuto noi stessi in Francia, con il FLN o l’OAS, si sono sviluppati l’amalgama, la delazione, il delitto d’opinione, il condizionamento delle masse. Il pericolo è irrisorio in rapporto agli incidenti stradali, ad esempio. Ma i mezzi di comunicazione di massa tedeschi si sono resi disponibili a creare artificialmente una psicosi d’insicurezza. senza misura alcuna con i fatti reali. E questa è servita come pretesto e come giustificazione, ovviamente, per un’evoluzione del diritto che attacca alcune libertà fondamentali.
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Il “Berufsverbot” in Germania
Ci sono state le interdizioni dalle professioni, o Berufsverbot, che costituiscono un flagrante attacco al diritto al lavoro, perciò alla vita; sotto pretesto d’opinione. Si applicano ai membri del partito comunista e vengono rispettate con raro accanimento: non è senza interesse per un francese analizzare un caso, per prendere coscienza di cosa si tratti. Farò riferimento al caso di un professore, Klaus Lipps, 37 anni, sposato, una figlia, insegnante di francese, matematica ed educazione fisica al liceo di Bühl. Sindacalista attivo e membro del partito comunista tedesco, gli viene revocato l’incarico una prima volta nel l975 dal governo del Bade-Wurtemberg diretto da un vecchio giudice della marina hitleriana, Hans Filbinger. In seguito a proteste diverse, nazionali ed internazionali, viene tuttavia reintegrato provvisoriamente a Bühl, con una disposizione provvisoria. L’anno successivo, 1976, dopo una querela al tribunale nella quale gli si rimprovera, tra le altre cose, di aver parlato ai suoi alunni della Resistenza francese contro il nazismo, viene trasferito a Baden-Baden. Tuttavia, nel novembre del 1976, l’atto di revoca del 1975 viene annullato dal tribunale. Il governo regionale fa comunque appello, ma nel maggio 1977 l’appello viene respinto dalla più alta corte del Land, quella di Mannheim. Klaus Lipps, sostenuto dalla opinione pubblica internazionale, crede di essere stato reintegrato definitivamente. Non per molto. Nel novembre 1977, in dispregio del giudizio consolidato, lo stesso governo regionale, ostinato, pronuncia contro Klaus Lipps una seconda interdizione dalla professione. Di fronte all’indignazione dell’opinione pubblica, Hans Filbinger è costretto a dimettersi, ma il suo successore, Lothar Späth, conserva l’interdizione; senza poterla per questo giustificare, se non per l’adesione di Lipps al comunismo, che ne fa un “nemico della costituzione”, nel più puro stile “dottrina di sicurezza”: “Il Rettorato riconosce di non aver notizia, per quanto riguarda l’esercizio della sua professione, di trasgressioni agli obblighi di un funzionario. Ma è certamente concepibile che tali trasgressioni abbiano potuto esserci, senza che nessuno le svelasse o le denunciasse … Perché è ben noto che i membri del partito comunista cercano, nel loro comportamento pubblico, di dare l’impressione di perseguire degli obiettivi conformi all’ordine liberale e democratico, di essere fedeli ai suoi principi, e di difenderli. Ciò fa parte della loro strategia”, Il ministro dell’Istruzione, M. Herzog, indubbiamente impressionato dall’ondata di proteste, ha dichiarato in televisione, il 24 luglio 1979, che Klaus Lipps sarebbe rimasto al suo posto fino a quando i tribunali avessero deciso la causa. Che si sarebbe tenuta nel luglio del 1980.
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Limitare la democrazia con il pretesto di difenderla
Nel 1977, il caso Klaus Croissant, nel quale la Francia ha avuto un ruolo essenziale, è cominciato in Germania sotto l’aspetto inammissibile di un attacco ai diritti della difesa. Un anno dopo la sua burrascosa estradizione dalla Francia, il l6 novembre 1977, in Germania, nel dicembre l978, c’erano circa 70 avvocati processati ed alcuni di questi sono stati interdetti dalla professione. Tre di loro vennero incarcerati allora: Klaus Croissant già nominato, Arnd Muller arrestato il 30 settembre 1977, lo stesso giorno dell’arresto di Croissant in Francia, e Armin Newerla. Tutti e tre accusati di “favoreggiamento di una organizzazione criminale”, la qual cosa ha comunque come risultato – se non è questo l’obiettivo – di isolare al massimo i terroristi della Germania federale imprigionati, e di impedire loro ogni difesa politica. Questi processi contro avvocati sono spiacevolmente simili al trattamento riservato in Argentina ai difensori dei prigionieri politici.
Per tornare a Klaus Croissant, il tribunale di Stoccarda ha dovuto contentarsi, in mancanza di prove, di infliggergli – nel febbraio 1979 – due anni e mezzo di prigione: la qual cosa è senza proporzione rispetto all’accusa di complicità nelle attività terroristiche della RAF, la celebre “banda Baader”. La corte federale di giustizia di Karsruhe, sull’appello della procura, ha rifiutato il 27 maggio 1980 di appesantire condanna, ma ha tuttavia radiato definitivamente Croissant dal foro: un altro caso di interdizione dalla professione, dalla professione di avvocato, questa volta.
Infine, il caso della fine della “banda Baader” nella prigione di Stammheim – anche se l’assassinio ufficiale non si è mai potuto provare – ha mostrato almeno delle pratiche di incarcerazione nel segreto delle prigioni-fortezze, di isolamento e di degradazione della dignità dei prigionieri, che ci riporta al Medio Evo ed alle sue “botole”. Bühl, Baden-Baden, Mannheim, Stuttgart, Karlsruhe, tutte queste città fanno parte del “Land” di Bade-Wurtemberg, dominato e governato. dai democratici cristiani. In precedenza, poi, prima dello sviluppo della “banda Baader”, una legge del l3 agosto 1968 – la Germania era ancora una volta sotto un governo democratico cristiano – aveva autorizzato la sorveglianza segreta della posta e le intercettazioni telefoniche in nome della sempiterna sicurezza. Una denuncia è stata sporta nel giugno 1971 presso la Corte europea dei Diritti dell’Uomo da cinque giuristi della Repubblica Federale Tedesca, secondo i quali questa legislazione violava la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo della quale la RFT era firmataria. Questa denuncia è stata respinta l’8 settembre 1978. Così, si può continuare a violare impunemente i principi della democrazia, con il comodo pretesto di difenderla. Tutti questi casi illuminano comunque e in maniera interessante lo scontro elettorale del 5 ottobre 1980 tra Helmut Schmidt e Franz-Josepf Strauss, per il posto di cancelliere federale. Una vittoria di Strauss avrebbe portato certamente ad un aumento delle “restrizioni auspicabili per la democrazia”, raccomandate dalla Commissione Trilaterale (Cfr., al riguardo, Corrispondenza Internazionale, Anno IV, NN. 8 /9 marzo 1978).
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La Francia minacciata a sua volta
Detto questo, la Francia non è così innocente da permettersi, senza riserve, di scagliare la pietra contro i nostri vicini. C’è innanzitutto la macchia dell’OAS, come ho già detto prima. Ma non dimentichiamo nemmeno che se la Germania ha dato origine al nazismo, la Francia è la sola, tra tutte le nazioni occidentali, occupate militarmente, il cui governo legale sia sceso a patti con il nazismo. Ha fornito numerosi collaborazionisti, che più di 35 anni dopo non riconoscevano sempre i loro torti, ma molti rappresentanti dei quali sono oggi assai vicini al potere. Questo solo fatto le impedirebbe, se ne fosse tentata, di condannare il suo vicino. Si tratta piuttosto di aiutarlo a sventare la trappola degli eccessi dei due estremi, e a rispettare le regole democratiche.
In realtà, la Francia – che aveva saputo recuperare ad un certo momento, sola tra tutti i partner, la sua libertà di valutazione e di dottrina – è tornata poi all’ortodossia dell’ideologia occidentale. Questa è così riapparsa progressivamente in tutti i discorsi ufficiali, civili o militari. Il fatto è che era subito comparsa, fin dall’inizio del regno, sulla bocca del capo dello Stato, in particolare il 25 marzo 1975 alla televisione: “Io devo parlarvi questa sera della sicurezza, la sicurezza esterna della Francia, la sicurezza della sua economia, la “sicurezza delle persone”. Immediatamente, in una sola frase, si sviluppa come in America Latina il miscuglio caratteristico tra pericolo. interno ed esterno, economico, e militare, individuale e collettivo, tra compiti di difesa, e di polizia. E’ il processo che ha condotto d’altronde all’interdizione del pensiero “sovversivo”, cioè quello che contesta il capitalismo. Il rischio è di provocare gli stessi danni. Intendiamoci bene; in Europa non siamo in Cile né in Argentina, né lo saremo mai: è più sottile Ma la strada può essere la stessa: prendere il pretesto da fatti di terrorismo, relativamente benigni o isolati, per mettere in atto legislazioni eccezionali. Poi, quando si saranno liquidati i terroristi, si conserveranno queste deroghe esorbitanti dal diritto comune, ed il gioco sarà fatto!
Bisogna prenderne coscienza: prima che ci venga propinato, essendo cadute tutte le coperture, un modello specifico di “liberalismo autoritario’”: una sedicente democrazia, dove gli attacchi alle libertà tradizionali e fondamentali ci verrebbero presentati come una necessità provvisoria in nome della sicurezza di tutti.
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Tentazioni, intenzioni, azioni ed intimidazioni
Disgraziatamente, numerosi fatti – sopravvenuti negli ultimi sei anni –, sembrano segnare il passaggio dalle tentazioni, o dalle intenzioni nascoste, alle realizzazioni. Questi fatti si presentano perciò come altrettanti indizi di una evoluzione inquietante. Ce ne sono tanti, dopotutto, che non si potrebbe pretendere di farne un elenco esaustivo. C’è innanzitutto il “Piano di sicurezza per tutti i francesi”, presentato da Michel Poniatowski, ministro degli Interni, approvato dal Consiglio dei ministri del 7 aprile 1976, e che suscita fin dal primo giorno vive reazioni nel corpo giudiziario. Le sue prime disposizioni relative alla perquisizione dei cofani delle auto o delle abitazioni, senza ragioni né mandati, vengono votate ugualmente a dicembre dal Parlamento; ma annullate quasi immediatamente il 12 gennaio l977, dalla Corte Costituzionale perché contrarie alle libertà fondamentali. Le disposizioni contestate vengono riprese in un “Piano contro la violenza” del febbraio 1978, che trasferisce al livello dei regolamenti ciò che la legge rifiuta di prendere in considerazione. Citiamo ugualmente qui, a titolo informativo, gli appelli televisivi del guardasigilli alla delazione, nello stesso giorno, in occasione dell’enigmatico “rapimento” del barone Empain. C’è allo stesso tempo il recupero del controllo di una magistratura che ci tiene alla sua indipendenza teorica. Dopo i precedenti dei giudici Pascal e De Charette, apertura il/13 giugno 1976 di un procedimento disciplinare contro il giudice Ceccaldi di Marsiglia: trasferito a Hazebrouk il 12 maggio precedente, per essersi battuto: contro accordi di società petrolifere; rifiuta di fatto il trasferimento. Una settimana dopo, sciopero della magistratura – è il primo – per protestare contro i procedimenti giudiziari decisi contro questo giudice. Di fatto è l’inizio di un lungo percorso che sarà seguito più recentemente, a metà luglio del 1980, dalla sospensione del giudice Bidalou; ed il trasferimento d’ufficio di Jean-Pierre Michel, colpevole di aver partecipato ad una trasmissione di “Radio-Riposte”.
C’è un inizio di intimidazione degli avvocati, con il controllo a vista dell’avvocato di Jacques Mesrine, il l0 maggio 1978, e le nuove pratiche di perquisizione dei difensori all’entrata delle carceri di massima sicurezza. Per l’opinione pubblica, gli avvocati sono ormai persone sospette. Ci sono i casi di “violenze anarchiche” del maggio 1978; e soprattutto del 23 marzo 1979, dove poliziotti in borghese vengono direttamente utilizzati come provocatori; aldilà dei fatti, condanne pesantemente esemplari di poveracci, scelti a caso; o accuse senza fondamento, come quella. Di Maurice Lourdez, della CGT, che non beneficia di un non luogo a procedere se non il 21 agosto 1980; sempre in seguito a questi casi, c’è la direttiva di Valery Giscard d’Estaing (VGE) in persona, nel Consiglio dei ministri del 29 marzo 1979, di vietare le manifestazioni che non presenteranno garanzie assolute di sicurezza. Il che vuol dire vietarle tutte: di fronte all’ampiezza delle proteste la misura viene abrogata.
La Costituzione, infine, riconosce il diritto di sciopero “nel quadro delle leggi che lo regolamentano” ed alla Francia di estasiarsi sul suo liberalismo. Ma il 27 aprile l979 giunge la legge Médelin-Vivien, due deputati UDF e RPR, a limitare gli scioperi alla radio ed alla televisione, con minaccia a termine di estenderla a tutti i servizi pubblici. Ed infatti, nella primavera del 1979, c’è la proposta di legge di Robert-André Vivien, sempre lui, per limitare gli scioperi a EDF; a seguito di quella del 12 giugno 1980, c’è un’altra proposta simile di Fernand Icart, del1’UDF, che non vuole essere da meno. Il caso verrà discusso in Parlamento nell’autunno 1980. Ma in fondo questo diritto di sciopero che cos’è se non, sempre più, un falso problema, quando la pratica fa, sempre di più, della sospensione dal lavoro un motivo di licenziamento e di perdita dell’impiego?
Completiamo questa sommaria nomenclatura con le due leggi d’iniziativa del governo, “informatica e libertà” e “sicurezza e libertà”, che hanno suscitato notevoli resistenze nel paese, e non soltanto negli ambienti dell’opposizione, e sulle quali tornerò più avanti.
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Sugli spazi internazionali di sicurezza
Come altrove, alcuni europei progettano di organizzare una cooperazione internazionale per battere il terrorismo. Il 22 maggio 1975, a Obernai, Jean Lecanuet, allora guardasigilli, lancia 1’idea di una “Convenzione europea contro il terrorismo”, che viene firmata a Strasburgo, il 27 gennaio 1977, da 18 membri del Consiglio d’Europa su 21. Ma, facendosi attendere le ratifiche, i Nove decidono di metterla in opera tra di loro: è la “Convenzione di Dublino”, che obbliga gli Stati ad estradare i “terroristi”, definiti in senso lato. In realtà, nessuna di queste due Convenzioni è stata presentata al Parlamento francese per essere ratificata, come vuole la Costituzione. Il caso avrebbe sollevato senza dubbio troppe proteste da parte dei sostenitori dei Diritti dell’Uomo. Tuttavia, il governo si comporta come se ciò sia avvenuto. Attacchi diversi perciò al diritto d’asilo, inscritto anch’esso nella Costituzione: con in particolare le estradizioni di Croissant il 16 novembre 1977, di Piperno il 18 ottobre 1979, di Pace l’8 novembre 1979. Tutte estradizioni emesse su semplici sospetti, senza fondamenti giuridici: dal momento che il primo successivamente non è stato condannato che ad una pena leggera, come ho già detto e rimesso in libertà nel gennaio 1980; e gli altri due sono stati rilasciati il 30 giugno 1980 dalla giustizia italiana, per “insufficienza di prove”.
Questa presa di posizione contro queste estradizioni, in particolare quella di Klaus Croissant, non significa evidentemente che io condivida le posizioni dei terroristi: io non accetto questa violenza politica, e non saprei perciò né difenderla né scusarla.
Ma Croissant non era che un avvocato, indispensabile ad ogni giustizia, e che deve sposare moralmente la causa dei suoi clienti. Non era lui stesso accusato di nessun crimine. Noi non possiamo ammettere questa degradazione del diritto d’asilo politico, che costituisce una delle grandi tradizioni umanistiche del nostro paese. Noi dobbiamo restare sensibilizzati ai problemi dei Diritti dell’Uomo. La situazione può evolvere pericolosamente, se non stiamo attenti al facile ingranaggio del terrorismo, nel contro-terrorismo, nell’accoppiata ipocrita violenza/sicurezza, che favorisce dovunque lo smottamento progressivo delle leggi e lo sbriciolarsi delle libertà fondamentali.
E poi noi, i francesi, dovremmo anche prestare attenzione al fatto che l’iniziativa di questi accordi internazionali parte sempre da noi. Dopo Jean Lecanuet, è VGE stesso che propone, il 6 dicembre 1977, al Vertice dei Nove a Bruxelles, uno “Spazio giudiziario europeo” che organizzi la cooperazione penale, caratterizzato, per bocca del suo proponente, dalla mostruosa formula della “estradizione automatica”. Questo progetto doveva essere firmato il 19 giugno 1980 a Roma, ma gli olandesi si sono rifiutati di farlo perché vedevano in esso un grande pericolo per il diritto d’asilo, molto al di là del caso dei terroristi. E’ spiacevole che il paese. che ha inventato le libertà debba oggi ricevere delle lezioni di umanesimo dai suoi partner. Il progetto di una Europa giudiziaria è perciò in panne. In tutti i casi, perché possa essere un giorno legalmente operativo, è necessario normalizzare i diversi codici penali europei. Con questo obiettivo, la riforma del codice penale francese doveva essere presa in esame nel l979: il Presidente lo aveva annunciato nel suo discorso al rientro solenne della Corte di Cassazione, il 3 gennaio 1979. ln realtà, ci sarà bisogno di un altro anno: è la legge “sicurezza e libertà”, di cui parleremo più avanti.
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Gli eserciti nel dispositivo di sicurezza
Insomma, per coloro che ci governano, una legislazione adeguata, appoggiata su una stampa e dei mass-media complici, può essere sufficiente per rendere un popolo sottomesso e benpensante. E non ci sarà bisogno, in principio, in questo modo, di dover arrivare a mettere in piedi una repressione. Ma, tuttavia, questo non sempre è vero. In ogni caso sarà perciò prudente prendersi delle garanzie per ogni evenienza, e di disporre dei mezzi necessari per evitare ogni contrattempo.
I funerali di Somoza, l’ex-dittatore sanguinario del Nicaragua, si sono svolti a Miami in Florida il 20 settembre 1980. Alcuni membri del Congresso ed alcune personalità americane presenti alla cerimonia, hanno criticato Jimmy Carter per non aver aiutato Somoza, costretto all’esilio nel luglio del 1979 dalle forze popolari sandiniste, a conservare il potere. È un fatto che nel loro insieme le prese di potere delle dittature militari dell’America Latina sono state favorite di nascosto, o direttamente suscitate ed appoggiate, dalla CIA, in mancanza del tacito consenso pubblico del popolo americano. E che tutti questi militari sono stati istruiti e condizionati nelle scuole dell’esercito americano.
Su un teatro completamente diverso, la stampa occidentale riferiva, nell’estate 1980, del processo e della condanna a morte, il l7 settembre; di Kim Dae-jung, capo dell’opposizione sud-coreana. La Corea del Sud è l’alleato preferenziale degli USA in Estremo Oriente dopo la guerra di Corea degli anni ’50. Condannato da chi? Dal regime militare dittatoriale del generale Chon, uomo della provvidenza, come ce ne sono tanti nel “mondo libero”. Condannato perché? In nome della sicurezza nazionale, per “complotto contro la sicurezza dello Stato”. Decisamente, da un capo all’altro del pianeta, troppi protetti degli USA presentano delle analogie.
In Europa, passiamo pure sopra i regimi portoghese e spagnolo di Salazar e di Franco. Passiamo sopra i colonnelli greci, fedelmente sostenuti dagli americani. Ma quando l’esercito turco, integrato nella NATO, fa il suo colpo di Stato “per la democrazia”, il 12 settembre 1980, nel corso di una manovra della NATO, tutti i giornali hanno evidenziato la soddisfazione ed il “sollievo” degli Stati Uniti; e tutti hanno testimoniato che erano loro, avvertiti in anticipo, che avevano annunciato il putsch.
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Le cose succedono solo agli altri
Il capo di Stato Maggiore di questo esercito turco, nell’aprile e poi il 30 agosto 1980, auspicava che l’esercito venisse liberato dai compiti di mantenimento dell’ordine derivanti dallo stato di assedio in vigore da due anni: “Dal momento che, negli ultimi venti anni, si è accertata la necessità di dover far ricorso allo stato di assedio un anno su due, occorre trovare una soluzione”. Pensava veramente di avere trovato quella giusta? E se l’agitazione politica che turba la Turchia da venti anni esprimeva i sentimenti di una popolazione sempre più umiliata per essere mantenuta schiava di una grande potenza straniera ed irritata di non poter cercare una soluzione economica adeguata alla sua miseria?
Che cosa è che fa cadere le riserve di caccia degli Stati Uniti, una dopo l’altra, sotto i regimi militari? Io ammetto senz’altro che alcuni temano gli attacchi ai Diritti dell’Uomo che vengono evidenziati nei regimi comunisti. Ma questo li autorizza a fare altrettanto, se non peggio, a titolo preventivo? In nome di che cosa pretendono di opporsi al socialismo dell’autogestione e al sindacalismo? Si pensa che si potrà soffocare indefinitamente lo scontento popolare? E respingere le loro legittime aspirazioni con la forza, invece di soddisfare le loro speranze di giustizia sociale? Voi mi direte che, nelle nostre vecchie democrazie, non siamo in queste condizioni. Forse, ma tutto questo resta. Ed è anche presente il rischio che prestissimo ci si possa trovare anche da noi di fronte a gravi scadenze; i sostenitori del capitalismo selvaggio che la fa da padrone da anni non potranno attribuirne ad altri le responsabilità; e quando la ristrutturazione economica diventerà insopportabile per i popoli, si dovrà pure tenerli a bada. I governi al potere nel nostro paese lo sanno bene, e procedono da anni alla messa a punto dei mezzi necessari per farvi fronte all’occorrenza. Non accade soltanto tra i turchi!
Anche in Francia c’è stata, da cinque anni a questa parte, una riforma dell’Esercito destinata ad assegnargli una posizione di suddivisione a scacchiera del territorio, e delle capacità di intervento all’interno che prima non aveva. Mi occuperò di questo più avanti, in dettaglio, Bisogna mettersi in testa che la democrazia è sempre instabile, che la libertà è un bene precario e che le cose non succedono sempre e soltanto agli altri!
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Ogni ideologia di Stato apre le porte al totalitarismo
Il processo che ho appena fatto al mondo occidentale, avrei potuto farlo anche, evidentemente, al mondo sovietico, cementato da parte sua dall’ideologia comunista. Ma questo, i difensori occidentali dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà lo sanno e lo denunciano, e lo fanno a giusto titolo. Il loro solo errore è quello di attribuirlo a tale dottrina economica, il comunismo in questo caso, mentre il totalitarismo deriva semplicemente, e per forza, da ogni assunzione di un’ideologia di Stato, e del manicheismo che questa comporta.
Per l’Unione Sovietica – proprio come avvenne per la Francia rivoluzionaria –, è la conseguenza logica della sua posizione di patria del comunismo, che può portarla alla repressione interna ed alle invasioni territoriali all’esterno, per estendere o preservare l’impresa della sua dottrina. Per le nazioni dell’Europa occidentale, è viceversa il timore più o meno giustificato di una tale invasione che «le ha portate, inizialmente, a mettere loro stesse le dita nell’ingranaggio di un’altra ideologia, differente ma altrettanto espansionista ed alla fine militarista. E, se il processo è stato inverso, i risultati tendono ineluttabilmente a ricongiungersi un giorno, dal momento che le stesse cause generano gli stessi effetti.
Di fatto, la nozione di sicurezza come quella che ha corso nel campo occidentale – poiché lega l’avvenire politico ad un dogma, “libera impresa” e “libero scambio”, in questo caso – porta ineluttabilmente in questo campo nei confronti dei cittadini, a più o meno lunga scadenza, alle stesse reazioni e alle stesse negazioni dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà che esso rimprovera veementemente al campo comunista.
È tutta l’Europa occidentale che oggi, con la scusa tuttavia di non essere più sempre padrona del suo gioco, è manifestamente sulla china fatale dell’intolleranza ideologica, poggiata sul militarismo: anche se ostenta di volerlo ancora ignorare e anche se il liberalismo al quale si richiama è “avanzato”.
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