Eugène Minkowski (1885-1972) – La vita consiste in una ricreazione continua di una prospettiva di vita, tracciandola e costruendola con le nostre mani.

Minkowski Eugène 04

La vita non consiste forse in una ricreazione continua e inevitabile di una prospettiva di vita? […] la vita è una strada da percorrere, una strada che non ha nulla di metaforico in sé. Si tratta al contrario dell’unica strada che noi dobbiamo percorrere necessariamente, tracciandola e costruendola con le nostre mani. Non ce ne sono altre. […] Per questo parliamo abitualmente delle svolte che incontriamo sulla nostra strada, benché questa strada si prolunghi dritta davanti a noi, o usiamo talvolta l’espressione “prendere una buona o una cattiva strada”, benché la strada, una volta imboccata, possa essere soltanto quella buona. Allo stesso modo, “allontanarsi dalla retta via” significa discostarsi, più o meno a lungo, dalla nostra strada, per farvi ritorno in seguito […]. Un’opera personale matura lentamente, si fa strada in me, come se risalisse in superficie, assume progressivamente una forma concreta, ed infine si stacca da me, diventando di dominio pubblico. […] Lo sguardo rivolto all’avvenire, mi metto già a pensare all’opera seguente. E sono consapevole di lasciarmi così alle spalle, continuando sempre ad avanzare, alcune tracce del mio passaggio quaggiù. […]. L’opera, tuttavia, non la cogliamo in tutta la sua pienezza quando, compiuta, la esaminiamo semplicemente dal di fuori, ma quando riusciamo invece a penetrare nella durata vissuta, seguendone la lenta maturazione, fino al momento in cui essa si distacca da noi.

Eugène Minkowski, Vers une cosmologie. Fragments philosophiques, Aubier-Montaigne, Paris, 1936, trad. it. di D. Tarizzo, Verso una cosmologia. Frammenti filosofici, Einaudi, Torino, 2005, pp. 194-203.


Eugène Minkowski – Il tempo vissuto – L’azione etica apre l’avvenire davanti a noi perché resiste al divenire: è la realizzazione di quanto vi è di più elevato in noi
Eugène Minkowski (1885-1972)  – La morte, mettendo fine alla vita, la inquadra interamente, in tutto il suo percorso. È la morte che trasforma il succedersi o la trama degli avvenimenti della vita in “una” vita. Non è nel nascere ma è col morire che si diventa un’unità, “un uomo”.
Eugène Minkowski (1885-1972) – La ricchezza dell’avvenire che libera dalla morsa dell’attesa
Eugène Minkowski (1885-1972) – È lo slancio vitale che dà un senso alla vita e costituisce quanto vi è in essa di più essenziale. Questo slancio sempre vivo crea l’avvenire e non può essere racchiuso in una sezione trasversale della coscienza, e si tende, come un arco, oltre tutte le sezioni di questo genere.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Franco Toscani – L’ «immenso oceano dei pensieri» e la vita buona

Parmenide-Platone-Franco Toscani
Franco Toscani

L’ «immenso oceano dei pensieri» e la vita buona

Che cos’è la filosofia se non l’amore tenace e ostinato per il “vero come intero” e per la vita buona?
La ratio strumentale-calcolante oggi dominante considera però la filosofia un sapere inutile e tende sistematicamente a sostituirla con la mera “metodologia della ragione” e col sapere frammentario delle varie scienze umano-sociali o socio-psico-pedagogiche. Non c’è spazio per la genuina tensione veritativa della filosofia, perché questo mondo rovesciato e a testa in giù non ne ha bisogno, anzi è infastidito da essa.
Attraverso un lavoro lungo e faticoso, un’indagine libera e aperta, la filosofia è però ciò che consente di incamminarci – con un «immenso oceano di pensieri» (τοσοῦτον πέλαγος λόγων, come dice Platone nel Parmenide, 137 a)[1] – lungo i sentieri della verità, senza poterla possedere, ma avvertendone in noi la grandezza, il respiro, la nobiltà. In qualche modo, con tutti i nostri limiti e contraddizioni, possiamo sperimentare, vivere – non solo con le idee, ma anche con le azioni, i gesti, i sentimenti, gli affetti, i rapporti, le situazioni e gli eventi della vita quotidiana – un po’ del profumo, dell’aria fresca della verità.
Averne almeno il sentore, sentirla vicina e intima, amarla, custodirla, nella misura assegnata ai mortali.


[1] Platone, Parmenide, 137 a, a cura di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 2004, pp. 240-241. La traduzione di quest’espressione platonica proposta da Ferrari è per la verità la seguente, altrettanto valida: “un così vasto mare di ragionamenti”. Noi le preferiamo però quella proposta da Enzo Paci nel suo saggio Il significato del ‘Parmenide’ nella filosofia di Platone, Principato, Messina-Milano 1938, p.110; libro ristampato (con una Introduzione di C. Sini) presso Bompiani, Milano 1988 (cfr. p. 79). Il saggio paciano del 1938 tentò davvero l’avventura di attraversare l’ “immenso oceano di pensieri” non soltanto del Parmenide, ma dell’intera opera platonica.


Franco Toscani – Il rapporto etica-politica e il tema dell’amicizia in Aristotele.
Franco Toscani – L’antropologia culturale e il sogno dell’universalità umana concreta
Franco Toscani – Il filosofo e le Muse. La filosofia come “musica altissima” e “sinfonia dell’anima”-
Franco Toscani – Karl Marx e il significato della “Comune” di Parigi. La “Comune” sarà celebrata per sempre come la gloriosa messaggera di una nuova società. La sua testimonianza, il suo patrimonio e la sua eredità risiedono essenzialmente nella «sovrabbondanza di umanità dalla parte degli oppressi».
Franco Toscani – Umanità e società nel tempo della pandemia.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Karl Jaspers (1883-1969) – La decisione è qualcosa che alla volontà si offre come dono. Nella decisione colgo la libertà, perché io stesso sono la libertà di questa scelta.

Karl Jaspers - Umberto Galimberti

La decisione è qualcosa che alla volontà si offre ancora come dono; qualcosa che io, volendo, posso realizzare, non nel senso che la posso volere, ma nel senso che da essa prende le mosse ogni mio volere. Nella decisione, nel fatto cioè che io posso volere, colgo la libertà […]. Nella decisione sperimento quella libertà in cui non decido solamente su qualcosa, ma anche su me stesso, e in cui non è più possibile una separazione tra la scelta e l’io, perché io stesso sono la libertà di questa scelta.

 

Karl Jaspers, Philosophie. II – Existenzerhellung, Springer, Berlin, 1956, trad. it. di U. Galimberti, Filosofia 2. Chiarificazione dell’esistenza, Mursia, Milano, 1978, pp. 167-168.


Karl Jaspers (1883-1969) – Solo attraverso la verità diveniamo liberi, la verità è la dignità dell’uomo.
Karl Jaspers (1883-1969) – Filosofare presuppone una visione del mondo ed è espressione specifica di un se-stesso originariamente libero. Filosofano veramente solo quegli uomini che sono originariamente se stessi e che nel filosofare si incontrano e si legano tra loro.
Karl Jaspers (1883-1969) – La verità cresce in un processo che include l’uomo nella sua totalità e risulta dall’intreccio di pensiero e vita, compiendo l’uomo una metamorfosi di se stesso.
Karl Jaspers (1883-1969) – La discussione con i teologi si arresta sempre nei punti più decisivi. Un vero dialogo richiede che si ascolti e si risponda realmente, non tollera che si taccia o si eviti la questione.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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William Shakespeare (1564-1616) – Beati son coloro i cui impulsi e il cui giudizio non assomigliano per nulla a una zampogna su cui le dita della Fortuna possan suonare il tasto che le aggrada.

William Shakespeare_ Amleto 01

«Dove vi sono maggiormente ragione (nous) e intelletto (logos), vi è minimamente fortuna (tyche) e dove vi è massimamente fortuna vi è minimamente ragione».

Aristotele, Etica Eudemia, II, 8,1207 a.

«Poiché tu fosti simile a uno che pur soffrendo ogni cosa, non soffre nulla, ed ha bene accetti, con la stessa riconoscenza, insieme le offese e i premi della sorte. E beati son davvero coloro i cui impulsi e il cui giudizio si offron così mescolati, ch’essi non assomigliano per nulla a una zampogna su cui le dita della Fortuna possan suonare il tasto che le aggrada».

William Shakespeare, Amleto, atto III, scena II, tr. it. in Opere complete,vol. III, p. 744.


William Shakespeare (1564-1616) – «Cesare non potrebbe fare il lupo se non fossero pecore, e nient’altro che pecore, i romani».
William Shakespeare (1564-1616) – La sua lezione di regia: «Tenetevi misurati, dovete ottenere e conservare quella sobrietà che consente morbidezza di toni. Accordate l’azione alla parola, la parola al gesto: lo strafare è contrario alla vocazione dell’arte teatrale. Il gigioneggiare quanto il recitarsi addosso non può che disgustare l’intenditore».
William Shakespeare (1564-1616) – Nell’uomo che non ha la musica in se stesso, i moti del suo cuore sono spenti come la notte.
William Shakespeare (1564-1616) – Date parole al dolore. La sofferenza interiore che non parla, sussurra al cuore troppo gonfio fino a quando si spezza.
William Shakespeare (1564-1616) – Se la musica è l’alimento dell’amore, seguitate a suonare, datemene senza risparmio. Oh, spirito d’amore, quanto sei vivo e fresco! Così multiforme si presenta amore, da esser, lui solo, il trionfo della fantasia.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – La scuola adattiva “amica” del mercato e “straniera” alla comunità. Cultura significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento  della coscienza umana che dura tutta la vita.

Scuola adattiva
Salvatore Bravo

La scuola adattiva “amica” del mercato e “straniera” alla comunità

In assenza di una chiara definizione di natura umana, il presente è inemendabile.

La scuola come luogo di comunità e di pensiero.

Il sistema attuale – “inclusivo” – insegna solo ad adattarsi.

Cultura significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico,
ma nel senso di accrescimento  della coscienza umana che dura tutta la vita.

Il nichilismo oggi è la realtà ontologica ed assiologica della moderna società capitalistica.

Alla superficialità della scuola adattiva con il feticismo della quantità,
bisogna opporre l’intelligenza  della scuola di qualità.

La scuola adattiva “amica” del mercato e “straniera” alla comunità, è il sintomo macroscopico dell’alienazione divenuta la normalità del sistema mercato. Costanzo Preve, professore liceale e studioso, ha conosciuto l’istituzione scolastica dall’interno e l’ha analizzata applicando la categoria della totalità. Il relativismo è espressione dei bisogni del mercato, in assenza di definizione di natura umana, il presente è inemendabile, poiché non vi sono parametri metafisici ed assiologici per valutare l’attualità. Il valore di scambio e il plusvalore sono realtà della struttura liberista, la quale non è il substrato dell’essere umano, ma è struttura ed in quanto tale ha la sua genealogia nella storia. Essa può essere trascesa, perché non è la manifestazione della sostanza dell’essere umano, ma la sua negazione, in quanto ha sviluppato in modo esponenziale la specializzazione della persona, fino ad annichilire le potenzialità soggettive e comunitarie, in nome dell’integralismo del mercato. Preve seguendo la lezione di Marx dimostra che la struttura non sta “sotto”, ma “dietro”, per cui l’emancipazione ha il suo inevitabile cominciamento con lo smascheramento ideologico:

«Ci avviciniamo alla fine della seconda parte di questo breve scritto, e possiamo ricapitolare, per comodità del lettore, i punti essenziali fino ad ora trattati. Essi sono a nostro avviso tre: in primo luogo, è stato accertato che la cosiddetta “struttura” non consiste, secondo Marx, in qualcosa che sta “sotto”, ma in qualcosa che sta “dietro”, e che pertanto l’attività soggettiva degli uomini non è qualcosa che “deriva” da una base sottostante, ma è qualcosa che deve svelare, smascherare qualcosa che “nasconde”, e che richiede pertanto l’assunzione di un atteggiamento globalmente libero nei confronti della “struttura” stessa […]».[1]

La scuola, luogo di comunità e di pensiero, dovrebbe insegnare che il mercato e le conseguenti forme di alienazione non sono fenomeni fatali o naturali, a cui ci si deve adattare seguendo il corso inevitabile ed ingovernabile degli eventi. Dovrebbe bensì insegnare che la scuola e l’intera comunità devono porsi in tensione critica e dialettica verso le forme di alienazione che si materializzano in questo contesto. Senza tale finalità non vi è comunità, ma solo sudditanza generalizzata ad un sistema che non lascia scampo. A scuola si dovrebbe imparare ad uscire dalla gabbia d’acciaio, mentre il sistema attuale – “inclusivo” – insegna ad adattarsi, a convergere su obiettivi stabiliti da poteri altri, che in forme religiose negano ogni umanesimo in nome del plusvalore. La formazione finalizzata all’uso di tecnologie ed alle competenze linguistico-mercantali orientate verso il business, non solo favorisce l’incorporazione, ma è parte di un disegno generale della società: la si vuole trasformare in porzione integrante del nuovo capitalismo assoluto. Il pedagogismo non offre mezzi, contenuti e valori atti a decostruire il sistema capitale e le sue logiche nascoste, ma incentiva – con l’uso irriflesso delle tecnologie – l’accumulo di surplus dell’informazione. Destrutturare la natura umana spingerla nel caos perenne dell’innovazione senza la mediazione del logos è il mezzo più insidioso con cui il nuovo capitalismo opera il suo trionfo e rende stabile il suo impero. Costanzo Preve era ben consapevole della metamorfosi del capitalismo e della necessità di pensare nuove categorie di pensiero per poterlo decriptare. Al pedagogismo senza fondamento veritativo e senza logos ha opposto la sua tenace resistenza metafisica.

La cultura contro il pedagogismo relativista
La prassi hegeliano-marxiana svolge la funzione di portare la speranza, del non ancora e del possibile, dove vige il regno della fine della storia. Ogni pedagogia profonda si nutre e si consolida solo se il fondamento veritativo diviene prassi per riconfigurare una vita profondamente umana. Pedagogia e filosofia formano un sinolo imprescindibile nella teoretica di Costanzo Preve, espresso negli scritti come nel vissuto, in quanto ogni grande filosofia si esprime pubblicamente mediante la coerenza tra vita e pensiero. Vi è pedagogia, formazione, dove si accresce la coscienza umana, altrimenti vi è solo barbarie travestita da modernismo. La definizione di cultura di Costanzo Preve è esplicativa del suo progetto filosofico, pedagogico e politico, i tre termini sono da considerare in senso sincretico:

«Il termine di cultura, nel significato che intendo dargli, non significa solo “alta cultura”, la cultura scritta e visiva dei grandi scrittori e dei grandi pittori, e neppure cultura in senso antropologico come insieme dell’attività lavorativa, linguistica e simbolica dell’uomo, ma significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento (e di autoaccrescimento) della coscienza umana che dura tutta la vita. La cultura è dunque un termine che connota sia l’individuo, sia i gruppi ristretti, sia l’intera società». [2]

 

Scuola “senza classi”
Il capitalismo, nella sua attuale fase definita da Costanzo Preve «speculativa» (da speculum, specchio), non può che guardarsi e specchiarsi senza riconoscersi. L’accumulo crematistico è la legge a cui il capitale è sottoposto: il suo destino in questa fase è pienamente realizzato. Ogni resistenza borghese è trascesa in nome del plusvalore. L’attuale fase non si può definire borghese, in quanto la borghesia è la classe della coscienza infelice, che sente la tragedia della scissione tra particolare ed universale. La borghesia è classe dialettica, al cui interno sono stati educati intellettuali che hanno progettato il superamento delle sue contraddizioni. L’attuale fase invece oppone il capitale finanziario alla borghesia. Il capitalismo finanziario si oppone ad ogni limite, e la borghesia è stata classe della disciplina, del risparmio, del decoro fino all’ipocrisia. La borghesia di tradizione è dunque un limite all’espansione del capitalismo finanziario. L’istituzione scolastica e le accademie sono oggi espressione di una nuova visione del mondo: “la società senza classi”, ovvero il regno dell’uniformità. Le differenze sono solo “apparenze colorate”, senza concetto, funzionali all’individualismo postborghese. Il tramonto della borghesia con i suoi valori è sostituita da una “società senza classi”. Quest’ultima è la società più diseguale che mai sia apparsa nella storia, ma per realizzarsi ha la necessità di diseducare ogni individuo dai concetti e di limite e di etica. La sopravvivenza del capitalismo speculativo dipende dal consumo illimitato. Pertanto le regole, la disciplina del lavoro e dei contenuti vengono attaccati frontalmente per formare l’individuo sregolato e destrutturato. Si tratta di mettere in pratica una rivoluzione antropologica: la persona deve diventare un cliente o un consumatore perpetuo. Affinché questo possa avvenire la scuola e le famiglie devono liberarsi dal senso del limite per diventare luoghi liquidi, dove si impara la liturgia mondana del consumo:

«Una simile società deve prima di tutto distruggere la scuola come luogo di educazione e sostituirla con una scuola come semplice luogo di socializzazione subalterna e di formazione professionale. Se non si capisce questo fatto strutturale si continuerà nelle geremiadi impotenti sugli studenti che non studiano più, sulla mancanza di disciplina, sul bullismo giovanile, e su altre idiozie secondarie di questo tipo. In realtà, il pesce puzza dalla testa, e non dalla coda. E la testa è una oligarchia che non è più interessata alla trasmissione dei valori classici tardo-signorili e protoborghesi, ma è interessata unicamente alla produzione di massa per consumatori decerebrati. La guardia plebea cui è stata delegata questa mostruosa trasformazione, manco a dirlo, è stata proprio la “sinistra scolastica”, un’Armata Brancaleone demenziale di sindacalisti semianalfabeti, pedagogisti pazzi, psicologi invasivi e virago della CGIL Scuola italiana». [3]

Si tratta di un progetto di subalternità a cui nessuna classe sociale sfugge. L’addestramento al consumo, con annessa sussunzione, riduce famiglie e scuole a centri di consumo, che clonano il mercato fino da incorporarlo in modo integrale. L’anomia si rende palese nell’iperattivismo, nella “cultura” del fare, delle attività pedagogiche plurali che costringono genitori e figli a diventare consumatori dell’offerta formativa. In tal modo non solo si ottiene una educazione all’attività poietica, alla produzione ed al consumo, ma si sostiene il mercato dell’educazione, mediante la perenne produzione di certificazioni delle competenze, di cui non si scorge il progetto, e dunque passivamente si subisce l’iperattività senza concetto:

«I centri di consumo prima implodono nell’anomia a causa della insensatezza, e poi esplodono in frammenti sulla base della fine della comunicazione sensata fra le tre generazioni (giovani, adulti ed anziani). In un’epoca di rapidissima trasformazione tecnologica gli anziani non hanno più competenze da trasferire ai giovani (computers, ecc.). Diventano inutili, ed il loro patetico brontolio non riesce a vincere il clima di disattenzione in cui vivono. Mamme trafelate passano la giornata ad accompagnare rampolli e rampolle a lezione di inglese, danza, flauto dolce, ecc., ma questo non fa cultura ma solo presenzialità ansiogena. Il deserto familiare è provvisoriamente coperto da tate e badanti messicane negli USA e moldave in Europa, ma questo non fa senso e prospettiva. La famiglia borghese, che a suo tempo Hegel correttamente ed intelligentemente metteva alla base della “eticità” viene liquidata dal capitalismo stesso, e non certo dai fumatori strafatti di canne e di paglie. Il sistema scolastico si trova di conseguenza nel centro di un tifone, e cioè nella crisi più grande dal tempo in cui ne è nata la versione moderna, fra il Settecento e l’Ottocento. Non si tratta solo di alcune stupidità assolutamente congiunturali ed alla moda oggi, come l’annientamento dell’educazione classica, l’odio provinciale e regressivo per la lingua francese in favore di un inglese da portieri d’albergo, l’indebolimento della stessa matematica in favore di una semplice alfabetizzazione informatica, ecc. Queste sono disgrazie come le invasioni delle cavallette, cui si può forse resistere. Più pericolosa e decisiva, a mio avviso (e parlo da competente sulla questione scolastica) è la scelta strategica dei quiz nel sistema di esami e controlli. Il sistema dei quiz, che a mio avviso merita solo di essere fatto saltare con una resistenza ad oltranza, è concepito per distruggere la lunga consuetudine al ragionamento logico ed ancor più al dialogo su cui si basa da più di due millenni la tradizione occidentale. Dialogo significa etimologicamente in greco dia-logos, il fatto cioè che la ragione passa attraverso due interlocutori almeno, ed in questo modo si incrementa e si modifica. La fine della scuola del dialogo è la fine della scuola così come l’abbiamo conosciuta, e questo al di là di tutti i discorsi secondari sull’asse umanistico e/o sull’asse scientifico, eccetera».[4]

 

Omologazione dello Stato-mercato
L’omologazione è resa evidente dall’imposizione dell’inglese. Non vi è scelta, la lingua del mercato è l’inglese, per cui “la scelta” è conseguente. Il dialogo è possibile se il “verbum” è consapevole della sua struttura significante. L’umanesimo è stato grande per il valore assegnato alla lingua, la quale non è un mezzo, ma è pensiero; con la lingua e con le parole si significa il mondo, si ordina il proprio “io” per aprirsi all’alterità nella chiarezza dei significati. L’umanesimo è stato filologia, in quanto perseguiva la razionalità delle parole. L’antiumanesimo attuale è tutto nella decadenza della lingua ridotta a mezzo per arpionare clienti, per inventare slogan con cui parlare alle pulsioni dei clienti consumatori. La lingua vissuta in astratto, sganciata dalla letteratura e dalla filosofia, diviene semplice attività linguistica priva di dialogo finalizzato alla ricerca dialettica della verità. Si destabilizza la lingua, per depotenziare la parola, poiché l’essere umano è la sua lingua, è intessuto di essa, per cui la lingua minima è coerente all’io minimo organico al mercato globale. La sottrazione delle parole contribuisce all’omologazione, diviene un mezzo potentissimo per condizionare e determinare comportamenti. Lingua minima e io minimo implicano l’ignoranza dell’identità culturale di appartenenza. Pertanto si prepara l’individuo a vivere in un mondo globale, ad avere identità fluide, a non appartenere a nessuna lingua, a nessuna storia: si è sotto la giurisdizione del mercato. In assenza di altri significati, la possibilità di creare alternative è neutralizzata. Il dispositivo linguistico del capitale opera per livellare la lingua all’interno della gabbia d’acciaio del capitale, che si riproduce in ogni individuo.

 

Da dove iniziare
La pedagogia della resistenza per poter avanzare necessita di un inizio all’altezza della situazione. In primis vi è bisogno di chiarezza filosofica nell’attuale contesto, in cui il caos del mercato indebolisce le coscienze e la radicalità del senso critico. Il pedagogismo dev’essere riportato alla sua verità, ovvero il relativismo del capitalismo assoluto. La cultura riporta alla chiarezza dei concetti, dove vige l’irrelevanza delle definizioni. Senza tale operazione non è possibile uscire dalle tenebre del pedagogismo:

«Il nichilismo oggi è la realtà (nel senso non hegeliano del termine) ontologica ed assiologica della moderna società capitalistica, che ha eroso prima i fondamenti naturali e poi i fondamenti sociali dello stesso legame sociale borghese e proletario che l’aveva geneticamente costruita. Il nichilismo è dunque oggi una situazione di partenza, non un possibile orizzonte di scacco e di fallimento. Il superamento del nichilismo non è per chi scrive una semplice scommessa nel senso di Pascal, ma è l’esito possibile della costruzione di una scienza filosofica della libertà e della verità». [5]

L’uscita dal pedagogismo e dalla sua gabbia d’acciaio non può che passare per il travaglio del negative. Bisogna attraversare il relativismo con le sue implicazioni per la prassi pedagogica che possa emancipare dal nichilismo crematistico.

 

L’ontologia dell’essere sociale
Il nichilismo è reazionario, in quanto non ha progetto comunitario, ma ambisce solo all’immediatezza dell’utile. La storia scompare dall’orizzonte progettuale per essere sostituita dalla quantificazione del presente. Il pedagogismo offre gli strumenti per l’affermazione della cultura acefala dell’immediato, non conosce senso del limite, in quanto gli manca la tensione filosofica con i fondamenti veritativi che orientano l’agire in modo consapevole e ne circoscrivono il raggio d’azione. Il pedagogismo diviene automatismo, meccanicismo didattico che introduce ed immette nell’attività di insegnamento l’innovazione fine a se stessa, vero riempitivo compensatorio del vuoto progettuale. L’ontologia dell’essere sociale, fondamento veritativo previano, fonda la possibilità di una pedagogia democratica e comunitaria, poichè l’agire didattico risponde ad un paradigma veritativo che ne determina, con i fini, i limiti entro cui disegnare la progettualità educativa e didattica.

L’ontologia dell’essere sociale permette di superare la scissione tra pensiero ed essere. La realtà diviene razionale se pensata concettualmente, per cui il pensiero razionalizza il reale. Senza tale operazione non vi può essere prassi, ma solo un irrazionale adattamento, perchè il soggetto subisce e non comprende il reale e dunque non può mutarlo. L’essere sociale riguarda la natura umana e si sostanzia di tre elementi fondamentali: l’ente naturale generico (Gattungswesen), che lo relaziona con il genere (Gattung) in base alla “conformità al genere” (Gattungsmässigkeit). L’essere umano è un ente generico che si definisce nella storia, ma non è plastico infinitamente, poiché assume forme storiche diverse all’interno del logos che calcola i limiti e le possibilità, del linguaggio e della socialità comunitaria. La natura può prendere forma nella relazione comunitaria, l’autocoscienza è momento imprescindibile per poter soggettivizzarsi:

«Il genere stesso, inoltre, non è pura vuota potenzialità riempibile all’infinito in modo relativistico (dynamis), ma è la realizzazione in atto di questa potenzialità (energheia) in quanto la realizzazione in atto di questa potenzialità, allude ad un contenuto, il contenuto antropologico dell’uomo come animale sociale, politico e comunitario (politikòn zoon), e dell’uomo come animale dotato di ragione, linguaggio e capacità di calcolo geometrico delle proporzioni applicato alle proporzioni sociali e comunitarie (zoon logon echon)».[6]

L’inferno economico in terra ha il volto rassicurante ed inclusivo del pedagogismo con la sua falsa concretezza. La pedagogia ad orientamento e fondamento veritativo è tacciata di astrazione. In realtà, “la campagna” contro i contenuti, le discipline e l’umanesimo in nome della concretezza e dei saperi volti al solo fare, sono profondamente astratti. Il concreto[7] ha la sua verità nell’etimologia della parola in cui vi è il sincretismo tra universale e particolare. Il comunitarismo in Costanzo Preve assolve a tale compito. Non a caso Preve distingue il comunitarismo dal collettivismo: il primo vive della tensione positiva tra individuale ed universale, il secondo nega l’individuale per l’universale. L’economicismo ed il pedagogismo sono forme astratte, poichè negano la relazione tra individuale ed universale lasciando che il soggetto si disperda nel pulviscolo dell’individualismo atomistico. Ogni prassi non può che avere il suo incipit dalla condizione storica in cui si è implicati. Alla superficialità della scuola adattiva con il feticismo della quantità, bisogna opporre l’intelligenza – “intus legere” (comprendere dentro) – della scuola di qualità, nella quale l’umanesimo affina strumenti formativi per poter vivere e capire il reale storico.

 

Salvatore Bravo

***

[1] Costanzo Preve – Gianfranco La Grassa, Oltre la gabbia d’acciaio. Saggio su capitalismo e Filosofia, Vangelista, Milano 1994, p. 184.

[2] Costanzo Preve, La crisi culturaledella terza età del capitalismo, Petite Plaisance, Pistoia 2010,  p. 4.

[3] Costanzo Preve, Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx, Petite Plaisance, Pistoia 2010, pp. 25-26.

[4] Ibidem, pp. 18-19.

[5] Massimo Bontempelli – Costanzo Preve, Nichilismo Verità Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo, Petite Plaisance , Pistoia 1997, p. 187.

[6] Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia 2013, pp. 21-22.

[7] Concreto, dal latino concretus (p. pass. di concrescĕre) .

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ermanno Bencivenga – Grazie a mia madre per avermi messo al mondo non in un attimo o in un’ora ma attraverso una lunga consuetudine di solidarietà e collaborazione, di accoglienza e fiducia.

Ermanno Bencivenga 01

«Ciò che ho perduto non è una figura (la Madre),
ma un essere,
e non solo essere, ma una qualità (un’anima):
non già l’indispensabile, bensì l’insostituibile».

Roland Barthes
(a proposito della morte della madre Henriette Binger),
Dove lei non è, Einaudi, Torino 2010.


 

È bello questo libro per almeno due motivi. Da un lato esso disegna l’immagine di una donna e madre straordinaria, in un discorso che ha sia l’aspetto di una ricostruzione ordita con sapienza, sia quello di un racconto fatto con immediatezza. Questo tono duplice dello stile dà fascino alla lettura di questa Lettera, che infatti solleva lo spirito e lo riempie di pensieri buoni e di ammirazione per la protagonista, in quanto exemplum di sapienza e bontà, e dunque di bene. Dall’altro, esso illustra con un esempio concreto la storia dell’Italia del dopoguerra e dei sacrifici straordinari fatti dagli italiani, anche attraverso le ben note migrazioni interne, e ci ricorda che la scuola italiana fino a pochi decenni or sono è stata un motore di promozione sociale e non un parcheggio degradante.

Inoltre, questo libro contiene molti tesori di saggezza: ne citerò soltanto due. Il primo è nella frase «la morte è quel che dà senso alla vita». E nel merito mi limito a rimandare a una serie di scritti pasoliniani, raccolti in ”Empirisco eretico”, dove questa frase viene chiarita nei saggi ”Osservazioni sul piano-sequenza”, ”Essere è naturale?” e ”I segni viventi e i poeti morti”. Il secondo tesoro è contenuto nella frase «la vita si vive nel futuro». Anche mi limitito a fare  riferimento al libro di Massimo Bontempelli ”Tempo e Memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro”. Entrambi questi tesori sono a mio avviso di una profondità inattingibile ai giovani, perché solo l’esperienza insegna veramente il loro significato.

Il libro contiene un riferimento alle ragioni del degrado della scuola italiana. Anche qui un testo di Massimo Bontempelli ci è di aiuto, ed è ”L’agonia della scuola italiana”.

Fausto Di Biase

 

«Sei una creatura dell’eterno presente» dice l’autore della madre mentre ne traccia l’itinerario esistenziale, con ammirato stupore per il suo equilibrio e la sua fermezza, e con gratitudine per la sua serena generosità: per averlo messo al mondo non in un attimo o in un’ora ma attraverso una lunga consuetudine di solidarietà e collaborazione, di accoglienza e fiducia. Scoprendo infine che a quel presente, all’invariabile presenza che la madre ha dentro di lui, manca ora un futuro, e che questa è la sorgente del suo strazio: di un dolore che abbatte ogni barriera e si manifesta come assoluta intimità.

 

Ermanno Bencivenga è distinguished professor di filosofia e scienze umane all’Università di California. Logico di fama, ha dato importanti contributi alla filosofia morale, alla filosofia del linguaggio e alla storia della filosofia. In Oltre la tolleranza, Manifesto per un mondo senza lavoro e Parole che contano ha elaborato un’utopia politica. Per il grande pubblico ha pubblicato recentemente La filosofia in ottantadue favole, La stupidità del male e L’arte della guerra per cavarsela nella vita. È autore del romanzo Il giorno in cui non tornarono i conti, delle raccolte di racconti I delitti della logica, Case e Amori, delle tragedie Abramo, Annibale e Alessandro e di sette raccolte di poesie, le ultime delle quali sono Le parole della notte (Di Felice 2015) e Amore per Milla (Di Felice 2019).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Esiodo (VIII-VII sec. a.c.) – Il dono è bello. L’uomo che dona spontaneamente – anche quello che fa un grande dono – gioisce del dono e si rallegra nell’animo suo.

Esiodo e il dono

«Invita chi ti vuol bene alla tua mensa … Non procacciarti cattivi guadagni; i cattivi guadagni sono simini alle sventure. Ama chi t’ama e frequenta chi ti frequenta. E dona a chi dona, e non dare a chi non dà. Uno è solito dare a chi dona, ma nessuno dà a chi non dona.
Il dono  è bello, la rapina è cattiva, foriera di morte; difatti l’uomo che dona spontaneamente – anche quello che fa un grande dono –, gioisce del dono e si rallegra nell’animo suo; invece chi ubbidendo alla impudenza si prende qualcosa, per quanto sia poco, a costui si raggela il cuore!».

Esiodo, Opere e giorni, vv. 342, 352-360, in Esiodo, Opere, a cura di Aristide Colonna, UTET, Torino 1983, pp. 269-271

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Aristotele (384-322 a.C.) – L’individuo moralmente retto è in accordo con se stesso, impegnandosi per il bene. La sua mente è ricca di pensieri e piacevoli sono i ricordi delle azioni compiute e buone sono le speranze di ciò che accadrà nel futuro.

Aristotele non si pente

È amico colui che vuole e compie il bene altrui, che vuole che l’amico ci sia ed esista senza altri scopi.

L’individuo moralmente retto è in accordo con se stesso, impegnandosi per il bene.

Vuole vivere e conservare sia se stesso sia, soprattutto, la parte di sé con cui pensa.

Ciascuno è, o è soprattutto, l’intelletto. E la sua mente è ricca di pensieri.

Per l’individuo moralmente retto, è un bene esistere.

Sono piacevoli i ricordi delle azioni compiute e sono buone le speranze di ciò che accadrà nel futuro.

in effetti è uno che, per così dire, non si pente mai

Nessuno sceglie di avere tutto a condizione di diventare un altro.

Gli individui viziosi sono in disaccordo con se stessi, e fuggono se stessi.
Non avendo, poi, nulla per cui essere amati, non provano nessun affetto verso se stessi.

Le persone malvagie sono divorate dal pentimento.

I rapporti di amicizia che si hanno verso il prossimo, e cioè quelli in base ai quali si definiscono le amicizie, sembrano derivare da quelli che si hanno verso se stessi. Infatti si stabilisce che è amico colui che vuole e compie il bene altrui o quello che gli sembra che sia tale per l’altro, oppure colui che vuole che l’amico ci sia ed esista senza altri scopi, come fanno le madri nei confronti dei figli, e gli amici che hanno avuto delle incomprensioni; altri, invece, ritengono che sono amici coloro che vivono insieme e hanno gli stessi gusti, oppure che è amico colui che si addolora e si rallegra insieme all’amico, ma anche questo si dà soprattutto nel caso delle madri. L’amicizia si definisce sulla base di alcune di queste caratteristiche, e inoltre ciascuna di queste è anche tipica dell’individuo virtuoso nei confronti di se stesso (o degli altri in quanto assumono caratteri simili ad esso. A quanto pare, poi, come abbiamo già detto, misura di ogni cosa sono la virtù e l’individuo moralmente retto). Infatti costui è in accordo con se stesso e aspira alle stesse cose con tutta l’anima. E quindi vuole per se stesso i beni e quelli che gli appaiono tali, e agisce di conseguenza (infatti la caratteristica dell’individuo moralmente retto è proprio quella di impegnarsi per il bene) e lo fa per se stesso (infatti lo fa per l’elemento intellettivo che è considerato essere il vero “io” di ciascuno di noi). E vuole vivere e conservare sia se stesso sia, soprattutto, la parte di sé con cui pensa; infatti, per l’individuo moralmente retto, è un bene esistere.

Ciascuno, d’altro canto, vuole il bene per sé, ma nessuno sceglie di avere tutto a condizione di diventare un altro (infatti Dio anche ora possiede il bene), ma rimanendo ciò che era prima. E si ritiene che ciascuno è, o è soprattutto, l’intelletto. Un individuo di questo tipo vuole soprattutto vivere con se stesso; infatti lo fa con piacere. In effetti sono piacevoli i ricordi delle azioni compiute e sono buone le speranze di ciò che accadrà nel futuro; tutto ciò, poi, è piacevole. E la sua mente è ricca di pensieri. Inoltre si addolora e si rallegra soprattutto in relazione a se stesso; infatti, ogni volta, è la stessa cosa che gli procura dolore e piacere, e non cose diverse di volta in volta; in effetti è uno che, per così dire, non si pente mai.

Quindi, siccome ciascuna di queste caratteristiche è tipica dell’individuo virtuoso nei confronti di se stesso, dato che si comporta con l’amico come con se stesso (infatti l’amico è un altro se stesso), l’amicizia sembra configurarsi come qualcuno dei rapporti che abbiamo indicato precedentemente, e amici sembrano coloro a cui tali rapporti si riferiscono.

Tralasciamo per il momento la questione se si può essere o meno amici di se stessi. Sembrerebbe, poi, che vi sia amicizia in quanto si danno due o più delle caratteristiche ricordate, e che l’apice dell’amicizia sia simile a quella che si ha verso se stessi. D’altra parte è chiaro che le caratteristiche descritte si trovano anche nelle persone comuni, anche se tra di esse ci sono delle persone viziose. Ma forse partecipano di quelle caratteristiche in quanto si piacciono e credono di essere delle persone corrette? Infatti gli individui che sono irrimediabilmente viziosi ed empi non <solo non> hanno affatto queste caratteristiche, ma neppure sembrano averle.

E per gli individui viziosi vale quasi lo stesso discorso; infatti sono in disaccordo con se stessi, e i loro desideri tendono ad alcune cose e la volontà ad altre, come capita agli incontinenti; infatti scelgono cose piacevoli, anche se dannose, invece di quelle che loro stessi ritengono essere buone; altri, poi, per viltà e per pigrizia, si astengono da azioni che a loro stessi sembrano ottime; mentre altri ancora, che hanno compiuto molte azioni terribili, sono odiati per la loro nefandezza, fuggono via e si tolgono la vita. E i viziosi cercano qualcuno con cui trascorrere la giornata e fuggono se stessi; infatti se stanno da soli si ricordano di molte azioni terribili e ne progettano altre dello stesso tipo, mentre se stanno con altri se ne dimenticano. Non avendo, poi, nulla per cui essere amati, non provano nessun affetto verso se stessi; individui simili, poi, non provano gioie e dolori in accordo con se stessi; infatti la loro anima vive in stato di tumulto interiore e, di essa, un parte prova dolore a causa del suo vizio e si astiene da certe azioni, mentre una parte prova piacere per questo, e una parte tira da un lato, l’altra da un altro, come se volessero farlo a pezzi. Sebbene non si possa provare contemporaneamente dolore e piacere essi, tuttavia, dopo pochissimi istanti si rattristano del fatto di aver provato piacere e vorrebbero che tali cose piacevoli non fossero capitate loro; infatti le persone malvagie sono divorate dal pentimento. Quindi è chiaro che la persona malvagia non ha alcuna disposizione amichevole verso se stessa, perché non ha niente che meriti di essere amato. Se, quindi, questo stato è tremendamente penoso, bisogna fuggire la malvagità con tutte le proprie forze e sforzarsi di essere virtuosi. Infatti solo così si possono sia avere disposizioni amichevoli verso se stessi sia essere amici degli altri.

Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 4, 1166 a 22 – 1166 3 34. In Aristotele, Le tre etiche e il Trattato sulle virtù e sui vizi, Saggio introduttivo, traduzione, note e apparati di Arianna Fermani; Presentazione di Maurizio Migliori, Bompiani, Il Pensiero occidentale, Bompiani, Milano 2018, pp. 851-855.


Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.
Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.
Aristotele (384-322 a.C.) – Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque. La nascita viene dal seme.
Aristotele (384-322 a.C.) – In tutte le cose naturali si trova qualcosa di meraviglioso.
Aristotele (384-322 a.C.) – Se l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – Se uno possiede la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.
Aristotele (384-322 a.C.) – Diventiamo giusti facendo ciò che è giusto. Nessuno che vuol diventare buono lo diventerà senza fare cose buone. Il fine deve essere ipotizzato come un inizio perché il fine è l’inizio del pensiero, e il completamento del pensiero è l’inizio di azione. ⇒ Una Trilogia su Aristotele: «Sistema e sistematicità in Aristotele». «Immanenza e trascendenza in Aristotele». «Teoria e prassi in Aristotele».
Aristotele (384-322 a.C.) – Le radici della ‘paideia’ sono amare, ma i frutti sono dolci. Il modello più razionale di ‘paideia’ abbisogna di tre condizioni: natura, apprendimento, esercizio.
Aristotele (384-322 a.C.) – La virtù è uno stato abituale che orienta la scelta, individua il giusto mezzo e lo sceglie. Il male ha la caratteristica dell’illimitato, mentre il bene ha la caratteristica di ciò che è limitato.
Aristotele (384-322 a.C.) – Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. L’intelletto è quanto di più elevato si possa pensare, è il «toccare» il vero, rappresenta la realtà più divina ed eccellente che c’è in noi.
Aristotele, La mano è azione: afferra, crea, a volte si direbbe che pensi. La mano ha fatto l’uomo, è l’uomo stesso, è lo strumento degli strumenti. In verità il pensiero si impone come artigianale così come la mano.
Aristotele (384-322 a.C.) – La poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia. La poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare
Aristotele (384-322 a.C.) – In qualunque campo si raggiungerebbe la migliore visione della realtà, se si guardassero le cose nel loro processo di sviluppo e fin dalla prima origine.
Aristotele (384-322 a.C.) – Il fatto di vivere è comune anche alle piante. Ciò di cui andiamo in cerca per l’uomo è qualcosa di specifico. Il bene umano risulta essere l’attività dell’anima secondo virtù in una vita umana compiuta, in atto nel senso più proprio. un solo giorno o un breve periodo di tempo non rendono beato e felice nessuno.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Tony Judt (1948-2010) – Costruiscono un senso comune fondato sull’ossessione per la creazione di ricchezza, sul culto della privatizzazione e del settore privato. I ricchi non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri.

Tony Judt

«Siamo immersi in un mare di senso comune fondato sull’ossessione per la creazione di ricchezza, sul culto della privatizzazione e del settore privato, sulle disparità crescenti tra ricchi e poveri. […] I ricchi non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri. Chi dipende dal posto di lavoro per la propria sussistenza non vuole le stesse cose di chi vive di investimenti e dividendi. Chi non ha bisogno di servizi pubblici (perché può comprare trasporti, istruzione, e protezione sul mercato privato) non cerca le stesse cose di chi dipende esclusivamente dal settore pubblico. [ … ] Le società sono organismi complessi, composti da interessi in conflitto fra di loro. Dire il contrario (negare le distinzioni di classe, di ricchezza, o di influenza) è solo un modo per favorire un insieme di interessi a discapito di un altro. Un tempo una simile affermazione era scontata: oggi ci incoraggiano a liquidarla come un incitamento irresponsabile all’odio di classe».

Tony Judt, Guasto è ilmondo, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 3, 12.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Simone Weil (1909-1943) – L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano. La coscienza umana, su questo punto, non è mutata mai.

Simone Weil 11

L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia a intervenire; e persino quando non gli si riconoscesse alcun diritto. […] Il progresso si misura su di esso. […]

La coscienza umana, su questo punto, non è mutata mai. Migliaia di anni fa, gli egiziani pensavano che un’anima non potesse giustificarsi dopo la morte se non poteva dire: «Non ho fatto patire la fame a nessuno». […] Nessuno, cui la domanda venga posta in termini generali, penserà che sia innocente chi, avendo cibo in abbondanza e trovando sulla soglia della propria casa un essere umano mezzo morto di fame, se ne vada senza dargli aiuto».

 

Simone Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri dell’uomo, Edizioni di comunità, Roma-Ivrea 2017, pp. 11-12.


Simone Weil (1909-1943) – Silenzi che educano l’intelligenza
Simone Weil, «Oppressione e libertà», Orthotes Editrice, 2015
Simone Weill (1909-1943) – Trovare uomini che amino la verità
Simone Weil (1909-1943) – Il desiderio di luce produce luce: un tesoro che nulla al mondo ci può sottrarre.
Simone Weil (1909-1943) – Un regime inumano, lungi dal forgiare esseri capaci di edificare una società umana, modella a sua immagine tutti coloro che gli sono sottomessi.
Simone Weil (1909-1943) – Dove il pensiero non ha posto, non ne hanno né la giustizia né la prudenza. Le nostre idee di limite, di misura, di equilibrio, che dovrebbero determinare la condotta di vita, ormai hanno solo un impiego servile nella tecnica. Noi siamo geometri soltanto davanti alla materia. I Greci furono geometri innanzitutto nell’apprendimento della virtù.
Simone Weil (1909-1943) – L’amicizia non ammette di essere disgiunta dalla realtà, non più che il bello. È puro quel che è sottratto alla forza.
Simone Weil (1909-1943) – La nozione di valore è al centro della filosofia.
Simone Weil (1909-1943) – Il bello consiste in una disposizione provvidenziale grazie alla quale la verità e la giustizia, non ancora riconosciute, richiamano in silenzio la nostra attenzione. La bellezza del mondo non è distinta dalla realtà del mondo.
Simone Weil (1909-1943) – Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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