Gravidanza e dono. La legge sulla «gravidanza solidale» tra donne in Parlamento. Si codifica che la maternità non è dono, ma diritto. Ma il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto, è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica. Si genera nella mente prima che nel corpo: la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva.

Salvatore Bravo
Gravidanza e dono

La legge sulla «gravidanza solidale» tra donne in Parlamento.
Si codifica che la maternità non è dono, ma diritto.
Ma il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto,
è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica.
Si genera nella mente prima che nel corpo:
la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva.



In Parlamento è stata depositata una proposta di legge per regolamentare la così detta e codificata «gravidanza solidale» tra donne. Il ministero orwelliano della verità è continuamente operante: non solo si mutila la storia delle verità disorganiche al sistema, ma anche le parole sono orientate al relativismo semantico.
Il semanticidio è l’ultima frontiera del dominio. Le parole sono curvate ai bisogni delle nuove classi dirigenti globali. Non più madre surrogata: l’ordine del discorso liberista governa con le parole l’immaginario critico dei singoli e dei popoli per neutralizzarlo, si deve dire «madre solidale». Quest’ultima ospita il feto, “senza scopo di lucro”, sviluppato secondo le tecniche della fecondazione in vitreo. In tal modo coppie di ogni orientamento acquisiscono il diritto alla maternità-paternità.
La maternità è, in tal modo, oggetto di giurisprudenza: si codifica il diritto alla maternità e alla paternità. Non più dono, ma diritto!
Il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto, è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica. Si genera nella mente prima che nel corpo, nel sentire l’assenza dell’alterità verso cui ci si dispone in modo integrale: la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva. Il bisogno di incontrarsi per completarsi pone il senso ontologico dell’esistenza di ogni essere umano. Il dono codificato nella gabbia della legge è negato nella sua verità ontologica per essere merce a disposizione del compratore. Si riproduce la logica dell’azienda: la giurisprudenza codifica i doveri e i diritti del compratore e del venditore. La madre incubatrice, il cui ruolo è ideologicamente edulcorato dal termine “solidale”, vende il “nuovo prodotto” alla madre che lo acquisisce. L’esperienza della maternità/paternità è trasformata in “aziendalizzazione della vita sin sul nascere”.
Il capitalismo non può tollerare il dono autenticamente tale, deve monetizzare ogni respiro, gesto e scelta dell’esistenza. La nascita di un nuovo essere (e dunque la maternità donativa) quale dono che offre allora un nuovo sguardo con cui contemplare la vita, non può essere tollerata dal modo di produzione capitalistico: il dono è uno scandalo dove regna solo il profitto, per cui è soffocato sul nascere.
La «gravidanza solidale» – con annessa menzogna semantica – è esperienza assoluta del capitale. Se la maternità da dono diviene un contratto che stabilisce i compensi e gli obblighi delle protagoniste, si cancella l’idea stessa di dono dall’orizzonte percettivo, immaginativo e concettuale dei popoli e dei singoli. Si cancella l’amore donativo e disinteressato di cui la maternità è l’archetipo. L’interesse personale e la tracotanza del denaro divengono le uniche leggi che devono governare la vita.
In maniera analoga a quanto accade per la scelta degli studi fino alle relazioni affettive, tutto dev’essere regolamentato dall’unica legge dell’interesse privato, in cui a prevalere è il diritto del più forte. L’autentica maternità solidale ritrova la sua verità nelle relazioni che rifuggano dalla quantificazione. La maternità solidale tra donne è, d’altronde, un’esperienza antica. Non era raro in passato nelle famiglie allargate meridionali, che una madre consentisse ad un’altra madre che non poteva avere figli di crescere il proprio figlio. Ciò accadeva su un fondo di solidarietà, in cui le due donne non si contendevano il figlio, ma ciascuna contribuiva alla sua crescita secondo modalità diverse. I padri non erano esclusi, ma si inserivano in tali scelte all’interno di convenzioni e valori non codificati. L’unione non era e non dev’essere nella legalità del contratto, ma dev’essere condizione etica orientata al bene che si autoregola.

Monetizzazione della vita
Il sistema globale con le sue oligarchie nichilistiche produce diritti universali sempre in funzione dei diritti individuali e, in particolare delle classi più abbienti: il diritto è in astratto universale, nei fatti è un privilegio di classe. Siamo innanzi ad un episodio della lotta di classe: coppie benestanti si rivolgeranno a donne precarie e bisognose di denaro per usare il loro corpo come incubatrice, in cambio di denaro, da corrispondere in svariate modalità non rintracciabili.
In un contesto generale nel quale l’interesse privato e il profitto sono la legge aurea che tutto guida l’uso del termina “solidale” si svela nella sua ipocrisia manipolatrice. Si manipolano le parole per determinare il modo di pensare e di agire dei subalterni che le impiegano nel loro dire quotidiano. Una donna ricca può comprare il corpo di un’altra donna per soddisfare un proprio desiderio, una “voglia” di maternità (possessiva), senza dover vivere il rischio della gravidanza che “deforma” il corpo femminile conformato su canoni estetizzanti (la gravidanza mette in gioco molteplici aspetti nella persona e nel corpo della donna che dovrà accogliere dentro di sé l’alterità di un altro corpo, altro da sé, e per lunghi nove mesi, per non parlare della maternità che si esprimerà nel periodo dell’allattamento). Oppure pone rimedio alla sua biologica impossibilità di generare (sterilità) col potere che le deriva dal censo. La predazione, legge del modo di produzione capitalistico, affonda i suoi denti vampireschi nella maternità riducendola ad un affare.
La solidarietà diviene nuovo business, ammantato di stucchevole “buonismo”. Il sistema produce menzogne con la patina delle belle parole per vincere le ultime resistenze etiche. Dietro il paravento della gravidanza solidale non è difficile pensare che giovani donne migranti e precarie disperate possano trovare un mezzo per sopravvivere vendendo non solo il loro corpo, ma soprattutto il significato profondo di questa esperienza nella vita di donna e di madre.
La “gravidanza solidale”, inoltre, permetterebbe a donne in carriera che hanno scelto la professione quale obiettivo primo di pianificare la gravidanza usando il corpo delle perdenti della globalizzazione. La maternità diviene un obiettivo individualistico: non più vita che esce alla luce spontaneamente e liberamente.
Altro punto doloroso: la gravidanza è gestita solo da donne. Siamo all’eliminazione della paternità. La gravidanza diviene un affare tra donne, gli uomini sono solo un dettaglio biologico. Si sperimenta una nuova formula della procreazione: la gravidanza tra sole donne.

Femminismo liberista
I parlamentari che hanno proposto la legge sono in linea con il nuovo femminismo liberista che inneggia all’inclusione nel mercato, ma che in realtà produce esclusione sociale. La “maternità solidale” esclude e ridimensiona il ruolo della paternità. La logica implicita in tale proposta di legge è l’individualismo proprietario, per cui il bambino appartiene alle donne, in quanto hanno la potenzialità di produrlo – come fosse merce – per soddisfare un desiderio codificato e legittimato dalla cultura astratta del diritto.
Il femminismo fa un nuovo salto di qualità, si orienta verso la volontà di potenza e di dominio. Se la tecnica consente di rendere il ruolo degli uomini secondario, la gestione della vita e della comunità politica passa al nuovo femminismo in salsa transumana.
Si prepara con parole “buone” e con gradualità una rivoluzione antropologica, in cui il maschio è solo biologia: il resto è un affare tra donne. Il diritto alla maternità tra donne valuta i bisogni della sola madre: il bambino, con il suo naturale diritto ad una identità, è secondario. Non ci si pone dalla parte del bambino, il più debole in queste relazioni di potere. Cosa potrà provare nel sapere da adulto che è il risultato di una tecnica e di un contratto nessuno lo sa e nessuno si pone tale problema.
Non vi è immaginazione empatica, ma solo desiderio di acquisto e conquista.
In ultimo una società atomizzata e senza capacità spirituali non è nelle condizioni culturali di comprendere che la maternità non è solo una condizione del corpo, ma è un atto emotivo e mentale. Si dovrebbe favorire la cultura del dono e del volontariato, in quanto ogni adulto può vivere maternità o paternità nella cura senza possesso delle persone che incontra sul proprio cammino di vita.
La maternità e la paternità sono al plurale nelle loro espressioni, così come è la vita stessa. Naturalmente tale possibilità è colpevolmente ignorata, taciuta, poiché lo scopo è sempre il possesso individualistico e il business.
I “progressisti” arcobaleno continuano nella loro opera di disintegrazione della comunità, e si fanno braccio armato legislativo del relativismo liberista che tutto riduce a tecnica e a possesso personale. In Inghilterra una madre surrogata può richiedere legalmente fino a 15.000 sterline di rimborso spese, ovvero lo stipendio medio di un anno di una donna a basso reddito. Pertanto il denaro e la tecnica sono le palesi chiavi di lettura della “gravidanza solidale” sotto l’arcobaleno del “progressismo” liberista. L’egoismo e lo sfruttamento della vita sono l’unica legge a cui risponde il liberismo arcobaleno, la nuda vita della maternità è ridotta ad ovaie, embrioni e spermatozoi rigorosamente perfetti, e solo per chi se lo può permettere

… In attesa di tempi più umani rileggiamo la poesia Maternità di Tagore:

«Da dove sono venuto?
Dove mi hai trovato?
Domandò il bambino a sua madre.
Ed ella pianse e rise allo stesso tempo
e stringendolo al petto gli rispose:
tu eri nascosto nel mio cuore, bambino mio,
tu eri il suo desiderio.
Tu eri nelle bambole della mia infanzia,
in tutte le mie speranze,
in tutti i miei amori, nella mia vita,
nella vita di mia madre,
tu hai vissuto.
Lo Spirito immortale che presiede nella nostra casa
ti ha cullato nel Suo seno in ogni tempo,
e mentre contemplo il tuo viso,
l’onda del mistero mi sommerge
perché tu che appartieni a tutti,
tu mi sei stato donato.
E per paura che tu fugga via
ti tengo stretto nel mio cuore.
Quale magia ha dunque affidato
il tesoro del mondo nelle mie esili braccia?».


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Alice Bigli – Per Gianni Rodari la scintilla dell’Utopia è il passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo.


Il grande nucleo tematico attraverso cui rileggere Rodari da adulti per poi riportarlo con pienezza e senza banalizzarlo ai bambini, è quello dell’utopia.

Questa è infatti una vera parola chiave per l’opera di Rodari che chi vorrà approfondirne la conoscenza critica troverà utilizzata da tutti i suoi più importanti studiosi.

Rodari vuole raccontare storie in cui realtà e fantasia siano sempre fuse in modo virtuoso. Nella sua opera, non solo non esiste contrapposizione tra questi due generi, ma l’una sembra indispensabile all’altra.

[…] Anche nei racconti più stravaganti e buffi, l’autore trasfigura spesso temi della realtà o stimola riflessioni su di essa. Contemporaneamente, come si vedrà ben esplicitato nella Grammatica della fantasia, nella ricerca di qualcosa che stimoli la fantasia e l’invenzione si parte sempre da oggetti, fatti, elementi comuni e del quotidiano.

Fantasia e osservazione del reale, critica al presente e sogno sul futuro si mescolano sempre.

Rodari propone ai bambini una spinta continua all’utopia, intesa come passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo.

Alice Bigli, La scintilla dell’utopia. Rileggere Gianni Rodari con i bambini, Edizioni San Paolo, Cinesello Balsamo 2020, p. 49-52.

Alice Bigli
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Vittorio Morfino – Hegel e l’ombra di Spinoza. I concetti di organismo e violenza.


Vittorio Morfino

Hegel e l’ombra di Spinoza. I concetti di organismo e violenza

ISBN 978-88-7588-321-8, 2022, pp. 216, formato 140×210 mm., Euro 25 – Collana “Il giogo” [145].

indicepresentazioneautoresintesi







M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Sabrina Grimaudo – Misurare e pesare nella Grecia classica. Teoria, storia, ideologie.

Sabrina Grimaudoi, Misurare e pesare nella Grecia classica, L’Epos, Palermo 1998.

Sabrina Grimaudo è docente presso l’Università di Palermo. I suoi studi soni principalmente rivoilti ad aspetti storico-epistemologici della scienza antica, al lessico greco della parentela e all’analisi del rapporto potere/violenza nei testi greci. Oltre avari contributi su riviste specializzate, ha pubblicato Misurare e pesare nella Grecia antica. Teorie, storia, ideologie, L’Epos, Palermo 1998.

Curriculum e pubblicazioni di Sabrina Grimaudo.


In copertina: Coppa di Arcesilao (VI sec. a.C.), Parigi, Cabinet des Médailles.
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Sabrina Grimaudo, «Difendere la salute. Igiene e disciplina del soggetto nel “De sanitate tuenda” di Galeno». Problema medico o questione filosofica?


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Judith Schalansky – La rovina è un luogo utopico in cui passato e futuro diventano una cosa sola. È dolorosa la consapevolezza di essere mortali, e comprensibile il desiderio vanaglorioso di resistere alla fugacità e di lasciare delle tracce a una posterità sconosciuta, non solo di essere ricordati, ma di esserlo “in perpetuo”… Anche se nulla dura per sempre, ci sono cose che si mantengono più a lungo di altre …

Judith Schalansky, Inventario di alcune cose perdute, Nottetempo, 2020.

Judith Schalansky 

La rovina è un luogo utopico in cui passato e futuro diventano una cosa sola. È dolorosa la consapevolezza di essere mortali, e comprensibile il desiderio vanaglorioso di resistere alla fugacità e di lasciare delle tracce a una posterità sconosciuta, non solo di essere ricordati, ma di esserlo “in perpetuo”…
Anche se nulla dura per sempre, ci sono cose che si mantengono più a lungo di altre …

Descrizione

La Storia del mondo è piena di cose che sono andate perdute, smarrite nel corso del tempo o distrutte intenzionalmente, a volte semplicemente dimenticate – o magari, come si racconta nell’Orlando furioso, volate in un archivio sulla Luna. Inventario di alcune cose perdute è una raccolta di dodici storie, ciascuna dedicata a una cosa che non c’è più: narrazioni sospese in un delicato equilibrio tra presenza e assenza, fotografie ben a fuoco ma stampate con inchiostro scuro su carta scura, piccole realtà che solo l’immaginazione è in grado di riportare alla memoria. Si va da Tuanaki, un’isoletta indicata su vecchie mappe che ormai giace sotto il livello del mare, alla tigre del Caspio, il cui ultimo esemplare impagliato andò distrutto in un incendio; dallo scheletro di un presunto unicorno, nascosto chissà dove, a Kinau, un selenografo tedesco dell’800 di cui pare nessuno sappia nulla, fino alle misteriose lacune dei carmi amorosi di Saffo, che custodiscono ipotesi e segreti. Come aveva già fatto nel suo Atlante delle isole remote, in questo libro Judith Schalansky gioca a ricreare mondi del passato a partire da pochi frammenti, si cala nei contesti, nei linguaggi, coglie di volta in volta gamme di colori e sensazioni, restituendo a ogni cosa anche il più piccolo dettaglio, storico o visionario che sia.



Judith Schalansky, nata a Greifswald nel 1980, si è laureata in Storia dell’Arte e in Design e lavora a Berlino come scrittrice e designer, oltre a tenere corsi di tipografia. Il suo Atlante delle isole remote è uscito in Italia per Bompiani nel 2013. Lo splendore casuale delle meduse, pubblicato da nottetempo nel 2013 e tradotto in più di venti lingue, ha vinto nel 2012 il Premio Buchkunst Stiftung per il libro più bello dell’anno e nel 2013 il Premio Salerno Libro d’Europa. Inventario di alcune cose perdute, pubblicato da nottetempo nel 2020, ha vinto in Germania numerosi premi, tra cui il Wilhelm Raabe-Literaturpreis 2018, e in Italia il Premio Strega Europeo 2020.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Zero in condotta agli insegnanti che non si conformano alle direttive ministeriali che richiedono di occuparsi sempre meno di insegnare e sempre più di promuovere condotte docili, irreggimentate. I docenti renitenti siano messi al bando.

Fernanda Mazzoli

Zero in condotta agli insegnanti che non si conformano alle direttive ministeriali
che richiedono di occuparsi sempre meno di insegnare e sempre più di promuovere condotte docili, irreggimentate.
I docenti renitenti siano messi al bando.

 

A ragion veduta, il ministro Bianchi ha ricordato alle maestrine d’Italia che il loro dovere è quello di «non smettere mai di fornire il corretto esempio» ai propri allievi. Pertanto, chi tale corretto esempio non lo ha dato, rifiutando di vaccinarsi, pur essendo riammesso a scuola dal primo aprile, in classe non potrà rientrare, in quanto tale rientro «avrebbe comportato un segnale altamente diseducativo», poiché «la violazione di un obbligo non può restare priva di conseguenze».[1]

Così, circa 4000 insegnanti dalla primaria alle Superiori, cui durante il periodo di sospensione previsto fino al 15 giugno non è stato corrisposto nemmeno l’assegno alimentare,[2] sono stati richiamati a scuola da un governo alle prese con le troppe contraddizioni dei propri decreti, con i ricorsi presentati davanti ai tribunali dalle vittime dell’insolito provvedimento e con l’imbarazzante unicità in Europa e non solo della misura adottata a dicembre. Tuttavia, devono evitare il contatto con gli alunni; saranno dunque destinati a non meglio precisate attività di supporto agli altri docenti, quelli degni di stare in classe. Il loro orario viene, inoltre, portato a 36 ore settimanali, essendo equiparati ai «lavoratori fragili» del comparto scolastico, distaccati solitamente nelle biblioteche degli Istituti.

Sono stati concessi loro i mezzi di sostentamento, a riprova dello spirito umanitario di coloro che ci governano, ma a condizione che restino confinati in una sorta di riserva indiana, che stiano rintanati in sotterranei o stanzini approntati alla meglio, che vengano percepiti – dai ragazzi e dai genitori innanzitutto, ma anche dai colleghi – come degli intoccabili.

Non importa che, da gennaio, studenti, insegnanti e bidelli in stragrande maggioranza vaccinati si siano contagiati, a dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che né il siero, né il green pass hanno frenato la diffusione del virus, cosa che ormai gli stessi virologi ammettono. Logica e razionalità che da tempo disertano il dibattito pubblico non conoscono miglior sorte nelle aule scolastiche e a prevalere è un criterio punitivo che, al netto di tutte le chiacchiere sulla società aperta ed inclusiva, sta a fondamento di una pedagogia della paura che ha dato buoni frutti nella recente – e non ancora estinta – campagna pandemica.

Se i docenti renitenti alla puntura e al consenso estorto tramite ricatto economico rappresentano un’incrinatura non tollerabile nella trama delle buone azioni e dei corretti comportamenti che si fila a scuola, servono comunque da esempio rovesciato di ciò che accade a chi non si piega ai diktat governativi e pertanto da utile monito ai ragazzi, qualora fossero tentati in futuro di deviare dalla retta via. Per questo, valgono bene lo sperpero di pubblico denaro che costano due insegnanti sulla stessa cattedra, di cui uno inutilizzato. La lezione è chiara anche per gli altri docenti, casomai venissero presi da un improbabile anelito di rivolta, da un impulso di anticonformismo sociale o, più modestamente, da qualche dubbio sul loro ruolo esecutivo nella catena di comando che parte dal Ministero ed arriva a loro, passando per i Dirigenti scolastici promossi datori di lavoro (e che, quindi, hanno comminato nei singoli Istituti le sospensioni).

Lo spreco più inquietante resta quello di intelligenze, competenze e professionalità sacrificate alla vendetta di una classe politica che era certa di avere neutralizzato pensiero critico e conflitto ed invece si è trovata confrontata, a scuola e fuori, con l’imprevista, per quanto variegata, resistenza di una minoranza non proprio trascurabile, alla quale si è cercato in tutti i modi di rendere la vita impossibile e che, proprio per questo, ha deciso di non chinare la testa.

Non si creda, però, che il ministro Bianchi, nella sua reprimenda, abbia voluto solamente lanciare un predicozzo moralistico, nonché umiliare ed isolare ulteriormente i reprobi. Gli va riconosciuto che il suo richiamo al corretto esempio ha centrato un aspetto essenziale del ruolo docente che oltrepassa di molto la presente contingenza: è ormai da anni che l’insegnamento è sempre più svuotato della sua dimensione culturale, a vantaggio di un generico ammaestramento ai virtuosi stili di vita, alle buone pratiche sociali che naturalmente sono quelle individuate dalle strategie europee per l’istruzione e la formazione o dall’agenda Onu 2030.

Pertanto, al titolare del Miur, assai correttamente, innanzitutto importa che maestri e professori si conformino alle direttive date, solo secondariamente che conoscano la materia che insegnano e che sappiano comunicarla ai loro allievi. Anzi, questo tipo di competenze – se non opportunamente diluito – potrebbe essere visto pure con un certo sospetto, come retaggio di una didattica obsoleta ed élitaria.

Questo Ministero, infatti, nel governo dei migliori è il migliore di tutti, il più solidaristico, il più inclusivo, avendo riscoperto una parolina magica che quarant’anni di neoliberismo tronfio e compiaciuto avevano snobbato: comunità. Però, anche la comunità deve essere corretta, deve ritrovarsi in certi parametri non soggetti a pubblica discussione o a ragionata verifica e chi non li rispetta o non vi si riconosce si mette automaticamente fuori dalla stessa e se non ci pensa lui a sloggiare in fretta, interviene il Ministero con la sua longa manus, ovvero il Dirigente Scolastico. Ed ecco che il ministro, nobilmente compreso del suo dovere etico verso la nazione tutta e la comunità scolastica in particolare, ammonisce gli inadempienti all’obbligo vaccinale che essi «disattendono il patto sociale ed educativo su cui si fondano le comunità nelle quali sono inseriti».

Chi scrive pensava ingenuamente che il loro inserimento fosse la conseguenza degli studi intrapresi, dei concorsi pubblici vinti, della passione per le discipline insegnate, non di attitudini morali e di comportamenti allineati sulle politiche governative. Tuttavia, occorre ringraziare il ministro Bianchi, che della comunità educante è un cultore, per avere fugato ogni residuo dubbio sul carattere potenzialmente totalitario della stessa, sulle sue zone d’ombra che ne fanno un potente fattore di conformismo sociale e di conseguente esclusione per eretici e ribelli.[3]

Volendo impartire una bella lezioncina di virtù civiche ai docenti refrattari all’inoculazione forzata, il ministro ha, in realtà, fatto l’apologia di una scuola che richiede agli insegnanti di occuparsi sempre meno di insegnare e sempre più di promuovere condotte docili, irreggimentate, perfette per il nuovo totalitarismo del XXI secolo che si autolegittima su base morale, intorno ad una serie di opposizioni elementari e di sicuro impatto propagandistico: buoni/ cattivi, meritevoli/non meritevoli, degni/indegni, funzionale ad un’ulteriore contrapposizione inclusi/esclusi.

Fernanda Mazzoli

[1]https://www.orizzontescuola.it/obbligo-vaccinale-bianchi-il-rientro-in-classe-dei-docenti-non-vaccinati-sarebbe-stato-segnale-diseducativo/

[2] Gli insegnanti sospesi a gennaio erano in numero decisamente più alto di quelli reintegrati ad aprile: molti si sono ammalati di Covid durante i mesi invernali e, una volta guariti e in possesso di green pass rafforzato da guarigione, sono rientrati in classe, pur accompagnati da un certo alone sulfureo e dall’incertezza sul futuro.

[3] Su questa deriva della comunità educante mi permetto di rinviare al mio Comunità educante e adattamento sociale in AA.VV., Koiné. Ideali di comunità, Petite Plaisance, Pistoia 2021 e a Paolo Di Remigio: Educazione e istruzione (sinistrainrete.info) (https://www.sinistrainrete.info/societa/16151-paolo-di-remigio-educazione-e-istruzione.html)



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Linda Napolitano Valditara – «Filosofi sempre». Ravvisando l’odierna necessità di questa postura filosofica, si deve però chiedersi quanti, che pure si dicono filosofi, abbiano saputo dopo Socrate non solo teorizzare un tale sapere, ma, come lui, testimoniarlo sempre.

L. Napolitano Valditara, Filosofi sempre. Immagini dalla filosofia antica, QuiEdit, 2021

«Occorre che chi dialoga non solo metta lealmente a disposizione dell’interlocutore quanto creda di sapere – prestandosi a esser interrogato (eròtesis), esaminato (exètasis) e semmai confutato (elènchos) – ma che lo faccia con una disposizione affettivo-morale anch’essa opposta a quelle del tiranno-lupo […]. Il filosofo non può né deve nutrir invidia dei beni (risposte e verità comprese) che semmai possedesse e non condividerle con altri, né dei beni altrui (risposte e verità comprese) essendo pronto ad arraffarli, come il tiranno trasimacheo, “con l’inganno o con la violenza”: è infatti proprio lo phthònos, l’autodistruttivo sguardo invìdens, l’anticamera emotivo-morale della pleonexìa, della smisurata, ‘lupesca’ aggressività tirannica.

Il filosofo ha già, pur non abitando insieme ad altri, una “vita in comune” (un syzén) con essi: con quanti, come lui, sappiano di non sapere, continuino ad amare il sapere e siano disposti perciò a dialogare e cercare, ancora e ancora. La benevolenza (eumèneia) reciproca che fonda questa speciale vita in comune, l’assenza d’invidia (phthònos), l’amore costante per la verità e il bene son forse quei “desideri migliori” che possono contenere in ognuno quelli superflui o parànomoi, prevenendone la distruttiva insaziabilità e dando all’anima una forma armonica naturale. Come la scelta libera di leggi che regolino la vita di ognuno e di tutti permette di allontanare il pericolo della ‘licenza’ (exousìa), la libertà individualistica ed eccessiva mutantesi in tirannide. Desideri migliori e buone leggi per una misurata armonia dell’anima: di ognuno e di tutti. E poi buone narrazioni, immagini ‘belle’ e arricchenti, nostre e altrui, che alimentino in ognuno il fuoco della ricerca e diano forma alle emozioni che l’accompagnano e che guidano alle azioni.

Ma solo il lògos filosofico sopporta la fatica (pònos) di questo esercizio perché esso solo vede il valore di tutto ciò: perché sa ch’è solo questo sapere a poter far brillare la scintilla della verità, alimentata dal fuoco dell’amor-di-sapienza nutrito da tutti, esso ch’è il “massimo sforzo” possibile al sapere umano. Molti altri saperi continuano certo aristotelicamente ad essere più necessari di questo, ma nessuno è “migliore” per gli esseri umani che siamo. Occorrono però, per praticarlo, senso lucido e profondo del nostro limite umano; relazionalità dialogante ed esplorativa con ogni altro; vita in comune intesa come ricerca mite, non invidiosa, non predatoria di un vero ogni volta condiviso, nell’intreccio continuo di racconti narrati uno all’altro e di argomentazioni verificate uno con l’altro.

È una postura sapienziale difficile, rara, per cui non stupisce che, quando essa si dica filosofica, si continui a bollarla come inutile e ‘sciocca’. Ma essa pare oggi più che mai necessaria per non incatenarsi, come il prigioniero platonico, in fondo a un antro a gioire di pure ombre, o per non nutrire compulsivamente, nella buia solitudine di un sotterraneo, ogni proprio desiderio, come il Gollum tolkieniano.

Ravvisando l’odierna necessità di questa postura filosofica, si deve però chiedersi quanti, che pure si dicono filosofi, abbiano saputo dopo Socrate non solo teorizzare un tale sapere, ma, come lui, testimoniarlo sempre, nel ragionare, nel sentire, nell’agire e nell’inter-agire: perché forse, finché questo non è fatto da quanti si professano filosofi, il loro sapere continuerà ad apparire solo inutile phlyarìa e potrà ancora – più grave e pericoloso – indurre altri demagoghi (portatori di statue della caverna platonica) ad allevare nuovi temibili ‘lupi’» (Filosofi sempre, pp. 283-285).


Linda M. Napolitano è Professore Ordinario di Storia della filosofia antica e co-responsabile del Centro di ricerca “Asklepios. Filosofia, cura, trasformazione”, presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona. Suoi studi: Il sé, l’altro, l’intero. Rileggendo i Dialoghi di Platone, Mimesis 2010; ‘Prospettive’ del gioire e del soffrire nell’etica di Platone, Mimesis 2013; Virtù, felicità e piacere nell’etica dei Greci, AemmeVerona 2014; Il dialogo socratico. Fra tradizione storica e pratica filosofica per la cura di sé, Mimesis 2018. Suoi sono anche studi sulle MedicalHumanities: Pietra filosofale della salute. Filosofia antica e formazione in medicina, QuiEdit 2012. Nel 2019 ha vinto il Bando di ricerca dottorale di CariVerona PHILCARE (Philosophical Care of Emotions in the Platonic and Socratic Literature).





Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Linda Napolitano Valditara…


Le idee, i numeri, l’ordine. La dottrina della «Mathesis universalis» dall’Accademia antica al Neoplatonismo, Biblopolis, 1988

Lo sguardo nel buio. Metafore visive e forme grecoantiche della razionalità, Laterza, 1994

 Platone e le «ragioni» dell’immagine. Percorsi filosofici e deviazioni tra metafore e miti, Vita e pensiero, 2007

La caverna, la skiagraphìa o ‘pittura d’ombra’, il mito degli androgini, il sofista che crea un mondo ruotando attorno uno specchio che lo rifletta, Socrate tafano e torpedine marina: le immagini celeberrime del corpus platonico sono qui rimeditate alla ricerca delle ‘ragioni’ che consentono di leggerle non quali semplici tratti decorativi, ma come veicoli di verità.


 Il sé, l’altro, l’intero. Rileggendo i dialoghi di Platone, Mimesis, 2010,.

Dai Dialoghi di Platone emergono strutture espressive e teoriche ricorrenti. Si esaminano qui in particolare: la struttura del sé (heautòn), di cui vanno saputi lo stato cognitivo e la natura fondante, essenzialmente psichica (il proprio esser anima); la struttura dell’alterità, manifestantesi soprattutto nell’esposizione alla morte e all’aggressività altrui e che trova però mediazione nella pratica del rapporto dialogico. Non c’è in Platone unità che non sia bilanciamento armonico di diversi ed opposti: il rapporto sé-altro è base dinamica di ogni possibile intero, cifra costitutiva della realtà umana e del cosmo stesso nella sua interezza. Un esame puntuale dei Dialoghi e dei loro contesti linguistici ed argomentativi pone in luce tale visione dell’intero quale dinamizzazione armonica del rapporto oppositivo sé-altro: una visione che, fra l’altro, non si riduce a dato archeologico erudito, ma, recuperata oltre consolidali fraintendimenti, perfino sconcerta per la sua parlante attualità.


Le idee, i numeri, l’ordine. La dottrina della «Mathesis universalis» dall’Accademia antica al Neoplatonismo, Bibliopolis, 2010.


‘Prospettive’ del gioire e del soffrire nell’etica di Platone, I ed., Edizioni Università di Trieste, 2011


Pietra filosofale della salute. Filosofia antica e formazione in medicina, QuiEdit, 2011

Il volume rielabora i contributi offerti da una filosofa nell’arco di sei anni ad operatori sanitari (medici e infermieri). I testi meditati sono tratti per lo più dal pensiero antico e mostrano come vi si trovi materia proficuamente utilizzabile anche nell’approccio a problemi odierni. Sono trattate anzitutto le nozioni di ‘salute’ e ‘cura’ e quella di una distribuzione equa del bene stesso ‘salute’; si riflette poi sull’impiego in campo sanitario della ‘narratività’ (medicina narrativa) e sui problemi del dolore e della morte. Il volume, diretto non solo ad addetti ai lavori (filosofi od operatori sanitari), documenta una ‘pratica filosofica’: cioè l’impiego di testi e nozioni propri della filosofia antica in un campo – quello della salute, del dolore e della stessa morte – che ci coinvolge tutti in modo profondo e dove occorre oggi riguadagnare un modo dell”esser sani’ e dello stesso ‘darsi cura’ non declinabili in senso solo tecnologico.


Prospettive del gioire e del soffrire nell’etica di Platone, Mimesis, 2013


Virtù, felicità e piacere nell’etica dei Greci, Aemme, 2014


Il dialogo socratico. Fra tradizione storica e pratica filosofica per la cura di sé, Mimesis, 2018

Il dialogo è oggi rinvio costante di varie discipline umanistiche e perno di molte delle cosiddette pratiche filosofiche. Frequente è anche il rinvio, da parte di autori e filoni odierni, a “Socrate” come testimone di una “modalità dialogica del comunicare”, creduta oggi più che mai necessaria e utile. Si cerca qui anzitutto di verificare in modo non generico, ma preciso, che cosa si possa intendere per “dialogo” rinviando sia alla nascita, tra fine V e inizio IV sec. a.C., del genere letterario del “sokratikòs lògos”, cui gli stessi Dialoghi platonici appartengono, sia a filoni novecenteschi che fanno perno o sul dialogo (pensiero dialogico) o sul ‘metodo socratico’ (scuola nelsoniana) o sullo scambio dialogico stesso (Morineau e teoria della mediazione). Son poi ripresi alcuni dei ‘Socrate’ del ‘900, soprattutto di quei pensatori (Arendt, Patocka, Hadot, Nussbaum) che, da punti di vista e con intenti diversi, valorizzano il metodo dialogico, come espressione propria della natura umana, metodo del ragionare filosofico o mezzo di una formazione democratica. Nella II parte (“Esercizi dialogici”) son esaminati e meditati 20 passi centrali dei Dialoghi platonici, nella presupposizione – se ne sia conscio no – che sia stato e sia tuttora “il Socrate di Platone” a far storia in filosofia. Si cerca per tale via di rispondere ad alcune domande di ricerca: quanto e cosa sappia chi interroga nel dialogo socratico; per quale ragione, per quale fine e con che tipo di domande lo faccia; quali effetti cognitivi ed emozionali inducano nell’interlocutore il domandare e confutare; se vi sia e quale sia la differenza fra pensare e dialogare; quale sia l’esito finale del dialogo. Ciò non solo per chiarire (storicamente) come operasse il dialogo socratico originario, sciogliendo consolidati fraintendimenti in merito, ma anche (teoreticamente) per mostrarne l’attualità quale “pratica filosofica per eccellenza”, da potersi iniziare proprio meditando i testi – quelli dialogici di Platone – che ne fecero non per caso la propria base: non solo letteraria, ma “filosofica”.


Curare le emozioni, curare con le emozioni, Mimesis, 2020

Il libro è dovuto a filosofi, psicologi, sociologi e pedagogisti del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona: seguendo le linee di ricerca dipartimentali e riprendendo le emozioni, tema già assai trattato in sede internazionale e nei singoli campi di ricerca, essi avviano qui un nuovo studio interdisciplinare, paragonando linguaggi, problemi, metodi, soluzioni. Focus è riprendere le emozioni, positive e negative, e approfondirne i modi di possibile “regolazione” o “governo” entro la “cura”, di sé e dell’altro. Il tema suppone questioni complesse, ancora discusse: anzitutto che una simile postura di cura esiga un impegno non solo razionale, ma anche emotivo; e, prima ancora, che un’emozione sia non soltanto passivamente subita (secondo il suo archetipo linguistico, pàthos, da pàschein), ma anche attivamente esperita e dunque trasformabile, in quantità e qualità. Che di curar se stessi, l’altro, il mondo si possa anche “coltivare la passione”.


Filosofi sempre. Immagini dalla filosofia antica, QuiEdit, 2021


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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28 Marzo 2022 – Presentazione del volume di Luca Grecchi “La filosofia prima della filosofia” / SFI di Taranto, Coordinamento di Ida Russo, Introduzione di Mino Ianne / Letture.org, Intervista a L. Grecchi: «Come può esserci una filosofia prima della filosofia?».



A seguire:
Riflessioni di Salvatore Bravo
Introduzione di Daniela Lefèvre-Novaro
Sommario del volume
Intervista a L. Grecchi: 5 domande all’autore da parte di Letture.org.

Lo studio e la ricostruzione storica di Luca Grecchi
sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione

Verità e bene nella pratica filosofica

Vi sono studiosi che non si adattano alle mode accademiche, ma sono fedeli al loro destino. Praticare la filosofia significa avere la chiarezza del fine della stessa. La filosofia è scienza della verità, è attività veritativa che soppesa le opinioni con la forza dialogica delle argomentazioni per uscire dalla palude del conformismo nichilistico. Il presente ci offre un numero notevoli di studiosi, anche di valore, che si sono cadavericamente adeguati alla filosofia nella forma dell’epistemologia o del multiculturalismo. Spesso tali scelte – che negano la filosofia nel suo senso più profondo e nella sua tradizione più antica – sono dovute a pressioni culturali e sociali. In questo contesto gli studiosi che si sottraggono all’omologazione rassicurante sono preziosi, perché ci rammentano il fine autentico della filosofia e ci ricordano che adeguarsi è una scelta: è sempre possibile intraprendere la via più difficile.
La filosofia vive nei filosofi, per cui essa è sempre ad un bivio in cui bisogna scegliere se intraprendere la via dell’opinione o la via della verità. Luca Grecchi è in cammino sul sentiero della verità e le sue pubblicazioni testimoniano il suo percorso. Il suo ultimo testo, La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C. (Morcelliana, Brescia 2022) non è una semplice ricostruzione genetica della filosofia, quale pratica della verità nel rispetto della natura comunitaria degli esseri umani. La filosofia difende la buona vita e il bene testimoniandoli, per cui la ricostruzione storica di Luca Grecchi sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione. Il presente è senza speranza, la categoria della necessità regna, per cui l’attuale modello economico e sociale è giudicato come unico e senza alternative. Luca Grecchi attraverso l’analisi documentata degli albori della filosofia nella società cretese palesa che il presente è esperienza storica non assoluta, e specialmente, il futuro è condizione di possibilità progettante, solo se ci si rivolge al passato per esplorare modelli sociali ed economici nei quali il fine è il benessere dell’essere umano e non il profitto. Per mettere in atto tale prassi è necessario porre al centro la filosofia. Essa è analisi critica della totalità: il metodo dialettico concettualizza la totalità per saggiarne la qualità. Senza l’esame critico della totalità il presente si eternizza negando la prassi e la responsabilità etica e storica dell’essere umano:

«La filosofia, infatti, si occupa principalmente di due contenuti, ossia la verità e il bene, di cui nessuna altra scienza si occupa».[1]

La filosofia ha il compito – che si storicizza nel tempo – di porre un argine alla deriva crematistica, nella quale l’essere umano è solo un mezzo per il profitto e non un fine. Se si vive in una totalità in cui si è solo degli enti da consumare e usare all’occorrenza, l’infelicità e l’alienazione sono generali. La filosofia è anche pratica politica, non è l’anima bella che si rifugia nella turris eburnea dell’astratto, ma è concretezza etica sin dalle origini:

«Nell’VII secolo, dunque, la crematistica ricerca del vantaggio privato, era già presente nei processi dominanti della riproduzione sociale della realtà cittadina. Vi era tuttavia la consapevolezza che essa andava tenuta a freno dalle strutture pubbliche della nascente polis. Al crescere della pervasività della crematistica sul piano sociale cercarono infatti di rispondere le strutture politiche della polis, e, poco dopo, le strutture culturali della philosophia».[2]

 

Civiltà cretese e comunitarismo

L’essere umano per natura è comunitario. Anche l’attuale individualismo presuppone la comunità, solo che essa è intesa e vissuta come mezzo e non come fine. L’individualismo comporta la cattiva vita, poiché l’alterità è uno strumento per soddisfare necessità e per estorcere profitto. La filosofia fa emergere la verità del contesto storico per compararlo al bene, ovvero alla comunità in cui l’essere umano è il centro disinteressato di ogni attività e non una semplice comparsa in funzione del profitto. Non bisogna cadere nella trappola di coloro che affermano che la pianificazione comunitaria dell’economia sia possibile solo vi è una società poco sviluppata.
Luca Grecchi palesa la differenza tra la civiltà cretese e le civiltà orientali, in cui vigeva la gerarchizzazione del potere e la comunità era asservita al potere della casta sacerdotale. Condizioni storiche simili possono sviluppare diversi modelli politici. A tal fine la filosofia è fondamentale, poiché il comunitarismo presuppone una adeguata riflessione teoretica. L’architettura della civiltà cretese comporta una visione dell’essere umano e della totalità in cui è implicato. Il fine è il bene di tutti, pertanto l’economia non è crematistica e saccheggio dell’altro, ma equa distribuzione dei beni conservati nei magazzini di stoccaggio. La centralità è il cortile, spazio aperto in cui si svolgono le attività sociali ed in cui si impara la condivisione e la si organizza:

«Il cortile centrale inoltre rappresenta il cuore dei Palazzi cretesi, in quanto fu verosimilmente il luogo della comunicazione politica e della distribuzione economica dei beni, dunque il luogo fondamentale della comunità».[3]

L’architettura non è neutra, ma è l’oggettivazione della teoretica che guida la comunità. L’architettura ha la prima radice nel sostrato silenzioso ed essenziale della visione del mondo di una civiltà. Se guardiamo all’urbanistica delle nostre città (con la privatizzazione di ogni spazio), non è difficile dedurre che è l’interesse privato a condurre ogni azione e a determinare l’isolamento atomistico che deprime le energie creative e plastiche di ogni cittadino. Nella civiltà minoica la centralità del cortile è il segno della consapevolezza che il benessere dev’essere di ognuno, altrimenti non vi è che lotta e “animalizzazione indotta” dell’essere umano:

«Non vi è dubbio, insomma, che i Palazzi minoici siano stati strutture polifunzionali, ospitanti sia attività economiche che assemblee civili, sia feste sportive che cerimonie religiose. Ciò nonostante, la funzione primaria di tali Palazzi – la funzione essenziale – rimase quella economico-politica di coordinamento della pianificazione produttiva-distributiva dei beni necessari alla vita».[4]

La comunità come esperienza e aspirazione non cointingente

La fine della civiltà minoica non ha comportato la scomparsa nel nulla dell’esperienza cretese, ma essa rivive in taluni aspetti nella civiltà omerica, pur in condizioni storiche molto modificate e diverse. Non a caso nei testi omerici ritroviamo due parole (idion e demion) che segnalano la prevalenza etica e qualitativa del pubblico-comunità sul privato. L’idion è colui che si dedica solo ai propri interessi privati, per cui rompe il vincolo solidale con la comunità tutta:

«L’utilizzo dei termini idion e demion per indicare privato e pubblico era, del resto, già frequente nei poemi omerici, a riprova di una riflessione su questi temi che non poteva essere acerba».[5]

La società omerica, pur bellicosa, conserva la condivisione comunitaria; non a caso i guerrieri pongono al centro (es meson) il bottino per dividerlo. Il mettere al centro è un residuo vivo del passato che non trascorre, è il germe che sarà pensato e porterà alla polis. L’esperienza cretese non scompare con la civiltà minoica, ma la si ritrova ripensata nelle diverse condizioni storiche nelle civiltà geograficamente limitrofe. Nella polis si ha l’espressione massima di tale visione comunitaria, poiché la città è organizzata per il dialogo comunitario, per cui gli spazi pubblici sono la manifestazione della chiarezza concettuale del bene che deve integrare la città con la natura e gli dèi:

«Oltre alla pianificazione degli spazi pubblici (edifici, piazze, santuari, necropoli, ecc.) e degli spazi privati (ripartizione della terra urbana e agricola, ecc.), la progettualità originaria delle apoikiai prevedeva che, nel territorio, ampi spazi dovessero sempre rimanere di uso comune. Si tratta dei cosiddetti saltus, ovvero spazi agricoli occupati dalle foreste e dalle estensioni di altura, necessari per il pascolo estivo, il legname e la caccia. Inoltre, in pressoché tutte le poleis di Magna Grecia e Sicilia erano sempre assicurate le cosiddette “aree di rispetto”, definibili come aree libere situate a ridosso delle mura urbane, disponibili per vari utilizzi comunitari».[6]

Il percorso che dalla civiltà cretese porta alla polis è un messaggio che giunge fino a noi e ci invita a guardare, pensare e vivere il presente con lo sguardo della civetta che è in ogni essere umano:

«L’uomo ha necessità di vivere bene, e per ottenere questo risultato deve costituire all’interno della physis, ossia della realtà che lo ospita, un contesto comunitario in cui realizzare un’esistenza armonica, caratterizzata da rispetto e cura verso sé stesso, gli altri uomini, la natura e il divino».[7]

Leggere il testo di Grecchi è esperienza teoretica, poiché ci conduce con il suo stile discreto a riscoprire il passato per comprendere il presente, in modo da riportare la possibilità della prassi dove vige l’annientamento del solo profitto.

Salvatore Bravo

***

[1] Luca Grecchi, La Filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C., Scholé Morcelliana, Brescia 2022, pag. 15.
[2] Ibidem, pag. 116.
[3] Ibidem, pag. 73.
[4] Ibidem, pag. 89.
[5] Ibidem, pag. 115.
[6] Ibidem, pag. 135.
[7] Ibidem, pag. 156.





Intervista  pubblicata il 18 gennaio 2022 su “Letture.org


  • Prof. Luca Grecchi,
    Lei è autore del libro La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C. – Magna Grecia, VIII secolo a.C. edito da Morcelliana: come può esserci filosofia prima della filosofia?


La domanda è legittima, e la risposta doverosa. Il libro inizia infatti spiegando questo titolo strano, il che si può fare grazie alla coppia concettuale potenza/atto, tematizzata per la prima volta da Aristotele. Detta in modo semplice, la filosofia è un’attività che esiste da sempre in potenza nell’uomo, dato che, per natura, l’uomo – sintetizzo qui le tre caratteristiche essenziali che a mio avviso definiscono la filosofia – necessita, per realizzarsi compiutamente: a) di rapportarsi all’intero, ricercandone il senso; b) di conoscere con verità, agendo per il bene; c) di relazionarsi dialetticamente alla realtà, ponendosi continuamente domande e cercando di formulare risposte, a loro volta da vagliare. Posto che in potenza la filosofia esiste da sempre nella natura umana, essa ha tuttavia iniziato ad esistere in atto solo in un certo luogo ed in un certo momento – poi vedremo dove e quando –, poiché solo in quel luogo ed in quel momento si sono per la prima volta verificate le condizioni, naturali e sociali, favorevoli alla sua nascita.

Cerco di spiegarmi con un esempio. Un uomo e una donna, per natura, hanno sempre in potenza, se si uniscono, almeno in un certo periodo del loro ciclo vitale, la possibilità di procreare. Affinché la procreazione non resti una potenzialità ma si realizzi in atto, occorrono però molte condizioni (che l’uomo e la donna siano fecondi, che vi sia fra loro un’attrazione, che l’interazione della loro genetica non ostacoli la formazione del feto, ecc.). Nel caso mio e di mia moglie, già nei primi giorni dopo il concepimento di nostra figlia Benedetta, si erano verificate queste condizioni, senza che lo sapessimo. Benedetta c’era già, insomma, ma ancora non eravamo consapevoli della sua esistenza. Allo stesso modo, in base a quanto cerco di argomentare nel libro, a partire almeno dalla Creta palaziale del XX secolo a.C., la filosofia in un certo senso c’era già – per quanto non ancora compiutamente formata –, anche se non se ne conosceva l’esistenza; ciò in quanto le sue tre caratteristiche essenziali, che ho poco sopra sintetizzato, cominciarono a formarsi proprio in quel momento ed in quel luogo.

L’obiezione prevalente, tuttavia, che riceverò dagli storici della filosofia antica, immagino si condenserà nella seguente domanda: non è eccessivo andare indietro di 15 secoli nel ricercare l’origine della filosofia rispetto a quanto normalmente si fa, dato che la nascita della stessa è solitamente attribuita al VI-V secolo, coi Presocratici e con Platone? A questa domanda risponderei nel modo seguente: è eccessivo solo in rapporto a quello che si è finora fatto. Così, tuttavia, come non è eccessivo per un neonatologo analizzare un neonato facendo riferimento a tutte le condizioni biologiche del concepimento, all’intero periodo della gestazione e in generale alle varie fasi del processo procreativo, anziché partire solo – come si faceva una volta – dal momento della sua nascita, per lo stesso motivo non è eccessivo, a mio avviso, studiare la filosofia facendo riferimento alle condizioni originarie del suo concepimento, a tutto il periodo della sua gestazione e in generale alle varie fasi della sua “procreazione”. Indubbiamente, con la filosofia si parla di 15 secoli anziché di 9 mesi, e di un processo che riguarda molte generazioni anziché pochi individui, il che rende tutto più complesso. Penso però che sia doveroso considerare tale processo nella sua interezza: dalla cultura minoica del XX secolo alla cultura classica del V secolo vi è una continuità, che nel testo è mostrata in vari modi, la quale deve essere valutata compiutamente se si desidera comprendere in maniera adeguata la nascita della filosofia.

Nel volume ho utilizzato ripetutamente una analogia vegetale – poco fa ho usato quella umana –, assimilando la filosofia a una piantina, uscita dal terreno nel VI-V secolo, e di cui, al massimo, è stata ipotizzata l’esistenza di radici un paio di secoli prima, con la poesia di Omero. La cultura omerica, tuttavia, dipende strettamente dai cosiddetti “secoli oscuri” che l’hanno preceduta (XI-IX), i quali sono, a loro volta, la risultanza del crollo dei regimi micenei (XVII-XII), che ebbero come modello – per quanto senza assimilarne compiutamente la cultura – proprio la civiltà minoica cretese (XX-XV). Possibile, alla luce di quanto ho qui sintetizzato, continuare a studiare la piantina della filosofia considerando solo, al più, i 2 centimetri (secoli) delle sue radici fino a Omero, quando è assai verosimile, per i legami ora esposti, che esse siano lunghe almeno 15 centimetri (secoli) fino a Creta? Mi sembra semplicemente che finora, siccome è molto difficoltoso scavare in profondità, si sia scavato solo in superficie, o spesso addirittura non si sia scavato, essendosi limitati – me compreso – a studiare solo la parte della piantina fuoriuscita dal terreno (ossia la filosofia quando ha iniziato ad essere nominata, coi Presocratici e con Platone), riducendo però di molto, in questo modo, le possibilità di comprensione della stessa.

Mi conceda un’ultima analogia – di quelle che fanno sorridere gli studenti a lezione –, stavolta di genere animale, per par condicio con quelle umana e vegetale utilizzate prima. In una gita ad un parco zoologico di qualche anno fa con mia figlia, ho appurato che la lunghezza delle gambe di una giraffa adulta è di circa 150 centimetri. Sarebbe ben rappresentata, a suo avviso, una giraffa con solo 20 centimetri di gambe? Senza considerare i secoli di cui si occupa questo libro, la filosofia rimane disegnata come una giraffa con le gambe di 20 centimetri. Per quanto la parte più importante di una giraffa sia verosimilmente costituita dal tronco e dal collo, con le gambe così corte essa non è raffigurata in maniera corretta. Ciò nonostante, da secoli, continuiamo a rappresentare la filosofia in questo modo, con tutto quello che ne consegue. Nel libro mostro in merito che molti errati luoghi comuni sulla nascita della filosofia (ad esempio il suo presunto sorgere nelle “colonie”, senza che si specifichi bene questo termine), si originano proprio a causa della mancata analisi delle sue condizioni di base. Per questo motivo ritengo che i futuri manuali di Storia della filosofia dovrebbero essere integrati, nelle loro prime pagine, non col contenuto di questo libro, ma col contenuto di questi secoli. Nutro tuttavia, in merito, poche speranze: lo specialismo accademico non accetta di aprirsi a novità così grandi. La mia proposta sarà per lo più considerata come il testo eccentrico di uno studioso “originale”; o, ancor più probabilmente, sarà ignorata.


  • In che modo, nel XX secolo a. C., a Creta ebbe inizio
    il processo che condurrà alla costituzione della polis
    e alla fioritura della philosophia?


Creta è un’isola grande circa come le Marche, più o meno equidistante fra l’Europa, l’Asia e l’Africa. Per la sua bellezza, fin dal Neolitico, fu abitata da popoli diversi, non esclusivamente da gente ellenica. Solo nel seguito la sua grande civiltà, grazie anche alla mediazione micenea, plasmò la cultura ellenica costituendone la matrice originaria. Lei mi chiede però, giustamente, come sia stato possibile, a partire dai primi insediamenti organizzati dell’Età del Bronzo, giungere progressivamente fino alla costituzione delle poleis ed alla successiva fioritura della philosophia, che è effettivamente un prodotto delle poleis elleniche.

Ebbene, pensi alle tre caratteristiche essenziali della philosophia cui abbiamo accennato sopra: il rivolgimento all’intero; la ricerca della verità e del bene; l’approccio dialettico alla realtà. Pensi a una situazione originaria, in cui vari gruppi di persone vennero ad abitare diverse parti dell’isola cercando di costituire aggregati stabili in cui vivere in maniera armonica. Come ragionarono e come agirono questi gruppi? Essendo nuclei comunitari, come lo sono quasi sempre i nuclei che viaggiano cercando di formare contesti abitativi permanenti, essi in sostanza seguirono – naturalmente senza esserne consapevoli – i tre orientamenti costitutivi della philosophia: a) si rapportarono all’intero, ossia alla natura (scelta di un luogo con corsi d’acqua potabile, con la giusta vicinanza al mare, con luoghi coltivabili nelle vicinanze, ecc.), al divino (scelta dei riti più adatti ad unire la comunità, a rispettare tutte le divinità care ai rispettivi gruppi, a garantire l’armonico svolgimento della vita sociale, ecc.) e all’umano (scelta di modalità economiche comunitarie, di una legislazione attenta alle esigenze di tutti, delle modalità migliori per favorire le espressioni culturali, ecc.). In questo modo essi realizzarono anche, implicitamente, b) una ricerca della verità e del bene, che fu posta in essere in un continuo confronto, ossia c) in maniera dialettica.

A Creta, insomma, rispetto alle coeve civiltà orientali, molto più gerarchiche, autoritarie e dogmatiche, si crearono forse i primi contesti cittadini comunitari di cui abbiamo notizia, i quali scelsero – verosimilmente, per quanto ho potuto ricostruire – di organizzare la loro vita sociale in maniera pianificata, in maniera tale che ognuno potesse dare in base alle proprie capacità e ricevere in base ai propri bisogni. Una simile pianificazione comunitaria, organizzata nei famosi Palazzi, adottata peraltro in tutte le principali città dell’isola, non poté prescindere da una grandiosa elaborazione culturale e da una rilevante condivisione politica: due condizioni essenziali che spiegano forse come, da quelle prime poleis ante litteram, iniziarono ad essere inseriti nel terreno, a mettere radici e a germogliare i primi semi della philosophia.


Quali caratteristiche
presenta
la Creta palaziale?


Ho poco fa parlato di Palazzi, ma non dobbiamo pensare – come pure i primi archeologi scopritori degli stessi, fra cui Evans, hanno lasciato intendere – a qualcosa di simile ai palazzi reali di Versailles. I cosiddetti Palazzi, nelle città minoiche, erano infatti costruzioni molto ampie in cui avevano sede le istituzioni politico-religiose-culturali della città, così come diverse attività produttive. Essi erano in effetti più simili a veri e propri quartieri, in cui erano svolte le attività economico-sociali fondamentali relative alle necessità della vita, fra cui in primo luogo lo stoccaggio e la distribuzione delle risorse alimentari, nonché l’organizzazione – la scrittura nacque verosimilmente a Creta con questo fine – della pianificazione. Erano Palazzi senza mura, aperti alla cittadinanza, non arroccati in difesa del potere. Nonostante l’immaginario collettivo pensi al mitico Minosse come ad un monarca imperialista, l’iconografia rimasta non mostra mai, a Creta, re in posizioni dominanti e sudditi con la testa bassa, come spesso accade nelle coeve civiltà orientali; mostra anzi spesso gruppi di persone felici con la testa alta. L’archeologia conferma peraltro l’iconografia, con situazioni abitative, nei nuclei urbani, tutte fra loro piuttosto omogenee. Si tratta, come dico più volte nel libro, soltanto di indizi (qui ne ho indicati alcuni), ma se tre indizi fanno una prova, nel libro ci sono anche alcune prove.


In mancanza di documenti scritti,
su quali elementi
si basa il Suo studio


Altra domanda doverosa. Mi si potrebbe infatti giustamente chiedere: essendo lei uno storico della filosofia antica – peraltro un po’ anomalo, dato che si occupa anche di filosofia morale e di filosofia teoretica –, cosa ne sa di queste civiltà anteriori ad Omero, di cui restano poco più che le pietre? Naturalmente, mi sono a lungo documentato prima di scrivere questo libro, come la bibliografia citata dimostra. Non solo: ho anche importunato, per diverso tempo, archeologi, storici, orientalisti, ecc., nella convinzione che il sapere non sia caratterizzato da compartimenti stagni. In tal senso, devo ringraziare in modo particolare due archeologi assai interdisciplinari, quali la Professoressa Daniela Lefèvre-Novaro, dell’Università di Strasburgo e il Professor Massimo Cultraro, dell’Università di Palermo, che mi hanno fornito molte utili indicazioni ritenendo, alla fine, plausibile la mia interpretazione.

Queste epoche in effetti, su cui non ci sono fonti scritte dirette – la cosiddetta Lineare A, nonché le altre scritture geroglifiche minoiche, non sono ancora state completamente decifrate; inoltre, il totale dei testi minoici di cui disponiamo ammonta a poche pagine di un attuale libro –, devono necessariamente essere indagate in maniera interdisciplinare. Occorre infatti saper mettere insieme i pezzi scoperti dai singoli specialisti, per arrivare a delineare un quadro coerente di una civiltà così meravigliosa come quella minoica. Questa attività però, oggi, la fanno ormai in pochi. I processi selettivi dell’Università obbligano in effetti ad uno specialismo estremo, tanto che se ci si lascia risucchiare dagli stessi si finisce con lo studiare una sola tesserina del mosaico per tutta la vita, senza andare oltre. Eppure, ci vuole sempre qualcuno che tenti di mettere insieme le tessere, se si desidera avere una immagine complessiva del mosaico.


  • In che modo l’indagine sugli albori della riflessione filosofica
    ci aiuta a comprendere il senso di un fine
    che la filosofia contemporanea sta progressivamente smarrendo?

Questa domanda finale è molto bella, perché condensa veramente il significato che attribuisco a tanti anni di libri e di insegnamento. Indagando le culture antiche, ho sempre cercato di far risaltare il valore comunitario della filosofia, che è appunto una ricerca comune della verità dell’intero, svolta in comune per favorire il bene comune. Il fine del fare ricerca, in filosofia, deve sempre essere l’affrontare problemi importanti per trovare soluzioni importanti, dunque anche modelli di riferimento validi. La Creta minoica, in base a quanto argomento nel libro, rappresenta un possibile paradigma di società comunitaria, pianificata in maniera armonica, in cui a nessuno mancava il necessario, la natura era rispettata e ciascuno partecipava liberamente al processo della riproduzione sociale complessiva. Non abbiamo bisogno, oggi, di un modello simile, vivendo in un modo di produzione che, strumentalizzando tutto al fine del profitto, non rispetta né gli uomini né la natura, mettendo in pericolo la stessa sopravvivenza del pianeta e lasciando nella infelicità centinaia di milioni di persone? 

Sono assolutamente consapevole dei limiti della mia ricerca filosofica, che è “roba minima”, come direbbe Enzo Jannacci. Finché, tuttavia, mi sembrerà di essere almeno un poco utile in questa direzione, continuerò a scrivere; quando capirò di non esserlo più, impiegherò la mia vita in maniera diversa, per quanto sempre con lo stesso fine.

****

Luca Grecchi insegna per le cattedre di Filosofia morale e di Storia della filosofia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Leggere i Presocratici (Morcelliana, 2020) e tre volumi della collana Questioni di filosofia antica (Edizioni Unicopli): Natura (2018), Uomo (2019) e Ricchezza (2021). Con l’editore Petite Plaisance ha curato tre importanti volumi collettivi: Sistema e sistematicità in Aristotele; Immanenza e trascendenza in Aristotele; Teoria e prassi in Aristotele (rispettivamente 2016, 2017 e 2018).

Luca Grecchi – Alcuni suoi libri


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – “Dentro-Fuori”– “Inclusione-Esclusione”. Un esempio del modo in cui avviene il controllo e l’espulsione ce lo offre quanto è accaduto al giornalista Manlio Dinucci. «il manifesto» ha espunto un suo articolo sulla guerra in Ucraina e ha eliminato la sua rubrica dal quotidiano.

Salvatore Bravo

«Dentro-Fuori» – «Inclusione-Esclusione»

Un esempio del modo in cui avviene il controllo e l’espulsione ce lo offre quanto è accaduto
al giornalista Manlio Dinucci.
il manifesto ha espunto un suo articolo sulla guerra in Ucraina e ha eliminato la sua rubrica dal quotidiano

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La società binaria del turbocapitalismo ha la sua linea di confine, coloro che sono oltre la linea dell’inclusione sono persi nel silenzio, sono cancellati dall’ordine del discorso. Coloro che sono sospinti oltre, perché non allineati, non hanno il diritto di proferire parola. Hanno peccato contro il sistema capitale, il quale ha divorato ogni differenza ed oggi questa è la nuova religione che chiede ai sudditi di inginocchiarsi e, specialmente, di diventare clero orante che esalta la nuova divinità e a cui tutto si può chiedere. Se si è disposti all’olocausto di sé sull’altare del capitale, si è ripagati in proporzione ai propri meriti. La religione atea ha il suo inferno e il suo paradiso, ma tutti sono egualmente dannati.
In questi giorni di guerra, in cui il vero protagonista è il capitalismo, possiamo verificare la verità dell’inclusione e dell’addomesticamento alla divisione dentro-fuori ottenuto con il green pass. L’inclusione nell’epoca del capitale è utilizzata in ogni istituzione come la sovrastruttura culturale per giustificare, a livello ideologico, la struttura economica. La parola “inclusione” fa parte del lessico che ammicca al gergo della sinistra, ora usato dalle oligarchie e dai sostenitori del capitale per ricoprire ciò che è immondo con il velo di Maya intessuto di belle parole, sullo stile del celeste impero. L’inclusione, se si segue la traccia della parola, è un atto di confinamento all’interno: si “deve stare dentro”. Il celeste impero favorisce lo stare dentro, esige che si faccia pubblica confessione della propria fede nella religione del capitale. Un esempio del modo in cui avviene il controllo e l’espulsione ce lo offre quanto è accaduto al giornalista Manlio Dinucci, che su il manifesto ha pubblicato un articolo in cui affermava che la Russia ha reagito ad un’implicita aggressione. Non solo l’articolo è stato espunto, ma è stata eliminata anche la rubrica personale del giornalista.1 La sua voce può apparire solo se è organica alla versione del ministero della verità. Il giornalista ha detto addio alla sua collaborazione con il giornale “notoriamente di sinistra e di opposizione”. Anche in questo caso il sistema inclusivo pone le condizioni per oltrepassare “liberamente” la linea di confine dell’inclusione nella speranza che si scompaia nell’indeterminato.
La violenza è la sostanza del regime capitale, violenza polimorfa, in quanto utilizza varie modalità per normalizzare il linguaggio e neutralizzare il logos, il quale notoriamente è plurale e dialettico. Si susseguono episodi di espulsione, quindi, al fine di normalizzare l’opinione pubblica, ed indurla a ragionare secondo le categorie dentro-fuori, inclusione-esclusione.


Normalizzazione del pensiero unico

Si giunge a tale depauperamento della democrazia dopo trent’anni di guerra del modo di produzione capitalistico contro ogni forma di opposizione al capitale di tipo politico, filosofico, letterario e spirituale. L’abitudine all’espulsione dei dissidenti, associata all’ipnosi di massa, conduce all’indifferenza verso le sorti di ogni cittadino oggetto di tale dinamica di dominio. Il momento massimo di tale perversa rieducazione dell’essere umano è stato ed è il green pass. Con la tessera verde i cittadini hanno imparato a ragionare secondo confini geografici binari: c’è chi è dentro ed usufruisce di diritti formali, c’è chi è fuori e non usufruisce di nessuno diritto, al punto che vengono tagliate le condizioni per la sopravvivenza. Il dominio ha il diritto di concedere a chi è dentro la momentanea sopravvivenza, a chi è fuori la morte. Coloro che sono dentro sentono il sibilare della spada di Damocle dell’espulsione, per cui la parola “inclusione” appare minacciosa, in quanto indica la possibile espulsione, se non si acconsente “liberamente” all’ordine del discorso. Il sistema include a punti, l’obbedienza è premiata con l’inclusione meritocratica, in quanto i più ligi alla virtù dell’obbedienza possono avere in cambio carriera e successo, coloro che tiepidamente dicono il loro “sì” fatale hanno la sopravvivenza assicurata. Tutto è precario, pertanto l’obbediente di oggi può essere espulso dal ministero della verità in qualsiasi momento.
Obbedire è diventata la virtù del sistema capitale, ma pur in questa condizione di successo assoluto, il modo di produzione capitalistico mostra le due fessurazioni e la sua interna corruzione storica e strutturale. Se il sistema necessita di atei devoti dogmaticamente obbedienti ciò è dovuto, si può ipotizzare, al fatto che è eroso da innumerevoli contraddizioni sociali e produttive. Il sistema è sempre sul punto di perdere consenso, propone modelli sociali impossibili, spinge all’atomismo competitivo impoverendo una larga parte della classe media. Il processo di animalizzazione dell’essere umano, l’homo novus che deve consumare la sua biografia tra consumi e desideri illimitati, non si concretizza in senso assoluto. Nicchie di resistenza si diffondono, mentre le nuove generazioni sono affette da depressioni diffuse, anche in età infantile. Il capitale vorrebbe curare i sintomi di questa generazione alienata e sofferente senza intaccare il sistema, vive di miti e di onnipotenza, non vede che se stesso, come affermava Costanzo Preve, per cui è incapace di autocorreggersi.
Abbiamo tutti, in questo momento di crisi, l’occasione di capire e di uscire dal torpore e dal fatalismo quotidiano. La prima disobbedienza con la quale dobbiamo riconquistare la dignità che ci è stata sottratta è nel mettere in epochè la versione ufficiale per verificare versioni, immagini e parole: aude sapere, kantianamente dobbiamo riprenderci il coraggio di pensare dialetticamente per riaprire il campo di possibilità della storia e trascendere il filo spinato del confine. Bisogna ricominciare dalla ragione critica per imparare la disobbedienza interiore la quale deve trasformarsi in uso pubblico della ragione nei luoghi di lavoro e nelle nostre comunità degli affetti. La forza della ragione critica e pubblica non è nell’apparire nei media, ma è specialmente nella prassi quotidiana:

 

«Un’ultima osservazione. La società contemporanea è basata sulla diversificazione simbolica dell’offerta religiosa. Gli adolescenti isolati di fronte allo schermo luminoso del loro computer sono la base sociale odierna del rapporto individuale con l’assoluto, e quindi anche con Dio. Non si tratta più del vecchio libero esame di Lutero, ma del nuovo isolamento informatico. Le adunate urlanti dei papa-boysnon sono lo strumento per la rottura di questo isolamento. Come disse a suo tempo Heidegger, il collettivismo è solo l’individualismo posto al livello della totalità. È necessaria una vera e propria rifondazione della ragione, che parta dall’individuo e dalla sua interiorità e poi risalga al livello della società, tenendo conto però che finché la società non diventa comunità tutto è destinato a ricadere in basso al punto di prima».2

 

Alla tetragona realtà del capitale, si deve opporre la disobbedienza della ragione etica, la quale non cerca il proprio interesse privato, ma la vitalità comunitaria senza la quale ogni esistenza è solo un atomo oggetto della forza di gravità del modo di produzione capitalistico.

Salvatore Bravo

 

L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo
indicepresentazioneautoresintesi


Note


1 “L’8 marzo – dopo averlo per breve tempo pubblicato online – il Manifesto ha fatto sparire nottetempo l’articolo di cui sotto anche dall’edizione cartacea, poiché mi ero rifiutato di uniformarmi alla direttiva del Ministero della Verità e avevo chiesto di aprire un dibattito sulla crisi ucraina. Termina così la mia lunga collaborazione con questo giornale, su cui per oltre dieci anni ho pubblicato la rubrica L’Arte della guerra” (Manlio Dinucci)


Qui a seguire l’articolo censurato.

Ucraina, era tutto scritto nel piano della Rand Corp, di Manlio Dinucci

Il piano strategico degli Stati uniti contro la Russia è stato elaborato tre anni fa dalla Rand Corporation (il manifesto, Rand Corp: come abbattere la Russia, 21 maggio 2019). La Rand Corporation, il cui quartier generale ha sede a Washington, è «una organizzazione globale di ricerca che sviluppa soluzioni per le sfide politiche»: ha un esercito di 1.800 ricercatori e altri specialisti reclutati da 50 paesi, che parlano 75 lingue, distribuiti in uffici e altre sedi in Nord America, Europa, Australia e Golfo Persico. Personale statunitense della Rand vive e lavora in oltre 25 paesi.
La Rand Corporation, che si autodefinisce «organizzazione non-profit e non-partisan», è ufficialmente finanziata dal Pentagono, dall’Esercito e l’Aeronautica Usa, dalle Agenzie di sicurezza nazionale (Cia e altre), da agenzie di altri paesi e potenti organizzazioni non-governative.
La Rand Corp. si vanta di aver contribuito a elaborare la strategia che permise agli Stati uniti di uscire vincitori dalla guerra fredda, costringendo l’Unione Sovietica a consumare le proprie risorse nell’estenuante confronto militare. A questo modello si è ispirato il nuovo piano elaborato nel 2019: «Over-extending and Un-balancing Russia», ossia costringere l’avversario a estendersi eccessivamente per sbilanciarlo e abbatterlo.
Anzitutto – stabilisce il piano – si deve attaccare la Russia sul lato più vulnerabile, quello della sua economia fortemente dipendente dall’export di gas e petrolio: a tale scopo vanno usate le sanzioni commerciali e finanziarie e, allo stesso tempo, si deve far sì che l’Europa diminuisca l’importazione di gas naturale russo, sostituendolo con gas naturale liquefatto statunitense.
In campo ideologico e informativo, occorre incoraggiare le proteste interne e allo stesso tempo minare l’immagine della Russia all’esterno.
In campo militare si deve operare perché i paesi europei della Nato accrescano le proprie forze in funzione anti-Russia. Gli Usa possono avere alte probabilità di successo e alti benefici, con rischi moderati, investendo maggiormente in bombardieri strategici e missili da attacco a lungo raggio diretti contro la Russia. Schierare in Europa nuovi missili nucleari a raggio intermedio puntati sulla Russia assicura loro alte probabilità di successo, ma comporta anche alti rischi.
Calibrando ogni opzione per ottenere l’effetto desiderato – conclude la Rand – la Russia finirà col pagare il prezzo più alto nel confronto con gli Usa, ma questi e i loro alleati dovranno investire grosse risorse sottraendole ad altri scopi.
Nel quadro di tale strategia – prevedeva nel 2019 il piano della Rand Corporation – «fornire aiuti letali all’Ucraina sfrutterebbe il maggiore punto di vulnerabilità esterna della Russia, ma qualsiasi aumento delle armi e della consulenza militare fornite dagli Usa all’Ucraina dovrebbe essere attentamente calibrato per aumentare i costi per la Russia senza provocare un conflitto molto più ampio in cui la Russia, a causa della vicinanza, avrebbe vantaggi significativi».
È proprio qui – in quello che la Rand Corporation definiva «il maggiore punto di vulnerabilità esterna della Russia», sfruttabile armando l’Ucraina in modo «calibrato per aumentare i costi per la Russia senza provocare un conflitto molto più ampio» – che è avvenuta la rottura. Stretta nella morsa politica, economica e militare che Usa e Nato serravano sempre più, ignorando i ripetuti avvertimenti e le proposte di trattativa da parte di Mosca, la Russia ha reagito con l’operazione militare che ha distrutto in Ucraina oltre 2.000 strutture militari realizzate e controllate in realtà non dai governanti di Kiev ma dai comandi Usa-Nato.
L’articolo che tre anni fa riportava il piano della Rand Corporation terminava con queste parole: «Le opzioni previste dal piano sono in realtà solo varianti della stessa strategia di guerra, il cui prezzo in termini di sacrifici e rischi viene pagato da tutti noi». Lo stiamo pagando ora noi popoli europei, e lo pagheremo sempre più caro, se continueremo ad essere pedine sacrificabili nella strategia Usa.

 

2 Costanzo Preve, Considerazioni introduttive sugli attuali dibattiti fra laicismo, scienza, filosofia e religione, Petite Plaisance Pistoia, pag. 22

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Benedetta Grecchi – Cara Nonnina, ormai sono due anni che ci hai lasciato.  Mi sarebbe piaciuto vederti felice per tutta la vita, sempre col tuo sorriso che niente e nessuno è mai riuscito a toglierti. Un posticino speciale accanto a me, per te, ci sarà sempre. Ti voglio bene.

Cara nonnina,

ormai sono due anni che ci hai lasciato.

Mi sarebbe piaciuto vederti felice per tutta la vita, sempre col tuo sorriso che niente e nessuno è mai riuscito a toglierti. Mi hai insegnato tante cose in questi anni, soprattutto che non bisogna arrendersi di fronte alle difficoltà, ma saperle affrontare, come hai fatto tu. Sarà difficile vivere la mia vita senza di te, ma sappi che faccio tutto anche per renderti orgogliosa di me.

Mi hai aiutato in qualsiasi momento, mi hai fatto crescere e mi hai resa più felice e più sensibile. Di te ho tantissimi ricordi, incancellabili. Eri una persona speciale con un cuore d’oro. Non troverò mai una persona con il tuo stesso carattere, perché sei unica. Un posticino speciale accanto a me, per te, ci sarà sempre. Grazie per tutto quello che continui a fare per me.

Ti voglio bene.

Benedetta Grecchi

16 marzo 2022


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