La società di Ernesto Balducci. L’uomo nuovo è l’uomo conviviale, che non domina il mondo. Il suo sapere non è potere che stupra e saccheggia il mondo, ma è ascolto. La libertà non è nell’accumulo crematistico. L’essere umano è relazione d’ascolto. Chi non concepisce che l’utilizzo porta il silenzio nella sua esistenza. La libertà è polifonica. Nella profondità dell’anima vi è il “dono”, trasgressione massima al capitalismo. La scelta è tra società del dono o società dell’utile. Senza il dono non vi è futuro per nessuno.


Salvatore Bravo

Ernesto Balducci: società religiosa e cristica

La distinzione tra società religiosa e società cristica è una categoria interpretativa con la quale Ernesto Balducci distingue il dominio puntellato dalla religione “mezzo” per giustificare la gerarchia e la reificazione e la figura di Cristo, il quale è stato un rivoluzionario: ha scacciato i mercanti dal tempio e ha rovesciato – con la sua testimonianza – le gerarchie, indicando nella fraterna convivialità l’unico percorso per realizzare e vivere in pienezza la propria e l’altrui umanità. Le gerarchie e la logica acquisitiva/proprietaria estraniano, rendono le soggettività nemiche, veicolano il conflitto quale malinconica normalità dell’infelice convivenza tra gli uomini. Senza indagine critica e razionale non vi può essere l’esodo dalla distruttività del capitalismo.

L’intelligenza competitiva ha realizzato la “società religiosa”: si è in competizione con l’alterità e con se stessi, si è perennemente sotto il giogo dell’illimitato.

La nuova cattiva religione dell’economicismo è lo sgabello del dominio. Il dramma è che non vi è alcun paradigma alternativo nel tempo attuale che possa svelare il carattere clericale del potere della finanza. Si procede a smantellare la cultura critica in modo da omologare l’orizzonte linguistico: tutto dev’essere come la notte in cui le vacche sono tutte nere. L’indistinguibile consente all’ideologia della finanza di rappresentarsi come l’unica verità possibile. Ci si inchina all’altare del valore di scambio: oltre la finanza che si è impiantata nel cuore e nella mente non vi è altro. In tempi in cui l’antiumanesimo è prassi ordinaria, la rilettura dei testi di Ernesto Balducci può riattivare le energie sopite dalla plumbea condizione storica attuale. Francesco d’Assisi, nell’opera di E. Balducci, è l’uomo nuovo:

«Ma nel concedere a Francesco quanto chiedeva, Onorio non intese affatto annullare l’‘indulgenza d’oltremare’, che anzi, tornato a Roma con la sua curia, rimise in moto la macchina organizzativa e propagandistica delle crociate. Il 23 gennaio 1217 scrisse ai fedeli della Lombardia e della Toscana una lettera nella quale la sconcertante teologia del suo predecessore è condotta al limite: il sangue di Cristo vi appare ridotto a un titolo catastale».[1]

Francesco d’Assisi ha insegnato una eterna verità: l’uomo nuovo è l’uomo conviviale, non domina il mondo, il suo sapere non è potere che trasforma, stupra e saccheggia il creato, ma è ascolto, “creatura tra le creature”, vive una razionalità oceanica in cui la vita ritrova la parola. La libertà non è nell’accumulo crematistico, ma nell’uscire dal mondo per testimoniare la convivialità cosmica.

Francesco d’Assisi di E. Balducci non è una biografia, ma in controluce è una radicale critica alla società contemporanea e alla chiesa cattolica che ha posto la conservazione al centro e non certo Cristo. La Chiesa ha utilizzato Cristo come “un titolo catastale”, un mezzo per giustificare “equilibri sociali” e riscuotere interessi sul titolo “Cristo” quotato nel borsino del mondo. Problema annoso, vi è un chiesa invisibile e una chiesa pronta a schierarsi con i poteri forti.

La libertà in Francesco d’Assisi

Francesco d’Assisi è l’uomo nuovo di ogni epoca, figura carsica pronta a materializzarsi in ogni tempo, è l’uomo nella sua purezza etica che spezza la violenza del valore di scambio.

Ernesto Balducci lo spoglia del titolo di “Santo”: non è l’uomo di una religione o di un’epoca, ma è l’uomo profondo e universale, travalica i confini e le categorie religiose e ideologiche per essere “semplicemente un uomo”:

«La “libertà della gloria” non è una semplice condizione di libertà psicologica, quella, ad esempio, concessa ai poeti, che anche loro rendono accessibili i segreti delle cose (ma si tratta di segreti, per così dire, sul nostro versante, che dilatano l’orizzonte del sentimento senza sradicarlo dal suo centro), è un abitare nel mondo ma dal lato di Dio, e cioè dal lato da cui le cose si vedono prima che entrino dentro la parabola entropica che le porta alla consunzione. Ecco perché Francesco aveva riguardo per le cose inanimate, e parlava con loro ottenendone obbedienza per via di persuasione e non con l’imperio del taumaturgo».[2]

La libertà è relazione con gli esseri animati e inanimati, è lasciare che essi vivano e muoiano nella loro pienezza ontologica. Ritrarsi dall’uso, perché il mondo sia è la legge della libertà. Se non si rende l’altro libero non si è liberi. La libertà rompe il circuito entropico delle dipendenze: usare l’altro come mezzo significa dipendere e nello stesso tempo negarsi. L’essere umano è relazione d’ascolto. Chi non concepisce che l’utilizzo porta il silenzio nella sua esistenza. La violenza germina nel silenzio dell’altro. La libertà è polifonica, si spengono in essa la tracotanza degli oratores, e al suo posto gemmano le parole e le voci nell’incontro, si è umili nella libertà della convivialità:

 «La vera radice di questa filosofia è la “libertà”. “Il sommo studio di Francesco era l’esistere libero da tutte le cose di questo mondo” (1 Cel, 71). In quanto è una forma di possesso, la scienza, al pari di ogni altra ricchezza, imprigiona lo spirito in uno stato di dipendenza dalle cose che si sanno, e cioè da quel patrimonio di cognizioni e di abilità che accomuna nel medesimo privilegio il ceto dei dotti, chierici o laici, e apre nella società la discriminazione fra i letterati e gli ‘idioti’».[3]

La libertà è concreta, poiché Francesco d’Assisi è egli stesso “porziuncola”, si rende “piccolo”, affinché il creato possa svelarsi nel suo volto: nulla è separato, ma tutto è in relazione. La condivisione comunitaria non è solo una prospettiva, un “sentire misticheggiante”, ma è l’adesione alla verità della natura, in essa tutto è relazione, nulla è separato. L’essere umano è parte viva dell’unità, la felicità è nel vivere la totalità dinamica:

«Nel far uso di questa sua capacità di stringere accordi con le creature, l’intento di Francesco era di riconciliare tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra, quelle animate e quelle inanimate, spezzando le pareti di separazione, anche quelle create dall’istinto sacrale. La nascita di Gesù gli sembrava, nell’ottica della fede, il vero momento della festa cosmica. Come alla Verna l’umanità del Cristo crocifisso, sciogliendosi dalle regali raffigurazioni bizantine, si impresse in modo misterioso nella stessa carne di Francesco e tornò ad essere, anche nella tradizione devota, l’emblema dell’umanità sofferente, così a Greccio per volontà di Francesco, una volta tanto, la liturgia clericale del Natale ritrovò la verità umana, sociale e fisica della nascita di Gesù».[4]

La festa cosmica non è arretramento nell’arcaico o nell’animismo, ma è la comunione del sentire soffocata e vilipesa dalla sovrastruttura acquisitiva.

Dono e profondità

Nulla fa più paura all’essere umano che la sua profondità. In quell’abisso vi è il male, ma vi sono le sorgenti della verità e del bene che abbattono l’utilitarismo mercantile che divora le vite e le curva al solo valore di scambio. Nella profondità dell’anima vi è “il dono”, trasgressione massima al capitalismo e inibita con la pervasiva logica del calcolo:

“I suoi rapporti di fraternità con le creature non sono da intendere come giochi poetici, ma come esperimenti vissuti di un possibile rapporto tra l’uomo e il suo ambiente vitale. Essi ci suggeriscono non un regresso verso l’arcaico, ma uno spostamento dell’esistenza in profondità, lungo l’asse ontologico. I rapporti economici della società di mercato, questo voglio dire, non vanno demonizzati come a volte sembrò fare lo stesso Francesco. In base alla divisione del lavoro lo scambio dei prodotti mira a realizzare l’utile per il maggior numero di persone possibile, come è nelle esigenze dell’uomo in quanto essere sociale. Ma nel regime reale dell’economia, che cosa avviene? Avviene che le cose si allontanano sempre di più dal loro valore di uso, di oggetti di bisogno, e acquistano il valore di scambio, nel quale la cosa, diventata merce, non è più l’equivalente di se stessa, ma tanto vale quanto è stabilito dalla misura di scambio che è il denaro. Questa mercificazione esce di controllo e assume per suo conto il controllo di tutto, arrivando ad incidere nella stessa modalità percettiva con cui l’uomo si mette in diretto rapporto con le cose, le quali perdono ai suoi occhi la loro nativa consistenza e la loro possibilità di rispondere al suo bisogno».[5]

Nel dono si rivela “Dio nell’uomo” e “l’uomo in Dio”: concetti che si sottraggono ad ogni sterile e vacua categorizzazione. La definizione geometrica è una forma di dominio a cui bisogna rinunciare, perché dio e l’uomo possano essere nella parola, ma nel contempo il disvelamento è inesauribile, non è contenibile in formule da usare per una “società religiosa”. Ernesto Balducci ricorda in L’uomo planetario nel 1943 in Groenlandia[6] la nave Dorchester colpita da un siluro tedesco, quattro cappellani militari: un rabbino, un sacerdote cattolico e due pastori evangelici avevano ceduto la loro cintura di salvezza ad altri. Decisero di legarsi l’un l’altro e di lasciarsi cadere nell’abisso insieme, mentre pregavano. Questa immagine non ha mai abbandonato Ernesto Balducci. Il dio del dono è nella testimonianza vivente dei quattro cappellani che si donano per vivere l’eternità e l’abbondanza della vita. Senza il dono non vi è salvezza, ma solo il contrarsi del tempo nella violenza dell’isolamento e dell’astratto nel quale tutto muore. Il bivio a cui siamo giunti è la scelta tra società del dono o dell’utile, senza il dono non vi è futuro per nessuno.

Salvatore Bravo

[1] Ernesto Balducci, Francesco d’Assisi, Giunti Editore, 2014, p. 96.

[2] Ibidem, p. 136

[3] Ibidem, p. 107

[4] Ibidem, p. 142

[5] Ibidem, p. 135

[6] Ernesto Balducci, L’uomo planetario, Giunti Editore, 2005, p. 64.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Federica Piangerelli – Rodolfo Mondolfo, Conoscenza e sentimento in J.-J. Rousseau. Libera personalità, principio di libertà e spirito comunitario

Rodolfo Mondolfo,

Conoscenza e sentimento in J.-J. Rousseau. Libera personalità, principio di libertà e spirito comunitario

ISBN 978-88-7588-325-6, 2022, pp. 88,  Euro 10 – Collana “Il giogo” [146].

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https://www.unimc.it/filosoficamente/libri-approfondimenti/mondolfo-conoscenza-e-sentimento-in-j-j-rousseau
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Federica Piangerelli

 

Rodolfo Mondolfo,
Conoscenza e sentimento in J.-J. Rousseau.
Libera personalità, principio di libertà e spirito comunitario

 

Nel 1924, un anno prima di firmare il Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce, Rodolfo Mondolfo pubblica, per la Casa Editrice Cappelli, Introduzione a Rousseau, preposta al testo di Jean-Jacques Rousseau, Discorsi e contratto sociale. Nel 1972, quattro anni prima della morte di Mondolfo, l’Editore propone una nuova ristampa del testo, comprensiva anche della “Nota bibliografica”, della “Premessa alla seconda edizione” del 1931, della curatela e della traduzione dei testi roussoviani (Discorso sulle scienze e le arti, Discorso sulla disuguaglianza, Contratto sociale), tutti a cura dello studioso originario di Senigallia. Il merito dell’Editrice Petite Plaisance è avere ridato alle stampe, a cinquant’anni di distanza dall’ultima edizione, le preziose pagine scritte da Mondolfo, nelle quali il lettore può cogliere tanto lo spirito essenziale quanto la posizione storica dell’intera opera di Rousseau, per riconoscere ciò che ancora vi è di “vivo e immortale” nella sua dottrina.

La riflessione di Mondolfo inizia con il sottolineare quanto l’“indomabile fierezza” del filosofo di Ginevra sia stata forgiata anche e soprattutto dalle sue vicende biografiche. Nel primo capitolo, infatti, La vita e l’indole di Rousseau, lo studioso insiste sull’importanza degli anni errabondi della giovinezza, dirimenti per la formazione culturale roussoviana. Di particolare rilevanza è l’incontro, nel marzo del 1728, con Madame de Warens, in seguito al quale, oltre ad abiurare il protestantesimo per convertirsi al cattolicesimo, Rousseau si dedica allo studio intenso della musica e della filosofia. Mondolfo, infatti, nota che proprio in questi anni prendono forma alcuni dei pilastri teorici del suo sistema di sapere, nonché del suo orientamento spirituale: il sentimento vivo e profondo della natura, presentato come una stabile conquista dello spirito, che si declina in una antitesi netta e strutturale tra la natura e l’opera degli uomini.

Il significato del “richiamo alla natura”, che costituisce uno dei motivi fondamentali dell’opera roussoviana, è indagato da Mondolfo nel secondo capitolo (Il richiamo alla natura). In queste pagine, infatti, lo studioso insiste sulla lotta intrapresa da Rousseau contro una cultura ingombrante, che non resta solo esteriore allo spirito, ma, in modo più incisivo, lo soffoca: proprio allo spirito, quindi, il filosofo ginevrino vuole restituire libertà e dignità. A questo proposito, inoltre, Mondolfo mostra, con chiarezza, che l’intento di Rousseau non è la negazione dell’humanitas, ma la rivendicazione dell’interiorità, ovvero della dignità della natura umana. A fronte di tali riflessioni, però, lo studioso si pone anche un interrogativo dirimente: l’uomo che Rousseau esalta è “l’uomo della natura” o “l’uomo della civiltà sociale”? Attraverso l’esame di opere centrali, quali il Discorso sulla diseguaglianza, l’Emilio e il Contratto sociale, Mondolfo delinea una risposta brillante nella sua profondità teorica: la rivendicazione della propria interiorità non implica un rifiuto della stessa, ma si traduce in una dura critica contro una cultura corrotta e superficiale, che sacrifica la sostanza alle apparenze, la grandezza intellettuale e morale alla moda e ai successi. Per il ginevrino, infatti, la vera natura umana non si rigenera distruggendo la società e tornando a vivere nei boschi – questa, piuttosto, è la posizione dei suoi avversari –, ma seguendo quella “voce divina” che evoca l’intero genere umano alla “luce e alla felicità delle intelligenze celesti”. In altre parole, secondo Rousseau, lo stato sociale è una conquista che non può essere messa in discussione, perché il nemico da combattere è la perdita della consapevolezza di sé.

Nel terzo capitolo (La rivendicazione dell’interiorità: il sentimento), infatti, Mondolfo riflette sul nucleo concettuale della filosofia roussoviana: la rivendicazione dell’interiorità, intesa come l’origine dell’amore per la natura. Sulla base di tale convinzione, il ginevrino fonda un “nuovo soggettivismo”, che non è più uno “spiccato intellettualismo”, alla stregua di tutta la filosofia moderna, ma proclama la superiorità del sentimento sulla ragione. In tal senso, dunque, lo studioso mostra come il monito “conosci te stesso”, di socratica memoria, acquisti un rinnovato valore nel pensiero di Rousseau, perché da critica dell’intelletto si fa sicurezza e genuinità dell’istinto, che, per l’individuo, comporta un “tuffo nell’infinito, con uno slancio mistico nella propria interiorità”. Su questo terreno, quindi, si innesta un significativo slittamento teorico: mentre per gli Enciclopedisti l’unità si guadagna inquadrando lo spirito nella concezione del mondo esteriore, per Rousseau, tale unità si afferma in quanto la natura stessa palpita dentro di noi, nell’intimo sentimento della nostra vita. Mondolfo, allora, comprende che questo riorientamento dell’angolo visuale, dall’esterno all’interno del soggetto, equipara il “richiamo alla natura” con il “richiamo al sentimento della propria interiorità e personalità”: tornare in sé stessi per sentire l’unità dell’intero universo.

Secondo il Filosofo, infatti, tale aspirazione all’interiorità, per quanto sia un conato verso la libertà, non esprime affatto una tendenza individualistica, come è chiaramente indicato nel quarto capitolo, La coscienza e l’amor di sé: moralità e personalità. Qui, Mondolfo rimarca la fondamentale distinzione proposta da Rousseau tra l’egoistico amor proprio, che è l’artificioso prodotto delle relazioni sociali, e l’amor di sé, ovvero la tendenza naturale e spontanea all’affermazione e allo sviluppo della propria personalità, che implica lo strutturale nesso dialettico tra sé e gli altri: al di sopra di ogni lotta e contrasto, questo si dà nei “rapimenti mistici” in cui il singolo si fonde nel “sistema degli esseri” e sente palpitare in sé l’umanità.

 

Rimane, tuttavia, una importante questione da spiegare, vale a dire la dinamica che regola i nessi tra la rivendicazione della libertà individuale e le condizioni della vita associata civile. In breve, si tratta di capire se e come sanare l’urto tra la natura e la cultura. In questo senso, Mondolfo mostra che tale “scontro” presenta, per Rousseau, una duplice declinazione risolutiva: nell’Emilio, per quanto concerne l’educazione del singolo, nel Contratto sociale, per quanto riguarda la costituzione della società politica. In entrambe, trova posto la concezione dello “sviluppo integrale” dell’umano, che poggia sul costante equilibrio tra la sfera individuale e la dimensione collettiva e, soprattutto, presuppone una pedagogia distante da una “educazione negativa” e da un “metodo inattivo”. Per il Filosofo, infatti, ogni processo di formazione, per essere efficace, deve fare proprio il principio socratico della maieutica: la conoscenza non è una pura ricezione passiva, ma una creazione attiva, perché “conoscere è fare”.

Negli ultimi due capitoli del libro, Mondolfo valorizza l’originalità del pensiero di Rousseau rispetto all’intera storia della filosofia. Per esempio, in La libertà e il diritto naturale. I precedenti storici e la teoria di Rousseau, lo studioso insiste sul fatto che nessuno filosofo, dall’Antichità alla Modernità, passando per il Medioevo, è stato capace di raggiungere la profondità della riflessione roussoviana intorno alla libertà, ma, come nota anche Hegel, solo con Rousseau il principio della libertà ha trovato “la sua aurora”. In queste pagine, quindi, lo studioso di Senigallia, oltre a riprende la nozione di libertà come “esigenza dell’interiorità”, rimarca la portata morale della stessa. Stante la priorità del sentimento sulla ragione, della valutazione sulla conoscenza, Mondolfo, infatti, ribadisce quanto la libertà rappresenti l’esigenza etica fondamentale della vita dello spirito, senza tralucere nel sentimento particolaristico dell’amor proprio, ma in quello universalistico dell’amor di sé. Per Rousseau, la scoperta della libertà interiore è il ponte dall’io individuale all’io comune, dalla volontà di ognuno alla volontà generale.

Da tale assunto muove la riflessione proposta nel sesto e ultimo capitolo, La volontà generale e il contratto sociale. Lo sviluppo del contrattualismo sino a Rousseau e la posizione di lui nella storia moderna, in cui Mondolfo ragiona intorno ai meccanismi sottesi alla costruzione della “volontà generale”. Questa, infatti, non si ottiene per la semplice mancanza di contrasti tra le volontà dei singoli, ma, in modo più impegnativo, per la loro fusione e nel trasferimento in una “persona comune ideale” delle esigenze, delle norme e dei poteri che, per natura, ineriscono ad ogni singola persona: questo è l’atto di nascita del “contratto sociale”, che il filosofo di Ginevra teorizza per rispondere ad una profonda esigenza della collettività. A questo proposito, con un ulteriore excursus nella storia del pensiero, dall’età antica a quella moderna, lo studioso sottolinea la novità di tale dinamica e nota, soprattutto, che non sempre appare nei precedenti teorici del contrattualismo.

A conclusione di questo cursorio attraversamento del testo Conoscenza e sentimento in J.-J. Rousseau. Libera personalità, principio di libertà e spirito comunitario, è legittimo ribadire, con maggiore consapevolezza teorica, il merito dell’Editrice Petite Plaisance per offrire al lettore l’occasione di conoscere, approfondire e apprezzare la grandezza e la potenza del sistema di sapere roussoviano, per tramite della rigorosa rielaborazione non di un semplice studioso di filosofia, ma di un autentico filosofo esso stesso, quale è Rodolfo Mondolfo.

Federica PIANGERELLI


Rodolfo Mondolfo è stato uno dei maggiori studiosi di filosofia antica. Ha insegnato nelle Università di Torino e di Bologna. Nel 1925 è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce. Nel 1939, a seguito delle leggi razziali promulgate dal fascismo, si trasferisce in Argentina, dove ha insegnato nelle Università di Córdoba e di Tucumán. In Argentina è morto a Buenos Aires. Tra le sue opere: Il materialismo storico in F. Engels (1912); Sulle orme di Marx (1919); L’infinito nel pensiero dei Greci (1934); Problemi e metodi di ricerca nella storia della filosofia (1935); La comprensione del soggetto umano nella cultura antica (1955); Il pensiero politico nel Risorgimento italiano (1959); Cesare Beccaria (1960); Da Ardigò a Gramsci (1962); Il concetto dell’uomo in Marx (1962); Umanismo di Marx. Studi filosofici (1908-1966); Il contributo di Spinoza alla concezione storicistica (1970); Polis, lavoro e tecnica (1982). Nel 2010 Petite Plaisance ha pubblicato, con introduzione di Giovanni Casertano, Gli albori della filosofia in Grecia, e nel 2020 Alle origini della filosofia della cultura e Moralisti greci. La coscienza morale da Omero a Epicuro.


Sommario

Nota editoriale

Prefazione alla prima edizione

Nota bibliografica

Premessa alla seconda edizione

La vita e l’indole di Rousseau

Il richiamo alla natura

La rivendicazione dell’interiorità: il sentimento

La coscienza e l’amor di sé: moralità e personalità

La libertà e il diritto naturale.

I precedenti storici e la teoria di Rousseau

La volontà generale e il contratto sociale.

Lo sviluppo del contrattualismo sino a Rousseau e la posizione di lui nella storia moderna


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Bell Hooks – Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza». L’educazione come pratica della libertà ci insegna a fare comunità perché insegniamo e viviamo immersi nella vitalità trasformativa che scaturisce dalle diverse comunità di resistenza.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Franco Toscani – “Ripensare l’abitare. Feuerbach, Heidegger e il problema del rapporto uomo-natura”. In : «Cambiamento o catastrofe? La specie umana al bivio», a cura di Tiziana Drago e Enzo Scandurra, Prefazione di Piero Bevilacqua e Postfazione di Laura Marchetti

Edizioni Castelvecchi, 2022.

Ripensare l’abitare. Feuerbach, Heidegger
e il problema del rapporto uomo-natura

di Franco Toscani

 in: AA.VV., Cambiamento o catastrofe? La specie umana al bivio, a cura di Tiziana Drago e Enzo Scandurra, Prefazione di Piero Bevilacqua e Postfazione di Laura Marchetti, Castelvecchi 2022.

 

 

La minaccia che ci concerne

Nella sua etimologia il termine greco καταστροφή (catastrofe) esprime un rivolgimento, un rovesciamento, uno sconvolgimento e, nella tragedia greca antica, indica secondo Aristotele l’esito luttuoso del dramma. Oggi viene sovente chiamato catastrofista chi, con un pessimismo che si ritiene esagerato, tende a prevedere disastri e sciagure. Come si sa, le catastrofi possono verificarsi in natura indipendentemente dalle azioni e dai comportamenti umani e sembra certo che, probabilmente fra tempo immemorabile, cesserà ogni forma di vita sul nostro pianeta in conseguenza dell’esplosione del sole che, come tutte le stelle, prima o poi esploderà, ponendo fine agli umani sogni di immortalità e di eternità.

È un dato di fatto che, nella nostra epoca, la specie umana è in grado da sola di preparare le condizioni per l’estinzione di tutti gli esseri viventi. Ciò è diventato ancor più evidente dopo l’esplosione, nel 1945, delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, che sancirono la fine della Seconda guerra mondiale. Sembra incredibile, ma la follia umana del potere, davvero senza limiti, proprio in questo periodo storico, dopo l’invasione russa dell’Ucraina (cominciata il 24 febbraio 2022) e la guerra che ne è conseguita tra Russia e Ucraina, sta adombrando la possibilità di una terza guerra mondiale che, con l’impiego possibile delle armi nucleari, avrebbe un indubbio esito catastrofico.

Oggi è noto anche ai ragazzi che l’inquinamento ambientale globale e il riscaldamento climatico stanno avvicinando sempre più il pericolo estremo. La minaccia incombente della distruzione della Terra e dell’umanità non è un’invenzione di qualche catastrofista o menagramo, ma è ammessa quasi universalmente. Il grido d’allarme lanciato tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo da Pier Paolo Pasolini sulla “mutazione antropologica” allora in corso è più che mai attuale. Il “vaso di Pandora” contenente i mali che ci affliggono non è chiuso, è da molto tempo aperto e chiunque può rendersi conto di ciò che il vaso contiene, ma uno dei nostri massimi problemi è proprio quello della presa di coscienza, che non è affatto scontata e ovvia, perché molte e ingombranti cose la ostacolano, a cominciare dal sistema economico e sociale capitalistico imperante, dal feticismo delle merci e della tecnica, dal vero e proprio culto del denaro, del potere e del capitale, dall’edonismo e dal consumismo sfrenato che caratterizzano la nostra società sirenico-spettacolare, dal primato del profitto che pone sistematicamente in secondo piano la salvaguardia dell’ambiente, la dignità umana, la salute dei cittadini e dei lavoratori. Tutto ciò, nel mondo della tecnica e dell’economia globalizzata, mira sistematicamente a sviare, a manipolare e a stordire le coscienze.

Ci riguardano sfide che interrogano anche il pensiero. La terra in dis-grazia e in rovina richiede pure un nuovo pensiero filosofico capace, nel dialogo più stringente e fruttuoso con gli altri saperi e con le altre scienze, di riproporre il problema dell’abitare umano al di là di ogni illusoria volontà illimitata di dominio e di potenza sugli uomini, sulle cose, sulla natura. Nella direzione di un nuovo pensiero capace di ripensare e rifondare l’abitare, faremo qui rapidamente riferimento a due grandi filosofi come Feuerbach e Heidegger che, in epoche e in modi assai diversi fra loro, pongono in merito alcune questioni essenziali. Cercheremo quindi di ricavare qualche lume per il presente e per il futuro della civiltà planetaria, se un futuro per essa vi sarà.

 

[…]

 

La cura della terra e del mondo. E’ ancora possibile ripensare e rifondare l’abitare umano?

Seguendo una fertile e celebre indicazione hölderliniana (“pieno di merito, ma poeticamente abita/ l’uomo su questa terra”), Heidegger pone il tema dell’abitare dei mortali fra terra e cielo, nell’unità del Geviert. Molto forte è qui il nesso istituito tra Denken (pensare) e Wohnen (abitare). Abitare non vuol dire dominare il pianeta, ergersi illusoriamente a padroni degli enti e signori dell’universo, ma esistere nell’Aperto (das Offene) come mortali, ospiti, viandanti, via via soggiornanti. Significa  riscoprire la dignità dell’uomo come essere pensante e interrogante, deporre le armature e le illusioni umanistiche con cui ci poniamo come Fondamento assoluto del reale.

Mostrando la Heimatlosigkeit (spaesatezza) di ciascuno nel mondo in cui viviamo, riscoprire il senso autentico dell’abitare conduce soprattutto a essere, ad aver cura, a prendersi cura e non, innanzitutto, ad avere, a manipolare, a dominare. Ciò che di meglio vi è per noi è prendersi cura e aver cura di noi stessi, degli altri, di tutti gli esseri viventi, delle cose, del mondo, del pianeta malato, della verità. La cura e il riguardo della terra e del mondo possono forse ancora darsi a partire dalla coscienza della interconnessione, interrelazione e interdipendenza di tutti i fenomeni e le cose. E’ quella che il buddhismo chiama la “co-produzione condizionata” o “genesi interdipendente” di tutti i fenomeni e di tutte le cose, per cui nessuna cosa può essere considerata nella sua separazione da tutto il resto, non vi possono essere alcuno “splendido isolamento” e alcuna “anima bella”.

Si lamenta spesso il fatto che le nostre città e metropoli siano prive di “anima”. Ma hanno o ritroveranno esse ancora un’anima? E’ possibile una nuova etica del soggiorno, ritornare ad abitare, nel suo senso più pregnante, il pianeta? E’ ancora possibile imparare ad aver cura e a prendersi cura oppure siamo e saremo tutti sempre più irretiti nel meccanismo gigantesco del capitalismo edonistico-consumistico, dei nostri usi e costumi consueti di vita, delle nostre cattive abitudini? Possono ancora cambiare il nostro sguardo e il nostro stile di vita?

La vera crisi delle nostre città e metropoli, dell’intera civiltà planetaria è da mettere in relazione all’incapacità di abitare dell’uomo odierno, a causa della cieca furia prassistico-consumistica che lo caratterizza e che sta rendendo il nostro pianeta sempre più inabitabile. Riproporci il problema dell’abitare ci conduce a ritrovare la nostra peculiare essenza e dignità di mortali, la povertà e la ricchezza dell’essenza umana. Anche qui Heidegger non può fornirci tutte le indicazioni di cui abbiamo bisogno, ma la sua riflessione sull’abitare può servirci per cercare di arginare l’attuale inaridimento del senso e la crescente devastazione del pianeta, per riscoprire l’umanità e la meraviglia dell’uomo, l’essere-cosa delle cose, l’essere-mondo del mondo.

 


«IL CICLO STORICO DEL CAPITALISMO È A UN PUNTO IN CUI LO
SFRUTTAMENTO DELLA NATURA È UNA STRADA SENZA RITORNO. È
DIVENTATO IL CRINALE DIRIMENTE TRA FUTURO E INSENSATEZZA»

 

L’emergenza ambientale e sociale scatenata dallo sfruttamento dissoluto delle risorse naturali è giunta a uno stadio irreversibile che ammette, per il genere umano, soltanto due esiti.
Da un lato, l’uscita di sicurezza: il tentativo di contenere i danni di questa crisi operando un cambiamento radicale dei modelli economici che l’hanno provocata. Dall’altro, la catastrofe inevitabile – l’estinzione – se a persistere saranno l’indifferenza o le mezze misure. In una prospettiva che interseca una pluralità di discipline (dall’ingegneria all’economia, dall’architettura alla sociologia e ai saperi umanistici), studiosi e studiose denunciano qui i disastri causati all’ambiente dalle logiche distruttive che hanno portato l’essere umano a sentirsi padrone del mondo e a rincorrere il progresso ad ogni costo. E affermano l’assoluta urgenza di dare spazio a quell’«approdo straordinario, quanto necessario, del sapere umano» che è l’ecologia.
Con i testi di: Piero Bevilacqua, Romeo Bufalo, Amalia Collisani, Tiziana Drago, Mario Fiorentini, Maria Pia Guermandi, Pino Ippolito Armino, Ignazio Masulli, Francesco Novelli, Tonino Perna, Enzo Scandurra, Franco Toscani, Luigi Vavalà, Alberto Ziparo.

 

Tiziana Drago
Grecista presso l’Università di Bari, attivista, blogger. Studia la letteratura erotica antica, l’epistolografia, le strategie allusive e le dinamiche intertestuali nelle letterature classiche. Si interessa inoltre di conoscenza nella scuola e nell’università. È tra gli autori di Aprire le porte. Per una scuola democratica e cooperativa (Castelvecchi, 2018) e ha curato, insieme a Enzo Scandurra, Contronarrazioni. Per una critica sociale delle narrazioni tossiche (Castelvecchi, 2021). Collabora a blog e riviste quali «MicroMega», «il Tetto», «Meno di zero», «Inchiesta», «La città futura», «laletteraturaenoi». Scrive per «il manifesto» ed è collaboratrice di «la Repubblica».

 

Enzo Scandurra
Urbanista, saggista e narratore; già ordinario di Urbanistica presso l’Università Sapienza di Roma. Si occupa di problemi legati alle trasformazioni della città e a Roma in particolare, temi cui ha dedicato numerose pubblicazioni. Per Castelvecchi ha pubblicato i romanzi Fuori squadra (2017), Exit Roma (2019) e La disgrazia (2020) e curato, insieme a Tiziana Drago, Contronarrazioni. Per una critica sociale delle narrazioni tossiche (2021). Membro del comitato di redazione della rivista «Luoghi comuni» (Castelvecchi), collabora al quotidiano «il manifesto».

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Giornata di studi in onore di Anna Beltrametti – 3 Ottobre 2002 – Università di Pavia: «RIPENSARE LA TRAGEDIA GRECA. Tra storia, filosofia, emozioni, ricezione». Elisa Romano, Università di Pavia / Valeria Andò, Università di Palermo / Sotera Fornaro, Università della Campania / Martina Di Stefano, Università di Pavia / Maria Pia Pattoni, Università Cattolica di Brescia / Ester Cerbo, Università di Roma Tor Vergata / Maurizio Harari, Università di Pavia / Massimo Stella, Università Ca’ Foscari di Venezia / Gherardo Ugolini, Università di Verona / Martina Treu, Università IULM di Milano /Raffaella Viccei, Università Cattolica di Brescia.

Nancy Spero, Artemis, 1983, MOMA New York

COLLEGIO SANTA CATERINA DA SIENA
Aula conferenze (Via San Martino 17)

Ore 9: Saluti istituzionali
Ore 9.15: Elisa Romano, Università di Pavia
Introduzione ai lavori

Ore 9.30
Valeria Andò, Università di Palermo
Sotera Fornaro, Università della Campania
Francesco Massa, Université de Fribourg
Martina Di Stefano, Università di Pavia
Omaggio ad Anna Beltrametti

Pausa

Ore 11: Maria Pia Pattoni, Università Cattolica di Brescia
Alcesti nel Novecento, tra desiderio di emancipazione e spinte nichiliste
Ore 11.40: Ester Cerbo, Università di Roma Tor Vergata
Filottete e L’altra ferita: dopo Sofocle, Aldo Braibanti

***

UNIVERSITA’ DI PAVIA
Aula Volta (Palazzo Centrale, Strada Nuova 65)

Ore 14.30: Maurizio Harari, Università di Pavia
Un’ascia (anche) per Elettra
Ore 15.10: Massimo Stella, Università Ca’ Foscari di Venezia
L’Arcadia degli Spiriti: filologia e fantasmi dell’Antico
Ore 15.50: Gherardo Ugolini, Università di Verona
Berlino 1936: L’Orestea al tempo del nazismo

Pausa

Ore 16.45: Martina Treu, Università IULM di Milano
Emozione di moltitudine: il coro ritrovato
Ore 17.25: Raffaella Viccei, Università Cattolica di Brescia
Cassandra nel XXI secolo: teatro e arte

L’immaginazione è fonte viva di forme originali, e principio dell’infinita fecondità del pensiero. Nell’uomo l’immaginazione ha come supporto un’anima immaginativa, uno spiritus phantasticus


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – «Il marchio di Caino». Per poter essere veicolo di verità ed emancipazione dobbiamo liberarci del marchio di Caino dell’utile e della competizione. Senza tale esodo interiore dalla distopia del presente ogni operazione di «umwälzende Praxis» non può che essere mera apparenza senza effettualità alcuna. Questo è il compito che ci attende.

Salvatore Bravo

«Il marchio di Caino»

Per poter essere veicolo di verità ed emancipazione
dobbiamo liberarci del
marchio di Caino dell’utile e della competizione.
Senza tale esodo interiore dalla distopia del presente
ogni operazione di
umwälzende Praxis non può che essere mera apparenza
senza effettualità alcuna.
Questo è il compito che ci attende.

***

Gustav Klimt, La Medicina, 1901-1907.
Particolare a colori di Igea, della serie
per l’Università di Vienna.

La tragedia del tempo presente non ha un centro, non è identificabile una causa prima da cui far discendere con chiarezza logica e adamantina soluzioni e obiettivi. Il nichilismo crematistico è la logica che permea e si infiltra maligno in ogni istituzione. Non c’è un centro, è ovunque, come il dio di Cusano è in ogni punto vivente della realtà storica e contingente. Siamo tutti direttamente coinvolti, benché siano diversi i livelli di consapevolezza e di responsabilità.
Bisogna prender atto che non vi sono istituzioni che possano essere laboratori dove si pensa il tempo storico in cui siamo implicati, dove si colgono le contraddizioni e si elabora un’alternativa.
L’istituzione predisposta a tale operazione etica e politica dovrebbe essere l’Università. L’istituzione universitaria, invece, è parte sostanziale del problema. Al baronato si aggiunge l’adattamento servile al capitalismo e allo scientismo. Essa è l’istituzione nella quale il sistema si riproduce con la fede sempiterna nella forma mentis dell’economicismo aziendale e nel nichilismo crematistico conseguente.
Le giovani generazioni sono addestrate a scegliere le facoltà secondo un ordine e una priorità esclusivamente economica e individualistica. La professione futura è scelta in funzione del reddito. La logica crematistica impera sovrana con i suoi processi di patologizzazione depressiva dell’intero organismo sociale. La si incentiva, la si consolida con l’abitudine alla competizione selettiva. L’iscrizione alle Università diviene il marchio di Caino: ai giovani studenti e alle giovani studentesse si insegna la selezione con i test di ingresso. Devono competere senza sosta sin dagli esordi della vita universitaria. L’altro è il nemico: se cade, si hanno maggiori possibilità di ingresso e di carriera. Le facoltà senza test d’ingresso, sono facoltà irrilevanti per il sistema. Si scoraggia l’iscrizione ad esse: non hanno test d’ingresso, e dunque non sono appetibili per il mercato. Senza il marchio di Caino si è perdenti in partenza.
Il marchio di Caino è impresso sulla pelle e nella vita psichica, gli studenti devono disimparare ogni barlume di vita comunitaria e solidale. Si insegna loro, una volta superato il test, a guardare al mercato globale come ad una possibilità immensa e indefinita di occupazione e carriera. La globalizzazione è intesa come trionfo cosmopolita delle opportunità per i migliori. Naturalmente, spesso, i migliori sono gli studenti e le studentesse che per censo possono attingere alle Università che rispondono maggiormente alle richieste del mercato globale. Quest’ultimo non è fuori l’istituzione, ma è già all’interno. Nelle facoltà si vive secondo i desiderata del mercato, esse sono amministrate con criteri imprenditoriali: lo studente è un cliente, è un bonifico annuale da conservare. Le Università sono, dunque, parte del problema, da esse, in generale non possiamo aspettarci l’elaborazione di un contro-pensiero. Sono piegate e sussunte alla religione del mercato. Non formano la classe dirigente, ma sudditi fedeli, eticamente anonimi.

Filologia filosofica”
Potremmo aspettarci un sussulto di vita critica dalle facoltà di filosofia. Invece, in esse impera la filosofia analitica e l’allevamento al nichilismo. Il relativismo è rappresentato come liberatorio e inclusivo, in realtà si tratta di un’abile operazione ideologica. Se le prospettive si eguagliano, se non vi è un alto o un basso, se tutte le prospettive hanno la loro ragion d’essere, la verità è solo una chimera del passato. L’immobilità politica è coltivata con il relativismo, in quanto prospettive interscambiabili rendono impossibile con la critica radicale la fondazione di un’alternativa al sistema vigente. L’ostilità verso Hegel e Marx ne è la dimostrazione. Tali autori sono ammessi al simposio delle facoltà di filosofia solo se scientemente decaffeinati. Tale deriva è intrinseca all’affermarsi del capitalismo: in Nietzsche vi troviamo la sua chiara codificazione e concettualizzazione. Nietzsche denuncia la sottomissione delle facoltà di filosofia alla religione tradizionale sostituita, oggi, con la religione neoliberista:

«Sulla filosofia delle università.
Il danno prevale.
Il governo non assume gente che contraddice la religione.
Conseguenza: conformità tra la filosofia delle università e la religione del Paese: il che scredita la filosofia.
Esempio: lo hegelismo e la sua caduta.
Scopi del governo nell’assumere professori di filosofia: l’interesse dello Stato.
Conseguenza: la vera filosofia viene misconosciuta e passata sotto silenzio».1

La vera filosofia è radicale, non conosce feticci, ma è iconoclasta. Nelle facoltà di filosofia si erigono feticci, si dogmatizza il tempo presente rappresentandolo come eterno. Si uccide la passione creativa, l’eros platonico, si insegna e si studia ad occhi bassi. Il mercato è ovunque: non possiamo che prenderne atto. Si è installato in ogni punto del sistema istituzionale. In questo modo può prodursi e autoriprodursi con docile certezza. I sudditi sono formati al guinzaglio gerarchico.

L’azione è talmente radicale che nelle facoltà tutte si uccide la passione per le materie di studio con l’approccio analitico.

Ogni esperienza didattica è curvata all’analisi, alla divisione ossessiva in funzione della specializzazione. Si perde la visione del tutto che dona la bellezza e il senso di una disciplina. L’analisi, senza la visione d’insieme, riduce sia un testo e sia un corpo ad anatomia senza senso e bellezza. L’Università è un immenso obitorio.

L’approccio è di tipo filologico, la parte è astratta dal tutto, la parola o l’organo è solo un corpo morto. La visione d’insieme che viene a mancare addestra a non guardare la realtà sociale e storica in cui si è situati. Si insegna l’atomistica dell’analisi che diviene modo di vivere e di pensare. Il soggetto impara a dividersi dal tutto, la comunità è sostituita con l’individualismo astratto. Si pone in atto una vita senza bellezza e senza prassi, poiché bellezza e politica sono nello sguardo che coglie l’insieme. Siamo in un’epoca specialistica e filologica, in cui non vi è né politica né bellezza né passione:

«Aspettarsi dai filologi il più vivo godimento dell’antichità è come aspettarsi dallo scienziato (Naturforscher) il più vivo senso della natura e dall’anatomista il più raffinato senso della bellezza umana».2

L’elaborazione di una critica radicale e di un progetto alternativo non verrà dalle Università, malgrado vi siano eccezioni. Ciò ci deve indurre a un atteggiamento saggiamente anarchico. Solo fuori delle istituzioni, lontani dal guinzaglio del politicamente corretto, è, e sarà, possibile porre in atto la marxiana umwälzende Praxis (che Rodolfo Mondolfo nel suo Sulle orme di Marx,3 traduce «prassi che si rovescia», perché «in luogo d’alterare il genuino concetto marxistico, lo si esprime più integralmente, includendovi anche l’elemento – essenziale e non semplice sfumatura – della Selbstveränderung [autotrasformazione]).
Questa è un’epoca di catacombe, in cui la verità dev’essere elaborata e diffusa all’ombra e nel silenzio, in attesa che la critica e la fondazione veritativa possa trovare le condizioni storiche per un’ampia circolazione. Per poter essere veicolo di verità ed emancipazione dobbiamo liberarci del marchio di Caino dell’utile e della competizione. Senza tale esodo interiore dalla distopia del presente ogni operazione di umwälzende Praxis non può che essere mera apparenza senza effettualità alcuna. Questo è il compito che ci attende.

1 Friederich Nietzsche, Appunti filosofici 1867-1869 – Omero e la filologia classica, Adelphi, Milano 1993, p. 162

2 Ibidem, p. 202

3 Rodolfo Mondolfo, Sulle orme di Marx, Petite Plaisance, Pistoia 2022, p. 97.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Franco Toscani – Il grande tema dell’alterità (Pace, giustizia e «unità del genere umano» / Il lieto annuncio / «Cieli nuovi e terra nuova» / «Tra poco verrà il germoglio» / Quella singolare «capacità predittiva» / Una luce nei tempi oscuri).

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Franco Toscani

Il grande tema dell’alterità

Pace, giustizia e «unità del genere umano»
Il lieto annuncio
«Cieli nuovi e terra nuova»
«Tra poco verrà il germoglio»
Quella singolare «capacità predittiva»
Una luce nei tempi oscuri

 

Il ripresentarsi prepotente sulla scena attuale dell’«uomo identitario» rende ancora più viva e impellente la riflessione sulla lezione di Ernesto Balducci e su quella sua visione dell’«uomo planetario» come unica possibilità di salvezza del mondo. La sua fu una instancabile promozione della «cultura della pace», intesa come pace nella giustizia, nella libertà, nella solidarietà, nella fraternità, nella condivisione, in direzione della costruzione di un’inedita dimensione del «modo globale», in una tensione verso uno stato escatologico di gioia piena, oltre gli steccati ideologici e religiosi e nel segno dell’apertura all’altro. Un tema, quello dell’alterità, che rinvia sia all’umano, che al nostro rapporto con gli altri esseri viventi, sia all’Alterità irriducibile alla mera misura umana.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Arianna Fermani – «Vivere secondo la parte migliore che è in noi». Conferenza presso la Biblioteca civica “Pietro Acclavio” di Taranto, il 14 ottobre 2022, ore 17. Verranno presentate le ultime pubblicazioni dell’autrice.


«Non si deve, in quanto esseri umani, limitarsi a pensare cose umane né, essendo mortali, limitarsi a pensare cose mortali, come si consiglia, ma, per quanto è possibile, ci si deve immortalare [ἀθανατίζειν] e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi [καὶ πάντα ποιεῖν πρὸς τὸ ζῆν κατὰ τὸ κράτιστον τῶν ἐν αὑτῷ]».

Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b 30-34


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In copertina:
Cornice lignea contenente come iscrizione le prime parole
del libro di Aristotele, Metafisica, I, 980 a 21:
«Πάντες ἄνθρωποι τοῦ
εἰδέναι ὀρέγονται φύσει»,
«Tutti gli esseri umani per natura desiderano
sapere»

Arianna Fermani

Il concetto di limite nella filosofia antica

ISBN 978-88-7588-355-3, 2022, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [151].

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«Non si deve, in quanto esseri umani, limitarsi a pensare cose umane né, essendo mortali, limitarsi a pensare cose mortali, come si consiglia, ma, per quanto è possibile, ci si deve immortalare [ἀθανατίζειν] e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi [καὶ πάντα ποιεῖν πρὸς τὸ ζῆν κατὰ τὸ κράτιστον τῶν ἐν αὑτῷ]».

Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b 30-34

La filosofia nasce contrassegnata dal limite. Come testimonia Diogene Laerzio,1 infatti, Pitagora, che «per primo […] usò il termine “filosofia” e si chiamò filosofo», lo fece nella consapevolezza che «nessuno […] è saggio, eccetto la divinità».2 Si narra anche che, un paio di secoli dopo, Diogene il cinico «a chi gli disse: “Tu non sai nulla e pure fai il filosofo”, rispose: “Aspirare alla saggezza, anche questo è filosofia”».3

L’assunzione delle intrinseche limitazioni dell’essere umano costituisce, pertanto, l’atto di nascita di una forma di conoscenza che intende distanziarsi immediatamente dal sapere assoluto, ovvero da quel possesso conoscitivo pieno ed esclusivo che, in quanto tale, è proprio solo della divinità. Lo stesso nome filo-sofia si colloca, quindi, nello spazio di questo “distanziamento”, come testimonia ulteriormente la celeberrima icona, offerta dal Simposio platonico, del filosofo come «amante di sapienza» e, in quanto tale, situato a metà strada tra sapienza e ignoranza:

Diotima – desideroso di saggezza [φρονήσεως ἐπιθυμητὴς], pieno di risorse [καὶ πόριμος], amante di sapienza per tutta la vita [φιλοσοφῶν διὰ παντὸς τοῦ βίου] […] a metà strada tra sapienza e ignoranza [σοφίας … καὶ ἀμαθίας ἐν μέσῳ ἐστίν]. […] Nessuno degli dèi fa filosofia, né desidera diventare sapiente – infatti lo è già – né fa filosofia chiunque altro sia già sapiente. Ma neppure gli ignoranti fanno filosofia né desiderano diventare sapienti.

Socrate – Ma allora – dissi io – chi sono coloro che fanno filosofia, se non sono né i sapienti né gli ignoranti?

Diotima – Ormai – disse – dovrebbe essere chiaro perfino ad un bambino che sono coloro che stanno a metà strada fra gli uni e gli altri [οἱ μεταξὺ τούτων ἀμφοτέρων].4

L’intento di questo breve contributo consiste, allora, nel riattraversare alcune delle molteplici curvature che la nozione di limite riceve nel pensiero greco e le sue ricadute sul versante gnoseologico, etico e politico.

***

1 Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, I, 12; in Id., Vite dei Filosofi, a cura di M. Gigante, vol. I, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 6-7.

2 Ibidem.

3 Ibidem, VI, 64; vol. I, p. 226.

4 Platone, Simposio, 203 d 6 – 204 b 2; traduzione mia.




Arianna Fermani

L’errore, il falso e le scienze in Aristotele

ISBN 978-88-7588-351-5, 2022, pp. 96, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “Il giogo” [150]

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Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: Vita felice umana: in dialogo con Platone e Aristotele (2006); L’etica di Aristotele, il mondo della vita umana (2012); By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach (2016). Ha tradotto, per Bompiani: Aristotele, Le tre Etiche (2008), Topici e Confutazioni Sofistiche (in Aristotele, Organon, 2016).

Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.
















Arianna Fermani – L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristotele
Arianna Fermani – La nostra vita prende forma mediante il processo educativo, con una paideia profondamente attenta alla formazione armonica dell’intera personalità umana per renderla libera e felice.
Arianna Fermani – L’armonia è il punto in cui si incontra e si realizza la meraviglia. Da sempre armonia e bellezza vanno insieme.
Arianna Fermani – VITA FELICE UMANA. In dialogo con Platone e Aristotele. il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permette di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana
Arianna Fermani – Divorati dal pentimento. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele
Arianna Fermani – Mino Ianne, Quando il vino e l’olio erano doni degli dèi. La filosofia della natura nel mondo antico
Arianna Fermani – Nel coraggio, nella capacità di vincere o di contenere il proprio dolore, l’uomo riacquisisce tutta la propria potenza, la propria forza, la propria dignità di uomo. Senza coraggio l’uomo non può salvarsi, non può garantirsi un’autentica salus.
Arianna Fermani – Fare di se stessi la propria opera significa realizzarsi, dar forma a ciò che si è solo in potenza. attraverso l’energeia, e nell’energeia, l’essere umano si realizza come ergon, si fa opera. Chi ama, nutrendosi di quell’energeia incessante che è l’amore, scrive la sua storia d’amore, realizza il suo ergon, la sua opera. È solo amando che un amore può essere realizzato, esattamente come è solo vivendo bene che la vita buona prende forma
Arianna Fermani – Recensione al volume di Enrico Berti, «Nuovi studi aristotelici. III – Filosofia pratica».
Arianna Fermani – «Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele». Si è felici perché la vita ha acquisito un orientamento, si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice sussistenza. Una vita dotata di senso. Felicità come pienezza, come attingimento pieno del ‘telos’ lungo tutto il tragitto della vita.
Arianna Fermani – «Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». La speranza “antica”, tra páthos e areté.
Arianna Fermani – Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani
Arianna Fermani – Quando il rischio è bello. Strategie operative, gestione della complessità e “decision making” in dialogo con Aristotele. L’assunzione del rischio e la sua adeguata collocazione all’interno di una vita “riuscita” implica la continua individuazione di priorità in vista della costituzione il più possibile armonica dell’esistenza.
Arianna Fermani – «Il concetto di limite nella filosofia antica». L’uomo non è dio, ma la sua vita può essere divina. Divina è ogni vita buona, ogni vita che sia stata ben condotta. Ogni vita umana si costruisce entro lo scenario del quotidiano, è fatta delle piccole cose di ogni giorno e di questa quotidianità si nutre.
Maurizio Migliori e Arianna Fermani – «Filosofia antica. Una prospettyiva multifocale». Questo volume aiuta a tornare, con stupore e gratitudine, alle feconde origini del pensiero occidentale, per guardare finalmente, con occhi nuovi, il mondo e noi stessi.
Arianna Fermani – Il messaggio di Socrate è di una attualità straordinaria. La filosofia, con Socrate, si incarna in uno stile esistenziale, e si esplica in quella insaziabile – e, insieme, appagante – fame di vita e ricerca di senso, che accompagnano il filosofo fino all’ultimo istante dell’esistenza
Arianna Fermani, Giovanni Foresta – «Dalle sopracciglia folte al percorso inarcato dalla rotta superiore dello sguardo, il tempo esprime monumento del vissuto tingendolo di bianco». È un mirare avanti, un protendersi anima e corpo verso il futuro. Questo perché la vera vecchiaia, lungi dall’essere l’età anagrafica, è la mancanza di entusiasmo, è lo spegnersi dei sogni e dei desideri.
Arianna Fermani – La virtù rende buona la nostra vita e, insieme, la salva. Una vita felice, è, dunque, una vita che prospera, ma che pro­spera soprattutto grazie alla virtù, che sa produrre la bellezza e l’armonia. La virtù, in questo quadro, è e deve essere non solo qualcosa di teorizzato, ma qualcosa di “praticato”.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Il futuro, cento anni fa: «Scènes de la vie future», di Georges Duhamel. Dovremmo investigare il rapporto, a livello di immaginario, tra antichi miti dell’età dell’oro e promessa capitalistica del regno dell’abbondanza.



Fernanda Mazzoli

Il futuro, cento anni fa:
Scènes de la vie future, di Georges Duhamel

Dovremmo investigare il rapporto, a livello di immaginario,
tra antichi miti dell’età dell’oro e promessa capitalistica del regno dell’abbondanza


Nel 1929, in pieno proibizionismo e crisi finanziaria, il romanziere francese Georges Duhamel parte per gli Stati Uniti, spinto dall’intuizione che è là che sta incubando un nuovo modello sociale, una nuova forma di civiltà che non tarderà a conquistare il vecchio continente. Si ferma solo per alcune settimane, ma evidentemente dispone di uno sguardo profondo e sagace capace di vedere sotto la brillante superficie esibita da luoghi e persone e di un orecchio molto fine, atto a percepire, dietro il canto delle sirene che sale dalla neonata società dei consumi, la realtà brutale dell’alienazione e della disumanizzazione, pronte ad essere esportate nel mondo intero.

È questo suo intuito visionario che rende il suo resoconto di viaggio, Scènes de la vie future,1 sorprendente per attualità e prezioso per chiunque voglia leggere con lente critica il mondo in cui viviamo, quasi un secolo dopo l’esperienza americana di Duhamel. La sorpresa è anche maggiore se si considera che lo scrittore è oggi piuttosto dimenticato, relegato ad una paginetta scarsa nelle storie letterarie, vuoi come membro, accanto a Jules Romains, dell’Unanimisme,2 vuoi come esponente di un roman fleuve tenuto in gran sospetto dalla critica come retaggio ottocentesco, ciò che dimostra non tanto l’inadeguatezza di Duhamel – che in vita ricevette numerosi premi fra cui il Goncourt –, quanto il pressappochismo della critica stessa, costretta a pagare il suo tributo alle mode culturali.

 

1G. Duhamel, Scènes de la vie future, Points, Paris, 2018. I passaggi qui citati sono stati tradotti dall’autrice.

2Movimento letterario fondato agli inizi del Novecento intorno all’ Abbaye de Créteil, un falansterio artistico sul modello dell’abbazia rabelaisiana di Thélème; prende il nome dalla raccolta poetica La vie unanime di Jules Romains, secondo cui la poesia deve rendere gli uomini consapevoli della loro personalità comune, sociale che lega gli uni agli altri in un sentimento unanime.

Paradossalmente, quasi uno scherzo fatto da quel gran burlone che è il tempo, il libro che attesta il rifiuto da parte dell’autore della modernità quale si veniva disegnando negli USA e il suo radicamento nei tradizionali valori umanistici è ora diventato un testo quanto mai moderno, proprio per la sua capacità di prevedere gli sviluppi futuri di quel paradigma, sociale ma anche antropologico, che ha cambiato da cima a fondo le nostre società, fino a plasmarle nella forma che oggi conosciamo.

Degli Stati Uniti, in preda agli eccessi della civiltà industriale, il romanziere non ama quasi niente: gli ripugna il culto della velocità, dell’efficienza e del profitto, detesta l’architettura delle grandi città, rifiuta la spietata segregazione razziale, non lo convince la comodità offerta dall’automobile che, piuttosto che conquistare lo spazio, lo ha perso, denuncia nel cinema «il più potente strumento di conformismo morale, estetico e politico», percepisce dietro l’industria dell’intrattenimento l’amaro sentore di un veleno che avvilisce lo spirito, sollevandolo dallo sforzo di pensare, lo disgusta l’invadente presenza della pubblicità che finisce per deturpare gli affascinanti paesaggi del Connecticut, lo preoccupa l’interesse dell’amministrazione relativamente alle tendenze religiose e politiche dei visitatori stranieri. Lui, francese orgoglioso di quello spirito razionalistico che è una delle componenti essenziali della cultura natale, arriva a pensare che il volto della ragione potrebbe divenirgli addirittura odioso, a causa della curvatura che ha assunto in quel Paese, ovvero quella della ragione strumentale che ha assoggettato gli uomini ad un ritmo vitale in cui hanno perso il bene più prezioso: il tempo, tutto da dedicare alla produzione e all’accumulazione, salvo la parentesi prevista e consentita del divertimento che diventa, in senso pascaliano, divertissement, distrazione dalle grandi questioni dell’esistenza, quelle che consentono di attribuirle significato.

Duhamel non si limita a cogliere e a disapprovare gli aspetti più evidenti e fastidiosi di un’organizzazione sociale e di una forma di vita rispetto alle quali gli preme sottolineare la sua estraneità; non è in veste di moralista che ricusa il modello americano, anzi una delle storture che maggiormente lo inquieta è proprio il moralismo di fondo che sembra pervaderlo e che, in quel momento, trova espressione nel proibizionismo, ma che ispira anche le preoccupazioni dietetiche sul numero di calorie propinato da un pasto o l’ossessione igienista, o il divieto del fumo, o l’importuno controllo esercitato dalla burocrazia sulla vita privata dei cittadini. Senza fermarsi alla facciata più o meno folkloristica delle cose e senza incagliarsi nell’invettiva, egli afferra il nocciolo del problema, affronta l’avversario sul suo stesso terreno e lo smaschera con osservazioni fulminanti dette con un tono piano, senza pretese, nato dalla conversazione quotidiana con i suoi interlocutori, in gran parte – come non manca di precisare – ottime persone, amabili e colte. Suo bersaglio non è certo il popolo americano, ma quell’America che rappresenta l’Avvenire, un futuro già pronto all’uso su scala mondiale e decisamente allarmante.

È ai due pilastri di questa civiltà, ai suoi più conclamati motivi di vanto – la ricchezza e la libertà – che egli applica il proprio sguardo smitizzante. Quanto alla prima, la corsa al successo alla quale milioni di persone, sulla scia dei cercatori d’oro, sacrificano la propria vita gli sembra il segno perspicuo di una grande povertà che nega all’esperienza umana ogni dimensione che non sia quella materiale; d’altra parte, il sogno americano si rovescia molto spesso nell’incubo della discriminazione razziale o dell’emarginazione economica che schiaccia i perdenti.

Quanto alla libertà, essa si è capovolta in schiavitù: al suo stupefatto interlocutore, che oppone la libera Repubblica americana ad un’Europa sotto le grinfie dei regimi dittatoriali, Georges Duhamel oppone un punto di vista originale e discordante:

«Ciò che chiamate la libera America mi permette di giudicare cosa può diventare la libertà nel mondo futuro, in una società dalla quale mi immagino escluso senza troppo dispiacere. […] La dittatura politica è sicuramente odiosa e mi sembrerebbe senza dubbio intollerabile, ma, per strano che vi possa apparire, vi confesso che non occupa, nei miei timori, un posto davvero considerevole. La servitù politica è spesso violenta, grossolana, chiama e finisce per provocare la sommossa. Lo spirito della ribellione politica, fortunatamente, non è spento nel cuore dell’uomo.

[…] Non appena giunti ad un certo grado di cultura e a nutrire il sentimento del loro valore e delle loro speranze, gli uomini sopportano a fatica le restrizioni imposte dal tiranno nazionale o dal dominio straniero: invece, si adattano molto bene all’altra dittatura, quella della falsa civiltà, ed è questo che mi tormenta. […] Voi siete schiavi, ve lo ripeto, dei vostri moralisti, dei vostri legislatori, dei vostri igienisti, dei vostri medici, dei vostri urbanisti e persino dei vostri estetisti. Dei vostri poliziotti, dei vostri pubblicisti che altro ancora? Siete schiavo dell’America, come il mondo intero sarà in futuro, sul vostro esempio, schiavo di se stesso».

Una schiavitù dolce e tenace che ha preso piede quasi insensibilmente ed in base a principi così ragionevoli – l’igiene, la morale, l’estetica, la protezione sociale – che opporvisi sarebbe equivalso ad opporsi a quel legittimo desiderio di sicurezza per il quale gli uomini sono disposti ad accettare una serie di limitazioni e a delegare ogni potere a specialisti tanto zelanti quanto interessati. Il cittadino non solo è preda di una burocrazia che lo sottomette a controlli, indagini, censure, ma accetta di assecondare lui stesso i suoi tormentatori, di compiere una parte del loro lavoro.

Duhamel – medico ancor prima che letterato – era rimasto sconvolto, nel porto di New Orleans, dalla pratica di sottoporre i nuovi arrivati ad una sbrigativa cerimonia di controllo sanitario che gli aveva fatto intravvedere (e con quanta preveggenza possiamo oggi giudicare con cognizione di causa!) una possibile pericolosa deriva salutista delle moderne società, anche in questo caso intuendo una questione di fondo che i recenti avvenimenti pandemici hanno posto all’ordine del giorno. Al suo anfitrione, molto orgoglioso degli innegabili progressi scientifici conseguiti pure nel campo della profilassi, lo scrittore-medico fa notare che, anche qualora si possedesse, contro ogni infezione contagiosa, un vaccino da somministrarsi obbligatoriamente, si soffrirebbe non più delle malattie, ma degli obblighi imposti dalle leggi, si soffrirebbe di salute. L’obbligo alla salute come dovere civico regolamentato dallo Stato che si incarica paternamente di difendere il cittadino contro se stesso allo scopo di salvaguardare per la patria la sua condizione fisica (come rivendica l’interlocutore del romanziere, Mister Pitkin) è materia di riflessione non banale e che apre una finestra non proprio limpida su implicazioni di bruciante attualità. Infatti, l’autore si chiede se dopo avere proibito a qualcuno di bere e poi di fumare, non si passerà a metterlo nell’impossibilità di «procreare una miserabile progenie», eventualmente scoprendo e ponendo in opera dei «procedimenti di fecondazione perfettamente razionali e controllati», attraverso un istituto scientifico in grado di consegnare materia seminale «selezionata». Il medico francese si diverte provocatoriamente ad elencare i diversi tipi da proporre alle signore in cerca di un bebé su misura: il businessman innanzitutto, poi il boxeur, lo sportivo, l’intellettuale … Insomma, qualche settimana negli USA sul finire degli anni Venti del Novecento (ed una decina di anni prima dell’avvio degli esperimenti nazisti di eugenetica) era bastata al nostro per comprendere quale direzione avrebbe imboccato, in nome del progresso e del miglioramento dell’uomo, la civiltà occidentale presa in ostaggio dal primato dell’economia e della tecnica. Non a caso, Mister Pitkin, che non è uno scienziato pazzo od un politico all’inseguimento di ricette elettorali vincenti, ma una persona posata e ragionevole, un cittadino esemplare del “migliore dei mondi possibili” prende al volo l’idea suggerita sarcasticamente dal suo ospite e comincia a fare dei conti e ad abbozzare uno schizzo relativo alla parte meccanica della faccenda … Il dominio della macchina, il suo progressivo sostituirsi all’uomo, non sembrano a Duhamel premessa di un affrancamento di quest’ultimo dalla fatica del lavoro, quanto, piuttosto, negazione delle sue qualità sostanziali, di ciò che lo rende tale. La macchina che pretende di liberarlo dallo sforzo, rischia in realtà di liberarlo da tutto, vivere compreso.

È alla luce di tale minaccia che lo scrittore, con un altro scarto rispetto alle idee correnti, matura, al termine del suo sofferto soggiorno, l’opinione che questa civiltà non rappresenti affatto il prolungamento, per quanto peculiare, di quella europea, ma piuttosto una rottura. È, questo, sicuramente un giudizio storico alquanto sommario ed opinabile che non tiene in debito conto indubbi motivi di continuità anche culturale, ma che ha il pregio di sottolineare la radicale distanza che Georges Duhamel intende stabilire tra i valori in cui si riconosce – fondati sull’umanesimo – e quelli giunti a maturazione sulle sponde dell’Atlantico. Pur presago della resa imminente al modello americano che per lui riveste i tratti di una vera distopia, la fedeltà a quei valori gli sembra la sola possibilità di salvare un patrimonio spirituale e di cultura che, malgrado i suoi tanti errori, ha arricchito l’intera umanità.

Quasi cento anni più tardi e di fronte all’avvenuta conquista a tappe più o meno forzate di buona parte del globo da parte dell’American way of life, la risposta del romanziere francese ci può apparire superata od inadeguata per affrontare l’attuale fase. Resta che di fronte all’affermazione del transumanesimo come ingrediente ideologico di punta del capitalismo più innovativo, dinamico ed aggressivo, il radicamento in una plurimillenaria tradizione culturale di ampio respiro, e che ha in se stessa gli strumenti per ripensarsi, risulta a mio parere imprescindibile.

Un manifesto che pubblicizza la vendita di biglietti per vaporetti verso la corsa all’oro in California
“Un nuovo superbo clipper in partenza per San Francisco”, pubblicità per il viaggio in California pubblicata a New York negli anni 1850

Così come imprescindibile è un’altra domanda, alla quale Duhamel risponde in modo leggermente spiazzante, come nel suo stile, offrendo al lettore uno spunto interessante, ma sicuramente bisognoso di approfondimento: da dove nasce tanta capacità di penetrazione, da dove trae la sua forza e il suo successo questo sistema che, mentre sembra esaltare le potenzialità individuali, in realtà le annichilisce? La sua capacità di seduzione riposerebbe sulla sua semplicità, o meglio facilità: «Incanta le persone semplici e delizia i bambini». Risposta tutta giocata sul piano di una psicologia elementare e che non può certo accontentare chi cerca la rotellina capace di fare deragliare un meccanismo apparentemente ben rodato.

Riprendendo l’osservazione dello scrittore (tralasciando pertanto l’enorme investimento economico e militare che ha sostenuto la diffusione del modello culturale statunitense), una via feconda da percorrere potrebbe essere quella di investigare il rapporto, a livello di immaginario, tra antichi miti dell’età dell’oro e promessa capitalistica del regno dell’abbondanza.

Fernanda Mazzoli

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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