Antonio Fiocco – Sul racconto «Di argini e strade» di Fernanda Mazzoli.

Fernanda Mazzoli - Recensione «Di artini e strade»

Fernanda Mazzoli, Di argini e strade. Un racconto di pianura, Petite Plaisance, Pistoia 2020.

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Antonio Fiocco

Sul racconto Di argini e strade di Fernanda Mazzoli

Ben prima di qualsiasi commento estetico o contenutistico, di un’opera di narrativa è condicio sine qua non il coinvolgimento emotivo di chi legge. E questo si tratti di un romanzo di Salgari o di Dumas in un’età, ahimè, trascorsa, o, ben più tardi, di una raffinata divagazione proustiana sulla facciata di un duomo medievale o sulle acque di Venezia. Questo effetto di partecipazione Fernanda Mazzoli lo ottiene con naturalezza. Personalmente, indotto dalla triste condizione del mondo attuale a cercare da decenni risposte nella filosofia, la lettura del racconto di Fernanda mi fa riscoprire una dimensione simbolica che credevo dimenticata, ma evidentemente latente e che mi accorgo essere assolutamente complementare a quella, necessariamente più fredda e cerebrale, che pertiene al grande pensiero filosofico. Infatti, come si può realmente desiderare la salvezza del mondo se non se ne sente un fascino irriducibile a ogni lucido ragionamento? E tuttavia riaffiorano reminiscenze di storia del pensiero. Nel racconto il narratore è un condannato a morte e questa condizione tende all’estremo le sue corde interiori, così come pretesero gli intellettuali tedeschi durante la Grande Guerra, preconizzando un muto contatto con la morte, e di ciò è da salvare il concetto, tralasciando le contingenti ragioni ideologiche di contrapposizione a una immaginaria “superficialità francese”. Fernanda racconta, racconta, sempre attenta a un impressionismo di immagini fuso con continue annotazioni psicologiche, indicative di una vita interiore ormai rara, e solo chi la possiede può realmente provare rivolta per la piega presa dal mondo sociale attuale. E infatti, per es., c’è uno stridente contrasto fra questa ricchezza e quanto, dopo una giornata di lavoro alienato, ci si illude di trovare accendendo la televisione e venendone “ripagati” con spot e miserevole ideologia consumistica in monotona salsa, un debordiano simulacro compensatorio di una vita negata. Per l’atmosfera sognante del racconto non trovo veri paragoni con autori famosi. Trovo forse una eco semplicemente nell’equilibrio fra i particolari realistici e la vicenda arcana, densa di un fascino misterioso, che genera spaesamento, nel Moby Dick di Melville. Ecco, forse, il mistero che circonda la muta ragazza del racconto, che simboleggia forse la vita, forse la morte, forse entrambe, può essere lo stesso dell’adolescente che incarna una pienezza irraggiungibile e confonde ogni certezza nel maturo musicista di La morte a Venezia nella sontuosa trasposizione cinematografica di Luchino Visconti del romanzo di Thomas Mann, e gli fa un arcano cenno al momento della morte, un istante supremo in cui tutto si fa chiaro.

Altro aspetto che emerge, o almeno questo è quanto viene evocato nello scrivente, è l’attenzione per un mondo rurale-artigianale che, per quanto scomparso solo da pochi decenni, ormai appare lontanissimo. Chi scrive rammenta da parte dei suoi genitori così tanti ricordi del paese originario del Polesine dai quali si sarebbe potuta ricavare una nuova sterminata “ricerca del tempo perduto” – e questo vale per ogni angolo della vecchia Italia rurale – e rimpiange amaramente di avere ascoltato distrattamente quei racconti, con la sufficienza di chi già si sentiva scioccamente appartenente a un mondo più moderno e superiore. Un tempo quasi ogni persona aveva un soprannome che ne segnava una precisa personalità sociale e psicologica e in ogni caso era individuato per qualcosa di unico e irripetibile. Oggi tutto questo, nell’era della omologazione totale, nell’epoca del “sì” heideggeriano, sembra quasi non essere mai esistito. Ma è un grande pregio della narrazione di Fernanda averci ricordato “come eravamo”, o, meglio, che “qualcosa eravamo”, anziché essere strumenti passivi, sussunti a un rapporto sociale anonimo e impersonale, come in realtà rischiamo pericolosamente e inesorabilmente di avviarci a ridurci ora. Doveroso anche un altro tipo di annotazione, apparentemente non in linea con l’atmosfera senza tempo che aleggia nel racconto. Certo, si potrebbe sempre fare un parallelo fra la tirannide del XX secolo e quella del XV, nonché, ahimè, di tutti secoli, ma sarebbe una operazione troppo facile e innocua. Purtroppo si vive ormai in una situazione storica nella quale, dopo alcuni decenni di un antifascismo di maniera dettato esclusivamente da opportunità politiche e che non aveva mai fatto veramente i conti con un passato criminale, si è osato parlare affettuosamente di “ragazzi di Salò”, equiparando i militi delle brigate nere con i combattenti della Resistenza. E per di più era solo una camera di compensazione per giungere, come ormai traspare da molti inquietanti segnali, a un triste rovesciamento di ruoli, funzionale al crollo della razionalità conseguente all’adeguamento del Capitale al suo concetto e indipendente perfino dai miseri scopi contingenti dei protagonisti empirici di tanta bassezza. Ebbene, attraverso la figura del narratore, un giovane partigiano condannato a morte assieme a tanti compagni, Fernanda Mazzoli a sua volta “osa” ristabilire un giusto criterio di giudizio. Forse, di fronte alla montante marea avversa, questa isola di verità non avrà una approvazione immediata, forse sarà semplicemente un gesto di testimonianza, ma la testimonianza comunque attesta che quanto portò tanti giovani a sacrificare la loro vita, finché esisterà un “Uomo” adeguato al suo concetto, non potrà estinguersi, nonostante oblio e menzogne. Con le parole di Massimo Bontempelli, «[…] un testo […] ha già un significato metaindividuale per il suo scrivente già nel momento in cui lo scrive, prima ancora che abbia raggiunto anche un solo destinatario esterno».

Antonio Fiocco

6 ottobre 2020

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Petite Plaisance – Una nuova progettualità comunitaria può essere costruita solo sulla base dell’umanesimo filosofico, mettendo in opera prove di concreta e buona utopia

Progettualità comunitaria
«Chi vuol fare una ricerca conveniente sulla Costituzione migliore,
deve precisare dapprima quale è il modo di vita più desiderabile.
Se questo rimane sconosciuto,
di necessità rimane sconosciuta anche la Costituzione migliore».
Aristotele, Politica, VII, 1,1323 a, 1-4.






«[...] quello che fin dall’inizio distingue
il peggiore architetto dalla migliore delle api,
è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa
prima di averla costruita nella cera [...].
Egli non opera soltanto un mutamento di forma dell’elemento naturale;
egli contemporaneamente realizza in questo il proprio fine, di cui ha coscienza».
K. Marx, Il Capitale

 

***

Finché vivremo in un mondo caratterizzato dalle gravi sofferenze evitabili di centinaia di milioni di persone, sofferenze dovute principalmente alla struttura privatistica e mercificata dell’attuale modo di produzione sociale, sarà una necessità pensare ad un modo di produzione sociale ideale (costruendo la “celletta” nella nostra testa – come dice Marx) conforme alla natura umana che, richiamando una nobile ed antica tradizione, riteniamo ancora appropriato definire “comunista”.
Senza una buona proposta teorica, non può esistere alcuna buona attività pratica. E le proposte teoriche attualmente in campo definite “comuniste” non sono affatto buone (il plurale è d’obbligo, dato il permanere di vari “marxismi” pietrificati, cui vengono tuttora ancorati programmi politici privi di fondamento filosofico).
In un’epoca in cui il modo di produzione capitalistico sta dando prova della sua pervasiva distruttività sociale e naturale, teorizzare la necessità di un modo di produzione alternativo in grado di strutturare rapporti armonici fra gli uomini e con la natura, forse può destare interesse e vicinanza. Ma un vero comunismo può essere costruito solo sull’umanesimo filosofico. Delineare il “fondamento umanistico” del progetto teorico del comunismo (ossia di un modo di produzione sociale complessivo idealmente conformato, per struttura e finalità, sulle principali esigenze della natura umana), è una “necessità”.
Un progetto politico che abbia come finalità la realizzazione delle più naturali modalità sociali, necessita di un fondamento filosofico, e questo fondamento non può che essere costituito dall’Uomo. L’Uomo (scritto con la maiuscola per indicare, con questo termine, ciò che vi è di universale nel genere umano, ossia l’umanità trascendentalmente intesa) è in effetti il riferimento costitutivo della totalità sociale, ed è anche il solo ente in grado di pensare l’intero, di darvi un senso e di averne cura.
L’Uomo è il fondamento della verità dell’essere, ossia di tutto ciò che è, e  questa posizione filosofica costituisce la base della progettualità politica. Dato che l’essere assume la propria compiuta verità quando consente all’Uomo una vita vera, ossia conforme alla sua natura razionale e morale, l’Uomo si pone come fondamento della verità dell’essere quando ne pensa in questo modo il senso ed il valore (fermi restando il rispetto e la cura che si devono al cosmo naturale). Il progetto comunitario cui si fa riferimento non consiste infatti in altro se non in un modo di produzione ideale conforme alla natura umana, in grado cioè di realizzare quella armonica convivenza comunitaria di cui gli uomini, per natura, hanno bisogno appunto per la loro stessa realizzazione.
Conoscendo  le tendenze filosofiche contemporanee, questa prospettiva rischierà, in alcuni epigoni di Nietzsche e Heidegger, di essere interpretata come troppo “antropocentrica”, ossia troppo incentrata sull’uomo come “dominatore” della natura. Ma tale interpretazione è da un lato errata – in quanto l’umanesimo è cosa ben diversa dall’antropocentrismo –, e dall’altro lato pretestuosa – in quanto, in un sistema in cui tutto è strumentalizzato al profitto, chi considera “l’uomo” come dominatore cerca davvero, consapevolmente o meno, solo un pretesto per non criticare il sistema capitalistico stesso.
La cultura dell’umanesimo progettuale non è affatto un pericolo per la natura. Tale pericolo è invece costituito da tutti quei modi di produzione, quale principalmente è quello capitalistico, che si pongono come fine la massimizzazione della ricchezza e della potenza degli agenti economico-sociali più forti, anziché la buona vita comunitaria degli uomini tutti.
La cultura umanistica è progettuale in quanto invita ad una possibile pedagogia narrativa, che favorisca la paziente ricostruzione dei processi storici delle soggettività e la reale comunicazione di esperienze significative. Invita altresì alla ricerca continua di nuovi orizzonti oltre la “gabbia d’acciaio” capitalistica, alla promozione di valori quali, per esempio, la partecipazione reale dei cittadini, la solidarietà per una nuova cittadinanza, in una comunità che voglia e sappia davvero educacare se stessa superando l’alienazione desertificante cui costringe il mondo delle merci, una cultura “ubiquitaria” nell’humus di questa cittadinanza attiva, senza deleghe: una “comunità educante”. Una cultura capace di rafforzare nei giovani la memoria storica come principale risorsa per la costruzione della propria identità, facendo proprio il pensiero genealogico,  per educare ed educarsi all’ascolto delle “altre memorie”, per sperimentare la produzione di materiali narrativi “altri”,  sia in forma individuale, sia in forma collettiva, con gesti, comportamenti, azioni simboliche, esercizi di cittadinanza attiva, mettendo in opera prove di concreta e buona utopia sul palcoscenico di una quotidianità condivisa.

Petite Plaisance


 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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