Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».

Norman G. Finkelstein

046

"L'Olocausto si è dimostrato un'indispensabile arma ideologica." "L'anomalia dell'Olocausto nazista non deriva dall'evento in sé ma dallo sfruttamento industriale che è cresciuto attorno a esso." "La campagna in corso dell'industria dell'Olocausto per estorcere denaro all'Europa in nome delle 'vittime bisognose dell'Olocausto' ha ridotto la statura morale del loro martirio a quella di un casinò di Montecarlo." Sono solo alcune delle tesi provocatorie sostenute in questo libro da Finkelstein, ebreo americano e figlio di sopravvissuti allo sterminio, che in questo libro mette in discussione due dogmi: l'Olocausto è un evento storico unico ed è il punto culminante di un'odio irrazionale ed eterno dei gentili contro gli ebrei.

 

 

L’Olocausto non sfugge alla sacra legge del capitale: la mercificazione. La legge della valorizzazione è categoria politica del capitale. Pur contradicendo la natura stessa della politica, dal gr. πόλις «città», la quale è relazione sociale condivisa, ha significati di ordine metaforico: la merce è il mezzo dello scambio, la valorizzazione illimitata. È anche la tattica della politica imperiale, che deve ridurre tutto all’irrilevanza, porre su un piano orizzontale ogni evento e in tal modo liberata dai vincoli etici e comunitari: tutto può essere usato, come mezzo per la dimenticanza, per fondare il popolo dei lotofagi –Λωτοϕάγοι, Lotophăgi, immagine usata da Omero nell’Odissea come da Platone nella Repubblica per rappresentare i mangiatori di loto (oggi: oppio mediatico), pianta della dimenticanza. L’Olocausto, prodotto dell’industria, è il mezzo con il quale si traccia una linea fittizia tra il bene ed il male da usare in modo ideologico, in totale spregio delle vittime degli olocausti. L’Olocausto degli ebrei è oggi un collante per aggregare le folle atomizzate del liberismo, in nome del bene – il liberismo assoluto –, ricordano il male assoluto: il nazifascismo. Il male è proiettato all’esterno, dimentichi delle tragedie dei micro e macro olocausti che si consumano nei nostri giorni. Naturalmente l’industria vivissima ed esiziale ottiene una pluralità di vantaggi dalla vendita del prodotto merce, alla trasformazione del mondo neoliberista il migliore dei mondi possibili in ipostasi, in un destino intrasformabile. La prassi si ritrae per osannare il sistema vigente. Come il terzo Reich anche il sistema liberista festeggia nella memoria della sua cattiva coscienza il suo millenario trionfo. La vendita al dettaglio dalle memorie a films sempre più mediocri e ripetitivi è il primo livello della mercificazione dei morti. Un secondo livello è la costruzione degli stereotipi che impediscono nella loro esemplificazione di capire quanto le politiche liberiste, si pensi al governo Bruning, abbiano favorito l’avvento del nazismo. Si sa, le folle defraudate della loro coscienza critica, accolgono la giornata del ricordo con un sospiro di sollievo ”vivono nel mondo migliore ed oltre non si può chiedere”, per cui devono accontentarsi delle metafisiche imperfezioni del turbocapitalismo. Naturalmente l’Olocausto serve ad occultare gli olocausti che nella storia ha perpetrato il liberismo e specialmente a dimenticare, che intorno a noi, vi è un’umanità ridotta ad oggetto, a strumento della e per la produzione, i processi di scissione con alienazione religiosa sono proiettati in un mondo storico altro. Si pensi al rione Tamburi a Taranto, all’olocausto quotidiano di un quartiere e di una città incenerita e non metaforicamente dall’acciaio, per non dimenticare che il Mediterraneo pullula di cadaveri di gente che fugge dall’inferno voluto dall’occidente. Il giorno della memoria ha trovato la sua analisi scandalizzata in un ebreo Finkelstein, storico statunitense di origine ebraica, a cui Israele ha negato l’ingresso nel 2008. Lo storico ha descritto e documentato la genesi “dell’interesse internazionale” verso l’Olocausto e specialmente ha posto il problema del rispetto dei morti, i quali da vivi sono stati usati come mezzi di produzione schiavile a costo nullo, oggi sono usati, da morti, per le dinamiche perverse delle politiche imperiali. L’industria dell’olocausto trova la sua genealogia all’interno della guerra fredda, fino alla guerra dei sette giorni, l’olocausto era pressoché sconosciuto o occultato. Dopo la guerra dei «sette giorni», gli Stati Uniti, verificata la potenza di fuoco dello stato d’Israele, decidono di appoggiare Israele per limitare le politiche antiamericane dei paesi arabi sostenuti dall’Unione Sovietica. Per giustificare l’esistenza dello stato d’Israele, si rinfocola la memoria della passata tragedia per giustificare l’esistenza d’Israele e nel contempo rafforzandone la posizione, organizzando una astuta propaganda in cui Israele è rappresentata come lo stato che potrebbe subire il secondo olocausto. Naturalmente, gli Stati Uniti, sempre dalla parte dei più deboli… arma fino ai denti Israele, favorendone l’egemonia ed usando lo stesso stato d’Israele come longa manus per il controllo del medioriente:

«Una spiegazione più coerente, anche se meno generosa, è che le élite ebraiche americane ricordarono l’Olocausto nazista prima del giugno 1967 solamente quando fu politicamente conveniente. Israele, loro nuovo protettore, aveva fatto buon uso dell’Olocausto nazista durante il processo a Eichmann. (50) Accertatane l’efficacia, la comunità ebraica americana sfruttò l’Olocausto nazista dopo la guerra dei Sei Giorni. Una volta rimodellato ideologicamente, l’Olocausto (nel senso di industria) divenne l’arma perfetta per deviare le critiche nei confronti d’Israele, come ora dimostrerò. Ciò che merita di essere sottolineato, in ogni caso, è il fatto che per le élite ebraiche americane l’Olocausto svolse la [44] stessa funzione che per Israele: un’altra fiche dal valore incalcolabile in una partita a poker dove si gioca forte. Il dichiarato interesse per la memoria dell’Olocausto fu qualcosa di studiato a tavolino, così come quello per il destino d’Israele. (51) Di conseguenza, la comunità ebraica americana perdonò e dimenticò velocemente la folle dichiarazione di Reagan al cimitero di Bitburg, nel 1985: secondo l’allora presidente, i soldati tedeschi lì sepolti (compresi gli appartenenti alle SS) erano “vittime dei nazisti proprio come le vittime dei campi di concentramento”. Nel 1988, Reagan venne insignito del premio Humanitarian of the Year dal Centro Simon Wiesenthal, una delle istituzioni di maggior spicco tra quelle che si occupano dell’Olocausto, per il suo “leale sostegno a Israele” e, nel 1994, del premio Torch of Liberty dalla filoisraeliana ADL».[1]

L’industria dell’Olocausto è dunque un prodotto la cui è genealogia trova il suo punto archimedico nella guerra fredda e nella presenza dei banchieri di origine ebraica che vivono negli Stati Uniti. Si comincia così ad associare il mondo arabo, per pura propaganda ideologica, al nazionalsocialismo. L’effetto politico è devastante, poiché si pongono i fondamenti per l’incomunicabilità politica, per la reciproca diffidenza che favorisce un numero impressionante di stragi ed attentati da entrambe le parti. Sul campo l’effettualità di questo uso ideologico dell’Olocausto ha come risultato la moltiplicazione delle violenze. Milioni di persone scomparse per la violenza sono ora usate per una politica che se ne infischia dei diritti dei popoli e dei singoli.

«Proprio come l’ebraismo americano si mise a ricordare l’Olocausto quando la forza d’Israele raggiunse il suo culmine, così Israele fece lo stesso quando si affermò il potere degli ebrei americani. Il pretesto fu comunque che, in Israele come negli Stati Uniti, l’ebraismo rischiava un imminente “secondo Olocausto”. Le élite ebraiche americane poterono così assumere pose eroiche nello stesso momento in cui indulgevano in comportamenti vigliaccamente prepotenti. Per esempio, Norman Podhoretz sottolinea che, dopo la guerra dei Sei Giorni, gli ebrei erano ormai decisi a “resistere a chiunque in ogni modo, a qualunque livello e per qualunque ragione cerchi di recarci un qualsiasi danno [53]. D’ora in poi resisteremo”. (66) E così, come gli israeliani, armati fino ai denti degli Stati Uniti, misero coraggiosamente al loro posto i ribelli palestinesi, altrettanto coraggiosamente gli ebrei americani misero al loro posto i ribelli neri. Tiranneggiare chi è meno in grado di difendersi: questa è la realtà del tanto sbandierato coraggio delle organizzazioni ebraiche americane».[2]

A questo punto il colpo finale è la gerarchia tra gli olocausti, l’Olocausto è presentato come unico, come esperienza storica che non ha eguali. Naturalmente a spregio delle decine di milioni di morti degli olocausti perpetuatisi nella storia dagli Indios agli Armeni agli Ucraini. Si forma una competitiva graduatoria tra i morti. L’unica possibilità di riscatto della violenza è così negata. Si pensi all’Angelus novus di Klee commentato da Benjamin: il senso della ferocia della storia può essere riscattato solo fuggendo, cambiando direzione rispetto a ciò che è stato. In questo caso siamo interni al linguaggio della violenza, si usano i morti per giustificare altre violenze:

«Etichettata da Novick come “sacralizzazione dell’Olocausto”, questa mistificazione ha il suo campione più esperto in Elie Wiesel, per il quale, osserva giustamente Novick, l’Olocausto è una vera e propria religione “misterica”. Perciò Wiesel salmodia che l’Olocausto “conduce nelle tenebre”, “nega tutte le risposte”, “sta al di fuori, anzi al di là, della storia”, “resiste tanto alla comprensione quanto alla descrizione”, “non può essere né spiegato né visualizzato”, è incomprensibile e intramandabile”, segna il punto di “distruzione della storia” e di una “mutazione su scala cosmica”. Solamente il sopravvissuto-sacerdote (vale a dire solamente Wiesel) è qualificato per divinarne il mistero. Eppure il mistero dell’Olocausto – Wiesel lo dichiara apertamente – è “incomunicabile”: “Non possiamo nemmeno parlarne”. Così, per il suo normale onorario di venticinquemila dollari (più limousine con autista), Wiesel ci tiene conferenze sul fatto che il “segreto” della “verità” di Auschwitz “giace nel silenzio”. Secondo questa prospettiva, comprendere razionalmente l’Olocausto equivale a negarlo, perché la ragione nega l’unicità e il mistero dell’Olocausto; metterlo poi a confronto con le sofferenze di altri costituisce, secondo Wiesel, “un completo tradimento della storia ebraica”. Qualche anno fa, nella parodia di un tabloïd newyorkese apparve il titolo “Michael Jackson e altri sessanta milioni di persone muoiono in un olocausto nucleare”, che suscitò un’irata protesta di Wiesel sulla pagina delle lettere al direttore: “Come osano riferirsi a ciò che è accaduto ieri come a un Olocausto? C’è stato un solo Olocausto […]”. Nel suo nuovo libro di memorie, a riprova del fatto che la vita può anche imitare la parodia, Wiesel bacchetta Shimon Peres per aver parlato «senza esitazione dei “due olocausti del ventesimo secolo: Auschwitz e Hiroshima. Non avrebbe dovuto”. Uno dei pistolotti finali favoriti di Wiesel è che «l’universalità dell’Olocausto sta nella sua unicità”. Ma se è incomparabilmente e incomprensibilmente unico, come è possibile che l’Olocausto abbia una dimensione universale?».[3]

Ricordare è dunque prassi se al di là dell’appartenenza prevale la volontà motivata e condivisa di ricordare l’Olocausto per capirne le strutture politiche che lo causarono, le responsabilità dei molti, e specialmente per far emergere le violenze che hanno attraversato la storia e l’attraversano. Il rischio è dunque di perpetuare le violenze nella sacralizzazione strumentale di alcuni e nella dimenticanza degli altri. La spirale della violenza è santificata ogniqualvolta si celano le ragioni complesse degli eventi storici per favorire esemplificazioni strumentali. Ben diceva Gramsci quando affermava che se la storia è maestra di vita mancano, però, gli scolari.

Salvatore Antonio Bravo

[1] Norman G. Finkelstein, L’industria dell’olocausto, Milano 2002 pag. 17.

[2] Ibidem, pag. 21.

[3] Ibidem, pag. 31.


Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.
Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.
Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.
Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.
Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.
Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.
Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.
Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.
Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.
Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.
Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.
Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 27-01-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.

Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Maurizio Migliori – Non c’è opera e non c’è argomento trattato in cui Aristotele non si misuri con i suoi predecessori.

Maurizio Migliori 01

9788845273384_0_0_700_75

 

 

«L’atteggiamento di Aristotele nei confronti dei suoi predecessori

Si può dire che non c’è opera e non c’è argomento trattato in cui Aristotele non si misuri con i suoi predecessori. Ora una simile costanza va spiegata, e non può esserlo certamente con qualche motivazione estrinseca o occasionale. Noi non pretendiamo affrontare, in questa sede, tutto ilproblema nella sua vastità, ma offrire solamente spunti riflessione.

Quel che anzitutto deve essere chiaro è che «Aristotele non espone mai per se stessi i sistemi dei suoi predecessori. Egli li interroga su punti precisi, che sono problemi che lui stesso si pone … Non si trova in alcuna parte in lui una esposizione (né una critica) d’insieme della filosofia platonica».[1] Quel che lo spinge a confrontarsi con i contributi precedenti è la convinzione di un progresso nelle conoscenze e nelle tecniche: «nulla è dunque perduto nella storia della filosofia, poiché tutto contribuisce al suo compimento».[2]

Quello che egli cerca è quindi «una conferma delle sue proprie idee, sia positiva, scoprendo che la sua opinione si accorda con quella degli antichi, o anche che la sua teoria pone, ma in modo più completo, più chiaro o più sfumato, quel che essi avevano già supposto; sia negativa, mostrando a quali punti morti giungono i pensatori che non hanno ancora trovato la soluzione che lui stesso dà a tale o tal altro problema».[3] Da questo punto di vista, è anche interessante rilevare come spesso Aristotele contrapponga i vari autori l’uno all’altro: non è tanto e solo un artificio teorico, ma una formula eristica e dialettica che permette di individuare lo schematismo e/o l’unilateralità delle due posizioni antagoniste e quindi fornisce lo spunto per procedere oltre».

Maurizio Migliori, Introduzione a Aristotele, La generazione e la corruzione, a cura di Maurizio Migliori e Lucia Palpacelli, Bompiani, Milano 2013, pp. XLVII-XLVIII.

[1] A. Mansion, Introduction à la physique aristotélicienne, Paris 1913, p. 35.

[2] P. Aubenque, Le problème de l’étre chez Aristote, Paris 1962, p. 73; cfr. p. 71.

[3] A. Mansion, Introduction ... , pp. 38-39.

 


Alcuni dei suoi lavori

Цифровая репродукция находится в

9788845281648_0_0_1451_75

41MBXtMcqrL._SX292_BO1,204,203,200_

51E1JsHDz7L._SX371_BO1,204,203,200_

4153747

9788834302897_0_0_300_75

9788837220853_0_240_0_0

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 23-01-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.

Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Punti Critici N° 7 (Novembre 2002) – Scritti di M. Badiale – S. Graffi – D.F. Labaree – A. Martini – P. Radiciotti – F. Senatore

Punti Critici n. 7

Punti Critici_7 pic

 

Comitato di direzione: Franco Ghione, Sandro Graffi, Paolo Maddalena, Angela Martini, Lucio Russo, Giovanni Stelli.
Comitato scientifico: Alberto Giovanni Biuso (Liceo Beccaria di Milano), Laura Catastini (Istituto Statale d’Arte, Pisa), Antonio Gargano (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Franco Ghione (Università di Roma Tor Vergata), Sandro Graffi (Università di Bologna), Antonio La Penna (Università di Firenze), Paolo Maddalena (Corte dei Conti per il Lazio e Università di Viterbo), Emanuele Narducci (Università di Firenze), Lucio Russo (Università di Roma Tor Vergata), Paolo Serafini (Università di Udine), Augusto Schianchi (Università di Parma), Giovanni Stelli (IRRSAE dell’Umbria, Perugia).

Segretaria di redazione: Carla Russo.


Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa  In questo numero

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 9-54

Marino Badiale,
Un altro dibattito sulla scienza

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 55-66

Sandro Graffi,
Cosa si intende per Caos? Passato e presente

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 69-80

Paolo Radiciotti,
Tra antico e moderno. Osservazioni sul ruolo della traduzione nell’apprendimento delle lingue classiche

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 81-111

Francesco Senatore,
La formazione degli insegnanti di storia. Difficoltà e ambiguità nel rapporto tra università e scuola

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 115-143

David F. Labaree,

Nessuna possibilità di uscita. L’istruzione come ineludibile bene pubblico


Logo Adobe Acrobat   Freccia rossa   pp. 147-1546

Angela Martini,
La crisi del sistema d’istruzione americano

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa

Notizie sugli autori

***




Per leggere le pagine

del n° 1.

coperta 01_pic

Punti Critici N° 1 (Maggio 1999) – Scritti di Fabio Acerbi, Giovanni Gallavotti, Sandro Graffi, Giovanni Lombardi, Paolo Radiciotti, Lucio Russo, Maria Sepe, Giovanni Stelli.

Per leggere le pagine

del n° 2.

Coperta N- 2

Punti Critici N° 2 (Settembre/Dicembre 1999) – Scritti di Paolo Maddalena, Alberto Giovanni Biuso, Giovanni Gallavotti, Sandro Graffi, Lucio Russo, Stefano Isola, Marco Mamone Capria, Angela Martini.

Per leggere le pagine

del n° 3.

Punti Critici N_3 g

Punti Critici N° 3 (Maggio 2000) – Scritti di Vladimir I. Arnold, Laura Catastini, Franco Ghione, Sandro Graffi, Pietro Greco, Giovanni Lombardi, Angela Martini, Emanuele Narducci, Lucio Russo.

Per leggere le pagine

del n° 4.

img385

Punti Critici N° 4 (Febbraio 2001) – Scritti di Fabio Acerbi, Piero Brunori, Giovanni Lombardi, Angela Martini, Paolo Maddalena, Lucio Russo, Ledo Stefanini, Mauro Zennaro.

Per leggere le pagine

del nn° 5-6.

 

Punti Critici 05-06 pic

Punti Critici N° 5/6 (Dicembre 2001) – Scritti di A.G. Biuso, A. Martini, R.E. Proctor, L. Stefanini, G. Stelli, F. Vieri, L. Russo.

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 23-01-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Camille Claudel (1864-1943) – La mia è un’arte assolutamente nuova che io ho scoperto, un’arte che non si era mai vista sulla terra e che ha un valore inestimabile

Camille Claudel

 

008Camille, il 10 Marzo 1913, si trova nel suo atelier quando a viva forza è portata nell’Ospedale psichiatrico di Ville-Evrard: «Lunedì scorso 2 forsennati sono entrati in casa mia, in quai Bourbon, mi hanno presa per le braccia e mi hanno lanciata dalla finestra del mio appartamento in una automobile che mi ha condotta in un manicomio».

 Camille ClaudelCorrispondenza, p. 172

 

 

Il 25 Ottobre 1913 Camille scrive al Dottor Truelle: « […] tutte queste opere derivano da un’arte assolutamente nuova che io ho scoperto, un’arte che non si era mai vista sulla terra e che ha un valore inestimabile. E’ il risultato del lavoro di tutta la mia vita dall’età di 14 anni fino a ora».

 

Ibidem, p. 183.

 

41sQzv9JqVL._SX334_BO1,204,203,200_

asino d'oro

Anna Maria Panzera

Camille Claudel

In un contesto straordinario e contraddittorio come quello tra Ottocento e Novecento dove ‘normali’ difficoltà intralciavano la realizzazione dell’identità femminile, Camille Claudel riuscì ad affermarsi ritagliando uno spazio d’azione inedito e non piccolo all’arte e alle donne.
Questa biografia ripercorre la vicenda della scultrice soffermandosi con sguardo critico sugli anni della sua stagione creativa, alla luce di alcuni snodi esistenziali che la influenzarono fortemente: il  problematico rapporto con la famiglia, in cui s’intrecciarono istanze culturali e complessità patologiche; la storia d’amore e odio con lo scultore Rodin, egocentrico e geniale; il legame con il fratello Paul, esponente di rilievo di un cattolicesimo intransigente allora assai attivo in Francia; la malattia mentale e l’internamento in manicomio, che forse ostacolarono la completa maturazione del suo percorso artistico.
L’autrice, con dovizia di particolari e argomentazioni, vuole dar conto dell’unicità di Camille Claudel, aprendo spiragli di ulteriore comprensione su una figura complessa il cui ruolo, nella Francia della Belle Époque, merita di essere meglio precisato.


330px-Camille_Claudel

Camille Claudel

 

camille posa per Rodin

Camille posa per Rodin

camilleclaudel

Camille Claudel

claudel-camille-la-valse-bronze

Camille Claudel, Il valzer, Bronzo

 

 

Tête d'esclave

Camille Claudel, Tête d’esclave.

 

Claudel-Camille-Femme-accroupie-HD

Camille Claudel, Femme accroupie.


41GqmFzIaML._SX349_BO1,204,203,200_

41nqsaxPfyL._SX340_BO1,204,203,200_

51QsgfQhFbL._AC_US218_

51X5R9Y3Z4L._SX344_BO1,204,203,200_

411T1P8PDPL._SX320_BO1,204,203,200_


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 22-01-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.

Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Augusto Cavadi – Alcune considerazioni su «Confessione di fede di un eretico » di Franco Barbero.

Augusto Cavadi 003

 

copertina+fronte-780328Alcune considerazioni su «Confessione di fede di un eretico » di Franco Barbero

 

007    La maggior parte dei cristiani, soprattutto se appartenenti alla confessione di fede cattolica, hanno delle nozioni teologiche così vaghe e imprecise che difficilmente possono essere scossi dalle novità in campo esegetico, biblico, storico. Tuttavia ce ne sono alcuni che, avvicinandosi all’età adulta, non si accontentano delle formulette catechistiche infantili e si chiedono cosa significhi davvero che esiste Dio, che Gesù era il figlio di Dio, che ha fondato una Chiesa indefettibile et cetera. Se lo studio personale, il dialogo con gli esponenti autorevoli, i confronti comunitari li convincono, aderiscono davvero alla Chiesa originaria; altrimenti, più o meno radicalmente, se ne vanno. In quelli che restano con convinzione, e per convinzione, è frequente che il fuoco della ricerca teologica e spirituale non si spenga; che continuino a cercare; che, agostinianamente, dopo aver capito per credere, credono per capire meglio. Don Franco Barbero è stato, ed è, uno di questi infaticabili cercatori: e quando le gerarchie ecclesiastiche gli hanno intimato di fermarsi nella ricerca teorica e pratica, ha preferito pagare tutti i prezzi necessari per mantenere la libertà di pensiero e di parola. Dopo decine di libri pubblicati, esce adesso la sua Confessione di fede di un eretico (Mille, Torino 2017, pp. 188, euro 18,00): una sorta di piccola summa delle numerose acquisizioni maturate nei lunghi anni di studio e di esperienza ministeriale con le persone di ogni orientamento ideale e sessuale. Senza perdersi in discussione su dogmi cristiani periferici (alcuni dei quali, come la verginità della Madonna o l’infallibilità del papa, non sono neppure comuni a tutte le chiese cristiane ma solo alla Chiesa cattolica romana) l’autore va dritto al centro della fede comune a tutte le confessioni cristiane: chi è stato davvero Gesù di Nazareth? Con il sostegno di decine di pubblicazioni di teologi cattolici, protestanti, anglicani (ormai tradotte in diverse lingue del pianeta) egli risponde: è stato un “figlio di Dio” nell’accezione semantica che la formula aveva nel I secolo della nostra era. Egli, molto probabilmente, non si è mai definito tale; ma se lo avesse fatto – e comunque i primi discepoli lo hanno così definito – la denominazione si riferisce a qualcuno che Dio ha “investito di una specialissima funzione, di un particolare ‘potere’ liberante”, e che può adempiere tale missione solo se “vive una intimità e una prossimità straordinarie con Dio” (p. 47). E’ perciò filologicamente scorretto affermare, come hanno fatto le chiese cristiane dai concili del quarto e quinto secolo in poi (per altro non senza forti resistenze ‘interne’), che “figlio di Dio” significhi che Gesù è Dio, della stessa “natura” o “sostanza” del Padre, che vada adorato come l’Unigenito dell’Unico. Ma allora, in cosa crede un eretico come don Franco Barbero? Che, per i cristiani, “Gesù è la via che conduce a Dio e strada e la causa di Gesù sono la strada e la causa di Dio. Nell’esistenza storica del profeta di Nazareth noi incontriamo davvero il testimone di Dio, colui che ci manifesta la sua volontà, le scelte e l’amore con cui Dio ama” (p. 19). Troppo poco? Per i signori dell’ortodossia, certamente.

045     Ma per i ricercatori spregiudicati, al contrario, è troppo. La benedetta e illuminata “eresia” di Barbero si è forse fermata prematuramente? Non ha ancora davanti agli occhi e, soprattutto, al cuore degli interrogativi ulteriori che si impongono come macigni? Ne segnalo due tra quelli che, da anni ormai, mi affaticano. Il primo: in che senso Gesù non è “una” via ma “la” via verso Dio? Barbero finemente precisa che ciò vale “per noi cristiani”. E cita un altro illustre eretico contemporaneo, il vescovo episcopaliano Spong: “Non affermerò mai più che il mio Cristo è l’unica strada per arrivare a Dio, perché ciò sarebbe un atto estremo di umana follia. Dirò, comunque, che questa è l’unica strada per me, poiché questa è la mia esperienza” (cfr. p. 52). Ma la questione, se non erro, è così solamente spostata: se Gesù è una delle tante, possibili, strade per entrare in comunione con Dio, per quale ragione mi dico cristiano e non islamico o induista? Di solito si risponde (ma non so se questa sia anche la risposta di Barbero o di Spong): perché sono nato in una tradizione cristiana. Una simile risposta non mi convincerebbe: non più in un’epoca di pluralismo etnico e religioso ormai dilagante, almeno nella zona nord-occidentale del globo. Nell’attesa di una risposta più convincente sono arrivato alla conclusione di evitare ogni ambiguità: se essere cristiano significa ritenere che Gesù sia “la” via verso Dio (o oggettivamente o soggettivamente), non sono più cristiano. (In questa posizione sarei, mi pare, in buona compagnia: a partire da Gesù stesso. Esperti come Paul Knitter mostrano come tale pretesa di esclusività o di netta superiorità rispetto ad altri percorsi non appartenesse al Gesù storico: è sorta con l’apostolo Paolo e si è ingigantita con l’autore del vangelo secondo Giovanni. Insomma è una pretesa che viene attribuita a Gesù dai fondatori del cristianesimo come si è andato strutturando effettivamente: del cristianesimo, direbbe Ortensio da Spinetoli, come prima e fondamentale ‘eresia’ rispetto alla fede “di” Gesù e al suo messaggio originario). Sarei allora un post-cristiano o addirittura un a-cristiano o un anti-cristiano? Per nulla. Rispetto al cristianesimo storico mi considero piuttosto un oltre-cristiano (cfr., ad esempio, il mio In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani, Falzea, Reggio Calabria 2007): sono serenamente convinto che Gesù di Nazareth sia “una” via significativa e coinvolgente, come in altre culture e per altri temperamenti possono esserlo Buddha o Mosé, Platone o Maometto. Questo non lo penso in chiave relativistica, bensì prospettivistica: ogni grande maestro dell’umanità ha evidenziato aspetti veri, ma parziali, dell’Assoluto. Ed è stato grande perché non si è limitato a insegnare a parole quello ‘scorcio’ del Divino che ha intravisto, ma lo ha incarnato esistenzialmente. Capisco che, dopo una vita di appartenenza al mondo cattolico, prima, e poi, più ampiamente, cristiano-ecumenico, sia sentimentalmente difficile ammettere di non appartenervi più: ma nella babele attuale delle lingue, il minimo che si possa fare è cercare di calibrare con cura le parole.
Il secondo macigno su cui mi sono imbattuto nella ricerca di Dio – macigno su cui il pastore d’anime don Franco Barbero si imbatte tragicamente e generosamente ogni giorno – è ancora più ingombrante: che Gesù sia “la” strada o “una” strada per accedere al Mistero di Dio come “Amore”, è legittimo ritenere che questo Volto di Dio sia reale? Non sto contestando il dato biblico che, nell’annuncio cristiano, il centro e il culmine consistano nella confessione di Dio come Agape, Dono incessante e gratuito di sé (anche se non mancano dei passaggi di segno diverso, talora opposto); mi chiedo, invece, se questo annuncio sia compatibile con il mare di sofferenze (non solo innocenti, ma anche inevitabili) che si verificano sul pianeta sotto i nostri occhi e che, secondo le scienze naturali, hanno segnato il cammino dell’evoluzione animale e umana. Desidero essere più preciso possibile: mentre, sia pur con difficoltà, riesco ad ammettere l’ipotesi che un Dio-Amore possa convivere con lo strazio provocato dagli umani per propria insipienza (anche se le prime forme umane forse non avevano neppure la possibilità di comportarsi in maniera meno crudele), mi riesce molto più difficile ammettere la compresenza di un Dio-Amore con il dolore sperimentato nel passato, nel presente e nel futuro da miliardi di viventi senzienti come effetto delle leggi naturali. Mi si potrebbe obiettare: è vero che scienze e speculazioni filosofiche ci pongono davanti a un universo che attesta tanto la provvidenza quanto la sovrana indifferenza divina, ma chi accetta la testimonianza di Gesù – esegesi vivente del Dio invisibile – può trascendere il livello dei dubbi e attingere la verità ultima del Dio amorevole. Questo passaggio aveva una sua logica quando si riteneva di avere elementi per ammettere che in Gesù si fosse incarnato, puntualmente e integralmente, il Verbo; ma se Gesù è solo un essere umano e fallibile, come tutti noi, il suo messaggio teologico ha lo stesso valore ipotetico di qualsiasi altra asserzione su Dio. Il criterio di accettazione di tale messaggio va dunque cercato altrove, non può essere autoreferenziale: per esempio se esso conferma le acquisizioni della ricerca scientifica e filosofica o, per lo meno, se non confligge con esse. Insomma: a me pare che la questione cristologica rimandi alla questione ‘teo-logica’ e che libri come Oltre le religioni, con tutte le possibili riserve che suscitano, hanno il coraggio di andare sino a quel fondamento radicale. Il futuro della religione mi appassiona poco (e, nonostante il titolo dei saggi raccolti, non è a mio parere il cuore del volume); molto di più cercare di capire il futuro della fede in un Principio di vita e di amore in un orizzonte conoscitivo in cui sembrerebbe non esserci frammento di luce e di bene che non comporti il risvolto del buio e del male.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com


Versione in PDF, per la stampa

Alcune considerazioni su «Confessione di fede di un eretico » di Franco Barbero


Augusto Cavadi – Ideologia “gender” e dintorni. Qualche chiarimento lessicale.
Augusto Cavadi – Il saggio di N. Pollastri: «Consulente filosofico cercasi»
Augusto Cavadi – Perché il Sud non decolla?
Augusto Cavadi – Commento al libro di S. Latouche, «Baudrillard o la sovversione mediante l’ironia».

Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 20-01-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.

Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Margherita Pieracci Harwell – I tentativi di certezza di Maura Del Serra

M. Del Serra_Tentativi di certezza

tentativi

Margherita Pieracci Harwell

I tentativi di certezza di Maura Del Serra

 


Versione in PDF, per la stampa.

Margherita Pieracci Harwell, I tentativi di certezza di Maura Del Serra


aaec516c4e17fbe3f64b517b73050607

Dei Tentativi di certezza. Poesie 1999-2009 (Venezia, Marsilio, 2010) di Maura Del Serra, che raccolgono il miele distillato in un decennio di estate matura, troviamo una prima chiave nelle exergues – da Wislawa Szymborska: “il savoir vivre cosmico / […] esige […] da noi […] / una partecipazione stupita a questo gioco / con regole ignote”; e da Derek Walcott: “Il destino della poesia è innamorarsi del mondo / nonostante la storia”. Partecipazione stupita – dunque – , e stupita vuol dire già ammirativa, quindi innamorata, innamorata del mondo, di quel gioco “con regole ignote” che è nel nostro cosmo la vita, a cui è tuttavia d’obbligo partecipare, così come la poesia non può non innamorarsi del mondo, malgrado la storia. Meraviglia (stupore ‘religioso’, awe), innamoramento, che è già necessariamente partecipazione: questa la legge ineludibile della poesia, che l’artista crea nel dolore poiché non ha palpebre per risparmiarsi la visione costante del “nonostante” la storia, inconoscibilità delle regole.
Così, queste poesie, come tutte le poesie di Maura Del Serra che l’hanno condotta fin qui, si tessono di estasi e di orrore, ma, miracolosamente, salvando la lievità, delle immagini – e forse anche del cuore – come annuncia, con le scene figurate del suo ventaglio, il  preludio Trovarsi. Già il preludio, però, ha due antine, e la seconda (Canzonetta per il ventunesimo secolo) molto meno lieve, che pure accenna una promessa di bene, cioè di “significato”- perché la Del Serra ha una profonda vena di ragione, alla quale non sorride un bene che non sia intellegibile. Del resto si sa, dalla sua produzione precedente ed anche da quanto traspare della sua vita, che questa poetessa si muove con passo sapiente tra mondi opposti: l’assoluta vulnerabilità del segnato da Dio (il poeta), e il saggio governo di una casa, una famiglia, squisitamente “normali” pur nella loro rara armonia.
Coerente, questo libro composto di otto parti – perciò si può cominciare dal parlarne in generale, ma poi, da vicino, è chiaro che la coerenza nasce dall’equilibrio di opposti, costituiti più che dai singoli componimenti dalle sezioni, fondate non sulla cronologia ma sulla mood che ad una ad una diversamente le governa.
La prima sezione si muove, come il libro intero, sui due fili dell’orrore del vuoto (l’eterno vuoto dell’ “ignoto” su cui si libra l’uomo, ma anche, in particolare quel vuoto che si esprime oggi attraverso la tecnologia, presuntuoso e pungente nei suoi aghi metallici), e della speranza; ma se il primo filo non trionfa, certo è forte qui l’ombra del travaglio. Il titolo, Forza maggiore, si chiarisce nella poesia eponima, collocata quasi al centro della raccolta. Da identificare forse con la “necessità” weiliana (attenuata in savoir vivre cosmico dalla Szymborska del primo exergue), questa forza “prima” è anch’essa insieme bene e male: ci schiaccia, ma in ciò ci modella, scolpisce attraverso le lacrime le linee uniche di un volto, ancora indecifrato ma già redento in tal modo dal suo peso. Il “noi” di questi versi suggerisce l’universale destino umano, ma a plasmare i singoli volti (destini), la “forza” si vale di colui che si cela appena nell’“io” della prima e della seconda composizione. Partecipe e redentore insieme del male di vivere, l’io non può essere che il poeta-madre, che “partorisce” dal noto l’ignoto – così si comprende che l’“ignoto”, parola tante volte, pur dolorosamente, ritornante, è anche un nome del bene – “il nuovo” -, come lo è la “figura” dei “giardini di sapienza”, pur restando “sapienza” un opposto di “ignoto”, in questo salvifico labirinto di oximora. Il poeta è, del resto, protagonista assoluto di questi versi, “inerme tedoforo esiliato nel suo lume sottile”, lui che solo ricuce le “lacrime brucianti dei violini” alle “risa dei flauti cristallini”, che solo esplora “il mare rotondo della storia”, in bruciante “passione di memoria”: passione di eternità in chi è pure “destinato a sparire” – “in breve vivo in breve morto”-, eppure incarna la promessa che nulla in realtà si perde, “poiché ogni cosa dura / nella memoria dell’essere”. Fino a parere che trapassi, il poeta, proprio nella memoria “luce della parola”, “ombra di Dio”, che “fa guerra / fiorita di coscienza a ogni eclissi della terra / nel bruto male, nell’informe oblio”.

b725d8247700bc865dd984ae99e48a51

Ma non ci e dato dimenticare che la dignità del poeta è proprio nel non potere sciogliersi in una sola figura – Prometeo incatenato al punto di passaggio da questa realtà a un’altra, fattosi “porta”, come recita con assoluta pertinenza il titolo della breve poesia che segue a Forza maggiore: “Di là la musica d’oro leggero, / le nozze mute di tempo e eterno, / le creature versate in essenze, / l’estate sfolgorante nel cristallo d’inverno. / Di qua stridori d’ansia, millenarie cadute / e dolore di esistere dentro la propria fine”. Sulla stessa lunghezza d’onda – dopo gli stridori della Tecnodivinazione e della Pubblicità, che ci conducono alla tenerezza per le vecchie artigianali chiromanti (“quella fragile mano peritura / che crea il destino e in lui si trasfigura”) – si avvera infine la compresenza in Voce di voci. Nell’acqua “dolce di sale” i due mondi opposti dell’acqua dolce e dell’acqua salata sono, come attraverso la “porta”, immersi l’uno nell’altro: “Acqua dolce, la voce spande “Sarà per sempre”, / […] Acqua salata, “Tutto passerà” […] / Acqua dolce di sale, la voce solitaria / del poeta è la sete della nube nell’aria, / le ossa del pianeta avvolte alla sua stella”. E ancora si ripete che solo la voce del poeta saprà in lingua non umana “forgiare Parole per tacere “ solo il poeta saprà, “in ogni anonimo, festivo sguardo” tessere e alzare lo stendardo “che spalanca in creazione l’imperiosa prigione”. Solo questa poetessa che noi ora leggiamo, “eterna bambina senza attese”, che nuotò come Alice nelle sue lacrime, in quell’ Acquario memoriale sa vincere la lacerazione del tempo : “fa dei passi presenti un nido d’echi, ripiega / in croce d’anni le braccia protese”. “L’arte può far[le] vivere ogni vita / […] ma di una sola vita [lei può] testimoniare, / sentirla eterna”, quella per lei e attraverso di lei “è la storia, e niente la cancella”.
Ho presentato fin dalla prima sezione questa lunga rete di citazioni, perché ne balzi l’evidenza di una poesia che sgorga da una vita vera, semplice e irripetibile, costellata di lacrime e risa (di violini e di flauti), ma decantate in uno svariare di immagini e di musiche che si fermano in un unicum tra tutti riconoscibile. Vita paradigmatica, iscritta nel suo “presepe marino pistoiese”, dove qui appena si adombra la perenne-precaria vicenda umana degli affetti basilari e già si proietta nei miti eterni – perché questa è poesia colta, tutta tessuta di antica sapienza, come di meditatissimi pensieri, nella lievità di note e figure.

dcfadb34af583f7e19b5a317875603ad

Le sezioni successive non si scartano da queste premesse e si continua a infilare perle di citazioni, ma occorre anche cogliere il “cuore” di ognuna. Il polittico per la via ignota, che forma la sezione II, propone immediatamente, nel titolo, quella parola, “ignoto”, che costella Forza maggiore. Si apre “spiegando” il contrasto sotteso a tutta la raccolta, tra “familiare” e “straniero”, dolcezza dell’“eden domestico” e “crepa” fulmineamente aperta sul “tormento della mortalità” – contrasto solo a metà sanato in “catene rifatte grazia e rima”. Il poeta è ora, nella notte, nell’interregno, come abbandonato dal suo dio, “l’oro del senso alato / è piombo nel crogiolo rovesciato”. “Alzavo lieve la mia sfera d’aria / nella sfera d’inchiostro […] / ora discendo a balzi, racchiusa in quella sfera / d’aria, la scala che l’inchiostro annera / con parole perdute / di vite non vissute…”
Nel medio abisso “la grazia è un’acqua carsica che fugge le labbra” – mito di Tantalo passato attraverso l’immagine del fiume carsico, benedetta nell’Inno alla gioia da Margherita Guidacci. Già era venuto alle labbra il nome della poetessa di cui Maura Del Serra ci ha ridato l’Opera dopo decenni d’ombra. La Guidacci delle rime baciate, la Guidacci, ahimé, in questa sezione, di Neurosuite, del ricordo felice nella desolata miseria: Nella caverna: “Era profonda e chiara / la sussistenza, / oggi vuoto una coppa / di malata innocenza – / annegano nel Lete / tutti i vergini uccelli della sete- / […] l’eternità del sale alto sul fondo del mare / mi pungeva la mente a parte a parte – / ora nell’aria turbinano a lutto le buie fitte carte / del Karma presagito, / terribile infinito”, fino alla Canzonetta dell’impersonalità: “io fui mutata in mare / senza pesci, abissale / insondabile riva / che mi pronuncia viva / senza dirmi” e a Specchio d’aria: “Volano immobilmente le betulle / nella finestra intrecciate. Si stacca / l’ora dal qui, l’osso ruota sul cardine”. Siamo travolti dal fiorire delle immagini, dallo sgorgare del ritmo, eppure permane il rotto gemito: “Sono il grano che già patì la falce / e trascolora fruttuoso, o le stoppie /disdegnate dai carri, gli aghi ciechi di sete? / Non lo saprò…” (Incoscienza). La Guidacci, anticipavo, ed ecco Maura del Serra chiamarla: Variazione su un tema di Margherita Guidacci: “La vittoria è una vetta, ma la sconfitta è un continente / un continente dove in cerchio vano m’aggiro, / sete negata ad ogni conoscenza, / a vero vuoto che irraggi presenza, / a ombra densa che partorisca luce”. Così, senza capovolgimenti, Cattura: “dentro / il mio ghiaccio improvvisa si acumina la luce / di un amo teso vero la gola” o Commiato: “Qui, perduta nel mio cuore bambino, / mi disciolgo da te come dal labbro preghiera, / circumnavigo il pozzo del mio niente, / vuoto coppe di lacrime posate sulla ghiera…”, fino al respiro di Terrestre: “dentro il cieco destino / sbendato dalla fata libertà, / lottiamo nella selva a partorire l’umano…”, che al capovolgimento prelude: – Sotto-sopra: “lavo il contuso pensiero / dai colpi di teatro della sorte – / con volo millimetrico, con danza solitaria, / io disegno la stella della Sera”.

 

03f6c3769d8fb13395d6d1f5bb535351

“Tutto è il prezzo di tutto”, sono le Parole del valitudinario; pur sanguinosa, si disegna la vittoria: “Le mie dita future al buio toccano / gli indicibili fiori nascosti dalle spine”; e in (Enigma) “Coronata di cenere rovente / io tra i sopravvissuti dell’Amore / vedo il loto a otto petali”, e in (Qui) , anche se è solo un augurio: “In me torni a formarsi goccia a goccia la luce”. Ne sgorga la Canzone per rinascere: “mia bocca buio-muta, fatti barca, / porta le ceneri delle parole, / che tanto amasti, fino al Grande Fiume”; quindi: “brucia il grido d’assenza, / alza il tuo dio maggiore / sul pulviscolo cieco dell’inappartenenza, apri la solitudine del plurimo Vero: / è fede il Nome d’arte di ogni scienza”. “Ero la danzatrice che diviene la danza” – canta Maura nelle Tre età – sarò “il diadema postumo d’altra costellazione /…/ Sono il poeta, il dolceamaroamore, / la musica del giorno che finisce e comincia”  “Noi scriviamo col sangue su uno specchio, / come Pitagora la nostra vita, / e gli angeli la leggono riflessa nella luna” (Un padre antico). Maestro, Pitagora; maestro, come per la sua Margherita, anche l’albero: “Imita le radici, l’immobile filiale fedeltà al ventre della zolla, al pane / imita il tronco […] anellare nebulosa / […]; il ramo, che vola da fermo / nel vento […] su tastiere di luce, / […] la foglia, ciclica navicella /delle stagioni […] / imita il riso prezioso del fiore, / il suo calice fragile che scolpisce la stella”. Rifiata nel grembo delle parole – ghirlande di pietre, luce all’occhio, ali al cuore, scintille, colonne, mappe del labirinto, tavole della legge; sfiora le Voci dalla strada, poi “scend[e] / nel silenzio dove altre voci intend[e]”; “senza tempo […] viv[e] nel [suo] tempo, spremendo / un latte lucido di redenzione / dalle opache mammelle della forza – / goccia a goccia, pagandolo in monete d’addio” in un trafiggente presagio che è speranza: “cadrà in scaglie il sonno / policromo dei giorni dolceamari” finché “l’esilio scuro [le] si schiari”: “…alla temperatura della fede / si forma il cuore, inviolato e solo, / il petalo precipite risale / mulinelli di gravità mortale”. Il cuore, inviolato e solo, della poetessa “ospite lenta, buffa / sulla sua antica zattera con ruote / che per un uomo e una bimba divenne / una barca, ed imbarcò grano, erbe e frutti / e vesti di parole per l’anima di tutti, / infine si ancorò all’arcobaleno / e nel suo ponte celeste fu seno”.
Si conclude con i colori dell’arcobaleno la lunga storia frammentata del poeta che colse fiori tra le spine. È durata in tante metamorfosi per due intere sezioni. Ora il travaglio dello scavo si allenta, il canto si stende, sereno, nel dono. È la terza sezione – Dediche – dove a tratti brilla la gioia semplice, fiorita sotto l’arco-in-cielo sull’Arca. Ma per questa lieta navigazione il poeta si impone una disciplina di umiltà – A se stessa, di notte: “non voltarti: sii fede / che sa, perché non vede”. Sono doni ai familiari e agli amici, ricordi e celebrazione di eventi. Il primo dono è per la madre giovane, da cui aveva, come ogni figlia, tentato di fuggire “su praterie d’arazzi aperti a corse abbaglianti,” per tornare, tardi, a raccogliere lo sguardo sul cartoncino di una foto anni Quaranta, dove si staccano le trecce attorte e la trina bianca del collettino. Poi quella stessa madre, “indulgente e terribile come sorella morte”, si trasfigura in Demetra: “Adesso che sei fiore della memoria, io posso / intatta riconoscerti senza angoscia e sventura: / la catena di sangue ricongiunta / darà limpido fuoco stellare d’altra vita…” Si riconosce nel padre, che “nel sonno intonav[a] / romanze d’opera […] / e nella veglia ergev[a] sapienti cattedrali / di legno, in sfida al tempo, col [suo] orgoglio bambino”. Si specchia in lui per quell’“orgoglio bambino” – che echeggia il “cuore bambino del poeta”, “eterna bambina senza attese”-; canta la somiglianza, senza veli: “il tuo amore testardo, malnoto, ora è vicino / alla tua figlia estrema che distilla / minime cattedrali di parole in un miele / amaro d’ansia, dolce di preghiera”. Accanto ai genitori torna l’infanzia, col ricordo della “rondine impazzita / di terrore e fuliggine nel tubo della stufa”, profetica “anima espiante“ che cerca “metafisiche finestre per svolare” e le si posa leggera in petto mentre Maura trapassa in sua madre “quella sera, ogni sera”. Ecco un’altra, tutta lieta, visione di sè: “Come quando minuscola intrecciavi i tuoi nidi / segreti di parole, tutta implicita ai piedi / dell’angelo romanico affrescato da tuo fratello” – nel tempo rivelato: immagine che svaria nel primo incanto di giovinezza “come quel primo bacio tra l’odore innocente / di quel viso incantato nella frusta piazzetta”, da cui nascono le poesie per Moreno: “Argento respirabile del diletto passato / e quello della folgore che la quiete ha trovato” ; “Un cerchio di profilo si tramuta in segmento. / Il pensiero al suo culmine è follia o sentimento. / La quiete è l’angelo del movimento./ Io e te, doppio cristallo che racchiude ogni vento” (Nuclei); fino a quel Tutto che sigilla la sezione con una vittoria del bene:  “Cuori indivisi nei corpi disciolti, / ripetiamo a chi viene “Tra lutti e batticuore, / tra spine e cecità, qui tutto, tutto è il migliore”.

 

06eb0d1e3552912b1aaa945323eddf2f

Balza alla memoria l’antica zattera “che per un uomo e una bimba divenne un’arca”, e ritroviamo intrecciato all’uomo e alla poetessa quello che Cristina Campo chiamava “il filo d’oro del figlio”: la bimba nata mentre il temporale “in oscuro tripudio di profezie batteva”, la figlia che offre a padre e madre uno specchio alzato nelle mani fidenti. Ora la ritroviamo, Irene, la figlia donna e già quasi madre che ha spiccato il suo volo, nell’ostinata memoria del suo primo grido gentile che a Maura echeggia sempre nelle vene (come non si allontana la misteriosa immagine di Congedo che trascende la perdita: “Vidi l’arcobaleno / sul tuo piccolo seno / per secoli dormire / e mai da me partire – / finché fu notte in pieno mezzogiorno / e non ci fu ritorno per le nostre due vite / nei secoli murate, nei millenni smarrite. / Pure, remota quell’iride ancora / dell’attimo all’origine di te m’innamora”). Lo sbocciare di Irene in un fiore compiuto in sé oltre la pianta che lo nutrì, è visione radiosa per la madre che vi contempla lo sbocciare perennemente nuovo della vita: “Noi, d’improvviso figli di voi figli, gettiamo / tutti i nostri tesori rugginosi / per il vostro sorriso di maestà innocente” (Eros, ai giovani amanti). Ma la vita vittoriosa va oltre; nasce il piccolo Zeno: “Si riaccende col tuo germoglio oscuro / il nostro anno dell’anima, e fa tenera estate / di latte i sensi, ancora dall’etere nutriti / nel sangue di mia figlia in tropicale rigoglio.  Il linguaggio dell’Eden suonerà senza orgoglio / nel tuo vagito…”.
Il lettore fedele sapeva che Maura Del Serra aveva cantato la gioia piena, la vita trionfante, accanto allo smarrimento dell’ignoto che conduce i poeti, nati sotto Saturno, a sanguinare nella contemplazione senza veli del baratro. Ma mai così limpidamente accostati erano stati i due mondi, mai così inequivocabilmente la dolce vita normale aveva vinto, offrendo a quel lettore la certezza salvifica che il poeta paga sì la insonne lucidità dello sguardo, ma solo a volte ne è bruciato fino al fondo del cuore quaggiù. Ci sono meravigliose eccezioni: una era stata quella che mi è sempre apparsa come la sorella-madre di Maura: Margherita Guidacci, che trascende la Neurosuite nell’Inno alla gioia, ed infine nel Primo Natale di Francesca: “Nel tuo riso radioso risuona / tutta la musica degli Angeli, / tutto l’annunzio di speranza, mentre / sulla tua vita sorgiva la cometa / passa la prima volta come nel cielo di Betlemme”.
Ora non ci stupisce che ai domestici lari chiamati a vigilare su questo piccolo eden – il gatto Rumi e la gatta Lilla – siano date fattezze più che umane: “feto di terra e cielo: le tue fusa / sono il trionfale “sesamo” che scioglie le porte / umane doloranti in serafica delizia…” “Con le orecchie che vibrano al ritmo del susino / e del ciliegio in fiore accesi al vento, / […] guarda il paradiso-giardino /come l’ape la rosa: da signora, da sposa”. Tutto attorno, in questo cosmo ben ordinato, il cerchio degli amici – lo svedese con cui fissare il mare “con gli occhi non più ebbri ma persuasi / dalla luce di questo mondo, forse dell’altro”; il cavaliere che da sempre ebbe in cuore amorosa giustizia, seppe “gettarsi ridente e solitario / nella fiamma perenne di rovi sulla vetta”; L’amico battagliero: “La tua è l’allegra guerra / del fedele d’amore e cortesia / che mulina la spada nel torneo, dove il prezzo / è la rosa colore del suo sangue”. Poi le donne: Daniela, “tulipano orgoglioso e gentile / con le spine di seta, che semina a nutrire / la cerchia delle sue mura lucchesi”; la piccola ape industriosa Cristina, che “crea il fiore, fila il nettare[…] / tesse sull’alveare / guglie gotiche rare”; la perla campestre Margherita.
Quindi, i grandi amici morti: Oscar Wilde, “il [suo] proscritto amore lacerato coi veli / di Salomè sulle sbarre di Reading”, che cessa di essere personaggio solo tragico per l’evocazione finale “del goffo nom de plume della madre,” Speranza, l’estrema virtù nel fiabesco vaso / che ora ci porge, lucida e segreta, la [sua] mano”. Sereno Kavafis, “gli occhi persiani” levati al cielo, tra le scartoffie, “fissando una sua Itaca d’alabastro”; limpido lo sguardo di Kafka, nell’ “…elezione a un’ isola abissale / patria di una materna imprendibile sirena […] / (“il lampo dei tuoi occhi strugge il male, Milena”). / Per lei, con il coltello nel respiro / si aprì come conchiglia, […] lanciandole la perla.” Neppure il ricordo di Giordano Bruno è tutto tragico: a 400 anni dal rogo, trasmigrato “in altri corpi, nel soffio profondo, / innumere dell’anima del mondo”, trasformato oggi forse nel pane che si vende al forno di Campo dei Fiori. Così si chiude, in pace, questa sezione offerta ai cari affetti, con le parole dell’ortolano al monaco buddista: “tutto è il migliore qui”.
Altrettanto luminosi i Tre ricordi seguenti, che formano la brevissima IV sezione: il bellissimo In memoria di Sandro Penna, nel centenario della sua nascita: “Implume tra le rotaie roventi / saltella un passero, e subito, alato / vola nel treno assordante e affollato, / volgendo in su tutti quei visi assenti”. E La barca, in memoria di Mario Luzi, “vasello snelletto e leggiero / col [suo] angelo gotico al timone”, che trasporta nel suo seno con amore il poeta, attraverso una rotta faticata e illuminata, a ricongiungersi, “al culmine del monte, all’“umile [sua] madre cristiana. L’ultimo congedo è l’Epitaffio per Ingmar Bergman, ancora un vascello e un mare, che sono qui l’ultimo legno di Ulisse e il mare della sua Itaca “dove immobile visse / con [lui] il dio muto, il giudice di disegni sottili /come la luce dietro le [sue] palpebre chiuse”.

Цифровая репродукция находится в интернет-музее Gallerix.ru

Anche Grida è una breve sezione (la V), ma la calma delle sezioni III-IV, si è di nuovo mutata in pianto, anzi in Grida, più che di protesta di orrore, che si accompagnano alle “urla della guerra fratricida”: nello sfondo le uova pasquali snaturate in bombe, dell’aprile (Eliot: “aprile è il mese più crudele”) della guerra nel Kossovo (1999) . Accanto, in straziata seppur fidente invocazione: “Allacciate le braccia nell’intaglio del fiore / danzano al vento carico di miele sud-croato / sette meli nel seno del tuo prato”, mentre il poeta leva “al cielo fragile di guerra un[suo] cuore / d’amicizia tra i busti glauchi dei suoi poeti”, e una audace proclamazione di certezza: “Mio fu il seme caduto sulla roccia, / svettato in ponte di bambù oscillante / su fragorosi turbini […] / Mio sarà il seme di terra profonda / altorisorto in tiglio centenario, / candelabro al suo lago, ponte ai regali uccelli / di un’azzurra stagione” (Posterità. Laghi di Plitvice). Dietro questi nomi par di udire la voce della Margherita Guidacci del Taccuino slavo, assieme allo spessore di sanguinante “impegno” da cui erano sgorgati L’orologio di Bologna e La via Crucis dell’Umanità. Perché, ben oltre le cadenze, le assonanze, oltre l’eco delle interne lacerazioni di Neurosuite, la Guidacci è stata per Maura Del Serra maestra d’ impegno, di quella sua particolare maniera di impegno, fatto più di lacrime e sangue, appunto, più di compassione identificata senza riserva che di parole, in una maestra delle parole. Anche in Maura compassione “senza confini”, anche lei cassa di risonanza offerta a tutti i dolori, lontani e vicini. Ecco la Genova ferita del 2001, dove rimase ucciso il ragazzo Giuliani; e l’Amore e morte cui fanno da sfondo le Twin Towers di Manhattan sbriciolate nel 2001; ecco l‘Irlanda di Howth ove ritrova l’anima di Joyce, e, appunto, quella della Guidacci; e l’Apocalisse incarnata dallo Tzumani del 26 dicembre 2004, che cancellò “paradisi turistici e limbi del Terzo Mondo”; ecco Hina, – la ragazza pakistana sgozzata dai maschi della famiglia a Brescia – “ farfalla imprigionata nella gabbia ancestrale / di una fede accecata / […] principessa fatata, / contro l’aguzza cupola murata, sognando / un calice nuziale con il suo calabrone, / lo straniero-non più-straniero, re di [lei] stessa”; e Pechino, “la spietata fortezza mediatica d’Oriente” che ci si offre per le Olimpiadi come “specchio in trionfo mercantile / sul muto sangue sparso dell’utopia civile / […] più che mai ignota, mai così vicina”. Ed infine Gea la nostra patria, non più così grande, e l’altra, così piccola ormai, a cui si dedica, in chiusura, l’Epigrafe italica.
Gli Assoli (VI) hanno inizio con un altro confronto, sereno, del poeta con le stagioni della sua vita : “Fu la mia infanzia fulgida di bocci roventi, / la giovinezza un’alta grigia nube stellata. / Ora rotolo docile coi venti, / solitaria, in ignote lingue amata” . Ma l’aggettivo “solitaria” dell’ultimo verso si dipana, in Spersonalizzazione, in “grigie” immagini di confinamento – ritorna quel sommesso colore di tortora che fu della nube stellata di giovinezza, venato di malinconia sia pure nel morbido lusso del velluto, o nella protezione della cameretta petrarchesca. Venato di malinconia, perché la solitudine è separazione da un “tu” che fu prima “oceano di latte”, “pergolato di sussurri segreti”, “zirlare di uccelli nel fuoco”. E, di nuovo, il confronto delle stagioni, di Passato e presente:  prima “nell’attimo eterno / vibrare celeste “ del suo “inferno d’immaginazione”, ora il giardino “terrestre, simmetrico e muto”, ove “la spada, disciolta in fontana, / oscilla con nota sovrana / scrivendo nel cielo la sete comune.” La solitudine è il prezzo da pagare per dar voce alla sete comune, o per essere improvvisamente colmati da un “fuoco di senso”, nelle splendide geometrie della Stoccolma dei suicidi. La poetessa, dalla “luce d’acqua velina” dei lontani paesi ove è “in ignote lingue amata”, riemergerà nel seno della città che il tempo fece sua – con l’ Ospedale fregiato dalla robbiana narrazione dell’ “eterna vicenda di soccorso e malattia”, guardato da un leone camuso le cui fauci esprimono “vivo ruscellare / che colma una conchiglia materna“: quella città, quel meraviglioso ospedale, felicemente policromo, “Lete dove affondarono d’improvviso i [suoi] cari, / Eunoè da cui emerse la [sua] bimba raggiante,” e che le darà “oltre l’abbraccio nudo della [sua] scalinata / nuova veste bianco-infante / e una zattera bianca per infiniti mari.” Passato-presente, dunque, partenze e ritorni in questi dolce-tristi Assoli, come avvolti in grigio sipario di velluto. Canta una partenza o un ritorno la Canzone per le isole Cicladi? “Sul mare color vino / di Omero, qui approdata / a cercare un destino / d’arte e amicizia alata” — o Radici: “Il dolce fiore greco – oro e viola – / colto nel sole acuto della spiaggia d’Atene , / ora nel mio giardino dà il suo miele / immemorabile, radica la sua dorica gloria / tra i miei cipressi”. Partenza e ritorno coincidono nel Bacio della fata: “Nascosta dentro il bosco circolare del sole / la tua casa ci accoglie, fata Luce, / quando la mente si spoglia ed il corpo / nerospinoso di tempo si stacca /al tuo tocco che a semi roventi ci riduce”.
Come tutto il libro, ma in sommo grado, questa sezione è rutilante di sapientissime immagini, immagini eterne e ardite, classiche o surreali – “Al centro del mandala, Pazienza dell’istante, sei il sangue dell’aereo tessuto di certezza, / il mozzo della ruota cosmica turbinante”; “Non avrò peso, sarò la sostanza / che in su cadendo s’avvita al pensiero / non umano, e vi suscita in mistero / l’ombra che danza” (e l’esempio valga anche per le escursioni di sapienza metrica). Come è densa, questa poesia, di sapientissimi giochi di rime e assonanze e di arditi neologismi – spesso, ma non solo, inaspettate combinazioni di più parole in una, così lo è di “concetti”, che nei versi finali a rime baciate scoccano in sorprendenti imprevisti, come in certi sonetti petrarcheschi che anticipano il barocco: “sei […] / la piuma intima all’aria che la luce accarezza / e pulsi in vena d’oro che riempie la miniera / dove tutta mi sbriciolo per rinascere intera”; “l’omofonia di bellezza e di forza / ci possiede con la necessità / che il pozzo ha della ghiera […] / il cristallo di neve del gelo che attanaglia / boschi e città. / Indecifrabilmente / quel gemellaggio svela / la rima identica della pietà”. Sorprese anche nella sequenza delle composizioni: al centro l’oximoro di Assolo in coro, dove si condensa un motivo ricorrente in tutto il libro, anzi un doppio motivo: il poeta che si fa porta e il poeta che paga con la vita il dono della visione, quest’ultimo articolato nelle immagini molteplici di Sacrificio – immagini tutte del male di vivere, ma un male di vivere (“sacrificio”) che è redenzione, che ci salva. Ci salva anche, come è ripetuto in Teatro, dall’ossessione umana della perdita, poiché ”nel cuore / più non si perde, ignavo, nessuno spettatore”. Nulla si perde di quel che chiamiamo passato (“Gemmati tabernacoli del tempo, / chiudono in calici aerei il vino / del quotidiano stillato in destino – I ricordi); ma anche il futuro è reale e ci appartiene, cioè ci è dato riconoscerlo come nostro, non fosse che in una scritta sul muro, cioè mascherato nei mezzi d’espressione dei giovanissimi – “Provochiamo tempeste, ma preferiamo il sole” -, scritta in cui il poeta capta, goffa e bruciante, la “nostalgia dell’apollinea ragione”. Il transfert per cui “nel cuore / più non si perde, ignavo, nessuno spettatore”, il poeta riesce ad operarlo sempre con quel suo metodo dell’illimitata condivisione: la “mente bambina” giocando con ingenua letizia con le parole in fitte rime e assonanze anche interne, dona il suo “eden di eterna mattina / alle vite trafitte, irredente, non vissute”. Oltre l’eden della mente bambina la dimensione del poeta accoglie il calvario della ruota in cui “mille volte” il calice andò in frantumi; mille volte sfociati i fiumi hanno sete; mille volte “già fatta cosmo in cuore / la mente torna grumo uterino di dolore”. Perché l’arte della condivisione si radica nella perseveranza ostinatamente sofferta.
Eden e calvario, ché doppia è ogni cosa per lei – “doppio [le] pulsa il cuore coi due moti”. Il destino è scandito nitidamente in L’altro: “Chi sanguina parole, chi non vede / senza lacrime, chi solo cammina / su lame di cristallo, chi non crede ma sa / nelle scolpite viscere ciò che non muta, fa / delle pietre d’inciampo pietre di fondamento…” . Ma il due – che fu passato-presente, ombra-luce, noto-ignoto, estasi e sanguinante dolore – si riassorbe nell’uno: “L’allodola con un’ala sola / che da ferma trasvola / dove l’ordine sposa l’avventura, / dove l’estasi bacia la paura – un’ape vorticosa / fissa a un’unica rosa – /…/ questo vissi nascendo / e ora, alta sullo scoglio della sera, comprendo: / si sprigiona dal piombo di catene / il tuffo nell’oceano empireo del bene”. Tutto è limpido, specchiato come il mare nel bicchiere dell’ “età certa”, dell’età che non dà ombra, come Maura aveva capito già da dieci primavere. Il guru Dolore ridusse la poetessa a “tronco che vive e sente”, per trasportarla “fra i tuoni / verso l’ignota cima benedetta / dove, vivendo, a se stessi si muore: / e apers[e] – [ancora una ‘petrarchesca’ sorpresa finale] – a un jet policromo la traccia”. Gli Assoli – certo “un”, se non addirittura “il”, cuore del libro – si compendiano una volta ancora nel ciclo: “Adesso mi risvegliai, / poi mi risveglio, molto tempo orsono / mi sveglierò dove la terra versa / una tenera pioggia dal profondo, / e l’Anima del Mondo alza ridendo / il mio feto rugoso tra le braccia”. Perché ancora una volta tutto si sciolga (si cancelli), “cesella il mondo l’arte del pensiero, / ma lo salvano i Pescatori d’acqua, / gli umili e lievi guerrieri del vero / vestiti di pietà, materni come mammella, / cuori di cuori: in loro / la fredda storia è nido, e la sete del pianeta / immemorabilmente sanguina e si cancella”.

 

f9d368feb455cad73d2483d34cfea0b9

La VII parte – Senso unico – è l’ultima nuova. Poiché Brevi, l’VIII, è composta di Scintille, uscita nel 2008 in una splendida edizione numerata, e Specchi (microcellula drammatica) aveva anch’essa già visto la luce nella stessa edizione. A differenza di quanto accadeva per Forza maggiore, dove la poesia che spiega il titolo si incontra a metà della sezione, qui la nostra perplessità su come il titolo sia da interpretare, e in specie se abbia significato positivo o negativo, è subito sciolta dalla prima composizione, eponima: “Il senso unico, indescrivibile / in nomi ed esseri, indecifrabile / a riti e formule, splende istantaneo / nella radice dell’invisibile / […] ed è giorno chiaro”. Dunque il segno è inequivocabilmente positivo. E se il nome non può descrivere l’essere (cioè la realtà che è custodita nella cosa – come per Proust, ma anche per Gertrud Stein), ne è pur sempre la bandiera. Colpisce come il potere rivelatore del nome sia legato alla luce (sulle orme di Goethe citato, ma, ancora, come nel Proust di Jean Santeuil). Ma il mondo nuovo (il moderno opposto dell’antico, capace di guardare in faccia gli dei affacciati a fonti o cespugli) ha bisogno di schermi per sopportare il sole, e il primo, pur candido, schermo è lo humour, “sorriso della saggezza umana / prossimo a liquefarsi in buddhità / e a scolpirsi in un verso d’animale / che rende semplice l’eternità”. Le due quartine che chiedono Risposta ripropongono gli opposti “dogli” da cui cola bene e male, ma l’accento in qualche modo sembra cadere sul bene (che vien dopo, quasi avviato a concludere, pur restando domanda): “Da quale cupo canto degli dei nasce il mondo / alle stragi. […] / Da quale chiaro canto degli dei sgorga il cielo, / patria di forme erranti più vera d’ogni vero, / arca di supplici e casa d’amanti, / sempre violato e sempre verginale sentiero?” La risposta è serena: “Non lo sapremo. Ma, tessuti nel loro manto, / diverremo il silenzio che feconda quel canto.” Se non maschera la presenza del male, Senso unico guarda al bene. Un bene tanto più consolante quando è frutto di un male superato, come la Libertà che decanta in “luce del poeta [adulto], / [in] chicco di coscienza agli ultimi del pianeta” la “torbida” lettura adolescenziale del motto di Agostino “Ama e fa’ ciò che vuoi”. Così si decanta la morte, negli sdruccioli di India da polso, bracciale di metallo povero con incise barche e luna, che convoglia il pensiero del poeta a scivolare verso “il Gange immenso, dove le ceneri / delle tue [= dell’India remota sognata] pire in corpi risorgono / tuoi, nostri, dove la Storia brulica / maternamente in cicli spiralici, / dove la perla nel loto sfolgora”. Così si alza in canto la voce dei pacifici “lieti del sole quieto / che [li] scolpisce e in grembo a [loro] riposa”, dopo che hanno sofferto “la [loro] pace inerme, / operosa e sprezzata “ “qui nel mondo creato, dove il dio non fiorisce / se non s’apre la rosa”. Così canta Penelope che per Ulisse fu “la lingua d’acqua dolce della ragione, dopo / la sua fiammea lingua d’avventura e di guerra / […], l’isola, il senso / lucido dello scoglio al di là della marea.” Così, infine, canta Shakti, la sposa di Shiva, “madre Eterna, alta profusa sostanza”, che ovunque nasce e forma il suo dono – “dove il capo di Orfeo reciso canta sull’acqua / […], dove il grano germoglia dai cadaveri azzurri”, trasmutando morte e vita nella perenne danza che agita noi, suoi veli. Stupende immagini carezzano la Musa pensosa della memoria – ai cui piedi sciabordano il mare greco salato e il fiume cristiano d’acqua dolce – , la musa che “protegg[e] nel fiore unico della mano” “ciò che sfida ogni lingua”, “chiud[e] l’umano nel bozzolo fatato e lo genera alla storia”. Memoria viva, seme di storia, è la Coppia neolitica “forma scolpita del [suo] nodo muto / […], gemma fossile emersa dalla deriva / d’ere e di continenti […], memoria viva / della brama che lieta / fa divino il pianeta.” Se è l’amore a far divino il pianeta, già divina è la perenne ruota delle metamorfosi, l’onda sempre uguale, mai uguale, del destino che “ci fa ignudi bruciare / di sostanza stellare” (Nudità); nell’armonia del Tutto si conciliano le nostre lacerazioni (Politeismo): “Cento milioni di galassie fanno / felice il cosmo”. Alle mille trasformazioni cui ci assoggetta il Tempo nostro distruggendo e ricostruendo – “apprendistato e rito [per noi] / di vita-morte, mandala scolpito / in legge di natura”- , si contrappone la chiara vita e visione di “chi abita a braccia aperte il diamante / invisibile dell’eternità” (Chi vivrà vedrà), Eternità che il poeta “guard[a] versare l’universo stellato / nella coppa del tempo di cui [è] la sovrana”. Eternità e amore svariano coi loro miracoli l’una  nell’altro: “Soltanto nell’amore uno più uno fa mille / […] ombra e luce scolpiscono la conchiglia segreta / del tempo innumerabile” (Far di conto). “Il pianto delle cose e il riso dell’universo (Weltscmerz, weltfreude) […] il fulmine più fragile ci inghiotte, / ma la luce separa la notte dalla notte”. Così tutto si unifica nell’uno, in un’armonia dei contrari di cui già ci assicura l’armonia geometrica di macro e microcosmo “in ragnatele e rosoni / di cattedrali, in gotici e orientali / fiocchi di neve, / nella conchiglia e nel versetto breve, / […] geometrica la musica del coro / […] geometrica la culla della morte / che genera la vita, e la fa forte”. Tutto si unifica attraversando il poeta – l’ardente coraggioso “piccolo” io del poeta che è insieme l’Uomo compiuto e l’anima del mondo, e che diventa un “noi” senza confini “atomo nel cosmo, – atomo di rugiada che nutre il prato, / […] atomo d’armonia che tutti i cosmi ha formato: / l’indivisibile infinitamente / divisibile”, che ha sorelle le parole “che dividono il fuoco con la spada” (Le affinità creative): “Per morire di gioia come gli illuminati, (Yoga) /come il cane di Ulisse, in letame d’abbandono /[…] per morire nel dono estremo repentino / dell’amata presenza […] / noi combattiamo in tenebre polari od africane, / liberi, per servire la luce del destino”. “Non sta in cielo né in terra / l’anima nostra, ma oscilla in un nido / che arde e geme […]. Ma se, crollata agli inferi, stracciata ogni speranza / si perde, cieli e terra la raccolgono”. L’ “anima nostra” non può significare solo l’anima umana, perché “la catena dell’essere si salda in somiglianza”: “L’arcangelo caduto imita l’uomo / e l’uomo in caccia imita l’animale /…” e “tutto è albero in noi: le dita foglie / che raggrinza di macule la stagione finale, / la chioma eretta o fluente o ricciuta / come in cipresso o in salice o in vitigno” (Arboreità). Intanto il mondo cambia: spariranno i libri, “ambra deliziosa/ di parole su carta” : “presto rari, / [li] porterà la Storia come gioielli o fari”. Ma la perdita non è mai assoluta – come la distanza degli amanti “divisi dalle fiamme dei deserti assordanti” è trasfigurata negli “anelli d’oro su piatti d’oro” rubati dalla gazza, così è trasfigurata la città irretita nelle regole dall’ occhio dei falchi fuori-legge che si son fatti il nido sulla cupola del Brunelleschi. Più radicale Trasfigurazione quella dell’ “agnello macellato, guardato dal bambino” nell’ “oro denso di nube nel tramonto disciolto. / Un perché senza dove / è ogni scomparso prediletto volto, / un ippogrifo carico di luna.” Pochi – gli happy few, i Giusti, i poeti: i “pochi’ che bastano per salvare il mondo-”   guardano la luna farsi / piena ed innamorare cieli ignoti: / nel suo viso di perla si bruciano la faccia / e sprofondano per incoronarsi”. Si incoronano di un inno alla parola, le cui magiche associazioni ci si rivelano in una lingua insieme vicina e straniera (Palabras), come il sangue incorrotto, gettato “nei vicoli, sulla grandine repentina d’aprile,” si spande “nei mandorli rosati / delle calles majores, / [sgorga] nel barocco eterno delle fontane / di Madrid, nostra nuova madre di nuovi fari / gentili di ragione”. Solo il poeta vede, non con gli occhi di carne, “i fantasmi di Goya nel livido dolore / della storia a quel sangue abbeverarsi, rinati”.
Cosa vuole ancora dirci, dopo questi canti a senso unico del dolore redento, la Maura delle Brevi (VIII)? In ogni “sentenza” conferma, col pensiero e l’immagine, l’esistenza del dolore e la sua redenzione. (Redenzione diciamo, con parola cristiana, ma il mondo di Maura non è meno greco e orientale che cristiano). Come già i suoi Aforismi (1995), le 47 Scintille contengono densissimi lampi di saggezza nel guscio di noce dei 2-4 versi (cinque sole ne hanno più di quattro). Qui non è possibile compendiare. Ci si limita a cogliere qualche fiore dove ai nostri occhi riluce più vivido un pensiero, o più splende in immagine. Giacché Scintille distilla le immagini /chiave, le immagini/simbolo:
Domina l’immagine del fuoco che affina: 8. “Il Maestro è nell’anima” – […] / Lava la gola col fuoco, incorona / di spine la ridente perfezione”. 33. “Nel mondo di catene e crudeltà / ha corona segreta la Pietà: / spontanea balza nel cerchio di fuoco, / vi si strugge, è sorgente quando giunge al di là”. 41. “Come il cieco il cui vero / bastone è il canto, / noi nutriamo la fiamma che ci affina / con lievi ali di pianto.” 45. “Gioca con noi bendato a mosca cieca / liberamente il Fato: / se l’afferriamo è un fulmine che fonde / il futuro al passato – / salva i sommersi, sommerge i salvati, / ci strappa bende e fiato.”
Il vento, l’ala: 17. “In vetta al pioppo trema / l’ultima foglia, come banderuola: / il vento la trafigge,  / la luce la consola”. 43. “Nell’amore riposo come il vento / nell’ala chiusa, / in ogni forma che scioglie il tormento / vivo diffusa.”
Il ponte (a cui si assimilano sia l’arcobaleno che la scala): 3. “Se abiti sul ponte, non puoi scendere a bere: / paziente attendi che / l’acqua ti veda e salga fino a te”. 16. “Fulmineo ci traghetta all’infinito / l’amore, arcobaleno di granito”. 25. “Ponte di perle acuminate, becco / d’oro, il dolore mi prese per figlia, mi rese madre di parole alate”. 47. “In cielo non si sale / – dicono – senza scale. / Ma chi vi è prigioniero / – i semplici, i trafitti – vi chiude il volo intero”.
Come si vede, le immagini trapassano l’una nell’altra. Scegliamo i principali temi che quelle immagini esprimono, o a cui conducono:
L’unità-armonia del cosmo 14. “Non è un concetto l’anima, e tutti gli animali / lo sanno, e ne risplendono, semplici e universali”. 18. “Come fumo che sale / verso il cielo immortale / le nostre varie vite / effimere e infinite, / in ogni forma avvolte, / nel senza-forma accolte”. 23. “Costruttori di buio e costruttori di stelle / in estasi e paura / colluttanti s’annidano in ogni creatura / forgiando lingue a vette e a voragini sorelle”. 31. “Alfabeti stellati, fluviali continenti – / creature abbracciate ad elementi – peccati in razze angeliche rifatti trasparenti 39.”
L’infanzia innocente tutto sa, come le creature della natura: 11. “‘Mamma è guarito un morto!’ esultò nel cimitero / davanti ad una fossa sventrata la vocetta. / E la resurrezione fu presente, perfetta”. Ma gli uomini devono riconquistare la certezza attraverso il crogiolo del dolore:
Il dolore, che affina come il fuoco: 32. “Con lo Zodiaco avvolto alla cintura / mi inginocchiai nel sangue, piansi fango, / gelo, tortura. Ora le sfere ascolto / molare il fondo della mia natura.” 30. “Giace nudaridente, sul più sordido prato / la Verità dal seno delicato / e allatta il dio rifiutato, innocente”.
Il silenzio e l’attesa: 34. “Fissai il buio finché venne a fissarmi la luce – / tacqui finché il silenzio mi dipinse la voce.” 38. “Nella mia danza mutila io vivo, e non so come: / attendo quel silenzio che mi chiami per nome.”
La memoria, cioè la redenzione del tempo, ponte tra futuro e passato: 28. “Leggiadro come scheletro di foglia / l’amore lascia il corpo al tempo ladro.” 39. “Nostalgia del futuro, nostalgia del passato – / tra le due palme giunte, tutta la vita umana; / intorno – pietre e simboli – la verde cattedrale; / sopra, a trafiggerci, la stella arcana.” 42. “fra i ricurvi cancelli / della Memoria / abitando mi faccio trasparente / come tra mani in preghiera la mente.”
La poesia in cui sfocia la memoria, madre delle muse – bellezza ignota quanto certa – il poeta la raggiunge attraverso l’Illuminazione, e questa a sua volta giunge per la trasformazione, di cui lo strumento è il dolore: 32. “mi inginocchiai nel sangue, piansi fango, / gelo, tortura. Ora le sfere ascolto / molare il fondo della mia natura.” 34. “Fissai il buio finché venne a fissarmi la luce.” 35. “La poesia sfocia nella sorgente / dove si forma al canto la bocca della mente.” 44. “Per otto mesi larva, per tre giorni farfalla; / la formula dell’Illuminazione, / della bellezza ignota quanto certa.”
Immagini, temi, tutto converge nel poeta – nell’artista -, che in sè brucia morte e vita, agonia ed estasi, buio non sapere e illuminazione, in un movimento a senso unico che offre molto più del tentativo di certezza che prometteva il titolo.
La vera chiusa è la “microcellula drammatica” Specchi – e non sorprende, in un poeta che annovera tra le sue opere più belle testi drammatici quali La Fenice  La fonte ardente e Andrej Rubljov. In queste due ultime pagine si distilla ogni motivo del canto dell’artista, sigillato nella solitudine e tuttavia all’infinito moltiplicato lungo l’orizzontale degli specchi-ritratto e la verticale delle involontarie filiazioni: artista-“opera d’arte totale che brucia e rinasce nel grembo di fuoco.”

Margherita Pieracci Harwell

Questo articolo è già stato pubblicatoil 30-09-2017 in Saggi da Corso Italia 7

Corso Italia 7

Rivista Internazionale di Letteratura – International Journal of Literature


Maura Del Serra – Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano
Maura Del Serra, Franca Nuti – Voce di Voci. Franca Nuti legge Maura Del Serra.
Intervista a Maura Del Serra. A cura di Nuria Kanzian. «Mantenersi fedeli alla propria vocazione e all’onestà intellettuale, senza cedere alle lusinghe di un facile successo massmediatico»
Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole
Maura Del Serra – La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa”
Maura Del Serra, «Teatro», 2015, pp. 864
Maura Del Serra – Quadrifoglio in onore di Dino Campana
Maura Del Serra – I LIBRI ed altro
Maura Del Serra – Miklós Szentkuthy, il manierista enciclopedico della Weltliteratur: verso l’unica e sola metafora
Maura Del Serra – Al popolo della pace.
Maura Del Serra – «L’albero delle parole». La mia vita è stata un ponte per centinaia di vite, che mi hanno consumato e rinnovato, per loro libera necessità.

Margherita Pieracci Harwell – In lode della lettura: si legge per veder meglio in sé, riflessi in un altro.
Margherita Guidacci, Margherita Pieracci Harvell – «Specularmente. Lettere, studi, recensioni». A cura di Ilaria Rabatti
Margherita Pieracci Harwell – Si apriva il balcone sull’amata Parigi. Lettere e memoria dalla madre di Simone Weil.

Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 20-01-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.

Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Fernando Birri (1925-2017) – … pero sueña con los ojos abiertos

Fernando Birri 02

Legge-e-fuma
La mia casa
ambulante

avrà ancora due gambe
e i miei sogni non avranno frontiere.
Ernesto Che Guevara

 

Birri_a_Cuba… pero sueña con los ojos abiertos. Fernando Birri

9789870406488-us

 

 

Guevara-legge

 

Ha più valore,
un milione di volte,
la vita di un solo essere umano
che tutte le proprietà
dell’uomo più ricco della terra.
Ernesto Che Guevara

ernesto-che-guevara-muerte-de-la-utopia-de-fernando-birri-D_NQ_NP_4008-MLA125278171_5944-F

 

md17130223840

 

9789871304257-us

9783946274131-us

13254927123

1349871474

7266_depliant_casa_argentina

 

Fernando Birri – «Para que el lugar de la Utopia, que, por definiciòn, està en “Ninguna Parte”, esté en alguna parte».

De Pascale Goffredo, Fernando Birri L’Altramerica, Le Pleiadi, Napoli, 1994, con un’avvertenza di Eduardo Galeano

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 20-01-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.

Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Jean Salem (1952-2018) – Scegli la strada in salita, è quella che ti porterà alla felicità.

Jean Salem

Lenin+che+leggeScegli la strada in salita, è quella che ti porterà alla felicità. Jean Salem

 

 

51hlDXwur5L._AC_US218_

ca. 1918-1923, Moscow, Russia --- Lenin sits at his desk and reads the newspaper. --- Image by © CORBIS

 

41RP6e6mMSL._SX314_BO1,204,203,200_

 

Jean Salem, Lenin e la rivoluzione, Nemesis Edizioni, 2010.

 

 

Sinossi

In “Lenin e la rivoluzione”, Jean Salem opera un’illuminante rivisitazione della figura e del pensiero di Lenin, esponendo ed argomentando 6 tesi enucleate dagli scritti del grande pensatore marxista riguardo all’idea di rivoluzione. 1. La rivoluzione è una guerra; e la politica è, in generale, paragonabile all’arte militare. 2. Una rivoluzione politica è anche e soprattutto una rivoluzione sociale, un cambiamento nella situazione delle classi nelle quali si divide la società. 3. Una rivoluzione è fatta di una serie di battaglie; è compito del partito d’avanguardia fornire a ogni tappa una parola d’ordine adatta alla situazione oggettiva; è suo compito riconoscere il momento opportuno per l’insurrezione. 4. I grandi problemi della vita dei popoli non sono mai risolti in altro modo che con l’uso della forza. 5. I rivoluzionari non devono rinunciare alla lotta a favore delle riforme. 6. Nell’epoca delle masse, la politica ha inizio laddove si trovano milioni di uomini, addirittura decine di milioni. Si può inoltre osservare lo spostamento tendenziale dei focolai della rivoluzione verso i paesi dominati. Pur sotto il massiccio attacco denigratorio che da decenni la borghesia porta alla figura del più grande pensatore comunista dopo Marx, come saggiamente fa notare Andrea Catone nella sua prefazione: Non abbiamo dubbi che con la ripresa del movimento comunista in Europa, che la grande crisi strutturale del capitalismo rende a un tempo necessaria e concretamente possibile, Lenin e la sua scienza della rivoluzione torneranno prepotentemente alla ribalta.


C’est avec une profonde tristesse que nous avons appris le décès de notre ami Jean Salem survenu dans la nuit de samedi à dimanche. Nous savions la gravité de son état et nous redoutions cette nouvelle. Jean, Professeur de philosophie à la Sorbonne, animait le séminaire ” Marx XXIe siècle l’esprit et la lettre”. Il faisait partie de ces intellectuels qui pensaient que le Marxisme était toujours d’actualité dans un Monde secoué par une lutte des classes intense et par les affrontements violents au sein de l’impérialisme. Il avait donné une conférence pour le CUEM et depuis nos relations s’étaient approfondies. C’est avec enthousiasme qu’il avait accepté que nous organisions conjointement un hommage à la révolution d’Octobre pour son centième anniversaire. Si Jean n’avait pas pu être parmi nous ce jour là physiquement, il le fut ô combien au travers de son ouvrage:”Lénine et la révolution”. Avec lui, nous perdons un grand camarade de combat. La meilleure façon de lui rendre hommage c’est précisément de continuer le combat révolutionnaire.
Michel Gruselle
Président du Cercle Universitaire d’Études Marxistes
Paris le 14 janvier 2018

Résistences

 


“Lénine et la révolution”. Conférence de Jean Salem on Vimeo

 

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 20-01-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.

Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Elias Canetti (1905-1994) – Eliot non è un vero poeta, è un giocatore di birilli. Come tanti critici d’arte, come tanti critici-critici. È diventato un poeta solo perché a lui il cuore batte meno che ad altri, e vuole compensare con la chiarezza ciò che gli manca in fatto di passione.

Elias Canetti 002
Eliot non è un vero poeta, è un giocatore di birilli. Come tanti critici d’arte, come tanti critici-critici.
È diventato un poeta solo perché a lui il cuore batte meno che ad altri, e vuole compensare con la chiarezza ciò che gli manca in fatto di passione.

036

Il libro contro la morte

A me non interessa abolirla, cosa che non sarebbe possibile.
A me interessa soltanto bandire la morte.
E. Canetti
 ***

Provo una profonda avversione per ogni forma di critica arte; avversione che cresce là dove tale critica si avvicina alla sfera che mi compete; e la trovo insopportabile là dove si sforza di essere assolutamente fredda ed equa. Un esempio nella letteratura inglese moderna è costituito dal poeta Eliot, nei cui saggi sulla poesia mi imbatto di tanto in tanto.

Nemmeno io capisco appieno perché essi suscitino in me un ribrezzo così repentino e peculiare. Eppure lo avverto sempre, dopo una pagina o due; e con ansioso disgusto, attento a ogni parola che potrebbe accrescerlo, leggo sino alla fine ciò che dovrei mettere subito da parte, e per giorni poi mi sento come rinchiuso in un’orrenda, obsoleta camera di tortura.

La questione trattata in questi saggi è sempre quella del collocamento. La contabilità dei nomi viene affrontata oggettivamente come fosse una trattativa commerciale ben ponderata. Merita, questo o quell’altro, il suo posto nell’antologia? Vi occupa troppo o troppo poco spazio? Si lascia chiaramente intendere che i poeti vivono di antologie. Gli esiti modesti di alcune esistenze ricche e vivaci vengono ricondotti ai loro esordi. Dev’essere davvero un piacere trafficare con i morti come fossero birilli. Già il giudizio sui vivi è un’operazione piuttosto dubbia; e c’è chi preferirebbe farsi tagliare la lingua piuttosto che servirsene per pronunciare una sentenza. E invece ecco qui uno che, con i morti, non ha remore. Di morti, ne tira fuori nove, a volte anche di più, preferibilmente quelli che già da un pezzo sonnecchiano nelle antologie, li mette in fila e ci scaglia contro la sua boccia di legno. Sa poi spiegare nei minimi dettagli perché ne ha colpiti proprio sei; descrive coloro che sono stati buttati a gambe all’aria e ne convalida puntualmente il destino. Ai tre rimasti in piedi, invece, rende onore con parole discrete. Infatti, pur consapevole delle qualità della sua boccia, in fondo sa benissimo che quei tre devono a lui la loro posizione; sarebbe stato facile per lui mettere anche loro nelle fila dei morti.

Tale operazione è ripugnante per molte ragioni: rivela quanto poco questo giocatore di birilli sia ciò che pretende di essere, ovvero un poeta. Perché, se lo fosse, come potrebbe dedicarsi così freddamente a organizzare la fama postuma? Come potrebbe lottare per il numero di righe nelle antologie? Se le sue mani fossero forti nel lancio, lui abbandonerebbe la pista dei birilli e tormenterebbe i vivi o gli dèi. Invece se ne sta lì in maniche di camicia e prende le misure ai morti, quelli che lui stesso ha, prima, tirato su e poi buttato giù. Se avesse un cuore, non potrebbe colpire a intervalli prestabiliti. Ma è diventato un poeta solo perché a lui il cuore batte meno che ad altri, e vuole compensare con la chiarezza ciò che gli manca in fatto di passione. Se però la chiarezza fosse davvero importante per lui, la userebbe per districare questo mondo reale: penserebbe, invece che limitarsi a vagliare, e soprattutto si vergognerebbe di vagliare in continuazione la fama postuma solo perché tiene tanto ad essa. Lui non pensa, per lui anche la chiarezza è solo un mezzo. Fra gli appassionati si finge colui che ragiona con chiarezza, fra coloro che ragionano con chiarezza si finge un appassionato.

Chi lo biasimerebbe se, sul terreno delle parole, si muovesse alla ricerca di nuove scoperte? Dovrebbe solo ammettere apertamente la propria curiosità; disporre lui stesso il materiale; accontentarsi di ciò che lo impressiona; gioire; arrabbiarsi; afferrare; allontanare, baciare; discutere; e non presiedere una Corte di giustizia.

 

Elias Canetti, Il libro contro la morte, Adelphi, 2017, pp. 39-41.

***
Risvolto di copertina
Il libro più importante della sua vita, Canetti lo portò sempre dentro di sé ma non lo compose mai. Per cinquant'anni procrastinò il momento di ordinare in un testo articolato i numerosissimi appunti che, nel dialogo costante con i contemporanei, con i grandi del passato e con i propri lutti familiari, andava prendendo giorno dopo giorno su uno dei temi cardine della sua opera: la battaglia contro la morte, contro la violenza del potere che afferma se stesso annientando gli altri, contro Dio che ha inventato la morte, contro l'uomo che uccide e ama la guerra. Una battaglia che era un costante tentativo di salvare i morti – almeno per qualche tempo ancora – sotto le ali del ricordo: «noi viviamo davvero dei morti. Non oso pensare che cosa saremmo senza di loro». Sospeso tra il desiderio di veder concluso Il libro contro la morte – «È ancora il mio libro per antonomasia. Riuscirò finalmente a scriverlo tutto d'un fiato?» – e la certezza che solo i posteri avrebbero potuto intraprendere il compito ordinatore a lui precluso, Canetti continuò a scrivere fino all'ultimo senza imprigionare nella griglia prepotente di un sistema i suoi pensieri: frasi brevi e icastiche, fabulae minimae, satire, invettive e fulminanti paradossi. Quel compito ordinatore è assolto ora da questo libro, complemento fondamentale e irrinunciabile di Massa e potere: ricostruito con sapienza filologica su materiali in gran parte inediti, esso ci restituisce un mosaico prezioso, collocandosi in posizione eminente fra le maggiori opere di Canetti.

Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 20-01-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Aldo Manuzio (1449-1515) – Abbiamo deciso di dedicare tutta la vita all’utile dell’umanità. Questo vogliamo giorno dopo giorno sempre di più, finché vivremo.

001

 

 

Lettere prefatorie a edizioni greche

Lettere prefatorie a edizioni greche

festina_lente1

Abbiamo deciso di dedicare tutta la vita

all’utile dell’umanità.

Questo vogliamo giorno dopo giorno

sempre di più,

finché vivremo».

Aldo Manunzio, Lettere prefatorie a edizioni greche, a cura di Claudio Bevegni, Adelphi, 2017.

***

Risvolto di copertina

Avviare un’impresa editoriale implica, da sempre, una buona dose di coraggio. Ma nel caso di Aldo Manuzio, che nel 1495 si propone di stampare libri greci guardando oltre i ristretti confini dell’Italia, sarebbe senz’altro meglio parlare di temerarietà. Il suo rivoluzionario disegno comportava infatti difficoltà tali da scoraggiare chiunque, giacché esigeva, oltre che un fiuto fuori del comune, collaboratori di prim’ordine e con competenze linguistiche per quell’epoca rare – persino a Venezia, dove pure viveva una florida colonia greca; e manoscritti, non meno rari, su cui fondare le edizioni; e incisori di eccezionale abilità tecnica, capaci di creare tipi che gareggiassero con la grafia dei più eleganti copisti. Senza contare la difficoltà forse maggiore: il numero, inevitabilmente ristretto, dei possibili acquirenti. Ma di fronte a questi scogli Manuzio non arretra di un millimetro: e vara il suo programma editoriale con la grammatica greca di Costantino Lascaris, procuratagli da uno scout d’eccezione, Pietro Bembo. Altre meraviglie seguiranno negli anni: dalla prima, monumentale edizione di Aristotele a Sofocle ‒ proposto nel 1502 nel nuovo formato (i cosiddetti libelli portatiles) con cui ormai da un anno aveva genialmente ampliato il suo pubblico ‒, da Tucidide ed Erodoto a Euripide, Omero e Platone. La sua attività non durerà a lungo: dieci brevi, decisivi anni nel corso dei quali Manuzio riuscirà, caparbiamente e spavaldamente, a imporre non soltanto un modello di editoria guardato con ammirazione in tutta Europa, ma un modo nuovo di accedere ai testi, svolgendo così un ruolo che era stato sino ad allora prerogativa dei grandi maestri della letteratura.

L'Aristotele di Aldo Manuzio

L’Aristotele di Aldo Manuzio

***

L’Editore Adelphi ha pubblicato un florilegio di Lettere prefatorie, scritte da Aldo Manuzio (1449-1515), con prefazione di Roberto Calasso, dalla quale si ricava una specie di sua immedesimazione con l’uomo più colto del nostro Rinascimento, colui che trasformò lo stampatore in editore, la cui “Bottega” vantava ben 30 persone, fra lavoranti, familiari, ospiti e servitù, diventata, in breve tempo, un luogo di ricerca, se non una vera e propria Officina, così come lo erano quelle dei pittori, degli incisori, degli scultori. Si lavorava molto, tanto che, secondo Erasmo, non solo gli impiegati disponevano di mezz’ora al giorno per rifocillarsi, ma anche lo stesso Manuzio si sottoponeva alla medesima fatica, vivendo il tormento dell’editore come quello di un artista in cerca di continui confronti con quelli del passato e del presente.
Era fermamente convinto  che la grammatica e la lingua greca fossero indispensabili per gli studiosi del suo tempo. Citando il “Catone” di Cicerone, cercava la conferma della sua tesi, essendo la dottrina di costui dovuta allo “studio delle lettere greche”, studio ripreso dai nostri umanisti che richiedevano continuamente libri di autori greci.
In 20 anni di attività, Manuzio ha pubblicato ben 130 edizioni di opere greche, latine e volgari, famosa la sua edizione della “Commedia” dantesca. Le lettere prefatorie sono la testimonianza di una vera e propria bramosia di sapere, specie dopo il successo editoriale dell’”Organon”  del “divino” Aristotele, che riteneva strumento indispensabile per lo studio di tutte le scienze, così come lo erano, per lo studio della lingua, le Commedie di Aristofane e le Tragedie di Sofocle, con note di commento, che rendevano sempre più laboriose le operazioni. La “Bottega” di Manuzio sosteneva un costo molto elevato, per questo motivo egli dovette ricorrere all’aiuto di mecenati come Alberto Pio, principe di Carpi, e Leone X, al quale dedica l’Opera omnia di Platone. Nella supplica al Sommo Pontefice, nello stile dell’Ariosto e del Tasso, Manuzio scrive qualcosa di profetico: “una lunga esperienza insegna che, quali sono i governanti, tale sarà la cittadinanza”. La foga è talmente alta che, a un certo punto,dà del tu al Pontefice ricordandogli che la scelta di pubblicare le Opere platoniche fosse anche il frutto di una continuità con l’operato di Marsilio Ficino che aveva tradotto in latino i “Dialoghi” platonici, grazie al mecenatismo del padre, Lorenzo dei Medici. Manuzio desiderava far diventare Firenze la nuova Atene, grazie anche alla creazione di una Accademia, concepita come luogo di incontri e scambi di artisti europei.

Andrea Bisicchia

 

 

 

Cartello infisso da Manuzio all'ingresso della tipografia

Cartello infisso da Manuzio all’ingresso della tipografia


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 20-01-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

1 6 7 8 9 10 45