Fernanda Mazzoli – Non di solo Covid sono morti i degenti delle RSA, ma del virus più temibile, della solitudine e della sottrazione di personalità.

Egon Schiele, “La morte e la fanciulla”, dipinto nel 1915.

E. Munch, Das kranke Kind, 1907.


Familiari dei “condannati a morte nelle Rsa italiane”

e contributi di

Laura Campanello, Alessandra Filannino Indelicato, Fabio Galimberti,
Franca Maino, Lorena Mariani, Linda M. Napolitano Valditara,
Gianni
Tognoni, Silvia Vegetti Finzi

La tragedia di essere fragili

Filosofia biografica per una nuova cultura della vecchiaia

a cura di Alessandra Filannino Indelicato

ISBN 978-88-7588-367-6, 2022, pp. 208, Euro 15.

In copertina: Alfredo Pirri, Facce di gomma, latice in gomma, cotone, tempera, 1992.

indicepresentazioneautoresintesi





Mamma,

ho sognato che non avevi perso la memoria e ti ricordavi chi ero.

Oggi lo sai cosa è successo e speravo di sentirti ma ti sogno solo.

In questi giorni sognavo te nell’ospedale nella RSA che non stavi bene e mi svegliavo male la mattina. Non volevo scriverti perché mi viene da piangere. Oggi ho ritirato la notifica dal tribunale, c’è scritto che l’Rsa non ti ha ucciso e io sto male e sono sola. […]

Una pubblicazione che prende una netta posizione rispetto alle ingiustizie subite dai familiari di molti ricoverati durante la pandemia, condannati a morte in alcune, moltissime, Rsa italiane. Incapacità di affrontare una crisi che ci ha coinvolti tutti, per ragioni storico-culturali molto complesse, ragioni a cui si tenta di dare voce in chiave filosofico-biografica, per spiegare (senza esaurire o ridurre) la più grande tragedia della nostra società contemporanea: quella di essere fragili, e anche quella di essere vecchi. Dando voce a chi ha subito ingiustizia e si trova ancora costretto all’anonimato, ancora costretto in una posizione di estrema impotenza, questa pub­blicazione è anche una raccolta di lettere-testimonianze dei familiari e vuole essere un monito. Un monito di speranza e di luminosa instancabile indomabile presenza e anelito alla lotta per la verità di chi la sua verità non può ancora dirla, nel compito della memoria di chi è morto nel silenzio generale. Un monito verso la non indifferenza individuale e collettiva che scuota le coscienze affinché si costruisca un sistema migliore di quello di cui tutti siamo stati inermi e terribili testimoni


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Le lettere

Sono quasi due anni che te ne sei andata

La prima cosa che vorrei sapere

Eri tu quella farfalla arancione

“Mammina” – come ti chiamavo …

Ho sognato che non avevi perso la memoria

Sono due anni che siamo lontane

Come stai? Non è facile scriverti una lettera

Ti ricordi mamma?

Anche febbraio sta volgendo al termine

Proprio l’altro giorno, per Natale

Sei sempre stato un uomo forte

Così sei stata accolta

Scrivo a ruota libera

Quanto mi sei mancato

Quando finalmente

Tra te e me si è imposta la malattia

Una eccezione. L. se n’è andata



Gli autori dei contributi

Gianni Tognoni, vecchio (1941) ricercatore, con un retroterra di teologia e filosofia, e laurea in medicina, pensionato sempre attivo, dopo più di 40 anni di attività nell’Istituto Mario Negri (di Milano, e per 12 anni nella sede ora chiusa in Abruzzo), con contributi anche internazionalmente riconosciuti come innovativi nel campo della metodologia e dell’etica della sperimentazione clinica e della epidemiologia comunitaria. Ha pubblicato fin troppo , in campo strettamente scientifico e non, in inglese, spagnolo, italiano, con tracce facilmente ritrovabili anche recentemente su siti come Volere la Luna ed Altreconomia.
Dal 1979, nella sua vita parallela e assolutamente di riferimento, è Segretario Generale del Tribunale Permanente dei Popoli.

Fabio Galimberti, laureato in Scienze Pedagogiche, è analista filosofo. Prima falegname, da vent’anni lavora come operatore di base in una Rsa. Si interessa di lingua locale, cultura tradizionale e botanica popolare della Brianza e della Lombardia alpina, con la pubblicazione di articoli, saggi e organizzando corsi, cammini e visite guidate.

Silvia Vegetti Finzi è psicoterapeuta per i problemi dell’infanzia, della famiglia e della scuola. Ha condiviso per molti anni il lavoro intellettuale e l’impegno sociale con il marito Mario Vegetti, storico della filosofia antica. Dal 1968 al 1971 ha partecipato alla vasta ricerca sulle cause del disadattamento scolastico, promossa dall’Istituto IARD (F. Brambilla) e dalla Fondazione Bernard Van Leer di Milano. I suoi maggiori contributi hanno riguardato la storia della psicoanalisi, nonché lo studio delle problematiche pedagogiche da un punto di vista interdisciplinare, facendo rife­rimento soprattutto alla psicologia dell’infanzia e dell’adolescenza ed alla psicoanalisi. I suoi testi sono stati tradotti in francese, inglese, tedesco, spagnolo, greco e albanese. Dal 1975 al 2005 è stata docente di Psicologia Dinamica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Pavia. Nel 1990 è stata tra le fondatrici della Consulta di bioetica. Ha fatto parte del Comitato Nazio­nale di Bioetica, dell’Osservatorio Permanente sull’Infanzia e l’adolescenza di Firenze, della Consulta Nazionale per la Sanità. È membro onorario della Casa delle donne di Milano e vice-presidente della Casa della Cultura di Milano. Nel 1998 ha ricevuto, per le sue opere sulla psicoanalisi, il premio nazionale “Cesare Musatti” e per quelle di bioetica il premio nazionale “Giuseppina Teodori”.

Linda M. Napolitano Valditara è professoressa ordinaria di Storia della filosofia antica (in pensione dal 2021). Ha insegnato negli Atenei di Padova, Trieste e Verona. Studia soprattutto Platone, la letteratura greca, i modi del formarsi del sapere-comunicare nel mondo antico e la loro ripresa odierna (filosofia della cura, dialogo socratico). A Verona, quale responsabile, tuttora, del Centro Dipartimentale di Ricerca “Asklepios. Filosofia della salute”, studia le forme di teoria e pratica della cura (Medicina Narrativa e Terapia della Dignità), interagendo con strutture e figure sanitarie del territorio. Studi: Il sé, l’altro, l’intero. Rileggendo i Dialoghi di Platone, 2010; Pietra filosofale della salute. Filosofia antica e formazione in medicina, 2012; Prospettive del gioire e del soffrire nell’etica di Platone, 20132; Virtù, felicità e piacere nell’etica dei Greci, 2014; Il dialogo socratico. Fra tradizione storica e pratica filosofica per la cura di sé, 2018; Filosofi sempre. Immagini dalla filosofia antica, 2021; con C. Chiurco: Senza corona. A più voci sulla pandemia (2020). Ha curato il volume collettaneo Curare le emozioni, curare con le emozioni (2020).

Lorena Mariani, Direttrice dell’Area Infermieristico – Assistenziale della Rsa Convento di S. Francesco della Confraternita di Misericordia di Borgo a Mozzano. Esperta della cura della persona in età senile e appassionata di socio sanitario, crede nella potenzialità dei sistemi di cura integrati e nei risultati che tali atteggiamenti virtuosi producono. Si occupa di formazione, collaborando con le principali agenzie formative del territorio della Provincia di Lucca e della Toscana, svolgendo docenze nell’area sanitaria, tecnico assistenziale e sociale, come esperto di settore. Sovrintende a tutte le questioni socio sanitarie e di prevenzione che riguardano i servizi sanitari e sociali svolti dalla Confraternita di Misericordia di Borgo a Mozzano ed è il punto di riferimento della stessa Misericordia per tutte le problematiche igienico sanitarie e di sicurezza riguardanti la pandemia Covid-19. Ha pubblicato il libro Il manuale: buone pratiche in Rsa, ed. Spazio Spadoni, 2021.

Laura Campanello, laureata in filosofia e specializzata in pratiche filosofiche e consulenza pedagogica. Collabora con la Scuola superiore di pratiche filosofiche di Milano “Philo” ed è consulente etica nelle cure palliative e nell’ambito della malattia e del lutto. Nel corso della sua carriera ha studiato e approfondito il tema della felicità attraverso la pratica filosofica e la psicologia analitica e scrive di questi temi per il “Corriere della Sera”. È inoltre Presidente dell’Associazione di Analisi Biografica a Orientamento Filosofico (Sabof). Tra le varie pubblicazioni, si ricorda: Ricominciare. 10 tappe per una nuova vita, Mondadori, 2020; Leggerezza. Esercizi filosofici per togliere peso e vivere in pace, Bur Rizzoli, 2021; Sono vivo, ed è solo l’inizio. Riflessioni filosofiche sulla vita e sulla morte, Mursia, 2013.

Franca Maino dirige il Laboratorio Percorsi di secondo welfare ed è Professoressa associata presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano, dove insegna “Politiche Sociali e del Lavoro”, “Politiche Sanitarie e Socio-sanitarie”, “Welfare State and Social Innovation”.

Alessandra Filannino Indelicato è una ricercatrice in generale, nella vita, attualmente impiegata presso l’Università di Milano-Bicocca. Esperta di Pratiche Filosofiche e Gestalt counselor, lavora per vocazione nel campo dell’ermeneutica delle tragedie greche e della filosofia del tragico, offrendo corsi, seminari e consulenze individuali e di gruppo. Nel 2022 ha contribuito con “Pace gattesca” alla raccolta Verrà la pace e avrà i tuoi occhi. Piccolo Vademecum per la pace, Anima Mundi Edizioni. Per l’Editrice Petite Plaisance è anche Direttrice della collana “Coralli di vita”. Nel 2019, per Mimesis, ha pubblicato Per una filosofia del tragico. Tragedie greche, vita filosofica e altre vocazioni al dionisiaco, e nel 2022, per Petite Plaisance, Apologia per Scamandrio o dell’abbandono. Contributi di Iliade VI a una filosofia del tragico.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ivan Illich (1926-2002) – Il modello a cui mi sono ispirato è il “Simposio” di Platone. L’idea platonica di philia, dell’amore come strada per accedere alla conoscenza, ha costituito una sfida. Ma perché si possa perseguire la verità è necessario innanzitutto lasciar cadere un certo numero di convenzioni accademiche prodotte dall’università.

Ivan Illich 006

In den flussen nördlich der zukunft

In den flussen nördlich der Zukunft
werf ich das Netz aus, das du
zögernd beschwerst
mit von Steinen geschriebenen
Schatte.

Nei fiumi a nord del futuro
getto la rete che tu,
esitante, carichi
di ombre scritte
da pietre

Paul Celan


«Il modello a cui mi sono ispirato è il Simposio di Platone. L’idea platonica di philia, dell’amore come strada per accedere alla conoscenza, ha costituito una sfida, perché, di decennio in decennio, ho dovuto interpretarla in modi sempre nuovi. Ma una convinzione è rimasta costante: l’amicizia non potrà mai significare per me la stessa cosa che significava per Platone. Nella città greca la virtù era intesa come un comportamento appropriato, adeguato: era l’ethos, l’etica, confacente a un certo ethnos, una popolazione, e questa virtù era il fondamento dell’amicizia, ciò che la rendeva possibile. L’amicizia era il fiorire della virtù civica e il suo coronamento. Era soltanto in quanto ateniesi virtuosi che gli ospiti al Simposio sym-posion (il bere insieme) – di Platone potevano amarsi. Non è stato questo il mio destino di ebreo errante e pellegrino cristiano: non mi è stato possibile ricercare l’amicizia come qualcosa che sorgesse da un luogo e dalle pratiche ad esso pertinenti. È stata invece l’etica sviluppatasi intorno alla mia cerchia di amici a nascere come risultate della nostra ricerca di amicizia e della pratica che ne facevamo. È un’inversione radicale del significato di philia: per me l’amicizia è stata la sorgente, la condizione e il contesto perché potessero avvenire il coinvolgimento e l’affinità di pensiero; per Platone poteva essere soltanto il risultato di pratiche confacenti al cittadino.

Questa inversione cruciale mi obbliga a dire qualche parola sulla storia dell’amicizia. Per Platone – e sarebbe lo stesso per qualunque altro testo classico dell’antichità – l’amicizia presuppone un ethnos, un “qui e ora” dato, al quale appartengo per nascita; presuppone determinati limiti entro i qua i può essere praticata. […] Poi venne quel sommo provocatore e folle, quel Gesù storico dei Vangeli, con la sua storia del Samaritano (il palestinese) che è l’unico a comportarsi da amico nei confronti del Giudeo (l’ebreo) percosso. Gesù apre una nuova illimitata capacità di scegliere chi voglio per amico, e una corrispondente possibilità di lasciarmi scegliere da chiunque mi voglia. È qualcosa che viene spesso dimenticato da quelli che dipingono l’amicizia moderna soltanto come uno sviluppo ulteriore di ciò che Platone e Aristotele intendevano con questo termine. Gesù ha spezzato la cornice che delimitava le condizioni entro cui poteva darsi amicizia […].

Ho considerato mio compito verificare in che modo la vita dell’intelletto, la disciplinata e metodica ricerca comune di una visione chiara – si potrebbe dire filosofia, nel senso di amare la verità – possa essere vissuta così da diventare occasione per suscitare philia. (Consentitemi di usare la parola philia, per evitare le buffe implicazioni che “amicizia” assume nelle diverse lingue moderne). Volevo capire se fosse possibile creare legami umani di reale, profondo coinvolgimento in occasione e con i mezzi della ricerca condivisa; e volevo anche spiegare come la ricerca della verità possa essere perseguita in modo ineguagliabile intorno a una tavola da pranzo, davanti a un bicchiere di vino, e non in una sala conferenze. Se l’espressione “ricerca della verità” fa sorridere la gente e fa pensare che io appartenga a un qualche Vecchio Mondo, ebbene sì, vi appartengo.

[…] Ma perché si possa perseguire la verità entro l’orizzonte di un “noi” che è davvero un “io” plurale […] è necessario innanzitutto lasciar cadere un certo numero di convenzioni accademiche – estremamente vischiose e tenaci – prodotte dall’università, fra cui l’organizzazione della conoscenza in discipline specialistiche ed esclusive.

[…] Le persone che sanno qualcosa della storia delle idee all’interno di una tradizione tendono a pensare di poter progredire nella loro conoscenza solo entro la cerchia di persone che hanno la loro stessa formazione. Io ho cercato di sfidarle a mettere l’amicizia al di sopra di questo pregiudizio e a lasciare che l’amicizia li motivasse a formulare in un linguaggio comune le svolte e le intuizioni rese possibili grazie alla loro conoscenza tecnica. È una sfida che non si limita a chiedere loro di insegnare agli studenti dei primi livelli universitari – perché l’insegnamento universitario di primo livello può essere soltanto un’introduzione al loro metodo –, né a chieder loro di ampliare i propri orizzonti per includervi altre professionalità. Si basa sulla convinzione che le cose davvero importanti devono essere suscettibili di condivisione con altri che io amo, prima di tutto, e con i quali poi sento il bisogno di parlare; e questa convinzione avrà un impatto significativo sul modo in cui valuto ed esprimo le mie intuizioni. Dovrei anche dire che il convivium, o symposion […]».

 

Ivan Illich, I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Prefazione di Charles Taylor, Edizione italiana a cura di Milka Ventura Avanzinelli, Verbarium . Quodlibet, Firenze 2009, pp. 138-141.


 

Nacque a Vienna da padre croato e madre ebrea sefardita.
Sin da bambino si dimostrò estremamente ricettivo e versatile: conosceva l’italiano, il francese e il tedesco e poteva parlare questi idiomi alla stregua di lingue madri.
Imparò in seguito il croato, il greco antico e lo spagnolo, il portoghese, lo hindi e altri idiomi.
Prestò servizio come assistente parrocchiale a New York. Nel 1956, fu nominato vice-rettore dell’Università Cattolica di Porto Rico, e nel 1961 fondò il Centro Intercultural de Documentación (CIDOC) a Cuernavaca in Messico, un centro di ricerca che realizzava corsi per i missionari del Nord America.
Ordinato sacerdote a Roma nel 1951 e attivo nelle diocesi di New York, Ponce (Puerto Rico) e Cuernavaca (Messico), interruppe volontariamente l’esercizio pubblico del sacerdozio nel 1968, a seguito del procedimento avviato a suo carico dalla Congregazione per la dottrina della fede: in questione erano le sue attività a difesa dell’autonomia religiosa e culturale dell’America latina di fronte alle ingerenze «missionarie» statunitensi.
Illich scelse allora di dedicarsi a una critica militante delle moderne ideologie e istituzioni del mondo sviluppato, e a una parallela rivendicazione dei valori «vernacolari», con libri come Descolarizzare la società, La convivialità, Nemesi medica cui negli anni Settanta arrise una notevole fortuna internazionale.
Più tardi approfondì e radicalizzò la sua critica, dirigendola sull’intera parabola del processo di modernizzazione in Occidente e sulle trasformazioni antropologiche da esso indotte (Lavoro ombra, Per una storia dei bisogni, Il genere e il sesso, Nello specchio del passato), da ultimo coinvolgendovi anche senso e destino della rivelazione cristiana (La perdita dei sensi, I fiumi a nord del futuro).
Negli ultimi anni fu colpito da una crescita tumorale sul volto che, coerentemente con la sua critica alla medicina ufficiale, tentò, senza successo, di curare con metodi tradizionali.
Fumava regolarmente oppio per lenire il dolore.
All’inizio della malattia, consultò un medico per valutare la possibilità di rimuovere il tumore, ma gli fu detto che con grande probabilità avrebbe perso la facoltà di parlare e così convisse come meglio poteva con la malattia, da lui definita “la mia mortalità” 


Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.
Ivan Illich (1926-2002) – Eutrapelìa. Due sono le chiavi di questa virtù: il sorriso e la misura. L’austerità non significa isolamento o chiusura in se stessi. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelìa, l’amicizia.
Ivan Illich (1926-2002) – Lessico unidirezionale: «inclusione» contro «emancipazione». Un tempo il crescere non era un processo economico. Oggi gli stessi genitori sono diventati insegnanti ausiliari responsabili degli input di capitale umano, per usare il gergo degli economisti, grazie ai quali i loro rampolli otterranno la qualifica di “homo oeconomicus”.
Ivan Illich (1926-2002) – Elogio della bicicletta. La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta.
Ivan Illich (1926-2002) – Come filosofi rivendichiamo il dovere di occuparci del suolo. Ciò era dato per scontato da parte di Platone, Aristotele e Galeno, oggi non non lo è più e proponiamo di organizzare forme di resistenza nei confronti di quegli esperti di ecologia che promuovono il disinteresse per la tradizione storica e la virtù terrestre dell’autolimitazione.
Ivan Illich (1926-2002) – La dipendenza dall’abbondanza castrante, una volta radicata in una cultura, genera la “povertà modernizzata”. Nella velocità, niente resta, niente è assaporato, niente è conosciuto. Velocità e calcolo sono due aspetti dello stesso silenzio infecondo che minaccia ogni vita.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ivan Illich (1926-2002) – Come filosofi rivendichiamo il dovere di occuparci del suolo. Ciò era dato per scontato da parte di Platone, Aristotele e Galeno, oggi non non lo è più e proponiamo di organizzare forme di resistenza nei confronti di quegli esperti di ecologia che promuovono il disinteresse per la tradizione storica e la virtù terrestre dell’autolimitazione.

Ivan Illich 004

Dichiarazione sul suolo

di Ivan Illich, Lee Hoinacki, Sigmar Groeneveld
traduzione di Antonio Airoldi (da: www.lostraniero.net)


Questo appello è stato presentato il 6 dicembre 1990, in occasione del meeting organizzato a Oldenburg in onore di Robert Rodale, pioniere del movimento per l’agricoltura biologica negli Usa. Il testo originale è reperibile sul sito del Pudel Circle di Brema (www.pudel.uni-bremen.de).

Il discorso ecologico sul pianeta terra, la fame globale, le minacce alla vita ci sollecitano, come filosofi, a volgere umilmente lo sguardo al suolo. Noi poggiamo i piedi sul suolo, non sul pianeta. Proveniamo dal suolo e al suolo consegnamo i nostri escrementi e le nostre spoglie. Eppure il suolo – la sua coltivazione e il nostro legame con esso – è significativamente trascurato dall’indagine filosofica della nostra tradizione occidentale.

Come filosofi, ci dedichiamo a ciò che sta sotto i nostri piedi perché la nostra generazione ha perso il suo radicamento al suolo e alla virtù. Per virtù intendiamo la forma, l’ordine e la direzione dell’azione plasmata dalla tradizione, delimitata dal luogo e qualificata dalle scelte effettuate entro l’ambito abituale di esperienza di ciascuno; intendiamo quella pratica reciprocamente riconosciuta come il bene in una cultura locale condivisa che rinforza la memoria di un luogo.

Noi constatiamo che la virtù così intesa è tradizionalmente associata al lavoro faticoso, all’abilità artigianale, all’arte di abitare e di soffrire, attività sostenute non da astrazioni quali il pianeta terra, l’ambiente o il sistema energetico, ma dai suoli particolari che esse hanno arricchito con le loro tracce. Ma nonostante questo legame fondamentale tra il suolo e l’essere umano, tra il suolo e il bene, la filosofia non ha messo a punto i concetti che ci permetterebbero di porre in relazione la virtù con il suolo comune, qualcosa di radicalmente differente dal controllo pianificato del comportamento su un pianeta condiviso.

I nostri legami col suolo – le relazioni che limitavano l’azione rendendo possibile la virtù pratica – sono stati recisi allorché il processo di modernizzazione ci ha isolati dalla semplice sporcizia, dalla fatica, dalla carne, dal suolo e dalle tombe. La sfera economica dentro cui, volenti o nolenti, talvolta a caro prezzo, siamo stati assorbiti, ha trasformato le persone in unità intercambiabili di popolazione, governate dalle leggi della scarsità.

Gli usi civici e l’arte di abitare sono a mala pena immaginabili da chi è schiavo dei servizi pubblici e alloggia in garage ammobiliati. In questo contesto il pane è stato ridotto a mero genere alimentare, se non a calorie o a fibre. Dopo che il suolo è stato avvelenato e cementificato, parlare di amicizia, religione e sofferenza partecipata come stile della convivialità appare come una fantasia accademica a persone disseminate in modo del tutto casuale tra veicoli, uffici, prigioni e hotel.

Come filosofi, rivendichiamo il dovere di occuparci del suolo. Ciò era dato per scontato da parte di Platone, Aristotele e Galeno, oggi non lo è più. Il suolo su cui la cultura può crescere e il grano essere coltivato svanisce alla nostra vista allorché viene definito nei termini di sottosistema complesso, settore, risorsa, problema o “impresa agricola”, come per lo più accade nelle scienze agrarie.

Come filosofi, proponiamo di organizzare forme di resistenza nei confronti di quegli esperti di ecologia che predicano il rispetto della scienza ma promuovono il disinteresse per la tradizione storica, le attitudini locali e la virtù terrestre dell’autolimitazione.

Con tristezza, ma senza nostalgia, riconosciamo che il passato è passato. Sia pur con esitazione, cerchiamo allora di condividere ciò che vediamo: alcune conseguenze derivanti dal fatto che la terra ha perduto il suo suolo. Di fronte all’indifferenza per il suolo mostrata dagli ecologisti dei consigli di amministrazione proviamo fastidio, ma siamo altrettanto critici nei confronti di quei numerosi romantici, luddisti e mistici benintenzionati che esaltano il suolo facendone la matrice della vita anziché della virtù. Lanciamo perciò un appello a favore della filosofia del suolo: un’analisi chiara e disciplinata di quella esperienza e memoria del suolo senza le quali non vi può essere né la virtù, né alcuna nuova forma di sussistenza.


Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.
Ivan Illich (1926-2002) – Eutrapelìa. Due sono le chiavi di questa virtù: il sorriso e la misura. L’austerità non significa isolamento o chiusura in se stessi. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelìa, l’amicizia.
Ivan Illich (1926-2002) – Lessico unidirezionale: «inclusione» contro «emancipazione». Un tempo il crescere non era un processo economico. Oggi gli stessi genitori sono diventati insegnanti ausiliari responsabili degli input di capitale umano, per usare il gergo degli economisti, grazie ai quali i loro rampolli otterranno la qualifica di “homo oeconomicus”.
Ivan Illich (1926-2002) – Elogio della bicicletta. La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ivan Illich (1926-2002) – Elogio della bicicletta. La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta.

Ivan Illich - Elogio della bicicletta

El socialismo puede llegar solo en bicicleta

José Antonio Viera-Gallo
sottosegretario alla Giustizia nel governo di Salvador Allende


«Una politica di bassi consumi di energia permette un’ampia scelta di stili di vita e di culture. Se invece una società opta per un elevato consumo di energia, le sue relazioni sociali non potranno che essere determinate dalla tecnocrazia e saranno degradanti comunque vengano etichettate, capitaliste o socialiste» (p. 8).

«La democrazia partecipativa postula una tecnologia a basso livello energetico; e solo la democrazia partecipativa crea le condizioni per una tecnologia razionale» (p. 10).

«La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta» (p. 20).

«La liberazione dal monopolio radicale dell’industria del trasporto è possibile solo istituendo un processo politico che demistifichi e detronizzi la velocità» (p. 69).

Ivan Illich, Elogio della bicicletta, a cura di Franco la Cecla, Bollati Boringhieri, Torino 2006.


Descrizione

Una apologia della bicicletta: della sua bellezza e saggezza, della sua alternativa energetica alla crescente carenza di energia e al soffocante inquinamento. Illich nota che la bicicletta e il veicolo a motore sono stati inventati dalla stessa generazione. Ma sono i simboli di due opposti modi di usare il progresso moderno. La bicicletta permette a ognuno di controllare la propria energia metabolica (il trasporto di ogni grammo del proprio corpo su un chilometro percorso in dieci minuti costa all’uomo 0,75 calorie). Il veicolo a motore entra invece in concorrenza con tale energia.


Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.
Ivan Illich (1926-2002) – Eutrapelìa. Due sono le chiavi di questa virtù: il sorriso e la misura. L’austerità non significa isolamento o chiusura in se stessi. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelìa, l’amicizia.
Ivan Illich (1926-2002) – Lessico unidirezionale: «inclusione» contro «emancipazione». Un tempo il crescere non era un processo economico. Oggi gli stessi genitori sono diventati insegnanti ausiliari responsabili degli input di capitale umano, per usare il gergo degli economisti, grazie ai quali i loro rampolli otterranno la qualifica di “homo oeconomicus”.
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Erich Fromm (1900-1980) – Il «radicalismo umanistico» nel libro di Ivan Illich «Rovesciare le istituzioni» è basato su un profondo interesse per la crescita dell’uomo intesa in ogni senso, fisico, spirituale ed intellettuale.

Ivan Illich - Erich Fromm
Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni, Prefazione di Erich Fromm, Armando 1973
Erich Fromm
Prefazione al libro di
Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni. Un “messaggio” o una “sfida”
 

I testi contenuti in questo libro non hanno bisogno di alcuna presentazione, né, tantomeno, il loro autore. Se, tuttavia, Ivan Illich ha voluto invitarmi a scrivere l’introduzione del suo libro, e se io ho accettato con piacere, ciò dipende da un’unica ragione che è stata alla base di entrambi i nostri intendimenti: abbiamo pensato che questa può essere un’occasione utile per chiarire la natura di un comune atteggiamento e di una fede comune, per quanto alcuni dei nostri punti di vista differiscano tra loro, anche in modo considerevole. Del resto, le idee che lo stesso autore oggi esprime non sempre coincidono con quelle che egli manifestava al tempo in cui, in diverse occasioni ed in un arco di anni abbastanza ampio, scrisse i saggi contenuti in questo volume. Ma una cosa è quella che conta: Illich è sempre stato fedele a se stesso per quanto riguarda il nocciolo più autentico del suo approccio alla realtà ed è questo nocciolo che mi sento di condividere con lui.

Non è facile trovare il termine appropriato per definire questo nucleo essenziale. Com’è possibile, infatti, rinchiudere un atteggiamento fondamentale nei confronti della vita in un semplice concetto senza alterarlo e distorcerlo? Eppure, dal momento che non possiamo fare a meno di comunicare con parole, mi sembra che la definizione più adeguata – o meglio, la meno inadeguata – sia quella di un radicalismo umanistico.

Cosa viene a significare il termine radicalismo e cosa implica l’aggettivo umanistico legato a quel sostantivo? Quando parlo di radicalismo non intendo principalmente un certo insieme di idee radicali, quanto piuttosto un atteggiamento – come dire – un approccio alla realtà. Tanto per cominciare un simile approccio può essere caratterizzato dal motto: de omnibus dubitandum; ogni cosa deve essere posta in dubbio, ma soprattutto quel patrimonio ideologico di concetti cristallizzati che sono virtualmente assunti da ciascuno e diventano, di conseguenza, assiomi fondamentali del senso comune che nessuno oserebbe porre in dubbio.

“Dubitare”, in questo senso, non implica certo una condizione psicologica di incapacità d’arrivare a decisioni o convincimenti ben fondati, come nel caso del dubbio ossessivo, quanto piuttosto una prontezza ed una capacità di porre in discussione criticamente tutte le certezze e le istituzioni che sono diventate puri e semplici idoli chiamati senso comune, logica e tutto ciò che si presume essere naturale. Questo modo radicale di porre in discussione le acquisizioni del mondo in cui viviamo è possibile solo quando non si diano per scontati i concetti base della società in cui si vive o addirittura di un intero periodo storico, come ad esempio, l’intera cultura occidentale dal Rinascimento in poi, e ancor più, se si dilata la portata della nostra consapevolezza cercando di scoprire gli aspetti inconsci che condizionano il nostro pensiero. Il dubbio radicale è, al tempo stesso, svelare e scoprire; è il sorgere della consapevolezza del fatto che l’Imperatore è nudo e che i suoi splendidi vestiti non sono altro che il prodotto della nostra fantasia.

Il dubbio radicale significa mettere in questione; non significa necessariamente negare. È facile negare mediante la semplicistica affermazione del contrario di ciò che esiste; il dubbio radicale è dialettico dal momento che in esso si svela il processo delle contraddizioni e con esso si tende ad una nuova sintesi che nega e afferma contemporaneamente.

Il dubbio radicale è un processo, un processo di liberazione da concezioni idolatriche, un modo di ampliare la nostra consapevolezza, l’immaginazione, la visione creativa che dobbiamo avere in ordine alle nostre possibilità ed alle scelte che ci impegnano. Un atteggiamento radicale non nasce dal nulla, non prende forma nel vuoto: esso parte dalle radici, e la radice, come disse Karl Marx, è l’uomo.

Questa grande affermazione, «la radice è l’uomo», non va intesa in senso positivistico o meramente descrittivo: quando parliamo dell’uomo non lo consideriamo come una cosa, ma come un processo; parliamo, quindi, del suo potenziale creativo, della sua capacità di sviluppare ogni suo potere, il potere d’una più grande intensità di essere, il potere di una più grande armonia di vita, d’un più grande amore, d’una più grande consapevolezza.

Ma parliamo anche dell’uomo come di un essere che si può corrompere, di un essere il cui potere di agire si può trasformare nella libidine di dominare sugli altri, il cui amore per la vita può degenerare nel gusto folle di distruggere la vita.

Questo radicalismo umanistico che mette in discussione drasticamente la realtà è guidato da una chiara intuizione della dinamica della natura umana e dalla preoccupazione per la crescita e il pieno sviluppo dell’uomo. In antitesi con l’attuale concezione positivistica, esso non è obiettivo, se per obiettività si intende il teorizzare senza che il processo del pensiero sia sostentuto e nutrito da un ideale profondamente sentito. Ma è anche troppo obiettivo se ciò significa che ogni fase del processo di riflessione poggia su una evidenza criticamente scrupolosa, e soprattutto, se accetta di mettere in dubbio le premesse del senso comune.

Tutto ciò significa che il radicalismo umanistico interroga ogni idea ed ogni istituzione su di un punto essenziale, quello cioè di sapere se essa aiuti oppure ostacoli la capacità dell’uomo di raggiungere una maggiore pienezza di vita, una maggiore felicità. Non è questa la sede per dilungarsi in una esemplificazione del tipo di acquisizioni del senso comune che vengono poste in discussione, dal radicalismo umanistico. E tanto meno ciò è necessario, dal momento che gli scritti di Illich raccolti in questo libro si occupano proprio di simili esempi, come l’utilità della scuola obbligatoria per tutti o dell’attuale funzione del prete nella società. Molti altri potrebbero essere enumerati, alcuni dei quali, del resto, emergono anche dalle pagine di questo libro. Per quanto mi riguarda vorrei sottolineare appena un poco il moderno concetto di progresso, inteso come un costante aumento della produzione, del consumo, della velocità, dei livelli massimi di efficienza e di profitto, e della possibilità di calcolare ogni attività in termini economici senza alcuna considerazione degli effetti che ne derivano per la qualità della vita e della crescita dell’uomo; oppure il dogma secondo cui l’aumento dei consumi renderebbe l’uomo felice, o quello per cui l’organizzazione imprenditoriale su larga scala deve necessariamente essere burocratica ed alienante, o la concezione che ripone lo scopo della vita nell’avere (e nell’usare) e non nell’essere; l’idea secondo cui la ragione è un fatto che riguarda l’intelletto e non ha nulla a che fare con la vita affettiva; la convinzione che il radicalismo è la negazione della tradizione e che l’opposto di “legge ed ordine” è la scomparsa di qualsiasi struttura. In breve, il dogma secondo cui le idee e le categorie che si sono sviluppate con l’affermarsi della scienza moderna e dell’industrializzazione sono superiori a quelle di ogni cultura anteriore ed indispensabili per il progresso del genere umano.

Il radicalismo umanistico mette in discussione tutti questi presupposti e non teme di giungere all’espressione di idee e soluzioni che possono suonare assurde agli orecchi della gente. Io ritengo che il grande valore degli scritti di Illich consista precisamente nel fatto che essi rappresentano un radicalismo umanistico fra i più completi e carichi di immaginazione creativa. L’autore è uomo di raro coraggio, di grande vitalità, di straordinaria erudizione, brillante nello scrivere e fertile nell’immaginazione: ogni suo convincimento è basato su un profondo interesse per la crescita dell’uomo intesa in ogni senso, fisico, spirituale ed intellettuale. L’importanza del suo pensiero, quale emerge da questi e dagli altri suoi scritti, consiste nel fatto che essi hanno un effetto liberante sulla mente del lettore nella misura in cui svelano interamente nuove possibilità; essi arricchiscono il lettore aprendogli la porta dalla quale si può uscire dalla prigione delle cognizioni sterili, preconcette, frutto della routine quotidiana. Mediante uno choc creativo gli scritti di Ivan Illich comunicano un messaggio; solo chi reagisce esclusivamente con rabbia a quelle che gli sembrano semplici assurdità, non può intendere questo messaggio; per gli altri, per tutti, essi parlano la lingua della forza e della speranza che spingono a cominciare di nuovo.

 

Erich Fromm, Prefazione a Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni. Un “messaggio” o una “sfida”, Armando, Roma 1973.

 

Tratto da: www.altraofficina.it

 


Ivan Illich, Rivoluzionare le istituzioni. Celebrazione della consapevolezza, Prefazione di Erich Fromm, Mimesis, 2012

Erich Fromm (1900-1980) – La nostra è una società composta da individui in preda a stati depressivi e a impulsi distruttivi, incapaci di indipendenza.
Erich Fromm (1900-1980) – L’uomo moderno non ha raggiunto la libertà in senso positivo di realizzazione del proprio essere. Questo isolamento è intollerabile.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ivan Illich (1926-2002) – Lessico unidirezionale: «inclusione» contro «emancipazione». Un tempo il crescere non era un processo economico. Oggi gli stessi genitori sono diventati insegnanti ausiliari responsabili degli input di capitale umano, per usare il gergo degli economisti, grazie ai quali i loro rampolli otterranno la qualifica di “homo oeconomicus”.

Genere. Per una critica storica dell'uguaglianza

Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza

Salvatore A. Bravo

Lessico unidirezionale

I sistemi di potere proliferano, divengono capillari, strutturano i pensieri diffondendo parole, escludendone altre: censura linguistica-lessicale. La contrapposizione, il polemos (Πόλεμος) linguistico, è la condizione della democrazia, della comunità viva che veicola con le parole il confronto concettuale. In assenza di polemos linguistico non vi è che lo scorrere delle parole lungo un asse unidirezionale. Le parole sono apprese, ripetute, formulano rappresentazioni finalizzate a puntellare la caverna dei nostri mondi. Il sole che illumina fuori della caverna, il bene, è la libertà di parlare – con cognizione di sé – dei modi di produzioni, la parresia (παρρησία, ciò che viene detto). Non vi è comunità se non con la parola plurale, dialettica, nella quale (e con la quale) ci si confronta per capire, nella quale (e con la quale) si studia la storia per evidenziare in modo contrastivo le differenze. Un mondo senza parole dialettiche è unidirezionale, convoglia verso uno spazio ed un tempo eguale per tutti. La forza del sistema è nel ridurre le differenze a simulacro. Il simulacro è l’immagine allo specchio svuotata di ogni suo contenuto formale, di ogni passaggio dalla potenza all’atto. È possibile per tutti dichiarare la propria differenza, ostentarla fino al ridicolo, purché non intacchi la struttura dell’economia. Le differenze-simulacro, ombre della forma, una volta devitalizzate della loro carica trasgressiva pensante, sono interne al sistema. Possono scorrere all’interno dell’invisibile recinto, la loro differenza è semplice apparenza: l’involucro, il simulacro non cela la verità, è diventato la sostanza seriale del capitale. È il regno del dicitur, della chiacchiera (Gerede) senza alcun fondamento (Grund). Le differenze in tal modo non impensieriscono, non ricevono l’ostilità di alcuno, anzi sono trofei ideologici che rafforzano il sistema, il quale si presenta come democratico, mostra a caratteri cubitali “la libertà seriale”, di cui non si deve avere paura.

La sussunzione linguistica
La sussunzione, la sottomissione linguistica, non è riconosciuta: opera attraverso un invisibile guinzaglio lessicale. L’ostilità verso la cultura classica, verso la filosofia teoretica, non riposa soltanto nella presunta sua inutilità al lavoro, ma essa ha un’eccedenza di ragioni non esplicite: le parole teoretiche, i grandi quesiti della cultura classica e filosofica, disorientano, lasciano intravedere la verità del pensiero unico, il fondamento nichilistico, l’integralismo della caverna. Sono eliminati dal curriculum scolastico, ridotte a discipline secondarie, su di esse scorre un giudizio economico: non producono a sufficienza, per cui si invita la popolazione scolastica e non a viverle che come esperienza breve e fugace dell’adolescenza, una breve malattia da cui si guarisce.

L’inclusione
Il disprezzo si struttura nella logica dell’inclusione, del “mettere dentro”, del recintare liberamente le vite di tutti. In ogni documento scolastico, in ogni trasmissione televisiva la parola che fortemente è ripetuta è “competizione”. Il trattato di Lisbona del 2007 è esplicito all’articolo 86: l’Europa dev’essere altamente competitiva. La competizione dev’essere inclusiva, la grande novità dell’Europa post 1989 è l’inclusione, l’eguaglianza dei soggetti in funzione del mercato: nessuno dev’essere lasciato fuori del mercato. Tutti – nelle loro differenze – devono essere accolti nel mercato, ed inclusi: lo scandalo è restarne fuori, per cui ogni resistenza all’inclusione è persino medicalizzata. Un esercito di psicologi e medici scrutano il disagio dei resistenti per normalizzarlo, per deprivarlo della capacità creativa-oppositiva e renderlo normale e felice, come gli altri, pronto ad entrare nel recinto dell’inclusione.

La formazione come esperienza economica
La formazione dev’essere oggi per il capitalismo mondializzato un’esperienza economica. Non si forma il cittadino, la persona, ma l’homo oeconomicus. Tutti devono essere inclusi nel processo di governo delle esistenze funzionali all’economia, sin dall’età più tenera. Ogni sistema totalitario è attento alla formazione dei più piccoli:

«Un buon esempio è l’istruzione. Un tempo il crescere non era un processo economico: ciò che un ragazzo o una ragazza imparavano a casa propria non era scarso. Ognuno apprendeva a parlare la sua lingua vernacolare nonché le conoscenze indispensabili per una vita vernacolare. Sarebbe stato impossibile, salvo rare eccezioni, definire la crescita un processo di capitalizzazione della popolazione attiva. Oggi tutto questo è cambiato. I genitori sono diventati insegnanti ausiliari all’interno del sistema didattico. Sono responsabili di quegli input fondamentali di capitale umano, per usare il gergo degli economisti, grazie ai quali i loro rampolli otterranno la qualifica di “homo oeconomicus”. È quindi del tutto ragionevole che l’economista attivo nel settore didattico si preoccupi di come convincere la madre a iniettare la maggior quantità possibile di input di capitale non rimunerato nel proprio bambino. […] Quando i bambini entrano in prima elementare, esistono già tra loro differenze rilevanti nelle capacità verbali e matematiche. Tali differenze rispecchiano anzitutto variazioni in termini di doti naturali e in secondo luogo la quantità di capitale umano che il bambino acquisisce prima dei sei anni. Lo stock di capitale umano acquisito rispecchia, a sua volta, differenti input di tempo e di altre risorse da parte di genitori, insegnanti, fratelli e del bambino stesso. Il processo d’acquisizione prescolare di capitale umano è analogo alla successiva acquisizione di capitale umano attraverso la scolarizzazione e la formazione sul luogo di lavoro. Gli input non rimunerati di tempo e di fatica investiti dalla madre nella capitalizzazione del figlio sono qui correttamente presentati come la prima fonte di formazione del capitale umano. E anche chi consideri ridicole queste espressioni, deve necessariamente ammettere la realtà dei loro contenuti in una società in cui le capacità sono ritenute scarse e devono essere prodotte economicamente».[1]

L’inclusione è nel segno della riduzione della persona e delle differenze ad inclusione per la competizione. Tutti devono essere messi al nastro di partenza pronti ad una lotta darwiniana. La sofferenza, il disagio dei resistenti, gli alunni che devono forzare la loro natura per riorientarla secondo i dettami dell’economia, è un problema mai affrontato. Nelle scuole si spendono risorse contro il bullismo, per proiettare la violenza su pochi adolescenti disagiati e non svelare che l’inclusione è l’istituzionalizzazione del bullismo. L’orientamento scolastico è fortemente indirizzato verso alcune facoltà, mentre l’orientamento verso le facoltà umanistiche è ridotto a presenza burocratica veloce.
L’inclusione deve formare all’economia, il neoliberismo esige e caldeggia le libertà delle merci, ma non delle persone che le devono servire: tutti servi, tutti uguali.

L’emancipazione
L’emancipazione è parola scomparsa. Essa è, invece, costitutiva della nostra costituzione rispettosa della volontà di ciascuno, è la libertà dai condizionamenti, dai recinti sociali e cognitivi in cui le persone sono costrette. In particolare gli articoli 46 e 47 della Costituzione, per emancipare il soggetto dall’economia, dal suo determinismo, prevedono la partecipazione alla gestione dell’azienda, in modo che vi sia democrazia integrale:

«Art. 46.
Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».
«Art. 47.
La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese».

L’emancipazione è libertà implicante coscienza sociale collettiva, nella quale si concretizza la libertà. L’esperienza della libertà è attività, partecipazione, mentre l’inclusione è passività: il soggetto non discute il sistema, è immesso al suo interno senza la possibilità di scegliere. La terribilità della condizione attuale è che, malgrado le violenze delle controriforme, i lavoratori, le classi medie, non concepiscono minimamente la possibilità di discutere il sistema che li aliena, anzi talvolta sono il veicolo più immediato che puntella il sistema. Naturalmente una delle cause è l’istruzione per come oggi viene intesa e praticata: essa deve formare l’imprenditore, per cui quest’ultimo è giudicato intoccabile, figura semimetafisica ed astratta. L’istruzione, invece, nel dettato costituzionale, è libera dai condizionamenti del mercato, perché deve formare la persona: essa ha il compito di liberare dai condizionamenti. Il dettato costituzionale è nell’ottica dell’emancipazione e non dell’inclusione. Così recita l’articolo 3:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Gioverebbe dunque ripartire dalla lettera e dallo spirito antieconomicistico e umanistico del dettato costituzionale in merito, e dal concetto di emancipazione che sostanzia i suoi articoli, mentre i manutengoli del capitalismo mondializzato nel nostro Paese si fondano sul regime dell’inclusione che rendono le persone strumenti passivi di forze economiche ipostatizzate.

Salvatore A. Bravo

[1] Ivan Illich, Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza, Gender, 1982, pp. 32-33; Neri Pozza, Vicenza 2013.


Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.

Ivan Illich (1926-2002) – Eutrapelìa. Due sono le chiavi di questa virtù: il sorriso e la misura. L’austerità non significa isolamento o chiusura in se stessi. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelìa, l’amicizia.


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La convivialità

La convivialità

Austerità, eutrapeìa e libertà conviviale

di Salvatore A. Bravo

 

Ivan Illich non è un pensatore rintracciabile nelle gabbie ideologiche. Esemplificando, lo si potrebbe collocare a “sinistra”, ma innumerevoli sono le motivazioni parallele che potrebbero espungerlo dalla “sinistra”. Non è un marxista, in primis, benché abbia riconfigurato nella sua prospettiva sociale e filosofica il senso della libertà, la critica come modalità costruttiva, l’alienazione come obiettivo primario, la quale per essere trascesa necessita che si scinda dai processi di valorizzazione. È stato un cattolico anomalo, da Monsignore della chiesa cattolica non ha mai abdicato alla sua fede, ma ha fortemente contestato l’istituzione distinguendola dal messaggio del Vangelo. È stato un uomo che ha cercato di testimoniare la sua ricerca alternativa alla tecnocrazia medica, rifiutando le cure per un tumore al volto, che battezzò “la mia mortalità”, col quale si confrontò con cure alternative, e accettando la morte quale limite invalicabile e rispettoso della vita. La sua esistenza fu improntata all’autonomia, per cui ogni schema e messa in scena dei poteri costituiti, anche culturali, erano aborriti da Illich: allo spettacolo prediligeva l’impegno e la ricerca. La sua vita è stata nel segno della linea di confine, sfuggente ad ogni rassicurante categoria.

La convivialità è stato il suo progetto politico ed economico disorganico al capitalismo liberista come al capitalismo di stato. La convivialità è in sintesi l’autonomia del pensare come del fare, che si oppone alle forme di dipendenza tecnocratiche che proliferano in ogni sistema. In Illich la libertà del Vangelo si coniuga con la libertà di Marx dell’Ideologia tedesca, che nel Capitale ha quale punto di riferimento il senso della misura. Non è un caso che nel Capitale l’autore più citato sia Aristotele. La libertà conviviale di Illich è austerità ed eutrapelìa: [1] la prima è si coniuga con la seconda. È possibile la comunità solo se i soggetti in modo autonomo discernono tra l’essenziale e l’inessenziale per lasciare spazi a tutti, perché l’austerità è nel segno del limite, affinché anche l’altro possa esserci, essere riconosciuto. Senza il senso del limite, non vi è che sopraffazione e dipendenza:

«Parlando di “convivialità” dello strumento mi rendo conto di dare un senso in parte nuovo al significato corrente della parola. Lo faccio perché ho bisogno di un termine tecnico per indicare lo strumento che sia scientificamente razionale e destinato all’uomo austeramente anarchico. L’uomo che trova la propria gioia nell’impiego dello strumento conviviale io lo chiamo austero. Egli conosce ciò che lo spagnolo chiama la convivencialidad, vive in quella che il tedesco definisce Mitmenschlichkeit. L’austerità non significa infatti isolamento o chiusura in se stessi. Per Aristotele come per Tommaso d’Aquino, è il fondamento dell’amicizia. Trattando del gioco ordinato e creatore, Tommaso definisce l’austerità come una virtù che non esclude tutti i piaceri, ma soltanto quelli che degradano o ostacolano le relazioni personali. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelìa, l’amicizia».[2]

 

 

Il dono

Per Illich l’economia liberista dell’acquisizione proprietaria non esprime che una possibilità della condizione umana. Gli esseri umani sono esseri significanti e simbolici, come hanno dimostrato nel corso della loro storia. Il baratto non è la natura dell’uomo, è sicuramente una potenzialità che fa appello ai bisogni inautentici, la sua forza è nel rivolgersi al cavallo nero (istinti nel mito della biga alata di Platone) presente in ogni essere umano, ma esso è una parte, non è un tutto.

La cultura del dono riposiziona l’essere umano nella razionalità conviviale e comunitaria. Il dono è l’irruzione dell’inutile, del gesto fine a se stesso che riannoda le relazioni liberandole dal calcolo utilitaristico. Nel dono si è guardati, si è riconosciuti e si guarda l’altro nella sua singolarità irripetibile sottratta al meccanicismo della produzione seriale al fine acquisitivo. Nel dono l’altro appare nel suo splendore, il legame di ordine emozionale e razionale attraversa il tempo, per restare nella memoria, e si magnifica l’anima umana, la si disaliena dalla violenza acquisitiva che riduce l’essere umano ad un contabile senza il senso del limite:

«L’uomo non vive soltanto di beni e di servizi, ma della libertà di modellare gli oggetti che gli stanno attorno, di conformarli al suo gusto, di servirsene con gli altri e per gli altri. Nei paesi ricchi, i carcerati dispongono spesso di beni e servizi in quantità maggiore delle loro famiglie, ma non hanno voce in capitolo riguardo al come le cose sono fatte, né diritto di interloquire sull’uso che se ne fa: degradati al rango di consumatori-utenti allo stato puro, sono privi di convivialità. Intendo per convivialità il contrario della produttività industriale. Ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l’ambiente e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. Questi strumenti si possono ordinare in una serie continua avente a un estremo lo strumento dominante e all’estremo opposto lo strumento conviviale: il passaggio dalla produttività alla convivialità è il passaggio dalla ripetizione della carenza alla spontaneità del dono. Il rapporto industriale è riflesso condizionato, risposta stereotipa dell’individuo ai messaggi emessi da un altro utente, che egli non conoscerà mai, o da un ambiente artificiale, che mai comprenderà; il rapporto conviviale, sempre nuovo, è opera di persone che partecipano alla creazione della vita sociale. Passare dalla produttività alla convivialità significa sostituire a un valore tecnico un valore etico, a un valore materializzato un valore realizzato. La convivialità è la libertà individuale realizzata nel rapporto di produzione in seno a una società dotata di strumenti efficaci».[3]

 

 

 

Il monopolio radicale

La convivialità è tanto più necessaria tanto più si afferma il monopolio radicale, il quale è finalizzato ad impedire la scelta, a rappresentarsi l’alternativa, per naturalizzare il fare come il pensiero unico. Il totalitarismo capitalistico lavora con la propaganda per lobotomizzare, per trasformare la persona in consumatore di un prodotto unico, in modo da impedire il pensiero dell’alternativa al prodotto. Il monopolio radicale minaccia la libera scelta, come lo sviluppo delle personalità: è finalizzato a produrre un’umanità seriale asservita alla catena del capitale. Si soffocano sul nascere l’immaginazione e il pensiero divergente così che il mercato possa essere padrone assoluto delle vite e possa sostituirsi alle Chiese come allo Stato:

«Gli strumenti sovrefficienti possono estinguere l’uomo distruggendo l’equilibrio tra lui ed il suo ambiente. Ma certi strumenti possono essere sovrefficienti in tutt’altro modo: alterando il rapporto tra ciò che uno ha bisogno di fare da sé e ciò che può attingere bell’e fatto dall’industria. In questa seconda dimensione di possibile squilibrio, la produzione sovrefficiente dà luogo a un monopolio radicale. Per monopolio radicale intendo un tipo di dominio di un prodotto, che va molto al di là di ciò che il termine solitamente indica. Generalmente si intende per monopolio il controllo esclusivo, da parte di una ditta, sui mezzi di produzione o di vendita di un bene o d’un servizio. Si dirà che la CocaCola ha il monopolio delle bibite analcoliche del Nicaragua in quanto è l’unica produttrice di simili bevande, in quel paese, che disponga di mezzi pubblicitari moderni. La Nestlé impone la propria marca di cioccolato controllando il mercato della materia prima, una fabbrica di automobili controllando le importazioni dall’estero, una compagnia televisiva assicurandosi una licenza esclusiva. I monopoli di questo tipo, è da un secolo che lo si riconosce, sono dei pericolosi sottoprodotti dello sviluppo industriale; e si sono anche emanate delle leggi nel tentativo, pressoché vano, di tenerli a freno. Normalmente la legislazione con cui si cerca di ostacolare la formazione di monopoli ha mirato a impedire che, tramite loro, s’imponesse un limite alla crescita economica; non c’era alcun intento di proteggere l’individuo».[4]

 

 

Linguaggio e monopolio radicale

Il monopolio radicale e la società “dell’insocievole socievolezza” – per poter destabilizzare il soggetto e ridurlo ad un ente che fa parte del e che vuole il sistema – atomizza e manipola l’essere umano controllando il linguaggio. Illich fa notare come nella società acquisitiva senza comunità, il linguaggio è curvato nella forma sostantivata, in tal modo si riduce il movimento, la prassi che corrispondono alla forma verbale, per orientarsi verso i sostantivi ed il linguaggio sostantivato con una duplice finalità: dirigere l’attenzione verso le merci, inibire il processo di trasformazione, il quale per disporsi alla prassi dev’essere formato alla trasformazione: solo i verbi possono indicare il trascendimento attivo, mentre i sostantivi sono prescrittivi della passività. I verbi esprimono l’autonomia con il movimento dialettico del pensiero, i sostantivi formano all’acquisizione delle merci, alla dispersione del soggetto nel naufragio delle merci:

«L’individuo che impara qualcosa leggendo un libro dice di aver acquisito educazione. Lo slittamento funzionale dal verbo al sostantivo sottolinea l’impoverimento della immaginazione sociale. L’uso nominalistico della lingua esprime dei rapporti di proprietà: la gente parla del lavoro che ha. In tutta l’America Latina solo i salariati dicono che hanno (o non hanno) lavoro, a differenza dei contadini che invece lo fanno: “Van a trabajar, pero no tienen trabajo”. I lavoratori moderni e sindacalizzati reclamano dall’industria non soltanto più beni e servizi, ma anche più posti di lavoro. Non soltanto il fare ma anche il volere è sostantivato. L’“abitazione” è più una merce che un’attività; l’alloggio diventa un prodotto che ci si procura o si rivendica perché si è privi del potere di dargli forma da se stessi. Si acquista sapere, mobilità, persino sensibilità o salute. Si ha lavoro o salute, come si hanno divertimenti. Il passaggio dal verbo al sostantivo rispecchia l’impoverimento del concetto di proprietà. Termini come possesso, appropriazione, abuso non servono più per definire il rapporto dell’individuo o del gruppo con una istituzione come la scuola: nella sua funzione essenziale, infatti, un simile strumento sfugge a ogni controllo. Le affermazioni di proprietà nei riguardi dello strumento passano a indicare la capacità di disporre dei suoi prodotti, si tratti dell’interesse sul capitale o delle merci, o anche del prestigio d’ogni sorta legato all’una o all’altra di queste operazioni. Il consumatore-utente integrale, l’uomo pienamente industrializzato, non ha infatti altro di suo se non ciò che consuma. Dice: la mia educazione, i miei movimenti, i miei divertimenti, la mia salute. Man mano che l’ambito del suo fare si restringe, egli richiede dei prodotti di cui si dice proprietario».[5]

 

 

Cosa può mettere in crisi il sistema?

Per Illich il sistema non è che una danza di morte, velocemente il disastro umano ed ecologico ci portano verso la catastrofe, verso l’apocalisse. Solo l’avvicinarsi della catastrofe può mettere in crisi il sistema e condurre a serie riflessioni partecipate sulla trasformazione del sistema. Al momento, malgrado il disastro climatico e l’atomismo conflittuale dell’homo oeconomicus, nulla si profila all’orizzonte, anzi più si avvicina il disastro, più il sistema per congelare se stesso ripudia ogni riforma. Forse l’unica spia ipotizzabile dell’estrema minaccia a cui l’integralismo economico si sottopone ed è posto, è l’avversione verso ogni cambiamento, il tentativo di perpetrare se stesso con ogni mezzo: la paura del cambiamento a volte fa mettere in campo forme di resistenza che paiono invincibili, ma che celano solo la notte verso cui il sistema si è avviato.

Salvatore A. Bravo

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[1] Virtù del comportarsi piacevolmente e del divertirsi con modo. Dal greco eutrapelìa, composto da eu bene e trepò volgere. Se il vivere civile ha dei cardini, uno di questi è l’eutrapelìa. Si tratta di una vera e propria virtù, per come è descritta nell’Etica di Aristotele e nel Convivio di Dante. Essa consiste nella capacità di vivere il divertimento in maniera piena e moderata, specie in compagnia, e di porsi con gli altri in maniera piacevole e ridente. Aristotele la pone come giusto mezzo fra boria e buffoneria, e Dante la rimarca come inclinazione a godere convivialmente con cordialità e affetto. Due sono le chiavi di questa virtù: il sorriso e la misura. Certo la satira più graffiante e la più dignitosa serietà hanno le loro funzioni; ma nell’ottica della vita sociale è l’eutrapelìa ad assicurare il più piacevole risultato. Passa per la capacità di trarre un piacere contento dalla situazione in cui ci si trova, e per una profonda comprensione degli altri, e di come tenere lo spirito leggero, senza macigni. Di per sé è un carattere splendido; ma se identifichiamo l’eutrapelìa come virtù – etimologicamente, una virtù di ‘volgere al bene’ -, allora implichiamo che possa e anzi debba essere esercitata. Ad esempio, si può nascere con un’inclinazione all’onestà, ma l’onestà è una virtù che va allenata per tutta la vita – e tale è l’eutrapelìa. È un muscolo morale. Il saper trarre e offrire un piacere moderato, senza frigidità e sgangheratezze, è una base solida su cui costruire la propria vita. Testo originale pubblicato su unaparolaalgiorno.it: https://unaparolaalgiorno.it/significato/E/eutrapelia

[2] Ivan Illich, Convivialità, Red Edizioni, 2013, pp. 4-5.

[3] Ibidem, p. 11.

[4] Ibidem, p. 32.

[5] Ibidem, pp. 51-52.


Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.

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Salvatore A. Bravo – La neuroeconomia è ipertrofia delle merci, e sottrae all’essere umano la sua essenza e le sue potenzialità da concretizzare in atti di senso. L’uomo è spirito, e sapere ciò che questo comporta è il compito più grande. L’uomo è davvero soltanto ciò che sa di essere.

Nuoroeconomia–Neuroscienze

La neuroeconomia

Lezioni sulla logica

Lezioni sulla logica

Pensare e avere pensieri sono due cose diverse.
L’oggetto della nostra disciplina consiste nel sapere il pensare; sapere ciò che siamo.
L’uomo è spirito, e sapere ciò che questo comporta è il compito più grande. L’uomo è davvero soltanto ciò che sa di essere.

G.W.F. Hegel

Salvatore A. Bravo

La neuroeconomia

 

 

La neuroeconomia

L’economicismo integralista negli ultimi decenni sta compiendo un salto qualitativo. Dalla propaganda mediatica continua ed ossessiva, ma ancora debolmente controllabile dagli utenti e dai popoli, si sta gradualmente strutturando una nuova strategia di mercato: entrare nella mente, controllare il cervello, per disporlo al baratto.

Brainfluence

Brainfluence

Si tratta di un intervento radicale e discreto, l’economia trasforma gli esseri umani, i popoli, in stabili consumatori per il mercato, ambisce a forgiare la natura umana. Il mercato – novello Demiurgo – vuole plasmare i circuiti cerebrali per rendere la persona non solo consumatore, ma specialmente, dipendente in modo assoluto dal mercato, anzi ad esso organico. Si tratta di una forma di totalitarismo, assolutamente nuova, che non trova precedenti nella storia umana.

Digital Neuromarketing

Digital Neuromarketing

Il mercato ipostatizza se stesso, mediante l’asservimento globale all’economia con una strategia assolutamente nuova: entrare nella mente, fessurare la mente ed incidere in essa la logica del mercato. Le neuroscienze, la psichiatria e la psicologia divengono lo sgabello dell’economia, mettono a disposizione le loro ricerche per rafforzare l’espansione del mercato e contribuire alla trasformazione dei popoli in pubblici dipendenti del valore di scambio, inconsapevoli e nel contempo complici.

 

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Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience

Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience

 

La neuroecomia

La neuroecomia

Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience01

Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience

Neuroeconomia in azione

Neuroeconomia in azione

Neuroeconomia, Neurofinanza

Neuroeconomia, Neurofinanza

Neuroeconomia, neuromarketing e processi decisionali

Neuroeconomia, neuromarketing e processi decisionali

Neuroeconomia. El modelo Spenta

Neuroeconomia. El modelo Spenta

Bradley R. Poste, Neuroscienze cognitive. L'essenziale

Neuroscienze cognitive

Gli strumenti

La neuroeconomia si avvale delle neuroscienze, queste ultime portano a compimento un processo iniziato con David Hume ed Adam Smith.
David Hume ha destrutturato il soggetto rendendolo un fascio di emozioni in entrata ed in uscita senza nessuna consistenza ontologica, funzionale, in tal modo, alle logiche del baratto, dei desideri che lo attraversano e poi si dileguano, per poi ripresentarsi, come se il soggetto fosse un ciclo meccanico che puntualmente si riempie di desideri, li consuma, li svuota per ricominciare il ciclo.
Adam Smith ha ipostatizzato il mercato, affermando che l’essenza del soggetto umano è il baratto, lo scambio: tutta la storia umana è letta da Smith secondo la logica dello scambio e dell’utile.
Le due tesi – complementari l’una con l’altra – si possono facilmente smentire. Gli studi di Karl Polany, di Ivan Illich e di molti antropologi contraddicono l’integralismo economicistico ed il servidorame del turbocapitalismo: l’essenza dell’uomo è un’essenza generica (Gattugswesen), l’essere umano è simbolico, dà senso alla propria esistenza nelle circostanze che gli sono date.

Neuroeconomia

Neuroeconomia

Il fine attuale è smantellare ogni dubbio, ridurre le conoscenze, elidere la formazione critica ed umanistica in modo che la neuroeconomia e le neuroscienze possano agire senza ostacoli, glorificando il mercato ed i suoi crimini. Il primo di questi crimini è di ordine filosofico, si smantella un’intera tradizione, la si riduce a pochi autori funzionali alla logica del mercato. La neuroeconomia è ipertrofica nelle merci, ma sottrae all’essere umano la sua essenza, le potenzialità da concretizzare in atti di senso.

 

 

Neuroeconomia01

Neuroeconomia

Le neuroscienze, per entrare nella mente e decodificarla, per comprenderne i processi che favoriscono, hanno utilizzato dapprima la PET (Tomografia per emissione di positroni), che è uno strumento di registrazione indiretta dell’attività cerebrale, e successivamente l’fMRI (Risonanza Magnetica Nucleare funzionale) la quale è, invece, basata sul fenomeno della risonanza magnetica nucleare, che utilizza le proprietà nucleari di alcuni atomi in presenza di campi magnetici. I risultati della PET non sono immediati, per cui gradualmente è stata sostituita dall’fMRI, la quale invece riesce a dare risultati veloci. L’fMRI consente di visualizzare su una scala temporale quantificabile al dettaglio le alterazioni dell’ossigenazione delle regioni corticali, variazioni che si considerano siano in stretta relazione con il grado di attività delle regioni cerebrali.

 

Neuroeconomic Analysis

Neuroeconomic Analysis

La neuroeconomia è stata definita come la condizione in cui conoscenza ed utilizzazione dei processi cerebrali consentono di trovare dei nuovi fondamenti per le teorie economiche (Colin Camerer, La neuroeconomia. Come le neuroscienze possono spiegare l’economia [2004], Il Sole 24 Ore, 2008). Gli esperimenti di Platt e Paul Glimcher [Platt e Glimcher, 1999] sulle scimmie sono stati finalizzati a capire per comparazione la reazione degli esseri umani. Secondo l’esperimento di Platt è sufficiente l’inalazione di un ormone, l’ossitocina, per avere comportamenti generosi. La coscienza è così sostituita da ormoni, da agenti ormonali che possono indurre ad assumere comportamenti pro-comunitari o pro-mercato.

Neuroscienze cognitive

Neuroscienze cognitive

Neuroeconomics. Theory, Applications, ad Perspectives

Neuroeconomics. Theory, Applications, ad Perspectives

 

Le conoscenze e la formazione che dovrebbero essere al servizio dell’umanità, per favorirne i processi di emancipazione, sono ora la gabbia d’acciaio, la caverna, in cui l’essere umano è sospinto per essere allevato in funzione del mercato come un animale da batteria. L’animalizzazione dell’essere umano non potrebbe essere più palese.

Neuroeconomics

Neuroeconomics

 

Gli studi di Dondres e più tardi di Robert Stenberg (psicologo cognitivo) Michael Posner (psichiatra clinico) e Amos Tversky e Daniel Kanheman (psicologi dell’economia comportamentale), hanno poi contribuito a studiare mediante sperimentazione e quantificazione i tempi di reazione ad uno stimolo, le aree interessate e la conseguente reazioni. Gli studi sul sonno sono tesi a piegare il ciclo naturale della sospensione del consumo e della produzione in direzione dell’attività continua. Le neuroscienze offrono il fianco ideologico non solo all’economia, ma anche al ridimensionamento del pensiero: senza sonno non vi è pensiero, ma solo un essere sempre più vicino alla condizione di MUSULMANO: tali erano chiamati nei campi di sterminio le persone non più tali, o quasi, più simili ad oggetti con il soffio vitale, in loro non albergava pensiero o volontà personale:

«Seguendo l’iniziativa dell’Agenzia per le ricerche avanzate del Pentagono, i ricercatori di varie accademie stanno conducendo test sperimentali su una varietà di tecniche antisonno […]. Gli studi sull’insonnia efficiente si inseriscono in un programma che mira alla creazione di un nuovo genere di soldato […]. I passeri dalla corona bianca sono stati prelevati dall’ecosistema della costa del Pacifico, dove compiono i consueti percorsi stagionali, affinché diano il loro contributo al tentativo di imporre al corpo umano schemi artificiali di temporalità e di prestazione efficiente. Come la storia insegna, le innovazioni in campo militare vengono poi inevitabilmente assimilate in una sfera sociale più ampia, per cui il soldato a prova di sonno è l’antesignano del lavoratore o del consumatore immuni dal sonno. I farmaci contro il sonno, opportunamente presentati attraverso martellanti campagne pubblicitarie, diventerebbero in prima battuta un’opzione legata a un particolare stile di vita per poi tramutarsi, infine, in un’esigenza imprescindibile per grandi masse di persone. I sistemi di mercato 24/7 e un’infrastrutura globale concepita per forme di produzione e consumo senza limiti sono già una realtà da tempo, ma ora si tratta di costruire un soggetto umano che possa adeguarvisi in modo sempre più completo».[1]

 

Paul W. Glimcher, Decisions, Uncertainty, ans the Brain. The Science of Neuroeconimics

Paul W. Glimcher, Decisions, Uncertainty, ans the Brain. The Science of Neuroeconimics

Neuromarketing

Neuromarketing

In questo modo le neuroscienze, spesso finanziate da potentati economici, sono al servizio del mercato. Cade il mito, se qualcuno ci credeva, della neutralità della scienza, e del suo essere al servizio dell’umanità. Neuroscienze, psichiatria e psicologia sono così alleate in funzione adattiva, lavorano per ridurre l’essere umano a poche leve da stimolare secondo i bisogni del mercato. L’uomo macchina non più per la produzione, ma per il consumo. Si installano nell’essere umano l’abitudine a comprare, a vendersi, a desiderare l’inautentico agendo nella carne, stimolando alcuni settori dell’area corticale prevedendone gli effetti. Il biopotere non deve gestire la vita, ma il consumo, necessario è solo la vita del mercato, gli esseri umani non sono che comparse che animano il mercato. Si potrebbe definire l’attuale periodo storico come biomercato.
Il Regno animale dello Spirito descritto da Hegel e l’alienazione marxiana trovano nella contemporaneità, e probabilmente in un futuro prossimo, la loro massima realizzazione. L’atomizzazione dell’essere umano passa per una sorta di lobotomia: si elimina la creatività, la cura di sé e della comunità, per ridurre la mente a cervello, a poche parti di esso da stimolare secondo piani di investimento, offrendo in cambio l’illusione della libertà, della scelta.

 

Le condizione per la neuroeconomia

Il successo della neuroeconomia è possibile, perché si concretizza in un contesto storico sociale in cui l’essere umano è debilitato, reso debole e dunque indifeso da una serie di fattori: la cultura filosofica ha abbracciato il pensiero debole (G. Vattimo), la natura umana è dichiarata inesistente (M. Foucault). I diritti sociali tra cui la formazione sono nell’agenda finanziaria al fine di essere smantellati, i corpi medi (partiti, sindacati, associazioni) sono una presenza più formale che sostanziale.

Il soggetto, abbandonato ai flutti delle manipolazioni, non ha difese di ordine culturale, sociale e politico. L’intero sistema spinge a rendere il soggetto suddito ubbidiente della ipostasi mercato. Nei fatti si nega la democrazia in modo radicale, e con essa la Costituzione degli stati democratici e il Manifesto di Ventotene (1941) che teorizzava l’Europa dei popoli liberi ed emancipati. L’ordito economico che si sta delineando ha il fine di disegnare l’uomo ad una dimensione, sogno di ogni totalitarismo.

La Logica hegeliana per sottrarsi alla neuroeconomia

La tragedia dei nostri giorni è il vuoto politico. La pervasività della neuroeconomia ha un nuovo alleato: l’assenza delle sinistre, il silenzio sulla favola triste del libero mercato nella società dei diritti individuali.
La speranza vive nella concretezza dell’umanità che – malgrado il regno della chiacchiera mediatica – vive l’esperienza dell’alienazione e dell’infelicità collettiva. Il travaglio del negativo di tanti è l’humus per il pensiero, per la riorganizzazione teorica contro l’economicismo integralista. La resistenza è ancora possibile ed appare nei luoghi più impensabili: nelle istituzioni, nelle chiese, nei singoli isolati che conservano la nostalgia per l’unità come nel mito dell’androgino nel Simposio di Platone.
Al momento tutto è nebuloso, fosco, ma il tempo presente non è tutto, la storia a volte ha svolte improvvise. Malgrado ciò, l’essere umano è portatore potenziale della sua salvezza, reca con sé la possibilità sua più autentica: il pensiero quale attività concettualizzante, che riporta le rappresentazioni, gli stimoli, i desideri ad un ordine unitario di senso. Ripensare Hegel contro la neuroeconomia, ripensare il pensiero, reimparare l’attività del pensiero per difendersi dall’invasità dell’illimitato.
Soggettività e limite sono due capisaldi imprescindibili della natura umana senza di essi non vi è pensiero. Concludo ricordando cos’è il pensare secondo Hegel, perché solo il pensiero filosofico può salvarci dalla catastrofe dell’illimitato scientemente organizzato:

 

 

Lezioni sulla logica

Lezioni sulla logica

 

«È vero che ciascun uomo ha tuttavia una logica, una logica naturale; pensiamo in modo immediato, e per pensare non dobbiamo studiare la logica. Ci si appella per questo al fatto che la logica non sarebbe necessaria. Tuttavia, in primo luogo, conoscere il pensare è già un oggetto degno di per sé; e in secondo luogo, solo così impariamo in che misura quel che pensiamo è vero.
L’utilità della logica consiste perciò nel farci padroni di questo pensare.
Pensare e avere pensieri sono due cose diverse.
L’oggetto della nostra disciplina consiste nel sapere il pensare; sapere ciò che siamo.
L’uomo è spirito, e sapere ciò che questo comporta è il compito più grande. L’uomo è davvero soltanto ciò che sa di essere.
Perciò, l’uomo reca con sé il diritto al pensare; ma sapere in cosa veramente consista tale diritto è qualcosa di più. Non esiste alcuna logica artificiale, come si usa dire, ma esiste senz’altro una logica conscia. I pensieri, per così dire, li riceviamo nelle nostre teste; pensieri che sono il vero. Apprendiamo poi a tener fermo qualcosa di universale, ed è in ciò che consiste la nostra formazione [Bildung], mediante cui impariamo a far emergere l’essenziale. Le considerazioni di utilità, qui, non vanno disdegnate. Si deve voler conoscere il vero per se stesso, si afferma, e tuttavia anche l’utile costituisce un altro lato della cosa. Dio si sacrifica nella natura a beneficio del mondo individuale; quel che è in sé e per sé il più eccellente è anche il più utile».[2]

Salvatore A. Bravo

 

[1] J. Crary, 24/7. Il Capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, 2015, pp. 5-6.

[2] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla Logica [1831], ETS, Pisa 2018, p. 14.

 

 

 

 


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Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.

Ivan Illich 001

nella-vigna-del-testo-327

«E infine, tutto il mondo deve diventare terra straniera per chi vuole leggere in modo perfetto. Dice il poeta: “non so quale dolcezza ci lega al suolo natio, e non ci permette di dimenticarlo”. Il filosofo deve imparare, a poco a poco, a lasciarlo. Sono queste alcune delle dodici regole di carattere generale che Ugo di San Vittore prescrive per acquisire quelle abitudini che sono necessarie affinché lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza, che diventa così la casa sospirata».

Ivan Illich, Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, Cortina, 1994, p. 17.

 


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