Franco Cassano (1943-2021) – Gli uomini che hanno potere dovrebbero scendere dalle auto blindate e iniziare a passeggiare. Passeggiare è ritornare a se stessi e a quella parte di noi che è la premessa di tutto. Passeggiare non deve servire a tenersi in forma, ma a dare forma alla vita. Abbiamo cose da meditare, molte cose già poetate in precedenza, per poi ricevere quel qualcosa di più che è incomparabile: la sorpresa della pura presenza.

Franco Cassano 01

«Questo mare, questi monti, queste isole, questo cielo – che qui e soltanto qui dovesse sbocciare l’A-lètheia, e gli dèi potessero, anzi dovessero proprio qui rientrare nella sua luce salvifica, che qui l’essere dominasse come presenza e istituisse l’abitare umano, è per me oggi più degno di stupore e più impossibile che mai da pensare fino in fondo (…). Dobbiamo portare con noi in Grecia molte cose da meditare, molte cose già poetate in precedenza, per poi ricevere quel qualcosa di più che è incomparabile: la sorpresa della pura presenza».

FRANCO CASSANO, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari, p. 36.

Franco Cassano, già ordinario di Sociologia dei processi culturali, è professore emerito presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari. Tra le sue pubblicazioni: Approssimazione (il Mulino 1989); Partita doppia (il Mulino 1993); Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo (il Mulino 2001); Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni (Dedalo 2004); Tre modi di vedere il Sud (il Mulino 2009); Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio (con Andrea Riccardi, Lindau 2013). Ha curato con Danilo Zolo L’alternativa mediterranea (Feltrinelli 2007); Tre modi di vedere il Sud (il Mulino 2009).

Franco Cassano, Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo, il Mulino, 2011.
«Gli uomini che hanno potere dovrebbero scendere dalle auto blindate e iniziare a passeggiare. Una passeggiata vuol dire essere restituiti alla strada e alla nudità casuale delle persone, guardare gli alberi, i palazzi o il mare, inseguire pensieri spesso splendidamente banali. Passeggiare vuol dire avere un cane per amico, oppure un amico libero come un cane, con cui parlare di tutto, uno che ti ascolta e ha voglia di perdere tempo con te. Passeggiare è […] assaggiare l’aria […] con la pelle, d’estate cercare l’ombra e d’inverno il sole. Passeggiare è commentare i titoli dei giornali con uno che non conosci, indicare una strada a un passante, ricordarsi di comprare qualcosa prima di tornare. Passeggiare è imbattersi in chi non t’aspetti, […] è fermarsi al bar e guardare la gente che passa, parlare con chiunque dell’ultima partita, tanto per scambiarsi calore. Passeggiare è giocare dolcemente con la giornata, decidere che ne puoi perdere un pezzo perché lo vuoi guadagnare. Passeggiare è il piacere dell’anonimato e quello della compagnia, incrociare gente che non conosci e facce note, salutare o non salutare […].
Passeggiare è evadere dalla corsa feroce, da quell’assedio che chiude le porte da cui potrebbe entrare la vita, da quelle giornate murate che fanno del telefono cellulare un cellulare di polizia. Passeggiare è mettere la punteggiatura ai giorni, andare a capo, voltare pagina, creare intervalli, parentesi o punti interrogativi. Passeggiare vuol dire infiltrare un po’ di vacanza in ogni giornata, lasciare aperta una fessura nel quotidiano, sapendo che la sorpresa può entrare anche dalle porte strette. Passeggiare […] vuol dire […] mettere le virgolette a ciò che pretende di essere assoluto, resistere a tutte le militarizzazioni. […]
Passeggiare è un’arte povera, un far niente pieno di cose […]. Passeggiare è abbandonare la linea retta, […] girare a vuoto nella penombra, non aver paura di ascoltarsi. […] Passeggiare è ritornare a se stessi e a quella parte di noi che è la premessa di tutto […]. Passeggiare è il desiderio del ragazzo e dell’anziano, un’arte che l’adulto ha rimosso e sostituito con l’agonismo del jogging e della fitness. Passeggiare non serva a tenersi in forma, ma a dare forma alla vita» (Franco Cassano, Modernizzare stanca, pp. 149-150).


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Luca Grecchi – La dolcezza rappresenta una disposizione del carattere volta a configurare in maniera eccellente la propria umanità, nei rapporti con gli altri uomini e con la natura, per favorire la realizzazione di una vita felice.

Luca Grecchi - Dolcezza - Silvia Vegetti Finzi

Luca Grecchi

Dolcezza

Introduzione di Silvia Vegetti Finzi


«La dolcezza rappresenta una disposizione del carattere volta a configurare in maniera eccellente la propria umanità, nei rapporti con gli altri uomini e con la natura, per favorire la realizzazione di una vita felice».

L. G.



Quarta di copertina

La dolcezza è una virtù fondamentale che rende migliori le relazioni umane, e mai come in questo periodo di grandi incertezze se ne sente il bisogno. Questo saggio di Luca Grecchi analizza dapprima, alla luce della filosofia greca classica, alcuni dei contenuti essenziali per la comprensione della dolcezza, come la verità, il bene, la virtù. In un secondo momento, descrive le principali strutture etiche affini alla dolcezza, ma che dalla stessa si differenziano, costituendone talvolta semplicemente delle componenti: la gentilezza, la tenerezza, l’umiltà, la misericordia, la gratuità, la forza, la semplicità e la finezza. Di queste qualità, che il nostro tempo spesso altera, la dolcezza costituisce il coronamento e la compiuta realizzazione.

Luca Grecchi (Codogno, 1972) insegna per le cattedre di Filosofia Morale e di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fra i suoi libri più recenti, Leggere i Presocratici (2020) e tre volumi della collana «Questioni di filosofia antica» delle Edizioni Unicopli, ossia Natura, Uomo e Ricchezza (rispettivamente 2018, 2019 e 2021). Ha scritto inoltre Conoscenza della felicità (Petite Plaisance, 2005).

Pagine 170 – Euro 17,00


Indice

Introduzione di Silvia Vegetti Finzi

PRIMO CAPITOLO:
Per introdurre il discorso

La dolcezza come virtù

L’uomo: un ente da definire

Il bene: un concetto da definire

Il rispetto e la cura come relazioni costitutive del bene

Per una definizione della dolcezza

La dolcezza come giusta misura

La dolcezza come virtù filosofica

 

SECONDO CAPITOLO:
Cosa non è e cosa è la dolcezza

La dolcezza non è gentilezza

La dolcezza non è tenerezza

La dolcezza non è umiltà

La dolcezza non è misericordia

La dolcezza è (anche) gratuità

La dolcezza è (anche) forza

La dolcezza è (anche) semplicità

La dolcezza è (anche) finezza

Bibliografia


Luca Grecchi – i suoi libri


Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.
Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare
Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD
Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo
Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia
Luca Grecchi – «L’umanesimo nella cultura medioevale» (IV-XIII secolo) e «L’umanesimo nella cultura rinascimentale» (XIV-XV secolo), Diogene Multimedia.
Luca Grecchi – Il mito del “fare esperienza”: sulla alternanza scuola-lavoro.
Luca Grecchi – In filosofia parlate o scrivete, purché tocchiate l’anima.
Luca Grecchi – L’assoluto di Platone? Sostituito dal mercato e dalle sue leggi.
Luca Grecchi – L’Italia che corre di Renzi, ed il «Motore immobile» di Aristotele
Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità
Luca Grecchi – Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno
Luca Grecchi – Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari.
Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.
Luca Grecchi – Aristotele: la rivoluzione è nel progetto. La «critica» rinvia alla «decisione» di delineare un progetto di modo di produzione alternativo. Se non conosciamo il fine da raggiungere, dove tiriamo la freccia, ossia dove orientiamo le nostre energie, come organizziamo i nostri strumenti?
Luca Grecchi – Sulla progettualità
Luca Grecchi – Perché la progettualità?
 
Luca Grecchi – «Commenti» [Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano]
Luca Grecchi – Aristotele, la democrazia e la riforma costituzionale.
Luca Grecchi – Platone, la democrazia e la riforma costituzionale.
Luca Grecchi – La metafisica umanistica non vuole limitarsi a descrivere come le cose sono e nemmeno a valutare negativamente l’attuale stato di cose. Deve dire come un modo di produzione sociale ha da strutturarsi per essere conforme al fondamento onto-assiologico.
Luca Grecchi – Scuola “elementare”? Dalla filosofia antica ai giorni nostri
Luca Grecchi – La metafisica umanistica è soprattutto importante nella nostra epoca, la più antiumanistica e filo-crematistica che sia mai esistita.
Luca Grecchi – Logos, pathos, ethos. La “Retorica” di Aristotele e la retorica… di oggi. È credibile solo quel filosofo che si comporta, nella vita, in maniera conforme a quello che argomenta essere il giusto modo di vivere.
Luca Grecchi – Educazione classica: educazione conservatrice? Il fine della formazione classica è dare ai giovani la “forma” della compiuta umanità, ossia aiutarli a realizzare, a porre in atto, le proprie migliori potenzialità, la loro natura di uomini
Luca Grecchi – Mario Vegetti: un ricordo personale e filosofico
Luca Grecchi – «Natura». Ogni mancanza di conoscenza, di rispetto e di cura verso la natura si traduce in una mancanza di rispetto e di cura verso la vita tutta. L’attuale modo di produzione sociale, avente come fine unico il profitto, tratta ogni ente naturale – compreso l’uomo – come mezzo, e dunque in maniera innaturale.
Luca Grecchi – Scritti brevi su politica, scuola e società
Luca Grecchi – i suoi libri (2002-2019)
Luca Grecchi – L’UMANESIMO GRECO CLASSICO DI SPINOZA. Lo scopo della filosofia non è altro che la verità.
Luca Grecchi – «Uomo» – L’uomo è il solo ente immanente in grado di attribuire senso e valore alla realtà e di porsi in rapporto ad essa con rispetto e cura.
Luca Grecchi – Insegnare Aristotele nell’Università
Luca Grecchi – L’etica di Aristotele e l’etica di Democrito: un confronto
Maurizio Migliori, Luca Grecchi – Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli
Luca Grecchi – Multifocal approach. Una contestualizzazione storico-sociale. Occorre porsi con critica consapevolezza progettuale all’interno della totalità sociale.
Luca Grecchi – «Leggere i Presocratici». La cultura presocratica rappresenta tuttora una miniera in buona parte inesplorata.
Luca Grecchi – Questo volume cerca di colmare un vuoto, almeno nella letteratura specialistica in lingua italiana. Mancava infatti, ad oggi, un volume complessivo sul tema della ricchezza nella filosofia antica.
Luca Grecchi – La dolcezza rappresenta una disposizione del carattere volta a configurare in maniera eccellente la propria umanità, nei rapporti con gli altri uomini e con la natura, per favorire la realizzazione di una vita felice.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Daniele Orlandi – Invito a un capolavoro. «Rosso Antico» di Simone Nebbia.

Simone Nebbia - Daniele Orlandi

Non regalate terre promesse
a chi non le mantiene.

Fabrizio De Andrè, Rimini

Ci incontrammo in un’assemblea alla Sapienza, alcuni anni dopo l’uscita del libro. Io ero seduto in prima fila e lui, passandomi davanti, mi fulminò con lo sguardo a mirino: “Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”.

Alberto Asor Rosa, parlando di Pasolini


Inizierei alla maniera dei recensori autentici. Simone Nebbia, Rosso antico, per i tipi di Giulio Perrone Editore, I edizione gennaio 2021, nella collana “Fiamme”. Brossura in 8° con ali, pp. 204. In quarta di copertina è riportata una citazione da p. 59:

Vogliamo tutto. E lo vogliamo adesso. Ma vogliamo tutto o tutto quel che resta?

Nella prima parte il lettore riconoscerà il riferimento al romanzo di Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, del 1971, che tentava, in una dimensione avanguardistica, un primo bilancio della stagione di lotte operaie alla fine degli anni Sessanta che sarebbe stata definita “autunno caldo”. Nella quaestio della seconda, Simone Nebbia, rovesciando l’assunto, introduce l’argomento di uno dei rari libri non banali che affollano gli scaffali delle librerie nell’anno in cui cade il centenario della fondazione del maggior partito comunista europeo, quello italiano. A bene vedere il mio discorso su Rosso antico potrebbe terminare qui se non fosse che tempo fa uno scrittore di successo, dopo aver avuto la fortuna di esaminare un manoscritto di Simone Nebbia, decretò: “Molto bene, ma il fatto è che ti sforzi di dire la tua sul mondo invece di raccontarlo”. Peccando di modestia, Nebbia incassò la lezione e si convinse che, in fondo, lo scrittore di successo avesse ragione. A me sembrò un vago pretesto d’uso per un rifiuto gentile, pescato magari da qualche pagina di I libri degli altri, di Italo Calvino, e mescolato con un po’ d’invidia perché lui, lo scrittore di successo, un libro così bello non lo aveva mai scritto. Ma non lo dissi a Nebbia, allora più giovane e suscettibile di adesso. Lo tenni per me confidando nella galanteria del tempo e in giudizi meno lividi. Era il 2009, mi pare, il manoscritto non era quello di Rosso antico e Simone Nebbia veniva da un periodo gravoso sul piano privato e sociale che cercava di scontare dentro una rivolta studentesca che gli aveva ispirato quelle pagine rifiutate. Da allora Nebbia ha fatto diverse cose, ha avuto e saputo sfruttare molte occasioni per “dire la sua” sul mondo attraverso testi e critiche teatrali, versi, canzoni, spettacoli, al punto che chiamarlo esordiente suona un tantino improprio.
Ad ogni modo, è bello aprire un libro e scoprire che non parli di pandemia o di camorra, di caporalato o di amori criminali, temi di per sé serissimi quando non vengano affrontati con quella morbosità cronistica – più per malafede dell’imprenditoria editoriale che per scelta libera degli autori – dalla narrativa contemporanea, quel fare le pulci a realtà che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, quel mostrarne il verso e il recto per poi, al momento opportuno, tirarsi indietro e avvertire: io vi ho solo mostrato ciò che accade, a voi il giudizio morale. No, non è così che si fa. Anzitutto perché se ti metti su quella strada e non sei Roberto Saviano rischi di diventarne uno stanco epigono; in secondo luogo perché romanziere e poeta non sono costretti ad essere anche sociologi, se è vero, come sosteneva qualcuno, che l’arte non ricerca la realtà ma pone le condizioni per ricrearla. E non c’è nulla di più artistico (e di più complesso) che creare la realtà dalla realtà stessa, vale a dire ingaggiando una strenua battaglia contro una micidiale forza centripeta.
Ecco che Simone Nebbia, volgendo le spalle a un passato storico che ha perfettamente assimilato e impastandosi al presente, crea in Rosso antico una realtà romanzesca dove il simile e il verosimile, la fonte e la sua messa in scena, si inseguono equiparandosi, alla maniera di un narratore onnisciente. Sì, perché la vicenda che trova spazio in Rosso antico è quanto di più antiévénementiel non si potrebbe immaginare. L’avvenimento è il Sessantotto, la braudeliana increspatura di superficie che un lento lavorio sottomarino ha preparato, ingigantito, e finito per sommergere del tutto generando una risacca vertiginosa (un tempo la si sarebbe detta lunga durata) che giunge fino al Duemilaotto, alle plaghe di una generazione, tra il dissoluto e il devoto ai paterni altari, impegnata in una mobilitazione studentesca ribattezzata “l’Onda” che ebbe il grande merito di arrivare dopo un lungo riflusso (intervallato da brevi esperienze, ricordiamo almeno la “Pantera” nel 1990) e il demerito (felix culpa) di non essere divenuta una òla per mancanza di ascolti, di credito, di sponde da parte di padri e quadri. Differenze, a volte, sottili.
Ma come raccontare un momento storico del quale tutti si sono sentiti in dovere di parlare, con cui tutti si sono misurati con esiti perlopiù deludenti, come mostrare l’essenza di un coriaceo rimosso che ha avuto il destino di rimanere sulla bocca di ognuno? Con grande finezza, Nebbia sceglie di affidare al Sessantotto il ruolo che gli compete nella storia italiana degli ultimi cinquant’anni, quello del Grande Assente o del Grande Incompreso, del mito per sopravvivere. A cosa? Alla sua contropartita storica. Il Sessantotto, certo. Ma pochi mesi dopo, il 1969 ci presentava già un altro Paese, un’altra storia: Piazza Fontana e lo slittamento della lotta dai cortei unificati di studenti e operai all’asfalto delle strade coi feriti a vita o i morti ammazzati, alla clandestinità, alle leggi speciali e agli ergastoli piovuti giù a pioggia e mitigati soltanto dalla dissociazione. Pochi mesi, quindi, e si era già in viaggio verso la fine delle rivendicazioni salariali e studentesche, in una parola: di “classe”. Fino alla pietra tombale di qualunque possibilità di cambiamento radicale degli assetti sociali e culturali rappresentata dalla marcia cosiddetta dei “quarantamila” alla Fiat. Era il 1980.

Per non parlare di coloro (veramente tanti) che verificata la propria coscienza civica sulle barricate sessantottesche, si ritrovarono, di lì a pochi anni, perfettamente integrati in quell’establishment che avevano avuto in animo di ribaltare, vincenti o ripescati di una lotta che si era fatta puramente individuale, tutta interna alla borghesia figlia della borghesia:

“Ma avevamo ragione! […] Lo sentivamo il bisogno di collettività, di incidere nella relazione, inventare contesti, mescolare classi diverse e finalmente uscire dai blocchi della provenienza culturale”.

“Tutto giusto, ma noi oggi invece? Cosa siamo diventati?” (p. 142)

Pochi sono quelli che, smarrito il senso di un’appartenenza nella quale hanno giocato tutta la propria vita, rimangono di colpo maestri senza allievi, afasici oratori o scrittori senza lettere. È ciò che accade al sessantenne Luca Salomè, primo protagonista del romanzo, ordinario di Storia contemporanea e autore di libri di riferimento per generazioni di militanti e studiosi. Una mattina dell’inverno più freddo del secolo, Salomè, dalla scrivania del suo comodo appartamento si accinge a vergare, su commissione dell’editore, le pagine definitive sulla stagione sessantottina accorgendosi di non essere in grado di cominciare. Le parole non arrivano, i pensieri urtano con un sentimento profondo d’inutilità, le idee restano disarticolate (termine tristemente in voga negli anni appena successivi a quel fatidico anno). Dov’è finita quella storia nostra – si chiede Salomè – se oggi, sempre più spesso, non mi riesce che pensarla come mia?

E dunque si trovò costretto a costatare la secchezza dell’inchiostro: la mano destra, pure inarcata a covare il foglio, non faceva nascere nulla, mentre la sinistra aveva smesso ogni arabesco lasciandosi prendere dalla stanchezza a centro pagina; il professor Salomè chiuse le penne e le lasciò, parallele a farsi coraggio, in schiera militare, chiuse nel loro mutismo. (pp. 97-98)

Inizia qui una ricerca che somiglia alla discesa agli inferi di una vita illusa di essere stata spesa al meglio, nella piena onestà intellettuale, a viso e mani aperte dentro un Partito un tempo forte e strutturato – ma, è il caso di sottolinearlo, tutt’altro che vicino al Movimento, nel ’68 come in seguito -, ora disciolto nel patteggiamento storico (in ritardo di trent’anni) con un’annichilente voglia di Centro. Come in una famiglia sopravvissuta alla perdita di un figlio e che ogni dodici mesi si ostina, nelle cene silenziose di televisione, a immaginarne il compleanno. Cos’altro, in fondo, le resta? Il secolo breve del comunismo italiano, livornese per nascita, non per costumi. Come quando Salomè visita la vecchia sede del Partito, ora cantiere ridipinto di “un bianco così bianco da abbagliare” (p. 72), e a terra calcinacci di voci, di riunioni fumose e di sogni collettivi. Il bianco, vuoto metaforico che contiene, assorbendoli, tutti i colori, bianco come lo sfondo di uno scudo crociato, bianco come la resa, come i morti sotto i lenzuoli.
Chi, al contrario, non si è fatto fagocitare dall’erpice del “centralismo democratico” è l’amico e sodale di gioventù Bartolomeo Zerilli, come Salomè docente di Storia ma nell’antinferno di color che son sospesi, il limbo dei liceali. Zerilli ha salvaguardato le sue idee dietro la pelta del disincanto metodico, accettando che ad uccidere la vecchia casa di giovanili militanze sia stata proprio la sua stessa covata di figli prediletti dietro cui non è difficile intuire la nomenklatura degli ultimi anni del PCI e dei primi anni della svolta socialdemocratica. Con l’amico di sempre, protetto dal suo amato stinto maglione rosso a collo alto, Salomè tenterà, in una estemporanea gita al mare, l’estremo recupero di una storia comune uscita fuori vena, per capire se davvero quella generazione abbia poi ottenuto qualcosa o solo il suo disavanzo, pagato in sovrapprezzo al botteghino di un futuro narciso e postideologico.

Dura meno di un giorno, quindi, il Sessantotto smarrito di Luca Salomè, dall’alba al tramonto, correndo verso un esito imprevedibile mentre a dare continuità a quell’increspatura di superficie, nel quarantesimo anniversario di Valle Giulia, è uno studente nostro contemporaneo, che sta tenendo un diario fratello discreto cui affidare frammenti di un discorso politico ed esistenziale durante l’Onda. Si chiama Giovanni Praga, un po’ Emilio scapigliato tardoromantico, un po’ Drogo attendente eterno di nemici che non arrivano:

Siamo una generazione formata per perdere, la nostra coscienza civile è ferma allo scambio delle figurine, ci hanno cresciuti a non accettare caramelle da nessuno, neanche da un parente o un vicino di casa, così adesso non sapremmo riconoscere un essere umano neanche in un documentario di Quark. (pp. 75-76)

Si resta impressionati dalla saggezza di questo ventenne, di sinistra senza partito, e pensiamo con dolore a quanti come lui abbiamo perso per strada, a quanti di lui eravamo noi, a quanto non lo siamo mai stati, alle scintille lasciate a spegnersi per stanchezza o disattenzione. Praga, che dalla pancia del corteo segue ne percorre le zone esterne, ne disegna i percorsi, ne tiene ancora un capo, ancora una coda, necessario come un filosofo che sussurra dubbi dove altri gridano certezze.

Com’era? Noi vogliamo tutto. E lo vogliamo adesso […] E per volerlo adesso bisogna andare chissà dove abbiano delocalizzato. Dispersivo seguire il lavoro che sguscia da tutte le parti come un pesce di fiume che proprio non ci vuole stare. Non è sparita la lotta, semmai – peggio – è sparito il campo di battaglia. (pp. 59-60)

La sua sul mondo, ricordate?
Praga e Salomè, destinati a sfiorarsi, nelle malebolge dello Studium Urbis, senza reciproca memoria, senza legittimazione o nell’ammirazione unilaterale del giovane per il maturo, tra l’abisso del reale e l’abisso dell’ideale, tra la pràxis e la theôrēsis, in una storia che consente asimmetriche sovrapposizioni ma mai saldature.
Leggevo il diario di Giovanni Praga, novello Chateaubriand a Waterloo, e ricordavo le mie peregrinazioni di tesista, in quei corridoi, secoli fa preposti alla discussione critica del sapere; leggevo e ricordavo, lì, al secondo piano della Facoltà di Lettere, un uomo mai visto né ascoltato (una stanzetta con targa annessa ne serba inadeguata memoria). Si chiamava Gustavo Vinay, emerito docente che nel 1967, alla fine di un’epoca storica, si rivolgeva ai suoi maestri degli anni Trenta e Quaranta, di un’università ancora imbevuta di quel crocianesimo sceso dall’alto come asserzione di verità, come religione, a quei professori amati e contestati ma certo infinitamente più grandi dei nostri: “Io ero sangue del vostro sangue, sangue della vostra storia-che-ha-un-senso e per voi io crepavo dentro prima di crepare fuori”.[1] A noi restavano invece quelli che volevano insegnarci l’Accademia coi figli sistemati nei migliori college statunitensi, quelli della ricreazione finita, quelli di Piazza Navona che “con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai!”, quelli dello stringiamci a Coorte di assistenti e dottorandi di cui, forse, come diceva il celebre film, ne rimarrà soltanto uno, dietro i volti dei Salomè e dei tanti più tristi di lui poiché in carne e ossa. Gli intellettuali organici della dimenticanza. Non si leggono perciò senza saltare dalla sedia le parole che Giovanni Praga sembra aver strappato da ogni nostro silenzio di ex giovani ed ex lavoratori, ex studenti ed ex laureati:

Voi che occupate e gestite il potere, voi che conservate il vostro tempo come unico e ultimo degno, voi che pian piano morite non lasciando traccia, non siete che i figli rimasti, quelli che hanno conquistato posizioni dal disarmo degli altri, che hanno occupato posti che non gli spettavano, nutriti di sangue altrui. (p. 165)

Meditate che questo è stato. Davanti a cotanto inquisire solo il bacio di un cristo dostoevskiano potrebbe redimervi.
Ho toccato fin troppi punti, rapsodicamente e in modo confusionario. Me ne scuso ma Rosso antico è davvero un libro gremito come un termitaio, una di quelle opere che quando ne parli non sai come chiudere né vorresti. Dirò quindi che ciò che infine lo rende uno dei testi più originali degli ultimi anni è il linguaggio, l’ossessione di Giovanni Praga di “contemplare nella forma la bontà dei contenuti” (p. 89), lo strumento che gli scrittori usano per rimodellare il mondo, la guerra senza quartiere con le parole, il sacrificio di indietreggiare affinché vincano loro, o più semplicemente ciò che i critici chiamano stile. Simone Nebbia, come una forza del passato, raccoglie una tradizione sparita e si pone tra gli ultimi stilisti della narrativa novecentesca. Alto, immaginifico, raffinato fino alla poesia, ricercato senza cedere all’autocompiacimento e a quello “scrivere oscuro” di cui Manganelli tesseva l’elogio.
Un recensore, dalle colonne di un importante settimanale, ha parlato per Rosso antico di “una prosa lavorata”. Giungerei a dire fulgida, come mostra fin da subito quel Prologo vero e proprio pezzo di bravura, nel gioco elegante di citazioni implicite che vanno dall’incipit leopardiano: “Il vento è freddo in questa notte di mezzo inverno” (p. 9), alla descrizione di una metropoli che sdorme, avrebbe detto uno degli eteronimi di Pessoa, Bernardo Soares, quando Nebbia scrive della

realtà ululante dei supermercati chiusi ma con la luce ancora a giorno, telecamere nascoste, cimici, intercettazioni satellitari, i circuiti chiusi delle banche, grida nella notte questa città tappezzata di manifesti di propaganda elettorale, concerti, spettacoli, svuotacantine, oscuravetri attaccati ai semafori insieme con gli adesivi di battaglie perse prima ancora di essere combattute […] (pp. 10-11)

Un turbinio reso visibile dalla camera a schiaffo sulla penna di Nebbia, famelico e vigliacco brulichio di mosche che si riproducono per partenogenesi dalle crisi del capitalismo con evidente, sentito omaggio all’ultimo Paolo Volponi. Per chiudersi, e non è che l’inizio, con echi gaddiani ma spezzati come sul pentagramma di un verso:

 

Attorno la notte.
Sfinita, quasi l’alba. (p. 11)

 

Una scelta stilistica, sia chiaro, che non nasce dalla necessità (pur legittima) di mettersi in mostra da parte dello scrittore emergente ma che costituisce una consustanza del capolavoro e della materia di cui Nebbia s’è fatto scriba. Accettando, anzi, il rischio che tale partitura così impervia renda la lettura a tratti impegnativa.

Che questo pericolo venga recepito come valore aggiunto di un libro di cui si sentiva da troppo tempo il bisogno è infine mia speranza.

Daniele Orlandi

[1] G. Vinay, Pretesti della memoria per un maestro, Spoleto, CISAM, 1993, p. 125.


Simone Nebbia (1981) è un critico teatrale, e ha una formazione interamente letteraria. Animatore del quotidiano di informazione teatrale online www.teatroecritica.net, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de «I Quaderni del Teatro di Roma», periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume Il declino del teatro di regia (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa) e collaboratore della rivista Orlando (Giulio Perrone Editore) diretta da Paolo Di Paolo. Ha collaborato con il programma di Rai Scuola Terza Pagina. Nel 2013, per l’editore Titivillus, ha pubblicato il volume Teatro Studio Krypton. Trent’anni di solitudine. Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

 

Salvatore Bravo – Per Draghi «L’euro è irreversibile». Per G. Zagrebelsky «la materia della politica oligarchica è costituita dal denaro e dal potere, e dal loro reciproco collegamento: il denaro alimenta il potere e il potere alimenta il denaro». Il denaro di Draghi domina nel tempo e sul tempo. Capitalismo senza tempo.

Zagrebelsky Gustavo Mario Draghi 01
Salvatore Bravo
Per Draghi «l’euro è irreversibile».
Per G. Zagrebelsky «la materia della politica oligarchica è costituita dal denaro e dal potere,
e dal loro reciproco collegamento: il denaro alimenta il potere e il potere alimenta il denaro».
Il denaro di Draghi domina nel tempo e sul tempo. Capitalismo senza tempo.

Moneta irreversibile
«L’euro è irreversibile»,[1] con tale affermazione Draghi svela l’integralismo antidemocratico dell’Europa della finanza. L’irreversibilità dell’euro materializza i propositi della nuova religione della finanza. Con l’annuncio di Draghi la storia si è conclusa, ciò che verrà dopo è irrilevante, perché l’euro decreta lo spartiacque tra il passato ed il presente eternizzato. Siamo tutti fedeli, ai piedi dell’altare dell’euro, ormai dogma ideologico dell’infallibilità della finanza.
L’euro non è una moneta, ma un progetto totalitario indiscutibile. Tornano in mente le utopie dei totalitarismi riconosciuti del Novecento: dal nazionalsocialismo hitleriano all’Unione Sovietica passando per il Fascismo, ogni totalitarismo si è dichiarato eterno, si è presentato come l’eterno in terra, come la trascendenza realizzata e conclusa nell’immanenza. Il tempo nell’ideologia totalitaria è sempre eguale, è un tempo consumato nella pienezza del presente.
Non vi è nessun vuoto, nessuna possibilità che possa generarsi nuova vita con innovative strutture temporali di senso. Il tempo dell’euro è tempo del silenzio, in cui i poteri forti usano le istituzioni democratiche per svuotarne il senso.
Draghi ha sentenziato nel Parlamento (la parola Parlamento rimanda al parlare, alla dialettica della democrazia dolosamente ignorata) che l’euro è una verità ontologica indiscutibile. Alla nuova divinità ci si può solo adeguare, purché l’euro viva: bisogna liberarsi dalle attività economiche in difficoltà affondate dalla pandemia e dal lockdown da loro decretato e gestito.

Eucarestia del denaro
Le affermazioni in Parlamento seguono le polemiche sulla selezione naturale delle attività in difficoltà. Lo scopo è evitare le insolvenze, perché è il denaro che deve guidare il mondo, dev’essere raccolto, difeso ed adorato, malgrado le sofferenze dei perdenti. La nuova “eucarestia” è tra di noi, nessuna particola va persa o dispersa, ma va contenuta nel calice delle banche. Pertanto i potenziali insolventi vanno lasciati al loro destino. In fondo, chi fallisce è colpevole. La religione della colpa riappare, i dannati che scontano la pena in terra sono i deboli, coloro che non sono stati abbastanza forti da resistere alle lotta per conquistarsi una porzione di mercato. Calvinismo perverso e mondano che decreta il nuovo tempo dell’apocalisse economica senza escatologia, poiché per i perdenti ed i falliti non c’è presente e non c’è futuro. Sono i nuovi esodati dell’euro, sono i nuovi dannati colpiti dall’indifferenza dei vincenti e dal timore di coloro che vivono nella zona grigia, già descritta da Levi, che temono di essere associati ai perdenti.
Il distanziamento sociale è parte del disegno “euro”: si insegna la distanza emotiva, si sclerotizzano le emozioni per poter praticare il transumanesimo economico e tecnologico. La distanza abitua a considerare l’alterità un ostacolo sul percorso della propria sopravvivenza biologica ed economica. Liberismo, digitalizzazione delle relazioni si rendono organiche di un unico disegno sociale: realizzare il transumanesimo economico. Ogni limite umano dev’essere superato. Nel trascendere ogni limite si struttura una nuova società governata da potentati tecnocratici (multinazionali, banche, centri di ricerca robotica e digitale) che divorano i più deboli, li usano e ne determinano il destino e le scelte.

Euro senza tempo
L’euro nasce, come direbbe Marx, «grondante di sangue e sudiciume», ma possiamo aggiungere l’«euro» domina nel tempo e sul tempo. In quanto «irreversibile», tacita il linguaggio e trasforma le parole in sentinelle frecciate del presente. Le parole della democrazia sono sostituite dalla contabilità senza teleologia. L’euro occupa ogni spazio ed ogni tempo, in tal modo il futuro è fuorigioco, non resta che la malinconia del presente senza fecondità.

Gli Europei sono chiamati ad un mistico silenzio dinanzi all’euro che si innalza ed incombe come il fato a cui niente e nessuno può sfuggire. Il terrifico che si accompagna a ciò è la complicità dei rappresentanti del popolo che ancora una volta hanno stracciato il mandato elettorale “in nome dei superiori interessi” della nazione.
L’interesse principale in uno Stato democratico è la democrazia, pertanto l’interesse del popolo non è stato messo in atto. Il popolo non ha votato l’euro dichiarato da un uomo della finanza «irreversibile».
Oggi le oligarchie festeggiano il vuoto politico ed etico in cui navighiamo, e che ha permesso il loro radicarsi. L’«euro irreversibile» è la dimostrazione della verità a cui ci si è abituati, ovvero che il denaro ed il potere non sono mezzi per realizzare dei fini, ma sono diventati il fondamento che produce un sistema nichilistico; essi sono perseguiti in se stessi, come fossero il bene supremo. La tragedia etica dell’Occidente è in questa verità feroce che pone le condizioni per il transumanesimo, per l’abbandono dell’Umanesimo blandamente citato dal Presidente del Consiglio, il quale non rammenta che l’Umanesimo ha quale centro la dignità dell’essere umano e non certo il tintinnio minaccioso della moneta unica a cui corrisponde il pensiero unico. Scrive Gustavo Zagrebelsky in La maschera democratica dell’oligarchia:

«Ora, che l’oligarchia assuma le forme della democrazia non è senza significato. Che ci si trovi in una democrazia oligarchica o in un’oligarchia democratica, al netto della contraddizione sostanziale, significa pur sempre qualche cosa. Non dobbiamo pensare che si tratti di un puro inganno: l’oligarchia che per affermarsi ha bisogno di forme democratiche quanto meno non può adottare strumenti di violenza esplicita per supplire al deficit di consenso, e deve mantenere ferme le procedure democratiche, sebbene cerchi di svuotarle di senso dall’interno. E se le procedure restano ferme, c’è sempre la possibilità di rianimarle, di ridare al guscio il suo contenuto. È comunque significativo che, parlando delle oligarchie nel nostro tempo e nel nostro paese, si possa e si debba aggiungere “oligarchie in forma democratica” (non direi oligarchie democratiche, perché questo creerebbe una contraddizione). Passando all’oligarchia come concentrazione del potere, chiediamoci che cosa è oggetto del potere oggi. Qual è la materia della politica oligarchica nel nostro tempo. A mio parere, la materia della politica oligarchica è costituita dal denaro e dal potere, e dal loro reciproco collegamento: il denaro alimenta il potere e il potere alimenta il denaro. L’uno è strumento di conquista, di garanzia e di accrescimento dell’altro. Vorrei richiamare l’attenzione su questo punto, che secondo me è il segno più caratteristico dell’epoca in cui viviamo. In altri tempi, si poteva dire che potere e denaro fossero mezzi, non fini. La politica serviva ad altre cose, per esempio a rovesciare i rapporti di classe o a equilibrarli, a promuovere la cultura, ad alleanze e guerre di espansione, alla conquista di altri paesi e alla “civilizzazione” del proprio o di altri popoli. Il denaro, a sua volta, veniva La maschera democratica dell’oligarchia – considerato uno strumento, per cose buone o per cose cattive, ma in ogni caso era finalizzato a qualcos’altro; gli Stati drenavano denaro con il prelievo tributario per fare guerre, per espandere i confini, per la gloria delle case regnanti, per alimentare lo splendore delle corti regie, e così via. Il denaro che produce denaro, come accade tipicamente nell’usura, è stato nei secoli oggetto di condanna o, almeno, di sospetto. Ma con la finanziarizzazione dell’economia, per di più in dimensione mondiale, il meccanismo del denaro che produce se stesso, il denaro investito al fine di produrre altro denaro, come nell’albero degli zecchini di Collodi, ha finito d’essere un mezzo ed è diventato un fine. Siamo in pieno in un circolo vizioso. Viviamo stretti da un serpente che si morde la coda, l’uroboro del mito che, per sopravvivere, fa terra bruciata attorno a sé».[2]

Con l’obbligo ad accettare l’euro come «irreversibile» ogni maschera è caduta. Ora sta ai popoli, e non solo al popolo italiano, difendere la democrazia dalla tracotanza delle oligarchie che si auto-percepiscono al sicuro, poiché la paura pandemica associata a decenni di vuoto politico e comunitario hanno rafforzato la certezza dell’intramontabilità del loro potere. Sta al popolo rialzarsi, sta a noi capire e cambiare percorso rispetto ai diktat del nuovo potere totalitario. L’arte può venirci in aiuto più delle parole, dovremmo cominciare a pensare ed a guardare con intensità Il quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, per rompere la fosca nube della rassegnazione che si estende minacciosa sulle nostre speranze. I “no” che non sono stati pronunciati, sono ora sul percorso per ricostruire un futuro possibile, e con essi bisogna cominciare a confrontarsi per riattivare la prassi.

Salvatore Bravo

[1] Mario Draghi al Senato (17-02-2021): «Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro».

[2] Luciano Canfora – Gustavo Zagrebelsky, La maschera democratica dell’oligarchia, Laterza, Bari 2015, pp. 4-5.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Copertine e schede editoriali (291-300) – Mario Vegetti, Salvatore A. Bravo, Antonio Vigilante, Giancarlo Chiariglione, Silvia Fazzo, Miguel Pereira, Francesco Verde, Alessandro Alfieri, Costanzo Preve.

291-300

291
Mario Vegetti, Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico. ISBN 978-88-7588-227-3, 2018, pp. 208, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [84]. In copertina: Frammento di cratere a calice a figure rosse [scena dell’Edipo Re di Sofocle] (330-320 a.C.) e Papiro de Oxirrinco [frammento degli Elementi di Euclide].

292
Salvatore A. Bravo, Il cacciatore globalizzato nel capitalismo assoluto. ISBN 978-88-7588-229-7, 2018, pp. 160, formato 130×200 mm., Euro 15 – Collana “Divergenze” [60]. In copertina: Hieronymus Bosch, Trittico del Giudizio di Vienna (1482), particolare del pannello centrale (Giudizio Universale).

 293
Antonio Vigilante, Dell’attraversamento. Tolstoj, Schweitzer, Tagore. ISBN 978-88-7588-223-5, 2018, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 13. In copertina: Rabinadranath Tagore, n. 56, inchiostro colorato su carta,1933. Collezione Rabindra Bhavana.

294
Mario Vegetti, Scritti sulla medicina ippocratica. ISBN 978-88-7588-225-9, 2018, pp. 416, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [86]. In copertina: Rilievo dal santuario di Anfiarao a Oropo, 400-350 a.C., Atene, Museo Archeologico Nazionale.

295
Giancarlo Chiariglione, Le forme informi della frontiera. Lo sguardo del cinema western sulla storia americana. ISBN 978-88-7588-221-1, 2018, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [1]. In copertina: Il giudice E. Cotton Winchell sulla cima del monte californiano a cui diede il suo nome nel 1888: incarnazione dell’autentico “uomo del Wild West”.

296
Silvia Fazzo, Alexander Arabus. Studi sulla tradizione araba dell’aristotelismo greco. Prefazione di Marwan Rashed. ISBN 978-88-7588-220-4, 2018, pp. 256, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [87]. In copertina: Frammenti dal commento perduto di Alessandro di Afrodisia al De Generatione et corruptione di Aristotele. Bibliothèque Nationale de France, Ms. Parisinus Arabus 5099, f° 130b.

297
Miguel Pereira, Diario (12-10-1944/24-11-1944). Nuova edizione riveduta e corretta. ISBN 978-88-7588-224-2, 2018, pp. 80, formato 140×210 mm., Euro 10. In copertina: Frontespizio autografo del Diario di Miguel Pereira.

 298
Francesco Verde, A cosa serve oggi fare storia della filosofia? Una modesta riflessione.
ISBN 978-88-7588-222-8, 2018, pp. 80, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [88]. In copertina: Ritratto d’uomo che sospende la lettura, attribuito a Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino, databile al 1529 e conservato presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna.

299
Alessandro Alfieri, Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino. ISBN 978-88-7588-218-1, 2018, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [2]. In copertina: Il volto di Django Freeman (Jamie Foxx) in una scena del film Django Unchained, 2012, scritto e diretto da Q. Tarantino.

300
Costanzo Preve, L’alba del Sessantotto. Una interpretazione filosofica. [Nuova edizione riveduta e corretta]. ISBN 978-88-7588-216-7, 2018, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 7 – Collana “Divergenze” [5]. In copertina: M.C. Escher, Ritratto di G.A. Escher, padre dell’artista. Litografia, 1935.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Copertine e schede editoriali (301-310) – Mario Vegetti, Fabio Acerbi, Jean Bricmont, Massimo Bontempelli, Marcello Cini, Marcella Continanza, Arianna Fermani, Marino Gentile, Giancarlo Paciello, Salvatore A. Bravo.

301-310

301
Mario Vegetti, Scritti sulla medicina galenica. ISBN 978-88-7588-215-0, 2018, pp. 464, formato 140×210 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [89]. In copertina: Galeno e Ippocrate. Affresco del XIII secolo. Anagni, Cripta del Duomo.

302
Fabio Acerbi, Concetto e uso dei modelli nella scienza greca antica. ISBN 978-88-7588-214-3, 2018, pp. 92, formato 140×210 mm. [liberamente scaricabile in PDF] – Collana “Il giogo” [90]. In copertina: Particolare di un manoscritto del X Secolo; pagina dell’opera di Aristarco di Samo Sulle dimensioni e distanze del Sole e della Luna.

303
Jean Bricmont, Contro la filosofia della meccanica quantistica. Traduzione dal francese di Fabio Acerbi. ISBN 978-88-7588-217-4, 2018, pp. 51, formato 140×210 mm. [liberamente scaricabile in PDF] – Collana “Il giogo” [91]. In copertina: Campo relazionale.

304
Massimo Bontempelli, Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea. ISBN 978-88-7588-212-9, 2018, pp. 58, formato 140×210 mm. [liberamente scaricabile in PDF] – Collana “Il giogo” [92]. In copertina: Pregiudizio.

305
Marcello Cini, C’è ancora bisogno della filosofia per capire il mondo? ISBN 978-88-7588-210-5, 2018, pp. 50, formato 140×210 mm. [liberamente scaricabile in PDF] – Collana “Il giogo” [93]. In copertina: Marcello Cini.

306
Marcella Continanza, La rosa di Goethe. Poesie. ISBN 978-88-7588-219-8, 2018, pp. 80, formato 130×200 mm., Euro 10. In copertina: Salvador Dalí, Rosa Meditativa, 1958.

307
Arianna Fermani, L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla paideia in Aristotele. ISBN 978-88-7588-206-8, 2018, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 7 – Collana “Il giogo” [94]. In copertina: La coppa (kúlix) del ceramografo Duride (inizi del V a.C.).

308
Marino Gentile, Umanesimo e tecnica. Tutto ritorna all’uomo. Introduzione di Mario Quaranta. ISBN 978-88-7588-208-2, 2018, pp. 208, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [85]. In copertina: Auguste Rodin, La Mano di Dio, 1896. Musée Rodin, Parigi.

309
Giancarlo Paciello, Elogio sì, ma di quale democrazia? La rivolta o forse la rivincita del demos. ISBN 978-88-7588-178-8, 2018, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Divergenze” [61]. In copertina: Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon Governo nella città (1338-1339), “La gioia nella danza”, particolare. Palazzo Pubblico di Siena.

310
Salvatore A. Bravo, Le metafore nella filosofia. ISBN 978-88-7588-174-0, 2018, pp. 288, formato 140×210 mm., Euro 25 – Collana “Il giogo” [97]. In copertina: René Magritte, La firma in bianco, 1965.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Maurice Blanchot (1907-2003) – Tra il mondo liberal-capitalista, il nostro mondo, e il presente dell’esigenza comunista (presente senza presenza) non c’è che il tramite di un “dis-astro”, di un cambiamento d’astro. C’è domanda, eppure nessun dubbio. C’è domanda, ma nessun desiderio di risposta.

Maurice Blanchot04


«Lo iato teorico è assoluto. La frattura, di fatto, decisiva. Tra il mondo liberal-capitalista, il nostro mondo, e il presente dell’esigenza comunista (presente senza presenza) non c’è che il tramite di un “dis-astro”, di un cambiamento d’astro. […] C’è domanda, eppure nessun dubbio; c’è domanda, ma nessun desiderio di risposta; c’è domanda, e nulla che possa essere detto, ma solo da dire».

Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, il Saggiatore, Milano 2021.


Maurice Blanchot – La lettura fa del libro quel che il mare e il vento fanno con le opere forgiate dagli uomini. La lettura conferisce al libro l’esistenza brusca che la statua “sembra” dovere solo allo scalpello. Il libro ha bisogno del lettore per farsi statua.
Maurice Blanchot (1907-2003) – Una giusta risposta è sempre radicata nella domanda. Vive della domanda. La risposta autentica è sempre vita della domanda.
Maurice Blanchot (1907-2003) – La cultura lavora per il tutto. Il suo orizzonte è l’insieme. L’ideale della cultura è di riuscire a comporre un quadro d’insieme, delle ricostruzioni panoramiche che permettano di situare in una stessa prospettiva Schoenberg, Einstein, Picasso, Joyce – e possibilmente anche Marx.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Copertine e schede editoriali (071-080) – Massimo Bontempelli, Fabio Bentivoglio, Giancarlo Paciello, Luca Grecchi, Carmine Fiorillo, Gianfranco La Grassa, Giuseppe Bailone, Nello De Bellis, Enrico Berti, Alberto G. Biuso, Domenico Losurdo, Michele Marolla, Costanzo Preve, Giovanni Stelli, Mario Vegetti, Antonella Lumini.

071-080

071
Massimo Bontempelli, Tempo e Memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro.  ISBN 88-87296-69-3, 1999, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 10. In copertina: M. Chagall, Il giocoliere (1943). Chicago, The Art Institute.

072
Fabio Bentivoglio, Giustizia conoscenza e felicità. Idee, miti e attualità ne La Repubblica di Platone.
ISBN 88-87296-29-4, 1998, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Le passioni dell’anima” [1]. In copertina: Platone, Musei Vaticani.

073
Giancarlo Paciello, Quale processo di pace? Cinquant’anni di espulsioni e di espropriazioni di terre ai palestinesi.
ISBN 88-87296-65-0, 1999, pp. 144, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Divergenze” [18]. In copertina: Il ponte di Allenby, simbolo della guerra del 1967.

074
Luca Grecchi, Il necessario fondamento umanistico della metafisica.
ISBN 978-88-7588-093-4, 2005, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [6]. In copertina: Auguste Rodin, La cattedrale. 1908. Pietra, cm. 64×29,5×31,8. Meudon, Musée Rodin.

075
Fabio Bentivoglio, Aristotele: Metafisica. Scienza, natura e destino dell’uomo.
ISBN 88-88172-12-2, 2002, pp. 104, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Le passioni dell’anima” [2]. In copertina: Ritratto di Aristotele, da Aristoteles cum Leonardi Aretini commentario.

076
Costanzo Preve, Verità filosofica e critica sociale. Religione, filosofia, marxismoISBN 88-88172-22-X, 2004, pp. 112, formato 170×240 mm., Euro 12. In copertina: René Magritte, Les vacances de Hegel, olio su tela, Galerie Isy Brachot.

077
Massimo Bontempelli Carmine Fiorillo, Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush.  ISBN 88-87296-50-2, 2001, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 10. In copertina: F. Goya, Il sonno della ragione genera mostri, foglio 43 dei Capricci, 1799. Fondazione Antonio Mazzotta, Milano.

078
Gianfranco La Grassa, Considerazioni del dopoguerra. Insegnamenti dell’aggressione USA (e NATO) alla Jugoslavia.
ISBN 88-87296-60-X, 1999, pp. 80, formato 140×210 mm., Euro 8 – Collana “Divergenze” [29]. In copertina: P. Klee, Luogo colpito, 1922.

079
Giuseppe Bailone Nello De Bellis Enrico Berti Alberto Giovanni Biuso Luca Grecchi – Domenico Losurdo – Michele Marolla – Costanzo Preve – Giovanni Stelli – Mario Vegetti, Dialettica oggi.
“Koiné”. Anno XII – NN° 3-4 / Settembre – Dicembre 2005.
ISBN 978-88-7588-094-1, 2005, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [8]. In copertina: Antonio di Jacopo Benci, detto il Pollaiolo, La Dialettica. Roma, S. Pietro, Grotte Vaticane.

080
Antonella Lumini, Caino. Dramma del buio e della luce. Con uno scritto di Paolo Coccheri. ISBN 978-88-7588-087-3, 2005, pp. 96, formato 120×180 mm., Euro 10 – Collana di teatro, “Antigone” [10]. In copertina: Amalia Ciardi Duprè, La morte di Abele,1980.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Günter Anders (1902-1992) – «Lo sguardo dalla torre». I racconti di G. Anders palesano agli occhi della mente ciò che di solito rifiutiamo di problematizzare e di tematizzare, offuscando noi stessi la visione della verità.

Günter Anders 10

Non credo esista un filosofo che dall’esperienza del Novecento abbia tratto considerazioni così pregnanti come Günther Anders, in particolare in quell’immenso saggio in tre parti che è L’uomo è antiquato, un libro chiave, un libro poco letto e poco amato dagli stessi filosofi che, rifiutando o non riuscendo a guardare in faccia la realtà, continuano a gingillarsi con i problemi di una vita quotidiana che non è mai stata così avariata e di una morale che non è mai stata così fragile e provvisoria.

Goffredo Fofi


Salvatore Bravo

I racconti di G. Anders palesano agli occhi della mente ciò che di solito rifiutiamo
di problematizzare e di tematizzare, offuscando noi stessi la visione della verità

***

 

Cinismo
Il cinismo dei nostri giorni ha bisogno d’essere compreso, trasformato in concetto per poter ipotizzare la possibilità della prassi e dell’esodo dal pantano dall’anomia etica in cui siamo intrappolati. Solo lo sguardo filosofico della civetta-filosofia può penetrare il buio senza distogliere la vista dal vorticoso nichilismo nel quale siamo immersi. Il nichilismo lasco nelle parole, e distruttivo nelle azioni è la verità con cui ci si deve confrontare senza infingimenti. Quando il reale storico con la sua violenza opportunistica aggredisce ogni energia positiva, ogni pensare creativo – rappresentandolo come “pia illusione” per poter giustificare la pratica del cinismo – è facile lasciarsi conquistare dalla cattiva politica per disperazione. Il nichilismo inquina le acque della creatività ed insidia ogni resistenza con la sua rappresentazione del reale come unico possibile, come un destino che fatalmente tutto divora senza speranza alcuna. A volte, rileggere i racconti brevi di Günther Anders, quasi degli aforismi, può essere di ausilio per vedere con gli occhi della mente ciò che solitamente rifiutiamo di problematizzare e di tematizzare. La letteratura filosofica può essere un percorso di liberazione dal velo di Maya che offusca l’agire e la visione della verità. Essa è, con i suoi simboli-concetto, veicolo di attraversamento della notte oscura in cui siamo. Guardare il buio è già l’inizio di una nuova alba. Le contraddizioni sono la breccia verso un nuovo mondo: senza di esse non vi è prassi e non vi è vita degna di essere vissuta.

Lo sguardo dalla torre
Lo sguardo dalla torre è un breve testo scritto da Günther Anders nel 1932. Lo sguardo che cade dall’alto è il segno di una distanza che modifica il reale storico in sguardo psicotico, in fuga dalla realtà, per rifugiarsi in una distanza che non vuole vivere e pensare la tragedia con le sue contraddizioni. La distanza rende la verità un gioco, una finzione a cui si può assistere senza esserne coinvolti: pertanto è respinta la responsabilità etica e la sofferenza che comporta. La distanza diviene il rifugio da cui ci si protegge nell’illusione che ciò che accade non ci coinvolge e non ci chiama in causa. La torre descritta da Günther Anders è metafora dell’uso delle tecnologie che allontanano dall’impegno storico, esse sono il mezzo con cui il potere neutralizza la partecipazione. Lo sguardo della tecnologia si installa in noi ed educa alla distanza, all’anestesia del concetto e del sentimento. La sostituzione della realtà diretta con l’immagine di essa forma ad un comportamento “psicotico”: ci si rifugia in una torre interiore che non si lascia toccare da nulla. Si assiste, dunque, passivamente all’accadere storico. Anzi, l’inquietudine della realtà e l’incapacità acquisita ad orientarsi nelle tragedie storiche rafforzano l’eternizzarsi del gioco, del virtuale sul reale, eternizzando il presente. Scendere dalla torre interiore diviene, in tal modo, il primo atto di emancipazione senza il quale nulla può iniziare:

 

«Quando la signora Glü dalla più alta torre panoramica[1] gettò lo sguardo verso il basso, dalla strada sottostante, simile a un minuscolo giocattolo ma riconoscibile inequivocabilmente per il colore del cappotto, sbucò suo figlio; e un secondo dopo, questo giocattolo venne travolto e distrutto da un autocarro rassomigliante anch’esso a un giocattolo – comunque la faccenda si sbrigò a malapena nell’arco di un istante di irreale brevità, e il tutto si svolse solamente fra giocattoli. “Io non vado giù!”, urlò a quel punto la signora Glü, rifiutandosi di scendere le scale, “io non abbandono la torre! Lì sotto potrei disperarmi!”».[1]

 

Lo sguardo all’insù
Lo sguardo all’insù, del 1957, ancora una volta descrive la distanza da un’altra prospettiva. In questo caso dal basso. Non più un singolo, ma un gruppo umano – abituato ad un quotidiano senza emozioni – assiste al suicidio di un loro simile senza far nulla per la sua salvezza. Lo spettacolo del tentativo di suicidio è vissuto come un evento che rompe il ritmo quotidiano: pertanto è occasione per liberarsi dalla noia. Gli spettatori non si pongono domande, non empatizzano. Continuano, mentre assistono all’insolita rappresentazione, a gestire i loro affari. L’impazienza e la curiosità li solleticano a restare, perché desiderosi di sapere-vedere se il suicida porterà a termine il suo proposito. La distanza cinica è la vera protagonista del racconto. Ripiegati su se stessi, “educati” all’atomistica delle solitudini, quegli uomini sono ormai incapaci di sentirsi parte di un tutto, sono monadi abituate a consumare le loro vite come fossero pratiche burocratiche da espletare. Il suicida ha su di sé lo sguardo degli altri. Per la prima volta è oggetto, si può dedurre, dell’attenzione dei suoi simili. Deve accontentarsi di una sguardo anonimo, perché vive in una realtà di cecità emotiva assoluta. Il suicida è la disperazione della normalità che cerca di essere riconosciuta in modo distorto e assurdo, perché solo un gesto estremo può provocare l’attenzione di coloro che vivono nell’indifferenza. La disperazione cade dall’alto e si muove dal basso, le disperazioni si incrociano, ma sono diverse: il suicida ha un livello di consapevolezza più alto, ma senza prospettiva. La curiosità – alla fine – è soddisfatta: il suicidio si realizza, e quindi il gruppo raccogliticcio ed occasionale si scioglie e ritorna «alla patologica normalità di ogni giorno»:

 

«”Coraggio, sbrigati!” gridava la folla verso l’alto, dove alcuni avveduti – stavano ancora indicando all’insù coi loro bastoni da passeggio – avevano individuato sul davanzale della più alta finestra della torre qualcosa di minuscolo, riconoscibile dai nuovi sopraggiunti solo dopo pochi istanti, qualcosa di nero, che non poteva essere nient’altro che un uomo arrampicatosi fin là per buttarsi nel vuoto “Coraggio, sbrigati!” gridavano, perché, come annunciava uno sprezzante brusio, era già da un’ora buona che quell’uomo stava perdendo tempo, e dopo quest’ora buona non era ancor riuscito a prendere la sua decisione – “Coraggio, sbrigati!” gridavano, e alcuni: “Salta, deciditi!” e altri: “Per quanto tempo ancora dovremo aspettare in piedi?” – e poco a poco le loro voci sfociarono in un generale mormorio collettivo, e poi in un generale gridare spazientito e indignato, come se egli, per il fatto di starsene lassù in alto, avesse assunto l’obbligo di fare ciò per cui loro erano appostati lì con le bocche aperte: vale a dire, o lasciarsi cadere come una pietra, oppure – cosa che avrebbero forse preferito vedere – esibirsi in un perfetto tuffo di testa attraverso il blu del cielo di mezzogiorno; e come se costoro, dal momento che era proprio per amor suo che erano rimasti lì in piedi, e per amor suo avevano abbandonato i loro affari, avessero diritto non soltanto a questo spettacolo, ma anche a che egli non continuasse a rimandarlo di un altro istante; e come se quel che si trovava lì sotto di lui non fosse la marea di tetti della città, ma il mare vero nel quale gettarsi e immergersi, in questa caldissima giornata d’agosto, per poter rimediare un invidiabile refrigerio. Ed era per lui, che in maniera così imperdonabile veniva meno ai propri doveri, che essi ora là sotto, altrimenti così tanto coscienziosi, stavano sottraendosi ai loro doveri – cosa che comunque continuavano a giudicare inconcepibile–; e se poi egli, mentre si raccoglieva per la sua ultima decisione impiegandoci così tanto tempo, potesse in qualche modo distinguere la folla che da laggiù, accalcata testa a testa, lo stava scrutando, e se avesse percepito il baccano dell’affollamento, se egli facesse in qualche modo riferimento a questo chiasso, sempre che l’avesse percepito, se egli intuisse che fra coloro i quali avevano perso la pazienza, perché la lunga attesa cominciava a essere un peso per tutti e perciò iniziarono tutti insieme a gridare in coro, se intuisse che fra questi vi fossero anche conoscenti o suoi amici, non ci è dato saperlo con certezza. È certo invece che il loro numero cresceva di minuto in minuto. E che a nessuno, fra le persone bloccate tra la folla in attesa già da un’ora, parve saltar in mente di abbandonare lo spettacolo prima dell’atto conclusivo, o addirittura tentar di defilarsi dalla folla per dare seguito ai propri affari. In ogni caso rimasero tutti così immobili, come se quel giorno fosse stato un giorno di festa in cui a nessuno sarebbe potuto sfuggire qualcosa, e con lo sguardo fisso verso l’alto; ed è verosimile che costoro sperassero al tempo stesso non soltanto ch’egli finalmente saltasse giù, ma anche che non saltasse proprio adesso, no, forse che addirittura non saltasse mai, perché dopo il salto sarebbe tutto tornato come un tempo – una situazione estremamente sgradevole e mortalmente noiosa che, già adesso probabilmente, nessuno vedeva di buon occhio, tanto quanto il fatto che l’uomo non fosse ancora saltato giù. Solo dopo, quando l’attesa fu interrotta dal suo lancio nel vuoto, e senza nessun preavviso per altro, cosicché molti di loro mancarono scandalosamente il momento cruciale; solo dopo che egli, rotolando in aria più volte su se stesso come un sacco o una pietra, si era lanciato sfiorando il muro della torre, per poi schiantarsi a terra con un tonfo, laggiù dove egli (sicuramente il più irriconoscibile) si era ferito mortalmente assieme a tre dei curiosi che la folla aveva spinto direttamente ai piedi della torre; solo dopo essersi rassicurati, perché «era proprio ora», solo in seguito iniziarono tutti a spingersi lentamente l’un contro l’altro, molti col viso indispettito, e solo in seguito iniziarono a confessarsi che gli affari, tuttavia, sarebbero continuati, e che forse erano addirittura continuati nel frattempo».[2]

 

Il fuori che è andato perduto
Dove fuggire in un mondo reso omogeneo dalla tecnocrazia, dalla violenza dell’efficientismo orbo di ogni ideale e senso?
In Il fuori che è andato perduto, del 1958, Günther Anders descrive il pianeta ormai globalizzato e sussunto al pensiero-governo unico, in cui le nazioni sono scomparse perché il potere è globale. Il pianeta è una grande prigione senza speranza e senza politica, non vi sono modelli sociali alternativi, non vi è la dialettica politica, ma regna solo la violenza del pensiero unico. Il racconto sembra parlarci dell’attualità e del futuro prossimo possibile, in cui l’imperio della lingua unica, l’inglese, si associa al modello economico unico, il liberismo, che penetrano ogni spazio geografico e mentale per restituirci la trasformazione del globo in un’immensa gabbia d’acciaio senza uscita e prospettiva:

 

«Quando nell’anno 2058, mezzo secolo dopo la fondazione dello Stato mondiale, un alunno lesse nella ‹Storia del 20° secolo› la frase: “Nei momenti in cui qua e là il peso delle dittature diveniva insopportabile, c’erano sempre folle di fuggiaschi”, chiese – perché per lui che il mondo fosse uno ed ermeticamente chiuso era assolutamente scontato: “Folle di fuggiaschi? Ma che significa? E dove mai poterono scappare? C’era davvero un fuori?” – Ed esclamò, colmo di disprezzo, come se per lui queste domande fossero già state risolte, e come se la condizione misera in cui era nato potesse essere un motivo d’orgoglio o addirittura un merito personale: “Guarda un po’, un ‹peso› le avevano definite quelli!” – Dal che si deve imparare che dovremmo riflettere tre volte prima di fondare uno Stato mondiale. Perché laddove ve ne è soltanto uno, allora non rimane più nessuno spazio al di fuori. Quindi nemmeno alcun rifugio possibile».[3]

 

Günther Anders tratteggia con la sua scrittura pungente e priva di “ogni morbidezza” i pericoli del tempo presente, in lui lo sguardo filosofico diviene “senso storico” e capacità di inseguire le dinamiche storiche nel loro sviluppo futuro. Günther Anders ci avverte dei pericoli a cui andiamo incontro, descrive il tempo presente con la lucidità e l’onestà tipica di un inattuale come lui, che – per comprendere – si è reso disorganico ad ogni potere.
La resistenza è sempre possibile ed è sempre in fusione combinata con la concettualizzazione del reale storico. Ma resistere non basta, è necessario partecipare alla creazione di una nuova visione del mondo, è necessario sottrarsi all’accettazione passiva degli automatismi indotti in ogni sfera e ri-forgiare l’umanità di ogni atto umano, consapevole e/o spontaneo, al fine di poter contribuire allo sviluppo un nuovo umanesimo comunitario.

 

Salvatore Bravo

***

[1] Günther Anders, Lo sguardo dalla torre: Favole, con le illustrazioni di A. Paul Weber, Mimesis, Milano 2011, pp. 8.

[2] Ibidem, pp. 106 107.

[3] Ibidem, pp. 57-58.


Dalla Prefazione

di Goffredo Fofi

Non credo esista un filosofo che dall’esperienza del Novecento abbia tratto considerazioni così pregnanti come Günther Anders, in particolare in quell’immenso saggio in tre parti che è L’uomo è antiquato, un libro chiave, un libro poco letto e poco amato dagli stessi filosofi che, rifiutando o non riuscendo a guardare in faccia la realtà, continuano a gingillarsi con i problemi di una vita quotidiana che non è mai stata così avariata e di una morale che non è mai stata così fragile e provvisoria. Che non sentono affatto il peso di quella «vergogna prometeica» che pure è avvertita più o meno coscientemente anche da persone comuni e senza studio: la nostra dissociazione dalle cose che noi e quelli come noi hanno prodotto, la perdita di senso della nostra esistenza divisa tra le immense potenzialità della tecnica (dei suoi prodotti continuamente rinnovati, e tutti in definitiva destinati alla distruzione, il cui solo scopo è quello di venir distrutti) e la nostra possibilità di intenderli, l’incapacità di ciascuno di elaborare una morale del loro uso, la nostra sottomissione ai nostri prodotti, l’acquiescenza ai messaggi mediatici che ce li impongono e che, imponendoceli, impongono altresì l’adesione al sistema che ce li offre.
L’uomo stesso, dice Anders, sta scomparendo, grazie all’oscura azione della tecnica e della genetica, e cambia di sensibilità e di conformazione, secondario alle cose e infinitamente più deteriorabile delle cose a cui ha dato forma e presenza, cui ha permesso il diritto a un’esistenza che ci oltrepassa. L’uomo è diventato antiquato, non può che contare sempre di meno rispetto al concreto inganno in cui si è involto, e se ci saranno ancora uomini, a costoro – come già ci accade così spesso di constatare –, delle qualità che hanno caratterizzato nei secoli l’umano resterà ben poco: mutanti e mutati, astorici per la mutazione stessa della storia.
Tra poco, se sopravviveremo – perché è di noi medesimi che parliamo –, e già ora per notevole parte, saremo irriconoscibili a noi stessi.
Abbiamo conosciuto per primo l’Anders del «pilota di Hiroshima», del rischio atomico, del pacifismo radicale, grazie, in Italia, all’opera di traduttore e diffusore di Renato Solmi presso le edizioni Einaudi. Anders venne a Torino nei primissimi anni sessanta e ricordo, al Centro Gobetti, un incontro non felice con il gruppo dei Quaderni Rossi, ancora presi di rivoluzione operaia e di «marxismo critico» e troppo chiusi sull’immediato dei «rapporti di proprietà» per accettare una visione del presente e del futuro più ampia e, per dirla tutta, post-socialista… Anche coloro che, vicini all’area nonviolenta dei movimenti di quegli anni di «prima del ‘68», non mi pare capissero fino in fondo la novità e l’attualità del discorso di Anders, poiché tutti, dico tutti, eravamo imbevuti di quell’ideologia del progresso che si era imposta al senso comune negli anni della ricostruzione, e da quell’illusione di rivoluzione che, in vario modo, attraversava allora il pianeta – una guerra perduta. Il contingente ci velava il soggiacente, il mutamento irreversibile che pure, a saper guardare, era più che evidente.
Ritrovammo Anders molti anni dopo, nel pieno di quegli anni ottanta che volevano sancire la «fine della storia» e che ormai rendevano evidente la sua attualità e la centralità del suo pensiero, capace di spingersi più oltre di qualsiasi altro e vedere quel che ci si era ostinati e ancora ci si ostinava a non voler vedere. Fu sulle colonne di “Linea d’ombra”, dove la firma di Anders comparve più e più volte grazie alla nostra affettuosa insistenza sullo stesso Anders, per il tramite di un’amica che lo visitava spesso a Vienna comunicandogli la nostra ammirazione e il nostro affetto, Ea Mori.
Ora Anders veniva infine conosciuto e studiato anche nel nostro paese. E veniva infine nuovamente tradotto permettendoci di scoprire le molte facce della sua attività e, tra l’altro, la durezza della sua critica al generico pacifismo e alle superflue marce domenicali dei nonviolenti, da lui definite happening. Il suo sarcasmo ci colpì e ci convinse, con la proposta che ne stava al fondo, dell’indispensabilità di un’azione ben più dura nei confronti di un nemico senza volto che ossessivamente trasformava il mondo – e che oggi il movimento degli Occupy ha finalmente individuato, senza nessuna possibilità di errore, in Wall Street e in genere nella grande finanza. Di fronte all’enormità dell’aggressione, occorrevano – occorrono – risposte adeguate che, se in Anders non rifuggivano più dall’appello alla violenza, in altri avrebbero ben potuto essere quelle, mai praticate o fiacchissimamente dai movimenti pacifisti e nonviolenti, della disobbedienza civile. E questo non è un altro discorso!
Ma esiste un terzo Anders, a fianco dell’Anders filosofo e dell’Anders della guerra e della pace, ed è l’Anders letterato e scrittore, critico e interprete non soltanto nei modi tradizionali dell’esercizio della filosofia e della critica, ma aperto alle commistioni, poiché sempre di una stessa cosa egli deve – e si deve infine parlare –, anche per essere ascoltati oltre l’ignobile chiacchiericcio dei media e dei pensatori autorizzati.
In questo prezioso ed esaltante volume curato da Devis Colombo scopriamo infatti un altro aspetto dell’opera di Anders: un eccezionale talento del racconto icastico e sintetico, che egli definisce favola ma che è qualcosa di più e di diverso dalla favola. Intanto, perché si tratta di favole adulte per adulti – vicine all’aforisma e per più versi, non sappiamo dire quanto ci se ne debba sorprendere, vicine a una tradizione ugualmente adulta che è quella esercitata talvolta dal suo contemporaneo Bertolt Brecht (maestro comune Karl Kraus?).
Vicine formalmente, ma diverse nelle intenzioni e nella morale, poiché l’elemento dell’immediata comunicatività e della «lezione», sembra contare meno per Anders a tutto vantaggio della profondità, della complessità, della provocazione al lettore perché ci metta del suo, ci lavori sopra, perché si lasci interrogare dal racconto e lo interroghi, perché si interroghi. […]

 

Goffredo Fofi

Günther Anders, Lo sguardo dalla torre. Favole, con le illustrazioni di A. Paul Weber, a cura di Devis Colombo. Prefazione di Goffredo Fofi, Mimesis, Milano 2011.


Quarta di copertina

Lo sguardo dalla torre raccoglie le favole che Günther Anders scrisse tra il 1931 e il ’68. In un tempo in cui l’umanità fatica a mantenere il passo con lo sviluppo della tecnica, occorre rivedere radicalmente il nostro modo di pensare, abbandonando le tradizionali categorie del discorso. Così questa scelta narrativa del filosofo tedesco non è dovuta a una semplice ragione di stile, ma a un’esigenza concreta di resistenza all’impoverimento del linguaggio che l’incontrastata proliferazione degli apparati tecnici porta con sé. Per far fronte al senso d’inferiorità originato dalla sempre più autonoma funzionalità dei prodotti da lui stesso creati – ciò che Anders definisce “vergogna prometeica” – l’uomo tende ad assorbire le modalità univoche e immediate dei segnali delle macchine, perdendo quella capacità dialogica e riflessiva di comunicare che costituisce il fondamento dell’essere umano, e dalla quale dipende la possibilità di immaginare e di provare sentimenti. Le favole diventano allora uno strumento, tanto critico quanto salvifico, di riflessione, a partire da uno sguardo rinvigorito, fantasioso quanto provocatorio che soltanto la forma favolistica è in grado di offrire. Prefazione di Goffredo Fofi.


Opere di A. Paul Weber

Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta
Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.
Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.
Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.
Günter Anders (1902-1992) – Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia. ci siamo detronizzati e al nostro posto abbiamo collocato un solo altro soggetto della storia: la tecnica. Cambiare il mondo non basta. Nostro compito è anche interpretarlo.
Günter Anders (1902-1992) – Non sono disposto a rinunciare alla visione della smisuratezza che noi esseri umani siamo in grado di provocare e che abbiamo effettivamente provocato.
Günter Anders (1902-1992) – Quando la libertà si muta in delirio d’onnipotenza, in odio contro ogni limite

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Copertine e schede editoriali (061-070) – Maura Del Serra, Umberto Galimberti, Luca Grecchi, Costanzo Preve, Andrea Cavazzini, Maria G. Pierattini, Massimo Bontempelli, Giuseppe Bailone, Alberto G. Biuso, Federico Bordonaro, Michele Marolla, Diego Melegari, Franco Toscani.

061-070

061
Maura Del Serra, Scintilla d’Africa. Cinque scene, con uno scritto di Marco Beck. ISBN 88-88172-23-8, 2005, pp. 96, formato 120×180 mm., Euro 9 – Collana di teatro, “Antigone” [9]. In copertina: Georges de La Tour, La veglia della Maddalena (cm. 128×94), particolare. Parigi, Museo del Louvre.

062
Umberto Galimberti – Luca Grecchi, Filosofia e Biografia. ISBN 978-88-7588-095-8, 2005, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [3]. In copertina: Menade, marmo di Scopas (370-330 a. C.). Kunstsammlung, Dresda.

063
Costanzo Preve, Il bombardamento etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente.
ISBN 88-87296-77-4, 2000, pp. 224, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Divergenze” [31]. In copertina: P. Ricasso, Studio di composizione per Guernica. In alto, a destra: francobollo celebrativo dedicato a Primo Levi (1919-1987).

064
Andrea Cavazzini, Evento e concetto. Filosofia e Storia della Filosofia. ISBN 88-87296-64-2, 1998, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 7 – Collana “Divergenze” [26]. In copertina: J. Bosch, Visioni dell’aldilà (particolare).

065
Costanzo Preve, Destra e Sinistra. La natura inservibile di due categorie tradizionali. ISBN 88-87296-24-3, 1998, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 7 – Collana “Divergenze” [8]. In copertina: Disegno di M. Vulcanescu.

066
Maria Giovanna Pierattini, Vien via, si va in America, si parte. Un secolo di emigrazione pistoiese: storia e storie, itinerari e mestieri (con particolare attenzione all’area di Sambuca Pistoiese). ISBN 88-87296-49-9, 2002, pp. 144, formato 170×240 mm., Euro 15 – Collana “Studi e ricerche” [5]. In copertina: Compagnia di navigazione Grande Espresso. Italia–New York. Manifesto “Lloyd Sabaudo”, conservato nell’Archivio Comunale di Piteglio (PT).

067
Massimo Bontempelli, L’agonia della scuola italiana. ISBN 88-87296-79-0, 2000, pp. 144, formato 140×210 mm., Euro 10. In copertina: Graffiti scoperti nella valle di Wadi el-Hol, Egitto (vi si riconoscono simboli caratteristici degli alfabeti semitici primitivi).

068
Giuseppe Bailone Alberto Giovanni Biuso Federico Bordonaro Luca Grecchi Michele Marolla Diego Melegari Costanzo Preve Franco Toscani, Sumbállein. Riflessioni sugli scritti di Umberto Galimberti. “Koiné”. Anno XII – NN° 1-2 /Gennaio-Giugno 2005. ISBN 978-88-7588-091-0, 2005, pp. 208, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [2]. In copertina: Auguste Rodin, Il Pensatore, gesso patinato, h. cm. 192. Parigi, Musèe Rodin.

069
Costanzo Preve, Marxismo e Filosofia. Note, riflessioni e alcune novità. ISBN 88-88172-14-9, 2002, pp. 160, formato 170×240 mm., Euro 13 – Collana “Divergenze” [34].

070
Luca Grecchi, Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino. ISBN 978-88-7588-092-7, 2005, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [4]. In copertina: Auguste Rodin, La Pensée. 1886, marmo, h. cm. 74. Musée d’Orsay.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

1 47 48 49 50 51 253