Salvatore Bravo – «Indonesia 1965». Il capitalismo genocidiario oggi si cela dietro la cortina della società dello spettacolo. Il suo linguaggio è divenuto finzione filmica

Salvatore Bravo

Il capitalismo genocidiario si cela dietro la cortina della società dello spettacolo.

Il suo linguaggio è divenuto finzione filmica.

 

Capitalismo genocidiario

Il capitalismo non è mai sufficientemente compreso nelle sue dinamiche distruttive e negatrici della natura umana e della vita. La sua azione globale non può che incontrarsi e scontrarsi con i limiti delle conoscenze personali e, specialmente, con le censure dirette e indirette a cui siamo sottoposti. Riorientarsi in una realtà organizzata secondo la forma del capitale mediante il “velo dell’ignoranza” è operazione non semplice. Se ci poniamo nell’ottica del cittadino medio e delle nuove generazioni possiamo ben comprendere quanto “il capitalismo dello spettacolo” riduca il pianeta ad uno strumento da usare e da consumare: in tal modo la vita dei popoli e la storia del capitalismo sono obliati. Il capitalismo senza la mediazione umana della storia può continuare la sua corsa nelle comunità e negli individui; può continuare a bruciare vite e popoli e a percepirsi come “assoluto”.

Il capitalismo si autopresenta come “assoluto” e costruisce di sé una immagine ipostatizzata, in quanto coltiva l’ignoranza di sé. Le esistenze organizzate in stile “reality” consentono ai crimini del passato e del presente di perpetuarsi. Il capitalismo dello sfruttamento e genocidiario si cela dietro la cortina della società dello spettacolo. Anche il linguaggio è divenuto finzione filmica, non a caso la parola “capitalismo” è stata abilmente sostituita con le espressioni “liberale e liberista”, le quali ammiccano alla libertà. Si ha l’impressione di essere dalla parte giusta, e di vivere nella libertà: naturalmente la libertà “capitalistica” deve essere intesa come la possibilità di affermare il proprio “io” usando il mondo e riducendo ogni incontro a mezzo per accrescere l’ego-idolatria. La storia del capitalismo riportato alla sua verità storica e ai suoi crimini è paideutica per accrescere qualitativamente la crescita umana e politica delle soggettività e delle comunità.

 

Il genocidio dei comunisti in Indonesia

Il genocidio dei comunisti in Indonesia, sconosciuto a molti e mai presente nelle “cronache liberali”, dimostra quanto il sistema liberale agisca per manipolazione e censure in modo da impedire la coscienza collettiva sulla realtà sociale ed economica in cui viviamo. Lo sterminio del PKI, del partito comunista indonesiano, oggi è genocidio non riconosciuto, al punto che la ricerca storica è ancora agli albori. Il numero di questo genocidio comunista oscilla tra i 500.000 e i 3.000.000 di morti. Tra gli assassinati non pochi furono gli esponenti di minoranze etniche, tra cui i cinesi, con cui l’Indonesia riformista intratteneva ottimi rapporti.

Gli assassini sono rimasti “stranamente” impuniti e sul tragico destino di tante vittime è sceso il silenzio della storia e dei media. Se si utilizza wikipedia si può leggere quanto segue alla voce “Responsabili” di questo genocidio:

“Esercito indonesiano e squadroni della morte, aiutati e incoraggiati dagli Stati Uniti d’America e da altri governi occidentali”.

 

Nuovo Ordine capitalistico

Le informazioni sono poca cosa, se non sono sostenute dalla coscienza politica ed etica. Il nostro tempo è caratterizzato dal velo dell’ignoranza nella forma dell’indifferenza e del narcisismo dello spettacolo che non incoraggia la ricerca e la formazione. Le informazioni essenziali non si trasformano in ricerca storica, non riescono a collocarsi a distanza collettiva razionale ed empatica dalla “verità” del “sistema liberale”, in quanto il capitalismo coltiva l’ignoranza politica e storica e insegna che la rete informatica è solo un mezzo per il libero scambio.

Il genocidio si consumò tra il 1965 e il 1966 prima che fosse attuata la riforma agraria già avviata dal Presidente riformista Sukarno. In realtà le immense ricchezze minerarie dell’Indonesia e la posizione strategica dell’isola furono la causa del sostegno della CIA e di altri stati europei, tra cui l’Olanda, all’eliminazione del PKI. Il Presidente degli Stati Uniti Nixon affermò:

«Con il suo patrimonio di risorse naturali, il più ricco della regione, l’Indonesia è il tesoro più grande del Sud-est asiatico[1]» .

L’Indonesia era, dunque ad un bivio, Sukarno fu rovesciato da Suharto sostenuto dalle potenze occidentali; iniziò per l’Indonesia l’epoca del genocidio e dell’eliminazione dell’opposizione politica:

«Nel 1965 l’Indonesia era a un bivio. La Guerra Fredda era al culmine nel Sud-Est asiatico e sembrava essere solo questione di tempo prima che il PKI, il più grande partito comunista del mondo al di fuori dell’URSS e della Cina comunista, salisse al potere. L’esercito indonesiano – una forza armata altamente politicizzata che aveva costituito parte integrante della vita politica indonesiana sin dalla rivoluzione nazionale indonesiana – era, tuttavia, determinato a fermare l’ascesa del PKI e a porre lo stato indonesiano sotto la propria direzione. Dall’inizio degli anni ’60 la leadership militare indonesiana cominciò a fare piani specifici per “riorientare” lo stato indonesiano[2]».

Il governo Suharto non aveva i mezzi per operare il genocidio in tempi brevissimi e instaurare il Nuovo Ordine con cui riorientare il popolo indonesiano verso il nuovo corso della storia, per cui le potenze occidentali organizzarono e diedero i mezzi per procedere all’eliminazione di uno dei più grandi partiti comunisti del mondo (il terzo al mondo). Con il riorientamento del Nuovo Ordine le potenze europee rientravano nel mercato indonesiano e, in cambio, appoggiarono le oligarchie indonesiane:

«Il genocidio indonesiano ha avuto luogo nel contesto della presa di potere militare dello stato indonesiano da parte del maggiore generale Suharto. Il risultato fu un completo riorientamento della società indonesiana e l’ascesa di un regime dominato dai militari autodefinito Nuovo Ordine. La leadership anticomunista dell’esercito fu assistita durante il genocidio da sostenitori occidentali con armi ed equipaggiamenti, e incoraggiata attraverso la comunicazione diretta e l’assistenza con la propaganda, soprattutto da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia, a effettuare un’epurazione approfondita delle forze armate. gruppi di sinistra nella società (Simpson,2008). Studi recenti hanno evidenziato anche la complicità o l’indifferenza dei governi europee dell’Unione Sovietica all’attacco al PKI e ai suoi affiliati in Indonesia, dovuto in gran parte alla decisione del partito di schierarsi con la Cina comunista (vedi Schaefer & Wardaya, 2013). Il nuovo regime guidato dai militari fu accolto sulla scena politica dai paesi occidentali e presto iniziarono i negoziati tra i leader di questi paesi e i nuovi leader militari e tecnocrati dell’Indonesia per ripristinare l’accesso straniero ai mercati indonesiani (Simpson, 2008)[3]».

 

Genocidio o Strage?

Il genocidio indonesiano è stato declassato a strage dalla giurisprudenza occidentale, in quanto per “genocidio” si intende la formula adottata del 1948 dall’ONU che esclude l’eliminazione totale di un gruppo politico avversario. La conseguenza della formula ristretta di genocidio alla sola eliminazione etnica consente, allora come oggi, di procedere alla eliminazione totale di un gruppo politico avversario e non incorrere nel crimine genocidiario, il quale ha una attenzione mediatica e giurisprudenziale maggiore rispetto alle stragi di massa; inoltre ha una serie di implicazioni legate ai risarcimenti per i sopravvissuti e per i discendenti:

«Quando si considera la violenza di massa che si diffuse in tutta l’Indonesia alla fine del 1965, c’è in gioco una questione polemica fondamentale, definitiva e concettuale.1 Questa questione si riferisce all’identità del gruppo target che fu sradicato in Indonesia. È stato spesso sostenuto che le vittime degli omicidi furono prese di mira principalmente in termini di affiliazione reale o percepita con il PKI o con una delle sue numerose organizzazioni associate (vedi Capitolo 1 di questo volume). Come in molti di questi dibattiti concettuali nel campo degli studi comparativi sul genocidio, la questione se un gruppo di vittime definito dalla loro affiliazione socio-politica di per sé possa essere vittima di genocidio deriva direttamente dalla definizione giuridica di genocidio contenuta nella Convenzione sul genocidio. il crimine. Come recita l’Articolo II della Convenzione, “per genocidio si intende [una serie di] atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico [sic], razziale o religioso, in quanto tale” (Convenzione sulla prevenzione e Punizione del Crimine di Genocidio, 9 dicembre 1948, 78 UNTS a 280, Articolo II). Questa definizione esclude implicitamente i gruppi politici dalla tutela prevista dalla Convenzione. Tuttavia, come verrà discusso più avanti, il rifiuto automatico degli omicidi del 1965-1966 come caso il genocidio su questa base è prematuro[4]».

Il genocidio di un gruppo etnico o politico ha lo scopo di rinnovare completamente uno Stato. Il genocidio sperimenta la possibilità di un Nuovo Ordine, trasforma la nazione in un immenso laboratorio. Distruggere un gruppo umano è il mezzo mediante il quale trasformare la totalità. Si cancella la presenza di una prospettiva politica e culturale per realizzare una palingenesi criminale e assoluta. Cancellare la presenza culturale o fisica è modalità efficace ed efficiente per ottenere un “nuovo prodotto sociale”. La tecnocrazia capitalistica può essere applicata in larga scala o in modo ridotto, ma ha sempre la finalità di “riorientare” eliminando culture e politiche. Mutilare per rinnovare e sterilizzare culturalmente, e non solo: conservare e preservare gli interessi delle oligarchie è lo scopo finale. Il caso indonesiano rientra all’interno della “distruzione creativa”, nella quale l’altro è negato nella sua verità di soggetto umano:

«Nel caso indonesiano, sulla scia della propaganda disumanizzante dell’esercito in cui i sostenitori comunisti venivano descritti come nemici pericolosi e infidi, la violenza ha funzionato sia per classificare questi pericolosi nemici interni sia per rendere necessario lo sradicamento del PKI, riformando quindi la politica sociale indonesiana (vedere il capitolo 1, questo volume; Pohlman, 2012). Una serie di studiosi ha evidenziato questa funzione trasformativa del genocidio indonesiano, mostrando come non solo il sistema politico indonesiano ma anche il suo fondamentale panorama sociale, culturale e religioso siano stati cambiati per sempre dalla violenza (ad esempio, Dwyer & Santikarma, 2003; Hearman, questo volume; Ida Bagus, 2012). Tutsi e Hutu; turco e armeno) ma è principalmente “una strategia di potere” in cui “lo scopo ultimo del genocidio non è la distruzione di un gruppo in quanto tale ma la trasformazione della società nel suo insieme” (2013, p. 73). la società viene rifatta di nuovo (vedi, ad esempio, Appadurai, 1998; Dunn, 2009; Mamdani, 2001). Per Feierstein, questa concettualizzazione del genocidio come processo socialmente creativo lo porta a rivalutare il modo in cui comprendiamo la distruzione di un gruppo “nazionale”, il che a sua volta porta al nostro terzo argomento in questo capitolo. In sostanza, riconsidera cosa si intendesse con il termine gruppo “nazionale” ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione sul Genocidio nella sua analisi della repressione contro la sinistra politica in Argentina sotto la giunta militare. Feierstein sostiene la comprensione del genocidio come “essenzialmente una distruzione parziale del gruppo nazionale dei perpetratori – una distruzione intesa a trasformare i sopravvissuti attraverso l’annientamento delle vittime” (2013, p. 68). Il caso argentino, come egli sostiene, in cui lo sterminio di un gruppo politico era parte di un gruppo nazionale (la sinistra nel gruppo nazionale argentino) evidenzia come il genocidio non sia tanto il risultato di scontri tra gruppi (es. Tutsi e Hutu; turco e armeno) ma è principalmente “una strategia di potere” in cui “lo scopo ultimo del genocidio non è la distruzione di un gruppo in quanto tale ma la trasformazione della società nel suo insieme” (2013, p. 73)[5]».

 

Smembrare i corpi per cancellare

La cancellazione fisica deve condurre a cancellare dalla memoria “l’esperienza comunista”. Una delle peculiarità del genocidio indonesiano fu lo smembramento dei corpi. Il fine era disumanizzare allo sguardo dei sopravvissuti i comunisti e rimuovere dalle coscienze la prospettiva comunista. I corpi sezionati e smembrati riducevano i comunisti ad animali da macello, era così possibile associare il comunista al corpo di un animale o di un oggetto infranto. Il capitalismo agisce per cosalizzare l’altro: la punta estrema di tale logica è svelata nel genocidio. Il vertice del dolore rivela la verità nascosta del capitalismo:

«Ha notato come i bambini si allineavano lungo il ponte per vedere il fiume, esortando gli altri a unirsi, mentre gli adulti si tenevano a distanza (Juadi, comunicazione personale, 12 agosto 2015). Nel suo studio sulla politica del ferimento e dello smembramento dei corpi nella post-colonia più in generale, Achille Mbembe (2003, p. 35) sostiene che tale violenza funziona “per tenere davanti agli occhi della vittima – e delle persone intorno lui o lei: lo spettacolo morboso della recisione”. A Surabaya, i bambini e le vittime avevano maggiori probabilità di vedere la divisione, mentre gli adulti erano più propensi a vedere quelle che Membe chiama le “tracce” attraverso le quali “l’integrità corporea è stata sostituita da pezzi”. Sia che si vedessero le divisioni o i pezzi, si vedeva una forma incarnata di comunicazione politica che formava quella che Benedict Anderson (2004, p. 1) definì la “fase selvaggia iniziale” del Nuovo Ordine[6] ».

 

La caduta nella continuità

Nel 1998 Suharto è caduto, non serviva più. L’Unione Sovietica e il comunismo erano solo un ricordo, ma l’Indonesia non si è confrontata con la sua memoria. L’anticomunismo è ancora vivo, anzi i comunisti sono ancora oggetto di violenza, in quanto il genocidio non è stato nei fatti riconosciuto e non vi sono state reali e solide azioni giudiziarie. La memoria storica non è ancora emersa nella sua verità:

«Sembra ora che questa ondata di anticomunismo durante la campagna elettorale del 2014 e il cinquantesimo anniversario delle violenze nel 2015 abbiano rappresentato l’inizio di una nuova fase di politica anticomunista più intensa. Nel 2016, ad esempio, l’anticomunismo si è ulteriormente intensificato (Manan et al., 2016; Tempo, 2016; Trianita & Farmita, 2016).11 Questa intensificazione è in parte correlata alle crescenti richieste di giustizia per i sopravvissuti alla violenza ( vedere i capitoli 16 e 17 di questo volume). Tuttavia non si limita alle questioni direttamente collegate alla storia comunista o alla politica progressista in generale. Ad esempio, all’inizio del 2015 è venuto alla luce che la vincitrice del concorso Puteri Indonesia (Miss Indonesia) del 2014 aveva in precedenza, durante una ripresa in Vietnam, indossato innocentemente una maglietta regalatale da un amico vietnamita che aveva un martello e simbolo della falce su di esso[7]».

 

Al momento l’Indonesia è prigioniera del suo passato; ogni iniziativa legislativa per confrontarsi con il genocidio è congelata, in quanto le attuali classi dirigenti sono nei fatti le medesime che avviarono e realizzarono la “distruzione creativa”. L’Occidente dei diritti tace e occulta il passato e il presente indonesiano, in quanto sarebbe costretto a guardarsi nella sua verità:

«Ciò è reso più chiaro in un’altra area in cui l’attuale bozza rivista della TRC avrebbe potuto essere rafforzata rispetto alla Legge TRC del 2004, ovvero nelle disposizioni per le misure di conciliazione. Nella Legge del 2004, le potenziali misure di conciliazione per i sopravvissuti e le famiglie delle vittime riguardavano: il risarcimento, fornito dallo Stato e che comprendeva disposizioni monetarie e sanitarie; riabilitazione attraverso il ripristino del nome, della dignità e dei diritti delle vittime; e la restituzione, che è stata definita come “risarcimento dato dagli autori del reato o da un terzo alle vittime o alle famiglie delle vittime” (vedi Articolo 1, Undang-Undang Nomor 27 Tahun 2004, nostra traduzione). Nella versione attuale non si fa menzione di eventuali atti di restituzione da parte di autori o di terzi. Di per sé, la mancanza di disposizioni specifiche per la restituzione non è così significativa, né è probabile che abbia alcun impatto complessivo sui risultati del risarcimento per i sopravvissuti. Ciò, tuttavia, indica ancora una volta che, in qualsiasi TRC prevista da questa bozza attuale, gli autori e qualsiasi ruolo che potrebbero svolgere in tale Commissione sono stati quasi completamente rimossi. Come sottolineato in precedenza, ciò viola direttamente i diritti delle vittime a un rimedio efficace e alla giustizia, come garantito dall’adesione dell’Indonesia a una serie di strumenti internazionali sui diritti umani[8]».

Uno dei compiti dell’umanesimo comunista è rendere denunciare le pratiche capitalistiche, in modo che “l’assoluto” del capitalismo si riveli nella sua verità apocalittica. Il nichilismo strumentale, vero fondamento del Capitalismo, è la verità da svelare con le sue consustanziali tragedie che minacciano i popoli e il pianeta.

Ed ecco, in ultimo, che le ricchezze della famiglia Suharto rimangono incalcolabili e non sono state minimante intaccate dalla caduta: pertanto l’Indonesia vive la sua tragica continuità, la quale è la nostra verità nascosta.

 

Salvatore Bravo

 

[1] Citado no livro de John Pilger, «The new rulers of the world», Verso 2002, p. 15.

[2] AA. VV., L’indonesiano genocidio del 1965, Studi Palgrave nella storia del genocidio, 2018, pag. 53.

[3] Ibidem, pp. 34-35.

[4] Ibidem, pag. 29.

[5] Ibidem, pag. 35.

[6] Ibidem, pag. 150.

[7] Ibidem, pag. 302.

[8] Ibidem, pag. 323.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Pesantezza e leggerezza in Italo Calvino


Salvatore Bravo

Pesantezza e leggerezza in Italo Calvino

 

È il centenario della nascita di Calvino (1923-1985), si susseguono le manifestazioni in suo ricordo, il dibattito sull’autore cede il passo alla vendita dei suoi testi, per cui “niente di nuovo per noi che viviamo nella società di mercato”. Si ricorda in modo costante che Italo Calvino ruppe con il Partito comunista dopo l’invasione d’Ungheria del 1956, per cui ben si presta ad essere eletto come letterato che si è battuto per la libertà in nome dei diritti individuali e che ha abbandonato il PCI al suo destino con una lunga lettera sull’Unità il 7 agosto 1957. Nel 1985, nell’anno della sua morte improvvisa, scrisse Lezioni americane per i seminari che avrebbe dovuto tenere ad Harvard. Il testo vorrebbe essere un manifesto che enumera le qualità che dovrebbe avere la letteratura contemporanea: si tratta di una serie di paradigmi posti in ordine decrescente di rilevanza. La morte gli impedì di completare le lezioni, non a caso la settima sulla “concretezza” non fu che abbozzata.

 

Leggerezza

Il primo paradigma è la “leggerezza” che deve opporsi alla “pesantezza”. Lo stile dev’essere leggero, deve sublimare in lievità ciò che grava sulle esistenze. Si tratta di rappresentare ciò che è insostenibile con figure, simboli, immagini e parole che possono filtrare la tragedia e renderla lieve al lettore. La leggerezza è “terapeutica” consente di sopportare l’insopportabile:

“Nei momenti in ci il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e verifica. Le immagini che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro…[1]

La leggerezza, questo è il sospetto, è un criterio che può essere letterario, ma che può celare il disimpegno e la rappresentazione falsata della realtà. Le contraddizioni sociali e le inquietudini metafisiche della contemporaneità necessitano di “pesantezza e di ingombranti concetti”. Nell’epoca del disimpegno e della derealizzazione tutto è divenuto talmente “leggero” da evaporare.

 La letteratura, afferma Italo Calvino, deve condurre alla lievità e a “guardare-vivere” la realtà con immagini che smorzano la “pesantezza”. Come Perseo, il quale guarda sul suo scudo l’immagine della Gorgone per evitare di essere pietrificato. Perseo, lieve sulle nuvole, decapita la Gorgone e dal suo sangue nasce Pegaso, cavallo alato, simbolo della leggerezza[2].

 La letteratura in un tempo di tragedia come il nostro dominato dalle immagini che hanno sostituito il concetto e la realtà deve rappresentare il “nudo vero”, in modo da muovere le coscienze fuori dalla società dello spettacolo. Abbiamo bisogno di pesantezza che possa indurci a pensare e a progettare, le immagini mediate e posticce favoriscono l’abbassamento della soglia di allarme. Italo Calvino riporta – tra i non pochi modelli di leggerezza – Leopardi come poeta e filosofo della leggerezza; ma in Leopardi la gravità è in un equilibrio stupefacente con la bella forma; Leopardi non è poeta della pesantezza né della leggerezza; svela il “crudo vero” senza fraintendimenti fantastici:

“Leopardi, nel suo ininterrotto ragionamento sull’insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, e soprattutto la luna[3]”.

 

 

Velocità

La letteratura dev’essere veloce nel secolo della motorizzazione. La letteratura che si ispira al “mondo” e alla “tecnica” non può che essere accolta con favore nei circoli salottieri e dalle case editrici che pubblicano prodotti a misura delle richieste del mercato. Esse sono solo aziende che vendono il prodotto libro. La velocità è un requisito fondamentale per vendere, i concetti devono essere pochi, se ci sono e abbozzati, in modo da non stancare il lettore abituato al ritmo compulsivo della contemporaneità:

“Il secolo della motorizzazione ha imposto la velocità come un valore misurabile, i cui records segnano la storia del progresso delle macchine e degli uomini. Ma la velocità mentale non può essere misurata e non permette confronti e gare, né può disporre i propri risultati in una prospettiva storica. La velocità mentale vale per sé, per il piacere che provoca in chi è sensibile a questo piacere, non per l’utilità pratica che si possa ricavarne. Un ragionamento veloce non è necessariamente migliore d’un ragionamento ponderato; tutt’altro; ma comunica qualcosa di speciale che sta proprio nella sua sveltezza[4]”.

 

Abbiamo bisogno di velocità o di reimparare a indugiare sui concetti e dunque a leggere con lentezza? La capacità di lettura e di comprensione dei testi è sempre più modesta in giovani e meno giovani, la letteratura della velocità piace al mondo, alla tecnica e al mercato. Essa ha dismesso la sua funzione paideutica del pensare-indugiare. La velocità è penetrata nella letteratura e l’ha resa superflua, in quanto ha subito l’incanto della tecnica, non si è mostrata autonoma e critica, ma l’ha duplicata. La letteratura contemporanea è governata da una pletora di velocisti che nulla sanno dire, ma sono capaci di inseguire il gusto manipolato dalla velocità del pubblico. La letteratura dev’essere lenta, deve con la sua pensosa lentezza riportarci nella concretezza del quotidiano per guardarlo con lo sguardo del concetto.

 

 

Esattezza

L’esattezza, criterio scientifico-matematico, è il mezzo con cui le belle parole divengono una traccia verso l’invisibile, afferma Italo Calvino nella sua bella definizione della parola. Il problema è l’invisibile, la letteratura è una traccia che dovrebbe condurre alla realtà storica e alle contraddizioni del sistema socio-economico. In Calvino l’invisibile è altro, è l’immaginazione con cui filtrare la realtà e ricondurla ad un livello impalpabile, in cui la tragedia perde la sua consistenza reale:

“Credo che i nostri meccanismi mentali elementari si ripetono dal Paleolitico dei nostri padri cacciatori e raccoglitori attraverso tutte le culture della storia umana. La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata e temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato nel vuoto. Per questo il giusto uso del linguaggio per me è quello che permette di avvicinarsi alle cose (presenti o assenti) con discrezione e attenzione e cautela, col rispetto di ciò che le cose (presenti o assenti) comunicano senza le parole[5]”.

 

All’esattezza la letteratura dovrebbe prediligere la “verità”. È preferibile una letteratura vera ad una letteratura che persegue l’esattezza. Non a caso lo scrittore si pone la domanda cruciale, constata la crisi dell’immaginazione e del concetto che ne consegue, ma la risposta è aggirata. La crisi dell’immaginazione è associata alla tecnica, si evita di nominare la causa da cui tutto si origina: la struttura economica che usa la tecnica per sorvegliare i suoi sudditi e addomesticarli nella mente e nel corpo. La pedagogia dell’immaginazione proposta da Calvino non può risolvere il problema radicale, Calvino evita di indicare con parole precise la causa prima della crisi dell’immaginazione: il capitalismo. La pedagogia dell’immaginazione dovrebbe curare i sintomi senza incidere nel corpo del problema, la verità pare così occultata:

“Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dell’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini. Penso a una possibile pedagogia dell’immaginazione che abitui a controllare la propria visione interiore senza soffocarla e senza d’altra parte lasciarla cadere in un confuso, labile fantasticare, ma permettendo che le immagini si cristallizzino in una forma ben definita, memorabile, autosufficiente <<icastica>>. Naturalmente si tratta d’una pedagogia che si può esercitare solo su se stessi, con metodi inventati volta per volta e risultati imprevedibili[6]”.

 

 

Molteplicità

Il romanzo deve rispecchiare la vita interiore degli uomini, la quale è costituita da una “combinatoria” di esperienze. Le variabili sono tante, ma il problema è l’unità, se ci si sofferma solo sulla “combinatoria” vi è il rischio di perdersi nel caos del mondo, di cui non si coglie l’unità che spiega il proliferare delle variabili con i loro urti e con le loro plastiche associazioni:

“Sono giunto al termine di questa mia apologia del romanzo come grande rete. Qualcuno potrà obiettare che più l’opera tende alla moltiplicazione dei possibili più s’allontana da quell’unicum che è il self di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. Al contrario, rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili[7]”.

 

Ricordare è sicuramente un modo per onorare chi ci ha preceduti, ma il rammentare senza concettualizzazione critica non è cultura, è solo una operazione commemorativa che non ci orienta a decodificare il presente, ma a duplicarlo e a renderlo eterno.
La letteratura è l’altro volto della filosofia, deve insegnarci ad indugiare sull’insostenibilità del mondo per poter elaborare percorsi di emancipazione. Ricordiamo Calvino riconoscendo il valore della sua opera.
Bisogna commemorare per reimparare a dissentire; all’occultamento della realtà che si inabissa velata da immagini e fantasmagorie, bisogna opporre più realtà e più verità: di questo necessitiamo.
l giudizio che Italo Calvino diede nella lettera d’addio al PCI sulla letteratura marxista per la sua pesantezza, oggi appare “severo”, se si considera valida la “leggerezza” dell’attuale letteratura:

“Sono consapevole di quanto il Partito ha contato nella mia vita; vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito; ho avuto modo di conoscere la vita di Partito a tutti i livelli, dalla base al vertice, sia pure con una partecipazione discontinua e talora con riserve e polemiche, ma sempre traendone preziose esperienze morali e umane; ho vissuto sempre (e non solo dal XX Congresso) la pena di chi soffre gli errori del proprio tempo, ma avendo costantemente fiducia nella storia; non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano, e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo mi è stata di sprone a cercare di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa: credo di essere sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero”.

 

La pesantezza, ovvero l’impegno e il realismo, è ciò che manca alla letteratura attuale che compiace il mercato e non fa pensare. Non possiamo che guardare come a dei maestri autori come Bertolt Brecht, Walter Benjamin, Hanns Eisler, Ernst Bloch, György Lukács, Johannes R. Becher, Andor Gabor e Alfred Kurella e al nostro Gramsci. Lo smantellamento del PCI e delle ideologie afferenti ha condotto ad una leggerezza nichilistica, è diventata la morte della letteratura che si è nutrita solo di banalità, e non è più al servizio dei popoli e della verità, ma è organica al mercato. Italo Calvino non è certo responsabile della mercificazione della letteratura del nostro tempo, ma Lezioni americane sono il prodromo della letteratura al servizio del capitale e degli intellettuali del disimpegno. Non abbiamo bisogno di scrittori organici alla “società dello spettacolo”, ma di dissidenti ed eretici che si oppongono al turbocapitalismo che annienta con la politica il pensiero critico e l’emancipazione di classe.

 

[1] Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Oscar Mondadori, Milano 2011, pp. 11-12.

[2] Ibidem, pp. 8-9.

[3] Ibidem, p. 28.

[4] Ibidem, p. 47.

[5] Ibidem, p. 76.

[6] Ibidem, p. 94.

[7] Ibidem, p. 121.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Mauro Armanino – Dare il nome giusto alle cose. Istruzioni per l’uso nel Sahel.


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Un nuovo modo di pensare è necessario per attraversare il deserto antiumanistico in cui sta cadendo la nostra società e può venire compendiato in cinque assiomi

Henri Matisse, La danza II (1910), olio su tela, 260×391 cm, Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo

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Francesco Vigliarolo – C’è una cultura depredatrice della vita umana che attraversa tutti gli ambiti, sociale, economico e politico. Bisogna sovvertire questa cultura. È sicuramente necessario costruire un altro pensiero economico che si fondi su un’altra visione della vita.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Mauro Armanino – Le frontiere del golpe nel Niger. È possibile un mondo “altro”, senza frontiere, che ridoni spazio alla vita del quotidiano, così marcatamente precario in città, mentre nella campagna basta la pioggia per ciò che è stato seminato, a coltivare un futuro possibile. Anche perché, come diffusamente condiviso, le nostre frontiere sono mobili come zolle di polvere che il vento si diverte a disegnare a forma di speranza.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Vogliono rendere obsoleto il tempo necessario alla deliberazione riflessiva tra esseri umani. Vogliono privare il soggetto di ogni sostanza: renderlo mero involucro. Il nostro viaggio invece presuppone la lentezza.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Consumismo di guerra. Il volto della guerra è quello dipinto da Dalì: la morte. Liberiamoci dalla tossina della guerra dalle parole, dai gesti e dai comportamenti. Senza la scuola della pace, in cui riscoprire la bellezza del dono, nulla sarà possibile. La trasgressione massima è il dono, il contenimento felice del consumo che apre il varco al “valore d’uso”. La guerra è preparata dallo sguardo famelico che non vede l’alterità ma vede soltanto la preda. A tutto questo dobbiamo riununciare, se vogliamo una pace certamente faticosa da raggiungere, ma duratura e vera, costruendo una comunità di libere individualità desiderose di armonia.

S. Dalì, Il volto della guerra, 1940.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Mauro Armanino – Il colpo di Stato della Vergogna


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Mauro Armannino – «Lettera ad un Paese senza qualità». Senza qualità proprio in conseguenza di una duplice dimissione, quella dello spirito e quella della sovranità. Abbiamo accettato di rimuovere la bellezza, la verità e il bene dal nostro quotidiano “abitare” il mondo.



Mauro Armanino

Dissociazioni vaticane

Non c’è traccia, in chi scrive, di preclusioni nei confronti dei vaccini
ma c’è ‘resistenza’
nei confronti di una visione totalitaria della risposta politica alla ‘pandemia’ Covid

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Il testo che segue è una lunga lettera aperta scritta da un missionario che opera da anni in Niger. Prende spunto dall’improvvida decisione vaticana di coniare una moneta celebrativa del vaccino e da un intervento di Civiltà cattolica entusiasticamente schierato a favore della vaccinazione per sviluppare una serie di considerazioni sulle politiche pandemiche, le quali toccano temi cruciali che, partendo dalla contingenza sanitaria, gettano una luce significativa su una temperie culturale ed antropologica che dovrebbe suscitare la massima attenzione e vigilanza.
I temi toccati, con lucido e acuto giudizio illuminato da profonda sensibilità umana, sono tanti, ma arrivano a fondersi in una riflessione coerente ed unitaria, capace di offrire a chi legge spunti preziosi da riprendere ed approfondire ed un filo conduttore per orientarsi in uno scenario dove da due anni la manipolazione, dell’informazione innanzitutto, dirige il coro, delegittimando pesantemente chi rifiuta di recitare la parte assegnata o di applaudire i recitanti.
L’orizzonte in cui si inserisce questo coraggioso intervento è racchiuso fra due parole, non a caso poste in apertura, già nel titolo, e in conclusione: Dissociazioni e r-esistere.
Quanto alla prima, l’autore intende sottolineare la propria abissale distanza dalle posizioni assunte dall’istituzione di cui fa parte: se dissentire, non uniformarsi al pensiero dominante ha sempre garantito al refrattario una certa emarginazione, almeno dai circuiti del successo professionale e sociale, oggi è diventato (con buona pace dei valori della democrazia liberale che, paradossalmente ma non troppo, siamo chiamati a difendere lontano dalle nostre frontiere) un esercizio decisamente pericoloso che inscrive tout court chi lo pratica nella lista abietta dei nemici del bene pubblico e del genere umano. Oggetto di pesante scomunica morale, essi sono suscettibili anche di provvedimenti molto pratici, tesi ad espellerli dalla vita collettiva e a privarli della possibilità stessa di sostenersi, con allontanamento dal lavoro, o, come è successo nel democratico e progressista Canada qualche mese fa per stroncare la protesta dei camionisti, con il blocco dei conti correnti.
Insomma, ai nostri tempi dissociarsi e rivendicare la propria libertà di coscienza non è più una posa da intellettuali frondeurs, con un piede nell’Accademia e l’altro nella barricata. La partita si è fatta molto dura, perché è in gioco una profonda riconfigurazione complessiva della società, funzionale al riassestamento del capitale in un contesto geopolitico molto diverso da quello del Novecento.
Inoltre, dissociarsi richiede una certa capacità di leggere la realtà, un certo legame con la sua superficie impervia e scabra, con il suo cuore pungente e stratificato, al fine di evitare di scivolare sul terreno di cera della nuova Babele, dove il demone della menzogna linguistica asservito al potere inverte il significato delle parole e coltiva spericolati ossimori come il capitalismo inclusivo benedetto dal Vaticano e denunciato da Mauro Armanino con l’indignazione del cristiano consapevole che non si possono servire due padroni.[1]
Dall’atto intellettuale del dissentire alla scelta morale di resistere: non solo per non rendersi complici di chi ha strumentalizzato l’epidemia da Covid 19 per ridisegnare il mondo (le élites economico-politiche e i loro cani da guardia incaricati di affinare i dispositivi ideologici), ma per custodire e valorizzare l’esistenza che è stata umiliata e negata proprio quando si è voluto farla coincidere con la nuda vita da salvaguardare ad ogni costo. E il costo è stato il sacrificio di libertà e diritti che si ritenevano consolidati e delle relazioni interpersonali su cui si è da sempre fondata la socialità umana. L’egoismo della sopravvivenza, alimentato a suon di campagne mediatiche di stampo terroristico, è stato contrabbandato per rispetto degli altri, mentre rappresentava l’estrema torsione dell’istinto individualistico a preservare il benessere personale, nel disinteresse per il dissolvimento di quanto restava di vincoli comunitari e di spazi democratici. E intanto i malati morivano soli negli ospedali, o si ritrovavano abbandonati in casa sospesi tra tachipirina e beckettiana attesa, ai morti era negato l’estremo omaggio della sepoltura (pratica nata con l’umanità stessa), i vivi non vaccinati venivano sottoposti a misure di apartheid, i vaccinati erano aizzati contro i cattivi renitenti al siero, tutti passavano sotto le forche caudine di una paralizzante operazione di infantilizzazione di massa all’insegna della paura, mentre i bimbi imparavano a (dis)conoscere il mondo tramite lo schermo di un computer o di una mascherina.
Giustamente, Armanino evoca da un lato missionari e santi che, in passato, non esitarono a correre il rischio di ammalarsi per portare conforto ai sofferenti e dall’altro il transumanesimo che si affaccia asettico e performante dietro le porte ben protette di Davos. Aggiungo agli esempi di autentica solidarietà citati, tutti coloro che hanno affrontato la morte, battendosi per una causa per la quale erano convinti valesse la pena rinunciare alla vita biologica. Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà:[2] è questa una verità capace di sovvertire i calcoli meschini, di scardinare la forza di ricatto di chi comanda, di vincere la paura – e l’oscuramento della mente e del cuore che ne nasce – e di fondare la libertà ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.[3]
È per scongiurare un salto antropologico radicale – con la sua pretesa di annullare millenni di cultura e di civiltà umane ormai inutili e persino d’inciampo sulla via della servitù volontaria e collaborativa che è il nuovo modello sociale messo a punto dal personale di servizio ideologico – che l’autore di questa lettera aperta chiama alla r-esistenza: resistere significa ormai difendere le condizioni stesse per continuare ad esistere, in dignità, libertà e umanità.

Fernanda Mazzoli

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Mauro Armanino

Dissociazioni vaticane

Non c’è traccia, in chi scrive, di preclusioni nei confronti dei vaccini
ma c’è ‘resistenza’
nei confronti di una visione totalitaria della risposta politica alla ‘pandemia’ Covid

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  1. La moneta vaticana

La serie è composta da 8 monete, sul rovescio ci sono le caratteristiche tecniche uguali per tutti i paesi aderenti alla moneta unica europea. Sul dritto è raffigurato lo stemma di Papa Francesco, Sovrano dello Stato del Vaticano, la scritta “Città del Vaticano” e dodici stelle. La serie è disponibile in due versioni: la prima con la moneta da 20 euro in argento e la seconda con la moneta in oro da 50 euro. La moneta in argento da 20 euro, opera di Chiara Principe, è dedicata ad un argomento attuale che sta molto a cuore a papa Francesco: le cure per contrastare la pandemia e la necessità di vaccinarsi. Sulla moneta sono raffigurati un medico, un infermiere e un ragazzo che è pronto a farsi iniettare il vaccino. Il Santo Padre ha più volte sottolineato l’importanza della vaccinazione, ricordando che la cura della salute è “un obbligo morale” ed è importante “proseguire lo sforzo per immunizzare anche i popoli più poveri”… [4]

Ecco come è introdotta la moneta vaticana. L’immagine mi era stata segnalata da Martin Steffens, giovane filosofo francese, critico dell’attitudine ufficiale della gerarchia ecclesiastica sulle politiche riguardanti la gestione dell’epidemia Covid.[5]

Se ancora esistevano dubbi a riguardo, la moneta in questione è una rivelazione, uno smascheramento che insinua più o meno apertamente almeno tre messaggi:

Adesione: mentre ancora ferve il dibattito, almeno contradditorio, tra chi vuole includere i bambini nella vaccinazione e chi ritiene che essa sia non solo inutile ma dannosa, il ‘Vaticano’ prende posizione. In virtù di un mandato che appartiene al ‘Capo dello Stato vaticano’, lo stesso che molto democraticamente obbliga i propri dipendenti a vaccinarsi pena l’esclusione dal lavoro, diritto e dovere di ogni cittadino. Nello stesso stato vaticano le organizzazioni sindacali sono vietate, malgrado l’esistenza di una ‘Dottrina Sociale’ della Chiesa che ne auspica l’esistenza e l’azione. Tramite l’immagine citata si opera un’adesione incondizionata e evidente alle politiche sanitarie ‘imposte’ da scelte la cui validità scientifica è stata messa in discussione da persone competenti e preparate.[6]

Il fatto di presentare in modo iconico il medico (la scienza), l’infermiere (la cura), il ragazzo e la siringa è inequivocabile: la salvezza è a portata di … siringa.

Arroganza. Detta conclusione ‘monetaria’ appare nel contempo arrogante perché esclude ogni possibile scelta alternativa, per quanto fondata essa sia. La stessa accomodante arroganza, d’altra parte, che ha accompagnato l’adesione alle scelte dei decreti legge durante la ‘crisi’, creata o presunta essa sia stata. Vi sono state decine di dichiarazioni ufficiali, da parte di migliaia di scientifici che hanno messo in serio dubbio le politiche di gestione della pandemia. Dal confinamento, alla distanziazione sociale per passare all’uso intimidatorio delle mascherine. Tutto falsamente omogeneo e in consonanza con la scienza che invece è apparsa come la grande perdente di tutte queste operazioni. Lo ricorda l’antropologo della salute Jean Michel Dominique: la medicina non è una scienza ma un’arte che si avvale della scienza …!

Manipolazione. Quasi per caso appare, nell’immagine citata, una piccola croce appena sopra il capo del ragazzo rappresentato, mascherato come gli altri due personaggi che lo attorniano. La croce che, in tutto il periodo citato, è stata usata e abusata per giustificare o proteggere le scelte governative di controllo sociale col pretesto della gestione della malattia. Una profanazione che, vista dal lontano/vicino Sahel dove ben altri sono stati i problemi di questo tempo, ha posto la ‘nuda vita’ , per dirla con l’amico Giorgio Agamben, come la nuova religione assoluta. Dov’era dunque la croce quando morivano, sole e abbandonate le persone anziane nelle case di riposo (eterno), nelle chiese sostanzialmente chiuse (neppure in guerra era accaduto) e nella ‘distanziazione sociale’ (con che coraggio leggere il vangelo nel quale il Cristo ‘tocca’ i lebbrosi?). Si tolga almeno la croce dalla moneta … già i venditori nel tempio era stati avvisati a suo tempo … Dovremmo altresì espungere, come ‘sovversivi’, i santi che si mettevano sulle spalle i malati, gli appestati o qualcuno come San Damiane de Veuster, diventato a suo volta lebbroso per non rispetto delle distanze sanitarie. Lo stesso accadde coi primi missionari che, sapendo di vivere per pochi mesi, partivano nelle zone dove la malaria o la febbre gialla li falcidiavano. Ora si muore, tristemente, di vecchiaia … con la croce del cimitero a fare compagnia.

  1. La civiltà cattolica

Organo semi ufficiale del vaticano perché diretto dai gesuiti sotto immediata obbedienza papale. È con un notevole senso di sconcerto che, scorrendo un articolo sulla ‘vaccinazione’ si leggeva quanto segue…

papa Francesco manifesta un approccio accogliente e costruttivo nei riguardi della scienza … mostra che il contributo della ricerca scientifica in campo sanitario, che ha consentito di mettere a punto vaccini sicuri, efficaci, con effetti indesiderati minimi e identificabili, testati cilinicamente in modo esteso e rigoroso, può essere al servizio della salute quale bene comune e globale [7]

Le sottolineature sono mie…

Una tale leggerezza, cosciente o meno, è da considerare a-scientifica e, in fondo a-morale, al di là del numero limitato di lettori di questa rivista: è il principio, lo stesso, che viene così riconfermato. Alcune considerazione veloci:

♦ La palese falsità dell’affermazione. Si sapeva o comunque si poteva supporre che i ‘vaccini’, vista la l’origine sospetta di alcune della case farmaceutiche, la manipolazione riconosciuta dei test vaccinali, l’opacità dei contratti con gli Stati, avrebbe comportato problemi per i vaccinati. Così è stato, com’è ampiamente documentato e riconosciuto dalle statistiche ufficiali. Com’è stato riconosciuto dalle stesse ditte farmaceutiche, i test sono stati scelti, ridotti e manipolati ed i risultati più sconcertanti espunti, con cognizione di causa. La ‘civiltà cattolica’ ha così tolto la propria maschera perché quanto scritto, indebitamente, su questo tema potrebbe essere riferito anche ad altri: con quale credibilità’.

(Il database delle reazioni avverse ai farmaci dell’Agenzia europea dei medicinali (EMA) sta ora segnalando 45.752 decessi e 4.522.307 reazioni avverse a seguito dei vaccini COVID-19, mentre il sistema di registrazione degli eventi avversi del vaccino degli Stati Uniti (VAERS) sta ora segnalando 29.031 decessi e 1.307.928 reazioni avverse a seguito della vaccinazione COVID- 19.8 … Dal sito Data base Italia).

La mancanza di discernimento e dunque l’imprudenza in un ambito nel quale vale il famoso motto della medicina: primo non nuocere … Un farmaco in sperimentazione che arriva di botto ad inondare il mercato farmaceutico, uno dei grandi business dell’epoca in chiave di ‘religione sanitaria’, con buona parte di politici e di comitati di gestione della crisi con conflitti di interesse). Sottacendo che fin dall’inizio sono stato trovate e proposte soluzioni alternative alla vaccinazione genica. L’uso tempestivo della idroclorochina, ivermectina … avrebbero permesso di salvare molte vite. Si è preferito, come da copione sceso (divinamente?) dall’alto di impedire ai medici di operare e si è preferito l’isolamento, l’attendismo e il paracetamol … Aberrazioni a dir poco criminali dal punto di vista etico e scientifico.[8]

Connivenza dunque con la ‘doxa’ accettata, trasmessa, propagandata dai media nazionali e internazionali. Questo dovrebbe destare stupore per l’istituzione ecclesiale che si è sempre vantata di ‘essere nel mondo ma non del sistema’ … E invece, con inusuale fretta, le ‘istituzioni vaticane’, tramite il capo supremo e le conferenze episcopali, hanno facilitato il lavoro degli organi statali, come se questi ultimi cercassero davvero il bene personale e comune dei cittadini. Detta attitudine, esplicita o implicita, non ha fatto che favorire lo scivolamento verso un totalitarismo medico le cui conseguenze sull’assetto democratico sono estremamente deleterie. Una divisone tra buoni cittadini e cittadini ‘ricalcitranti’ è potuta accadere con maggiore facilità perché prima c’è stata la classificazione papale tra buoni e fedeli cristiani (vaccinati o vaccinandi) e gli altri, egoisti, superficiali o perlomeno insubordinati all’ordine pubblico ecclesiale ( i non vaccinati). L’idea, a questo proposito, di ‘religione civile’ che puntella la religione sanitaria dello stato, non è anodina ma consustanziale al ruolo che è stato affidato, ormai da tempo, alla religione. Si è contribuito a creare cittadini ‘sottomessi’ all’autorità contro i diritti umani più elementari ( di riunione, di lavoro, di culto, di movimento … di aria libera e di un volto umano).

  1. L’Alleanza vaticano-capitalismo inclusivo

«È necessario e urgente un sistema economico giusto, affidabile e in grado di rispondere alle sfide più radicali che l’umanità e il Pianeta si trovano ad affrontare. Vi incoraggio a perseverare lungo il cammino della generosa solidarietà e a lavorare per il ritorno dell’economia e della finanza a un approccio etico…cercando modi per rendere il capitalismo uno strumento più inclusivo…». All’inizio di dicembre del 2019, papa Francesco si era rivolto con queste parole ai membri del nuovo “Consiglio per un capitalismo inclusivo con il Vaticano”… Tra i manager che fanno parte del Consiglio figurano i dirigenti di colossi come Mastercard, Allianz, Merck, CalPERS, Johnson & Johnson, State Street Corporation, Bank of America, Fondazione Rockefeller. Ma è presente anche il presidente di un colosso delle fonti fossili come British Petroleum. E perfino un membro del consiglio d’amministrazione della compagnia petrolifera saudita Saudi Aramco.

«La vostra presenza qui – ha affermato Bergoglio – è un segno di speranza, perché avete riconosciuto le questioni che il nostro mondo è chiamato ad affrontare e l’imperativo di agire con decisione per costruire un mondo migliore. Vi esprimo la mia gratitudine per il vostro impegno nel promuovere un’economia più giusta e umana». Inoltre, secondo il Financial Times, il Vaticano avrebbe anche «concesso l’uso del proprio nome».[9]

Sconfessione della teologia popolare o della liberazione. Sappiamo che non si possono seguire o affidarsi a due padroni, camminare due strade differenti. Da un lato si promuovono alleanze coi movimenti popolari, coi poveri, non oggetti ma protagonisti di trasformazione, come si afferma da sempre nella teologia della liberazione e in quella popolare seguita e promessa finora, almeno nei discorsi, da Roma. E nel contempo ci si allea col ‘capitalismo inclusivo’, ossimoro, contraddizione in termini come ben si sa da sempre. Il capitalismo è nato senza cuore e non sarà certamente un innesto chirurgico, sia pure col vaticano, tutto meno che innocente in ambito finanziario, a cambiarne i connotati. Ciò è semplicemente scandaloso e malgrado le tresche passate con potere del momento, i concordati con le dittature e gli arrangiamenti coi detentori della ricchezza, non si era mai giunti a tanto. Com’è possibile andare dai poveri in pellegrinaggio, ad esempio tra i campi per profughi o migranti e nel contempo allearsi con coloro che direttamente o meno creano quanto sta accadendo in termini di esclusione sociale e di sfruttamento globale?

Adeguamento al ‘sistema Davos’, nel senso che, in fondo, le politiche vaticane ‘Covid’ sono state finora sostanzialmente funzionali al piano di ‘global reset’ promosso dalla cricca che organizza i famosi vertici dell’élite economico-politica del mondo nella cittadine elvetica. Un piano che tendenzialmente azzera lo spirito umano, l’anima, i desideri più grandi del cuore umano, per appiattirsi su una rivoluzione transumanista che punta al controllo totale del mistero della vita, una sorta di reinvenzione della creatura, fatta a immagine e somiglianze delle intelligenze artificiali. Le scelte vaticane del periodo della pandemia e il post, sono funzionali a questo sistema, senza una parola di critica per favorire le lusinghiere sirene del consenso per attrarre investimeni (in vaticano?). La profezia di un mondo nuovo si identifica con le politiche vaccinali, ideologiche ed economiche che permettono finalmente la luce promessa dopo il buio dei mesi del confinamento. Nulla sarà più come prima si ripete a menadito. Si attende il mondo secondo il vangelo di ‘Davos’, fondamentalmente idolatra (Mammona, in termini profetici), perché pone al centro se stesso come unica salvezza.

La svendita di un patrimonio unico antropologico al miglior acquirente è appunto ciò che sembra accadere. La persona, il volto, la relazione, la com-unione di intenti e di destino, tutto ciò è stato, in questo periodo, svenduto. Distanze, isolamento, disinfezioni, conteggio di morti … il processo si è rivelato fin dall’inizio, per i più attenti osservatori, come l’uso egemonico-patologico della paura che ha di fatto mutilato la civilizzazione e le più elementari nozioni di convivialità. La morte di persone sole e abbandonate ne è stata la metafora forse più emblematica. Com’è stato possibile rinunciare, in poche settimane e con così poca resistenza, ad un patrimonio così ricco e articolato come quello che ha contraddistinto la visione della persona come mistero di comunione e relazione con un proprio destino, legato a quello degli altri. Si è poi contrabbandato il concetto di ‘bene comune’ per l’obbligo vaccinale mentre tutto, nella società, da anni spinge all’individualismo esacerbato e consumista. Appare perlomeno sospetto che dei perfetti egoisti in economia, politica ed etica diventino, senza colpo ferire, paladini del bene comune e dell’abnegazione.

  1. Obbligo morale?

Dal momento in cui è stato disponibile il primo dei vaccini contro l’epidemia Covid-19 un coro pressoché unanime si è levato per sostenere l’obbligatorietà della vaccinazione stessa, chi non volesse sottoporsi al trattamento verrebbe emarginato. Le stesse persone che chiedono questo in nome di un bene collettivo però devono sapere che la somministrazione di un farmaco sperimentale contro la volontà del soggetto è inequivocabilmente in contrasto con le norme del Codice di Norimberga redatto per definire la base giuridica della medicina nazista che si andava a condannare nel tribunale. (Enzo Pennetta, gennaio 2021)

La libertà di coscienza. La stessa Unione europea si è affrettata ad adottare, nel giugno scorso, un regolamento (il n. 953/2021, relativo all’EU Digital Covid Certificate), il cui preambolo afferma la necessità di evitare la discriminazione diretta o indiretta dei soggetti che “hanno scelto di non vaccinarsi”. I principi e le norme in parola sono volti a salvaguardare i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo nei confronti delle applicazioni della biomedicina … Rilevano, in modo specifico, il principio del primato dell’essere umano sugli interessi della scienza e della società, nonché i principi di precauzione, di beneficenza, di non maleficenza e di equo accesso alle cure mediche.

Nella prospettiva indicata assume speciale rilevanza il dovere del medico/sperimentatore di rispettare gli obblighi professionali ispirati al rigore, alla prudenza, alla professionalità, all’onestà intellettuale e all’integrità morale non solo nella trasparenza delle decisioni adottate e nell’utilizzo delle migliori conoscenze disponibili, ma anche nella presentazione dei risultati scientifici conseguiti (art. 4 della Convenzione di Oviedo, art. 13 della Dichiarazione universale dell’UNESCO del 1997, art. 18 della Dichiarazione universale dell’UNESCO del 2005).[10]

La citazione del papa, riportata all’inizio di questa lettera aperta, facente allusione all’obbligo vaccinale

Il Santo Padre ha più volte sottolineato l’importanza della vaccinazione, ricordando che la cura della salute è “un obbligo morale” ed è importante “proseguire lo sforzo per immunizzare anche i popoli più poveri”…

invita ad alcune considerazioni.

La più facile è quella di rilevare che i Paesi più poveri, tra questi il più povero in assoluto nel quale si trova chi scrive, il Niger, è stato solo lievemente sfiorato dalla pandemia. I tentativi di ‘facilitare’ o imporre il vaccino sono sistematicamente caduti nel vuoto. In tutta l’Africa, a parte forse il Sudafrica, il Marocco e l’Algeria colpiti in relativa misura, l’epidemia è stata ben gestita, verrebbe da dire, grazie alla non-vaccinazione! Ma il punto principale è legato, appunto, alla coscienza. Da un lato, quando conviene, si vogliono persone, cittadini, cristiani, consapevoli e responsabili e dall’altra si ‘obbliga’ pena l’esclusione virtuale e reale dal lavoro, dalla comunità una parte di coloro che cercano di prendere sul serio la libertà di coscienza. Sembra perlomeno contradditorio appellarsi al senso critico e alla maturità dei cristiani nei confronti delle ideologie dominanti della società e al contempo ‘imporre’ sotto pena di minaccia una visone unica, accomodante e funzionale al potere del momento in ambito sanitario. Come non rilevare la contraddittorietà del modo di trattare chi, per legittima scelta, ha rifiutato la vaccinazione e si trovato ai margini della Chiesa. La misericordia e l’attenzione dovuta a chi ha perso il lavoro e, spesso, la reputazione avrebbe dovuto trovare accoglienza e ascolto nelle comunità cristiane.

La censura precoce di altre possibilità terapeutiche si è sviluppata fin dall’inizio e la sola prospettiva vaccinale presa come una garante di uscita dalla crisi dell’epidemia. Come già sottolineato si sono esclusi tutti i tipi di trattamento di una malattia che in sé non era sconosciuta e di cui esistevano dei protocolli di intervento. Fortunatamente, anche nel momento più forte del totalitarismo del pensiero unico sulla malattia, non sono mai mancate voci ‘furi dal coro’, come ad esempio il dottor Jean Michel Dominique, antropologo della salute che sul suo blog, ha continuato a pubblicare notizie diverse dalla doxa …

Riprende, tra l’altro, un articolo che contesta la narrazione ufficiale. Sulla gravità, meno del previsto e che tocca prevalentemente una fascia della popolazione, spesso con altre comorbidità…

… ‘La médecine c’est soigner les gens, quant à la science elle consiste principalement en l’observation… Et dans ce domaine, l’observation faite par les praticiens de terrain à travers le monde a mis en évidence plusieurs associations qui donnent de bons résultats : l’association Hydroxychloroquine/Azithromycine/Zinc ou l’association Macrolide/Céphalosporine/Zinc semblent éviter les formes graves à condition d’être prises tôt dans l’infection. Utilisée en Afrique, l’Artemisia annua semble aussi avoir une efficacité contre le covid . Aux stades plus avancés, l’on peut recourir aux corticoïdes comme la dexaméthasone, les anticoagulants pour éviter les phénomènes de thromboses, ou encore l’oxygénothérapie.[11]

Correi dunque di uno stato di cose che ha contribuito a trasformare una relativa semplice malattia in una pandemia ‘incontrollabile’ con lo scopo, appena larvato, di arrivare ad un certificato vaccinale europeo che permetta di ‘controllare’ ogni cittadino. Le ricadute, non è difficle, immaginarlo, potrebbero andare verso una distopia che solo la fantasia degli scrittori di scienza-fiction, potrebbero lasciar indovinare. Una pesante responsabilità nei confronti di ciò che, attraverso azioni o omissioni, mette le basi per un mondo (occidentale per ora), sostanzialmente dominato dagli interesi delle grandi ditte farmaceutiche e dei cosiddetti GAFA …

Conclusione. Che tempo fa dall’altra parte del mondo?

Chi scrive ha passato buona parte lontano dai centri di potere, come missionario apprendista in Costa d’Avorio, Argentina, Liberia e, da oltre 11 anni, nel Niger della sabbia. Chi scrive, nel mese di luglio del 1982 è stato salvato da operazioni e cure mediche nell’ospedale pubblico San Martino di Genova e non ha mai disdegnato le vaccinazioni. Chi scrive, oltre quelle dell’infanzia, ha assunto il vaccino contro la febbre gialla e, prima di partire la prima volta nel Niger nel 2011, è stato volontariamente vaccinato contro una delle forme più diffuse della meningite. Non c’è traccia, in chi scrive, di preclusioni nei confronti dei vaccini ma c’è ‘resistenza’ nei confronti di una visione totalitaria della risposta politica alla ‘pandemia’ Covid.

Infatti una cosa è la malattia e l’altra le politiche di uso della malattia per controllare, modificare e preparare un mondo diverso e funzionale all’egemonia di una élite che, per usare una metafora evangelica, sotto l’apparenza di ‘agnelli’ benefattori illuminati dell’umanità, non sono che lupi feroci. Peccato che alcune istituzioni vaticane, e non delle minori, abbiano accettato di collaborare con loro. Molti altri, pagando di persona e discriminati all’interno della stessa Chiesa e nella società come cittadini, hanno scelto di r-esistere.

Niamey, primo luglio 2022

P.S.– In tutti questi anni lo stato italiano mi ha ignorato. Per rinnovare il passaporto scaduto e con un’ambasciata a Niamey, con tanto di militari, di controllo di frontiere e migranti, sono dovuto andare fino ad Abidjan, in Costa d’Avorio…

Da casa mi si comunica che c’è in atto un procedimento amministrativo che comporterebbe una penalità di 100 euro per non compimento vaccinale. Mi è stata chiesta copia della carta d’identità e del codice fiscale. … Ecco il benvenuto in patria dopo tre anni di assenza…

https://www.lepoint.fr/societe/vatican-le-plus-petit-etat-au-monde-dirige-par-le-dernier-monarque-absolu-13-03-2013-1639682_23.php

Il testo di Mauro Armanino è già stato pubblicato anche sul sito di «Sinistrainrete», il 12 luglio 2022.


Note

[1] «In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza”» (Mt. 6, 24).

[2] Lc. 17, 26-37.

[3] D. Alighieri, Purgatorio, I, vv. 71-72.

[4] https://www.ilsussidiario.net/news/nuova-moneta-da-20-euro-del-vaticano-medico-e-infermiere-iniettano-vaccino-covid/2361854/

[5] https://www.republicain-lorrain.fr/culture-loisirs/2021/07/06/martin-steffens-philosophe-alerte-sur-les-risques-d-une-societe-masquee

[6]https://globalcovidsummit.org/news/declaration-iv-restore-scientific-integrity?utm_campaign=ICYMI%3A%20Please%20review%20our%20latest%20Declaration&utm_medium=email&utm_source=Mail

[7] Andrea Vicini s.j., «La civiltà cattolica», 4115, 2021, 433.

[8] https://nouveau-monde.ca/balance-avantages-risques-des-injections-anti-covid19-au-28-juin-2022/

[9] https://valori.it/consiglio-capitalismo-inclusivo/

[10] Il testo originale del Parere è pubblicato sul sito: www.ecsel.org/cieb, fondato dall’amico Luca Marini, giurista.

[11] M. Annès Bouria, un des signataires du remarquable Appel adressé par des soignants belges à leur gouvernement. Dal testo originale in francese sul sito Anthropo-logique, di J.M. Dominique.


Alcuni libri di Mauro Armanino


Cercando il volto. L’umanità nel missionario, Ed insieme 2000

Cercare il verbo che esprime meglio la dimensione missionaria della Chiesa di oggi: essere in cammino, cercatori d’infinito, alla ricerca di un Dio che si nasconde fra le pieghe della debolezza dell’uomo. Delle piccole contraddizioni quotidiane di un’umanità spesso stanca e delusa, Egli si serve per mostrare e comunicare la ricchezza del suo amore che libera e rende felici”. (Dalla premessa di don Giovanni D’Ercole).


La storia si fa con i piedi. Diario di missione a Genova, EMI 2011

Clandestino non è l’unica parola che avrei incontrato innumerevoli volte nel lessico quotidiano. Certo è stata quella che mi ha ferito di più. Ho vissuto per vent’anni fuori dall’Italia. Al massimo mi hanno chiamato comunista, mai clandestino”. In attesa di ripartire per l’Africa, padre Mauro continua ad essere missionario anche in Italia. Negli anni trascorsi a Genova, incontra immigrati, detenuti, prostitute. Con loro spezza il pane, piange o ride, s’indigna. I suoi passi si confondono con i loro piedi.


Un dio qualunque. Sguardi e attraversamenti dal Niger, Museodei by Hermatena, 2013

Rifugiati, sopravvissuti, sfollati e dimenticati… a loro sono dedicate le lettere da Niamey, scritte da padre Mauro, che vive là, insieme a loro. Li vede ogni giorno, condividendone le sorti… Storie di ordinaria sofferenza lungo le strade che attraversano il Niger.


La nave di sabbia, Museodei by Hermatena, 2015

La vista, i poveri, l’esodo forzato degli ultimi, il commercio umano, gli angeli di carne, la maternità obbligata, le tappe al contrario del cammino natalizio che Armanino ci propone, con quel suo tocco sapiente di disincantato pittore della sua gente di “frontiera”, quotidianamente ascoltata e accolta, mai giudicata o esclusa. Forte rimane il movimento di questo cammino condiviso, anche nelle grandi solitudini sensoriali (cecità), affettive (prostituzione), economiche (guerre, carestie), dove tutti i protagonisti vengono abbracciati dallo sguardo d’amore dell’autore, consapevole che dalla periferia nasce la speranza.


La città sommersa. Il mondo altro dei migranti del mare, Museodei by Hermatena, 2017


Mare muro. Il Mediterraneo sguardato dalla parte di chi parte e non sempre arriva, Pendagora 2017

53 sguardi e altrettante riflessioni sul mondo dei migranti, inviate da Niamey (Niger) tra il 2012 e il 2017 da Mauro Armanino, prete, missionario e testimone. Armanino non parla di numeri, non si ferma agli aggettivi (profughi, sfollati, richiedenti asilo, e ancora dieci altre targhette di gran moda), ma li chiama ciascuna e ciascuno per nome, ci racconta che hanno un volto e nel bagaglio una storia, che non vengono dall’Absurdistan, ma da un luogo che anch’esso ha un nome, dove hanno lavorato o studiato, dove hanno lasciato una famiglia, una comunità di persone che hanno un nome, e poi – nome dopo nome – ci racconta di chi nel viaggio ha assaggiato l’antipasto dell’inferno e di chi non è arrivato né tornato, e ancora racconta di governi collusi, di organizzazioni compiacenti, di potenze della finanza e della politica che prosciugano le ricchezze del centro del mondo e le convogliano nella nostra periferia. Con lingua schietta, nello stesso tempo poetica e viscerale, senza sconti alla verità né alle responsabilità, questo libro parla di noi


L’ arca perduta nel Mediterraneo. Prove di naufragio di una civiltà, Museodei by Hermatena, 2019



L’ isola delle speranze rubate. Diario di bordo dal Sahel, Museodei by Hermatena, 2022

Storie di speranze perdute, navi che salpano verso isole inesistenti. Storie di ordinaria sofferenza lungo le strade che attraversano il Niger, accompagnate dal vento, dalla sabbia e dal dolore. Un diario di bordo, in un affresco unico, che narra le “avventure” di un’altra Africa. L’altra faccia di un’umanità che non conta. Testimonianze disperate di violenza e follia. Storie di corruzione e manipolazione. Storie di oggi. Nascoste tra le onde di un naufragio, nel cui sciabordio si ode la voce forte e coraggiosa di chi è indotto a lasciare una terra che sembra non appartenergli più.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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