Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.

Günter Anders 06

«E, con stupore, un mattino scoprirà di essere davvero complive dell’infame, di passare per suo amico e di non poter più tornare indietro; in questo modo anche lui si rende odioso e sarà giustamente odiato».

L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche «l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro».

G. Anders

Günter Anders, L’odio è antiquato, Bollati Boringhieri, Rorino 2006.

In questo saggio Günter Anders prosegue nella sua riflessione sull’obsolescenza delle emozioni e dei sentimenti, inutili fardelli in un mondo dominato dallo strapotere delle macchine. La tecnica ha reso l’uomo antiquato, obbligandolo nello stretto binario della coppia produzione-consumo, e antiquata è divenuta anche la sua attitudine immaginativa, ormai incapace di cogliere gli smisurati effetti di gesti che rischiano di avere nel paradosso atomico, nell’evento ultimo la loro epifania.

Lello Demichelis

La tecnica trionfa, l’odio è superfluo

Odiarsi. Nemici veri e soprattutto immaginari o artificiali vengono incessantemente venduti nel grande supermercato dell’odio, dove si possono acquistare con facilità nemici di ogni genere. L’Occidente, nemico per un certo mondo islamico; l’Islam, nemico per un certo Occidente che evoca scontri di civiltà (ovvero, induce a sua volta all’odio). Oggi l’Islam, ieri il comunismo; ma anche i tifosi della squadra avversaria, i nemici politici, il vicino di casa. L’odio come regola sociale? Tutti contro tutti?
Odio, dunque sono – principio che sembra più vero di quello cartesiano. Odio, dunque «io sono io»; di più: «dunque, io sono qualcuno». Se non odiassi, sarei nessuno: solo odiando l’altro, il nemico, il diverso, lo straniero, l’immigrato posso affermare la mia identità.
Devo dunque costruirmi – o lasciare che qualcuno produca per me – un nemico contro cui scaricare il mio odio, solo uccidendolo (fisicamente o simbolicamente) posso credere di esistere. Perché l’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche «l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro»: lo scriveva il filosofo Günther Anders (1902-1992, allievo di Heidegger e di Husserl, pensatore e disincantato, dallo stile graffiante e coinvolgente) in questo testo del 1985 – L’odio è antiquato – ora splendidamente tradotto e curato da Sergio Fabian per Bollati Boringhieri nella nuova collana «incipit», piccoli ma splendidi libri da leggere e da meditare.
Per odiare davvero, l’odio non deve essere effimero e veloce, ma deve durare e crescere nel tempo.
«Modello del torturatore è il gioco del gatto con il topo, giacché in esso egli non solo gode del topo come cibo, ma in più trae ulteriore piacere dal suo braccare il topo che, essendo bramosia, è per metà amore e per metà odio e, differendolo, amplifica il desiderio»: già, perché nell’odiare c’è anche, o soprattutto, il piacere di odiare, di giocare con l’altro, più si odia più si produce piacere in chi odia. E gli individui, «tanto meno amano o tanto più odiano amare, tanto più essi amano odiare» – e non è un gioco di parole. Questo odio nei confronti dei nemici non nasce «per autocombustione» – scriveva Anders in una sorta di dialogo surreale e paranoico insieme tra il «filosofo Pirrone» e il «Presidente Traufe» – ma perché qualcuno o qualcosa rifornisce le persone dell’odio di volta in volta necessario a concentrare l’attenzione su qualcosa (o a distogliere l’attenzione da qualcosa d’altro).
«Rifornire» di odio, appunto: come il gas o l’acqua o la televisione, casa per casa. Dove poi ciascuno consuma la sua dose di odio, facendo crescere incessantemente la domanda di nuovo odio. Nemici reali o «nemici succedanei». E parole-chiave e immagini-chiave per emozionare, per creare un legame tra il prodotto-odio e il consumatore-di-odio, come in una normale azione dimanipolazione pubblicitaria (o ideologica).
Ma questo era vero ieri. Oggi – e Anders riprende i temi della sua «filosofia della tecnica» sviluppata nei due volumi de L’uomo è antiquato (sempre Bollati Boringhieri), con gli uomini divenuti servitori delle macchine, incapaci ormai di controllarle e dominarle, essendone invece dominati e controllati – oggi anche la guerra è un «lavoro» e «gli eserciti sono formati da lavoratori e da impiegati», che per mezzo di strumenti tecnici fanno il lavoro della guerra, un lavoro alienato come il lavoro di produzione, senza più il «senso» di ciò che si fa, indifferenti a ciò che si fa, «il loro agire è nichilismo in azione». Non si vedono i nemici, se non sullo schermo di qualche arma supertecnologica, quasi fosse un videogioco – dunque la «distanza» tra realtà e rappresentazione.
E forse neanche più «lavoro», ma «semplice attivazione, senza sforzi, di processi che sono espletati da strumenti e che poi, senza che gli operatori siano minimamente coinvolti, sfociano in effetti», lontani ma comunque annichilenti. I campi di battaglia sono divenuti «antiquati».
In questo trionfo della tecnica, anche l’odio diventa superfluo, antiquato. Nessun computer «è capace di odiare». Perché, a differenza degli uomini – che dopo essersi odiati magari tornano ad amarsi – non può smettere di combattere, perché in lui non c’è odio, «per non parlare di amore».
Questo significa che l’odio è scomparso?
No, e Anders ne era consapevole. Ci sarà infatti sempre qualcuno pronto a produrre e a vendere odio; e molti, troppi pronti a comprarlo.
Ma questo odio sembra ormai un accessorio, un sovrappiù, in un mondo sempre più tecnico.

Lello Demichelis, La tecnica trinofa, l’odio è superfluo, in La Stampa, «tuttolibri», 19-08-2006, p. 6.


 

Alessio Cernicchiaro

Günther Anders. La Cassandra della filosofia.

Dall’uomo senza mondo al mondo senza uomo

ISBN 978-88-7588-132-0, 2014, pp. 400, Euro 25

indicepresentazioneautoresintesi

Günter Anders.
Filosofo e scrittore tedesco.
Figlio dello psicologo di chiara fama Wilhelm Stern, ricevette una solida formazione umanistica.
Assimilato come ebreo tedesco, studiò sotto Martin Heidegger e Edmund Husserl, completando con quest’ultimo la sua tesi in filosofia nel 1923.
Nel 1929 cercò di ottenere l’abilitazione alla docenza presso l’Università di Francoforte sul Meno, ma non ebbe successo, anche per via delle pressioni esercitate sul suo relatore da parte di Adorno.
Questi non aveva gradito le tesi di Anders sulle cosiddette “situazioni musicali”.
Lo pseudonimo Anders fu inventato su invito del suo editore di Berlino, il quale gli suggerì di cambiare il suo cognome (Stern) in quanto troppo comune tra gli scrittori in Germania. L’idea fu dunque di tentare “qualcosa di diverso” (etwas Anders in tedesco).
Anders volle prendere alla lettera quella proposta, e scelse di chiamarsi “diverso”.
Sposò nel 1929 Hannah Arendt, grande filosofa dalla quale avrebbe divorziato nel 1937 (a causa del di lui pessimismo, a dire della Arendt “difficile da sopportare”).
L’avvento del nazionalsocialismo in Germania, nei primi anni Trenta, lo costrinse all’esilio. In principio scelse Parigi, poi fu a New York e a Los Angeles, dove si sarebbe dedicato a molti, umili lavori manuali per mantenersi.
La profondissima crisi in Europa la osservò quindi da lontano, e assistette sgomento alla catastrofe della Seconda guerra mondiale, così come alla militarizzazione che fu retaggio della successiva guerra fredda.
Scrisse il suo primo libro di riflessioni filosofiche, Die Schrift an der Wand: Tagebücher 1941-1966 (Scritti sul muro: Diari 1941-1966), e iniziò la sua riflessione svolgendo nel contempo un lavoro come operaio in un magazzino di costumi storici a Hollywood.
Rientrò in Europa nel 1950 e si stabilì a Vienna. Cominciò a lavorare su Die Antiquiertheit des Menschen (L’uomo è antiquato, 1956), nel quale dispiegava una potente riflessione sull’inadeguatezza dei sentimenti umani nell’epoca della tecnica e delle macchine, muovendo nel frattempo un’accusa filosofica contro Heidegger, i cui principi arrivò a definire di “cecità verso l’Apocalisse”.
Coniò il termine Diskrepanzphilosophie (filosofia della discrepanza), per descrivere la crescente divergenza tra ciò che è diventato tecnicamente possibile (ad esempio, la distruzione atomica di tutto il mondo), e ciò che la mente umana è in grado di immaginare.
Indefesso oppositore del potere e particolarmente attivo nel denunciare il riarmo atomico, Anders è oggi riconosciuto come un saggista importante del movimento anti-nucleare e uno fra i maggiori filosofi contemporanei.
È stato uno dei pensatori che – con maggior rigore – hanno ripensato la condizione dell’umanità nell’epoca degli armamenti di distruzione di massa. 

Assieme a Robert Jungk, Anders fu il cofondatore del movimento antinucleare nel 1954. Pubblicò il diario filosofico di una conferenza internazionale su Hiroshima (Der Mann auf der Brücke, 1959) e la sua corrispondenza epistolare con il pilota Claude Eatherly che guidò la spedizione per lo sganciamento della bomba su Hiroshima (Off limits für das Gewissen. Der Briefwechsel zwischen dem Hiroshima-Piloten Claude Eatherly und Günther Anders, 1961).
Fra i  suoi libri ci sono anche una lettera aperta al figlio di Eichmann e un discorso sulle vittime delle guerre mondiali.
Nel 1967 prese parte come giurato al tribunale Russell per rendere pubbliche le atrocità commesse in Vietnam dall’esercito americano. Dal 1945 al 1955 fu sposato con la scrittrice austriaca Elisabetta Freundlich.
Nel 1957 si sposò con la pianista ebreo-americana Charlotte Lois Zelka. 

Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta
Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.
Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Maurizio Lazzarato- Il capitalismo odia tutti. Fascimo o rivoluzione.

Maurizio Lazzarato 01
TIl capitalismo odia tutti. Traduzione letterale del titolo originale Le capital déteste tout le monde – incapace purtroppo di cogliere la parafrasi evocata dal popolare slogan delle manifestazioni francesi – Tout le monde déteste la police (Tutti odiano la polizia).

Qual è la lezione politica del ciclo di lotte apertosi nel 2011 in molti paesi tra i quali l’Egitto, Spagna, Stati Uniti, Brasile e che oggi si prolunga nel movimento dei «gilets jaunes» in Francia? Quali sono le cause che hanno determinato la sconfitta della «rivoluzione mondiale» negli anni Sessanta e Settanta e in particolare dei nuovi soggetti sociali irriducibili alla classe operaia (il movimento femminista e i movimenti dei popoli colonizzati)? Come interpretare il successo delle irruzioni dell’estrema destra a livello mondiale dopo la crisi finanziaria del 2008? Dalla vittoria elettorale di Bolsonaro in Brasile ciò che abbiamo di fronte non è più solo «populismo» o un «liberismo autoritario», ma un nuovo tipo di fascismo che ci ricorda gli albori delle politiche neoliberali. Per Maurizio Lazzarato le nuove tipologie di fascismo mettono in evidenza i limiti delle definizioni di «potere» elaborate dal pensiero politico-filosofico post ’68, che non ha considerato la valenza strategica della funzione della guerra e della guerra civile nel suo funzionamento. Ed è proprio questa gravissima omissione a impedire la possibilità di reinventare un immaginario e una strategia rivoluzionaria all’altezza del tempo che stiamo vivendo.

Volentieri condividiamo la recensione di Giorgio Griziotti
del libro di Maurizio Lazzarato recentemente uscito in italiano per DeriveApprodi:
“Il capitalismo odia tutti. Fascismo o rivoluzione”
, 2019. 

Giorgio Griziotti, Le Tigri di carta del capitalismo e le raffiche di vento delle rivolte

 

Questa recensione è naturalmente il frutto della lettura del libro ma anche di una serie di incontri con l’autore, che ringrazio, e che mi hanno permesso di discutere e approfondire alcuni dei principali temi trattati ed i loro significativi sviluppi in corso.

Parigi, 1/11/2019

Sergio Maifredi – Alla ricerca della saggezza perduta. Platone, ovvero la bellezza del sapere.

Sergio Maifredi-Ermanno Bencivenga 01

Come illuminare il nostro sguardo e la nostra mente di quella conoscenza che saprà riscattarci dalla confusione e dall’errore? Come liberarci dalle catene della dipendenza, dell’egoismo, della malvagità e aprirci a un comportamento sereno e giusto, compassionevole e rispettoso di noi stessi e di ogni altra creatura?

Che cosa rende il nostro tempo degno di essere vissuto? Il denaro, il successo, il potere? Sono tutte cose che lasciano il tempo che trovano, e non colmano la nostra insoddisfazione. Ciò per cui ha senso vivere è una conoscenza, un sapere che non possono, quando ci siano noti, non imporsi per noi come irrinunciabili e indispensabili. Viviamo quotidianamente un’esistenza dimentica di sé stessa, in mezzo a ombre che non fanno giustizia al nostro destino; ma se qualcuno sapesse dirigere il nostro sguardo verso verità e giustizia non potremmo non esserne sedotti; non potremmo non voler essere partecipi di una forma di vita che ne sia guidata; non potremmo non volerci adoperare per realizzarla. Come un corpo amato ci attira con la sua bellezza, che non è geometria di forme ma rispondenza di intenti, di progetti e di valori, così la bellezza di questa visione saprà attrarci a una condizione che rispecchi finalmente il nostro essere.

Sergio Manfredi

Sergio Maifredi
Nel 1989 si diploma all’Accademia dei Filodrammatici di Milano e nel 1991 si laurea in Lettere Moderne con una tesi su Aristodemo di Carlo de’ Dottori all’Università di Genova. È direttore artistico del Teatro Pubblico Ligure, direttore artistico del Teatro Placido Mandanici  di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) e direttore artistico del Festival Grock dedicato al più grande clown del ‘900: Charles Adrien Wettach, in arte Grock. È stato dal 2010 al 2016 direttore organizzativo del Teatro Vittoria di Roma, e dal 2010 fino al 2014 consigliere di amministrazione della Fondazione Carlo Felice di Genova. Dal 2005 è regista residente al Teatr Nowy di Poznań in Polonia. È stato membro della Commissione Nazionale Unesco fino al 2014. Dal 1997 al 2007 è stato vicedirettore del Teatro della Tosse e dal 2009 al 2013 direttore artistico del Teatro Curci di Barletta

Ermanno Bencivenga

Ermanno Bencivenga
è professore ordinario di scienze umane e filosofia all’Università di California, Irvine. Ha anche insegnato in numerose università italiane, fra cui Milano, Padova, Trento e Siena. È autore di oltre cinquanta libri in tre lingue: saggi e trattati ma anche dialoghi filosofici, raccolte di poesie e di racconti, opere teatrali e un romanzo. Per il pubblico italiano ha scritto, fra l’altro, Filosofia in gioco (Laterza 2013), Il bene e il bello (Il Saggiatore 2015), Prendiamola con filosofia (Giunti 2017), La scomparsa del pensiero (Feltrinelli 2017) e La filosofia in ottantadue favole (Mondadori 2017). Ha fondato e diretto per trent’anni (fino al 2011) la rivista internazionale di filosofia Topoi. Collabora al quotidiano Il Sole-24 Ore.

E’ stata inaugurata nella sede di Malibu del Getty Museum la mostra ‘Plato in L.A.: Contemporary Artist’ Visions’. Si tratta di Platone a Los Angeles, la interpretazione di artisti contemporanei.
Platone, una delle opere esposte in ‘Plato in L.A.: Contemporary Artist’ Visions’.

Hans Magnus Enzensberger – Colloqui con Marx e Engels. Testimonianze sulla vita di Marx e Engels.

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Friedrich Engels e Karl Marx con Laura, Eleanor e Jenny Marx.

Un libro in cui «sono state accolte – scrive Enzensberger – testimonianze dei tipi più diversi, tutte quelle in cui incontri personali con Marx ed Engels hanno lasciato una traccia scritta: lettere, memorie, autobiografie, polemiche, resoconti giornalistici, interviste, rapporti e interrogatori di polizia, atti processuali».

***

Chi si limitasse a leggere solamente i grandi testi teorici di Marx ed Engels non riuscirebbe certo a cogliere tutto lo spessore umano e intellettuale dei due filosofi tedeschi. Nell’edizione completa delle loro opere, in circa cinquanta volumi, questo dato invece emerge con chiarezza, ma evidentemente resta confinato ai soli pochi specialisti del loro pensiero. In questo libro, l’intellettuale tedesco Enzensberger colma proprio questa lacuna. Rintraccia nell’infinito mare magnum delle lettere, delle memorie, degli interrogatori e dei rapporti di polizia e delle polemiche marx-engelsiane il filo rosso più importante della loro formazione umana, politica e letteraria. Con un montaggio avvincente, la vita dei due grandi teorici del socialismo viene ripercorsa passo passo, dalla culla alla tomba. E dalla loro viva voce, e da coloro che li hanno frequentati e conosciuti da vicino, ecco emergere il dibattito interno sulla genesi delle loro opere, le discussioni organizzative sulla formazione della i Internazionale, le loro recensioni letterarie e passioni teatrali, le loro vicende matrimoniali e quelle delle figlie di Marx. Prefazioni di Peter Kammer e Enrico Donaggio.

DJamila Ribeiro – Per sradicare il razzismo bisogna avere il coraggio di voler rovesciare tutto il sistema capitalista.

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L’idea che l’arrivare o il possedere gli stessi diritti nei confronti dei beni d’acquisto delle classi bianche e privilegiate sia una liberazione dalla povertà è un abbaglio.
Significa inoltre sentirsi parte di un sistema che è nato e continua a basarsi sulle discriminazioni di classe e di genere e non avere la volontà di trasformarlo.
Per sradicare il razzismo bisogna allora avere il coraggio di voler rovesciare tutto il sistema capitalista».

 

Djamila Ribeiro, intervista a il manifesto, 26 novembre 2019.

Roberto Signorini – Arte del fotografico. I confini della fotografia e la riflessione teorica degli ultimi venti anni.

Arte del fotografico in

Roberto Signorini

Arte del fotografico.
I confini della fotografia e la riflessione teorica degli ultimi venti anni
.

ISBN 88-87296-85-5, 2001, pp. 256, formato 170×240 mm., Euro 20,00 – Collana “Fotografia”. In copertina: Emilio De Tullio, Il corpo, il segno, 1997. L’immagine è stata realizzata fotografando l’impronta prodotta da un corpo su un tessuto elastico, teso e illuminato in modo radente.

indicepresentazioneautoresintesi


 

Arte del fotografico

Arte del fotografico


 

La fotografia appare ormai una componente essenziale del sistema delle arti visive. Se a ciò non sono estranei i meccanismi di un mercato sempre più pervasivo, è però anche ad altre dinamiche che bisogna guardare. Fra queste, un crescente interesse culturale non solo per la tecnica e la storia della fotografia, ma soprattutto per il suo presentarsi come oggetto di riflessione teorica e, proprio in quanto tale, come forma di arte contemporanea, in un’epoca che è carica di interrogativi al di sotto del rumore mediatico. Fin dalle sue origini, in realtà, la fotografia solleva questioni filosofiche ed estetiche centrali nella cultura occidentale moderna, in particolare nei momenti di crisi più acuta di questa cultura. Così è stato all’inizio del Novecento, con le avanguardie artistiche. E così avviene in questi ultimi vent’anni, dopo le neoavanguardie e parallelamente al dispiegarsi della lunga crisi di passaggio dalla modernità alla post- o tarda modernità, con l’intensificarsi del dibattito teorico sulla fotografia intorno a due “storiche” questioni: quale rapporto ha con la realtà l’immagine fotografica? Qual è il contributo specifico della fotografia all’insieme delle arti visive? Alcuni dei testi chiave di questo dibattito, prodotti da autori come Rosalind Krauss, Henri Van Lier, Philippe Dubois, Jean-Marie Schaeffer, Jean-Claude Lemagny, in Italia cominciano appena a circolare oppure devono essere ancora tradotti, e comunque attendono una ricostruzione del contesto in cui s’inquadrano e dei rapporti che li legano a quelli di teorici italiani come Vaccari, Marra, Eco. E soprattutto restano da definire e approfondire i problemi filosofici a cui tutto il dibattito allude. A tale ricostruzione vuole contribuire Arte del fotografico, con una sintesi che si sviluppa in quattro momenti:

1. Il fotografico nell’arte contemporanea. Fotografia e critica d’arte. Il fotografico come “logica” profonda della fotografia condivisa (in modo implicito o esplicito) dalle altre arti visive del XX secolo.

2. Ai confini del segno: l’atto fotografico. Fotografia e se­miotica. La logica del fotografico alla luce dell’indice di Peirce; dalla nozione, ambigua e precaria, di “segno fotografico” a quella di “atto fotografico”, dalla fotografia come messaggio alla fotografia come esperienza di produzione e (soprattutto) di ricezione.

3. Ai confini dell’opera: un’arte precaria. Fotografia ed estetica. La fotografia come arte contemporanea, cioè come esperienza este­tica e riflessione dell’arte su se stessa, come “arte precaria” o arte del fotografico.

4. A partire dal fotografico: problemi e prospettive. Fotografia e filosofia. I rapporti, impliciti nel fotografico, tra rappresentazione e realtà, significazione e percezione, moderno e tardomoderno, avanguardia e arte contemporanea, e il loro rinvio alle questioni filosofiche della verità e del soggetto, sullo sfondo del “nichilismo della modernità”.

Il libro comprende numerose citazioni degli autori studiati, due “intermezzi” semiotico-filosofici e un ricco apparato bibliografico e di note, permettendo così di cogliere tutti i riferimenti esterni e interni del dibattito.


Introduzione

I.

La fotografia sembra oggi definitivamente consolidata come parte essenziale del sistema delle arti visive. Se a ciò non sono estranei i meccanismi di un mercato sempre più pervasivo, è però anche ad altre dinamiche che bisogna guardare. Fra queste, un crescente interesse culturale non solo per la tecnica e la storia della fotografia, ma soprattutto per il suo porsi come oggetto di riflessione teorica e, proprio in quanto tale, come forma di arte contemporanea1, in un’epoca carica di interrogativi al di sotto del rumore mediatico.

In questo approccio è centrale la nozione di “fotografico”, termine con cui s’intende una logica di funzionamento dell’immagine e una sua relazione con la realtà, con l’autore e con i fruitori, tipica della fotografia ma comune anche a molte altre espressioni dell’arte contemporanea. Del “fotografico”, dunque, oggi si parla diffusamente per alludere a un vasto e unitario (per quanto sfaccettato) ambito d’esperienza che forse non è fuori luogo chiamare arte del fotografico, in cui i confini tradizionali tra fotografia e arte sembrano venire meno2, o piuttosto costituire essi stessi un nuovo campo di attività e di teoria. Al progressivo configurarsi di questo ambito si è arrivati sia attraverso le pratiche artistiche sviluppatesi a partire dagli anni Sessanta, sia attraverso la riflessione teorica sulla fotografia che le ha accompagnate e seguite, con un massimo di intensità e ricchezza negli ultimi vent’anni, cioè dalla seconda metà del decennio Settanta. Non a caso, è in questo ventennio che sono state pubblicate quasi tutte le raccolte di testi di riflessione sulla fotografia oggi disponibili3: segno chiaro di un bisogno di ripensamento e sistemazione teorica avvertito dopo la fase più tumultuosa di quelle vicende artistiche. E non è un caso neppure il fatto che in Italia si concentrino negli stessi anni le non numerose traduzioni di testi stranieri sulla fotografia4.

A questo periodo, appunto, appartiene il dibattito teorico di cui qui ci occuperemo. Esso potrebbe anche apparire un tema limitato e d’interesse puramente specialistico, se non si collocasse al centro di quel processo cruciale di definizione di un’arte del fotografico cui si è appena accennato, ricco – come vedremo – di implicazioni critiche, estetiche e filosofiche. È vero piuttosto – e purtroppo – che tale dibattito è da noi ancora poco e solo frammentariamente noto: degli studiosi che ne sono protagonisti, soltanto Rosalind Krauss e Philippe Dubois sono stati recentemente tradotti5; gli altri, Henri Van Lier, Jean-Marie Schaeffer, Jean-Claude Lemagny6, restano ancora inediti in italiano, e inoltre manca uno studio d’insieme sul loro contributo alla teoria della fotografia, sui rapporti che li legano ad altri teorici già noti, sui loro presupposti culturali.

Un tale studio è appunto ciò che tento in questo libro, anche nella (debole) speranza che, grazie a una migliore conoscenza degli autori, altri loro testi trovino editori disposti a renderli accessibili in traduzione italiana.

II.

Ma questo dibattito teorico, a sua volta, non ha alle spalle il vuoto, bensì la vicenda ormai lunga di quella che Wolfgang Kemp chiama la “teoria della fotografia”7 e Alan Trachtenberg la “storia intellettuale del medium”8: una storia che solo attraverso un percorso accidentato e segnato da svolte radicali arriva a prendere coscienza di sé alla fine degli anni Settanta, cioè proprio all’aprirsi del periodo cruciale a cui appartiene il dibattito documentato in questo libro.

Una storia così complessa non può certo essere riassunta qui: basti pensare che l’opera di Kemp ad essa dedicata è giunta al quarto volume9, e che in Italia – dove manca per ora un lavoro di tale mole – alle posizioni teoriche degli anni Sessanta – Claudio Marra ha dedicato un intero testo saggistico-antologico10. Non posso quindi se non richiamare velocemente alcune tappe fondamentali, rinviando i lettori più volonterosi alle ricostruzioni di queste e delle altre raccolte di testi teorici sulla fotografia già citate in nota11.

La fotografia è fin dalle origini oggetto di vivaci discussioni. Esse nascono dalla incertezza del suo statuto teorico (ontologico ed estetico) e, semplificando all’estremo, si possono ricondurre a due domande fondamentali:

– Qual è la “natura”, l’identità, della fotografia, e quale il suo rapporto con la realtà (il suo statuto di medium, diremmo oggi)?

– Quali rapporti essa ha con le altre forme di espressione visiva? È arte anch’essa? E in che consiste la sua artisticità?

Fra le due domande vi è, storicamente, uno stretto legame12: infatti fin dall’inizio la riflessione sulla natura di riproduzione automatica della fotografia porta con sé quella sui suoi rapporti con la concezione tradizionale dell’opera d’arte come creazione soggettiva. La fotografia si rivela quindi un “oggetto teorico”13 – anzi, vedremo, un “oggetto filosofico”14 – altamente problematico, nel quale s’intrecciano questioni centrali della cultura occidentale moderna.

La riflessione ottocentesca sull’ontologia e l’estetica della fotografia si sviluppa gradualmente, emergendo dalla vastissima produzione di manuali pratici che accompagnano il continuo evolversi della tecnica. Di un primo approccio all’ontologia della fotografia sono rappresentativi già nei titoli libri come The Pencil of Nature (La matita della Natura) William Henry Talbot (1844-4615) o saggi come “Sun Painting and Sun Sculpture” (Dipinti e sculture del sole) e “Doings of the Sunbeam” (Creazioni del raggio di sole) di Oliver Wendell Holmes (1861-6316). Ma non è in questa direzione ontologica che si sviluppa il dibattito, bensì in una direzione estetica: se in un primo momento si  parla di art of photography Henry Hunt Snelling, 184917 Francis Frith, 185918), Kunst der Photographie D. G. C. Hermann Halleur, 185319), art de la photographie (Eugène Disdéri, 186220), nel senso di una fotografia comme art et comme industrie (Mayer et Pierson, 186221), e se Baudelaire (1859) vuole una “industria fotografica” che sia “la serva delle scienze e delle arti, ma la serva umilissima”22 , ben presto invece, a partire dalla fine degli anni Sessanta, si affermano i concetti di pictorial effect in photography e di picture-making by photography (Henry Peach Robinson, 186923, 188424), di fotografia come pictorial art (Peter Henry Emerson, 188625) e di pictorial photography (Robinson, 189626), nel senso di una fotografia identificata non più come “industria” bensì come creazione di pictures, di immagini-quadro dotate della stessa autonoma dignità di quelle della tradizione pittorica, aprendo così la strada al movimento poi noto come pittorialismo. Ed ecco allora che all’automatismo impersonale del Sun painting teorizzato da Holmes subentra l’intervento creativo e soggettivo del Sun artist di Robinson (1890) e di . Arthur; W. Arthur Boord (1891)27, e si diffonde la nozione di art photography (Cornelius Jabez Hughes, 186128), artistic photography (Bigelow, 187629; Marius De Zayas, 191330), photographie artistique (Pierre Petit, 1883; Constant Puyo, 189631), künstlerische Photographie (Carl Schiendl, 188932; Matthies-Masuren, 190733), photography as a fine art (Charles H. Caffin, 190134), mentre si comincia a tentare esplicitamente una vera e propria æsthetics of photography (William Heighway, 187835) o esthétique de la photographie (Paul Bourgeois, 190036) in risposta alla domanda: la photographie est-elle un art? (Robert de La Sizeranne, 189837), is photography a new art? (Camera Work, 190838).

La risposta, però, non viene dall’interno della pratica fotografica: il pittorialismo che vi domina, infatti, sia nel perseguire gli “effetti” tecnici sia nel legittimarli teoricamente, la cerca nel riferimento al modello della pittura, contraddicendo così proprio l’aspirazione a un’autonoma dignità artistica della fotografia. La risposta giunge invece dall’esterno, dal profondo rivolgimento della pratica e della teoria dell’arte prodotto dalle avanguardie storiche, legato a sua volta alla crisi sociale, politica e culturale che segna l’inizio del Novecento, col primo delinearsi di una società tecnologica e di massa. Nello spazio aperto da questa messa in discussione di tutti gli aspetti tradizionali dell’arte e dalla radicale ridefinizione delle arti visive, viene anche, per così dire, reinventata la fotografia, attraverso l’esplorazione e valorizzazione estetica della sua peculiare ontologia automatico-riproduttiva.

Ciò avviene lungo due direttrici principali: negli Stati Uniti, dove gli apporti dell’avanguardia giungono dal di fuori e s’innestano su una solida tradizione documentaria, viene teorizzata e praticata la straight photography o “fotografia diretta” – cioè “non modificata da interventi manuali, rigorosa nel dettaglio e nella definizione di stampa”39 (Hartmann, 190440; Paul Strand, 1917, 1922, 192341) –, che poi si evolverà o nello “spiritualismo trascendentale […] della fotografia ‘pura’” di Edward Weston o nella “sintesi di documentazione e sperimentazione […], di presentazione oggettiva e di sentimento soggettivo” di Walker Evans42; in Europa invece, dove fra Germania, Unione Sovietica e Francia si trovano i centri di elaborazione e irradiazione delle esperienze costruttiviste e dada-surrealiste, László Moholy-Nagy (192543) afferma la “nuova visione” fotografica come “modo per trasformare completamente la visione convenzionale, forzandola in nuove prospettive e aprendo nuovi canali di esperienza”44; Osip Brik teorizza l’opposizione “fotografia contro quadro” e il passaggio “dal quadro alla fotografia” (1926, 192845); e Siegfried Kracauer (192746) e Walter Benjamin (1931, 193647) riflettono sulla fotografia come nuovo medium della società di massa, il secondo in particolare sottolineando il suo “valore di esposizione” ed “effetto di shock”, e l’aprirsi, con essa, della prospettiva problematica e conflittuale di un’arte ormai priva di “aura” e di carica simbolica, in tensione fra rottura rivoluzionaria e integrazione nella produzione capitalistica. È soprattutto con Benjamin – il primo teorico in cui la riflessione sulla fotografia s’inserisca in una meditazione filosofica complessiva, avente come tema la modernità e il suo costituirsi48 – che l’ontologia automatico-riproduttiva della fotografia viene sviluppata non tanto nella direzione di un’estetica dello “specifico” fotografico quanto, più radicalmente, in quella del ruolo di punta della fotografia nel processo di “disartizzazione” dell’arte e di sviluppo di un estetico non più coincidente con l’artistico. Una radicalità che, non a caso, si collega alla componente dell’avanguardia più caratterizzata come negazione, cioè quella dada-surrealista.

E non è certo un caso se la radicalità teorica di Benjamin è destinata a rimanere per alcuni decenni una punta isolata, fino alla sua “riscoperta” nella società dei consumi e dei media degli anni Sessanta49; non diversamente da quanto avviene per la radicalità di approccio alla fotografia che è presente, ma in modo più sotterraneo, nell’opera di Duchamp, e che a sua volta sarà riconosciuta e resa esplicita solo negli anni Settanta dalla riflessione sul fotografico di cui parleremo a lungo più avanti. Nei decenni Trenta e Quaranta, invece, col “ritorno all’ordine” generalizzato – tra fascismi, stalinismo, rooseveltismo e fronti antifascisti –, dominano piuttosto la pratica e la teoria di una “fotografia sicura di sé”50, che della fase precedente sviluppa non tanto le spinte avanguardistiche “negative” e di rimescolamento tra arti visive, quanto l’affermazione di uno “specifico” della fotografia risolto in purezza formale straight e in documentazione e diffusione di messaggi mobilitanti; e intanto il lavoro teorico si rivolge soprattutto da un lato alla riflessione sulla fotografia come fenomeno socio-culturale (Gisèle Freund, 193651; Robert Taft, 1938) e dall’altro alla ricostruzione storiografica del suo ormai secolare percorso, sulla via – aperta anch’essa da Benjamin53 – di una storia culturale e non solo tecnica (nasce in questi anni, fra numerose altre, la più celebre Storia della fotografia, quella di Beaumont Newhall, poi più volte riveduta e ampliata e tuttora considerata un punto di riferimento54).

Ma quando, al culmine di questa fase, la cultura egemone della fotografia documentaria e “umanista” trova la sua espressione più compiuta in Henri Cartier-Bresson e nella sua teoria del “momento decisivo” – sintesi tra “organizzazione delle forme” e “significato di un evento” (195255) –, è da pochi anni uscito un saggio del critico cinematografico Bazin che attira l’attenzione sulla “Ontologia dell’immagine fotografica” (194556), e stanno per fare la loro apparizione le destabilizzanti immagini di William Klein (195657) e di Robert Frank (195858). Quella che Jean-Claude Lemagny definisce una “fotografia insicura di sé”59, e Paolo Costantini una “fo­to­grafia inquieta, tesa alla ridefinizione dei materiali e delle possibilità storiche del mezzo”60 – dallo spiccato atteggiamento autoriflessivo, presto condiviso con le neoavaguardie degli anni Sessanta –, pone di nuovo in stretto collegamento, come all’epoca delle avanguardie storiche, le due questioni dell’identità e dell’artisticità della fotografia, della sua ontologia e della sua estetica, ancora una volta in rapporto con vivaci movimenti artistici. Ovviamente, però, a partire da premesse diverse. Questo sono: da un lato, il clima di grande attenzione ai linguaggi e ai fatti comunicativi – effetto sia dell’ormai enorme diffusione delle comunicazioni di massa, sia della cultura filosofica dello strutturalismo e degli studi di semiotica, sia dei movimenti di contestazione e comunicazione alternativa del ’68 –; dall’altro lato, il vivo interesse che le neoavanguardie manife­stano per i media, principalmente il video e la fotografia, creando fra quest’ultima e le prati-che arti-stiche un’intensa osmosi, paragonabile solo a quella prodotta dalle avanguardie storiche.

E anche quando tale osmosi verrà poi meno negli anni Ottanta – caratterizzati non solo dall’attenuarsi dell’interesse per lo strutturalismo e la semiotica e dal riflusso dei movimenti del ’68, ma anche dall’affermarsi del Postmodern e del ritorno alla pittura –, tuttavia la pro­duzione teorica non si esaurirà, rimanendo anzi ampia ed analitica. Il risultato, oggi sotto i nostri occhi, del lavoro compiuto negli anni Sessanta e soprattutto Settanta-Ottanta è un patrimonio di studi teorici e storiografici senza precedenti per vastità e ricchezza di temi: la fotografia è oggetto di riflessione socio-antropologica61 e di storia generale62 e sociale63, di approcci semiotico-linguistici64 e psicologico-percettivi65, di analisi dei suoi rapporti con la pittura del passato e (in misura sempre maggiore in anni recenti) con le arti visive contemporanee66, di studio delle sue possibilità di rappresentazione dell’architettura e del paesaggio67 così come, negli ultimi anni, del corpo in tutte le sue manifestazioni68, nonché oggetto di un teso confronto con la nuova immagine digitale69. In questo contesto, la fotografia è ormai solidamente acquisita non solo come arte visiva, ma anche come tema di riflessione teorica ontologico-estetica70, e quindi come vero e proprio “oggetto filosofico”71: l’interesse manifestato per essa dal pensiero strutturalista e semiotico si prolunga – attraversando emblematicamente tutta l’opera di una figura centrale come quella di Roland Barthes (1961-198072) – nell’interesse del pensiero poststrutturalista e postmodernista. E questo trova nell’“atto fotografico” e nell’“immagine precaria”73 che ne è il prodotto, un terreno non secondario di riflessione sulla crisi di quella modernità il cui costituirsi Benjamin aveva studiato, interrogando anch’egli, fra l’altro, la fotografia74.

III.

È su questo sfondo che si colloca il dibattito di cui qui ci occuperemo. Non tutti i suoi aspetti, in realtà, sono sconosciuti, grazie al lavoro teorico e storico di autori già citati; ma altri ne restano da scoprire, in particolare il contributo dei teorici stra-nieri che ho menzionato all’inizio e i cui lavori sono da noi tuttora inediti, o solo negli ultimi anni cominciano ad essere tradotti. È su questi autori, e sui loro rapporti con quelli già noti, che intendo soffermarmi, prendendo in considerazione l’ultimo ventennio; ovviamente senza alcuna pretesa di “coprire” tutta la riflessione del periodo, bensì col proposito di far conoscere posizioni che ho potuto studiare più attentamente, e soprattutto di metterne in evidenza i presupposti culturali. Sarà così possibile – spero – vedere più chiaramente un quadro ricco e complesso, in cui s’intrecciano esperienze artistiche ed estetiche75 e interrogazioni filosofiche.

 La sintesi che qui propongo76 – con tutti i limiti di ogni semplificazione – si articola in quattro momenti, che corrispondono ai capitoli del libro e (approssimativamente) ad altrettante fasi del dibattito teorico che ne è l’oggetto:

1. Il fotografico nell’arte contemporanea. Fotografia e critica d’arte.

Il ciclo di vivaci e intense esperienze artistiche delle neoavanguardie, con la forte presenza della fotografia che le caratterizza, stimola, a partire dagli ultimi anni Settanta, una riflessione a livello di critica d’arte su ciò che in profondità accomuna la fotografia a molte espressioni dell’arte contemporanea.  Questa connessione è individuata nel fotografico, cioè in una “logica” profonda della fotografia fatta propria (in modo implicito o esplicito) anche dalle altre arti visive del XX secolo.

2. Ai confini del segno: l’atto fotografico. Fotografia e semiotica.

Questa logica, nel contesto della cultura filosofica dello strutturalismo e di un diffuso interesse per la semiotica, porta a indagare la fotografia come segno, interpretandola in particolare come quel tipo di segno (o, meglio, come quell’aspetto della relazione segnica) che il filosofo S. Peirce ha chiamato indice, distinguendolo dall’icona e dal simbolo. Ma per questa via si evidenzia tutta l’ambiguità e precarietà del “segno fotografico”, e ciò spinge a dilatare e problematizzare sempre più i confini di tale nozione, e insieme a spostare l’attenzione dal segno all’“atto fotografico”, cioè dalla fotografia come veicolo di un messaggio alla fotografia come esperienza di produzione e, soprattutto, di ricezione.

3. Ai confini dell’opera: un’arte precaria. Fotografia ed estetica.

Ciò orienta di nuovo il discorso verso l’arte, ma questa volta in senso estetico, cioè con una riflessione non tanto sul ruolo che la fotografia ha nell’arte contemporanea quanto sui suoi caratteri come arte contemporanea: quale forma di esperienza estetica è la fotografia? Quale il suo contributo all’autoriflessione dell’arte contemporanea, sul terreno comune del fotografico? Quali i suoi rapporti con le estetiche postmoderniste? Il risultato è, anche in questo caso, una identità di confine, di “arte precaria”, con lo spostarsi dell’accento dalla fotografia come opera, come fatto artistico, alla fotografia come esperienza, come fatto estetico.

4. A partire dal fotografico: problemi e prospettive. Fotografia e filosofia.

Sia il dibattito semiotico sia quello estetico, poi, si aprono a loro volta su problemi più generali e di fondo, prettamente filosofici. Da un lato, infatti, la riflessione sulla fotografia come indice, ovvero come immagine autonoma dall’intenzione comunicativa di un soggetto, impone di misurarsi con le questioni ontologiche e di teoria della conoscenza che si addensano attorno alla nozione di segno, ripensata alla luce di Peirce e della filosofia poststrutturalista (rapporti rappresentazione-realtà e percezione-realtà); dall’altro, la riflessione sulla fotografia come “arte precaria”, come immagine autonoma dall’intenzione creativa di un soggetto, sollecita a confrontarsi con la concezione postmodernista dell’arte e con la sua visione del rapporto moderno-tardomoderno, del ruolo storico e degli esiti attuali dell’avanguardia. E lungo entrambe le vie, attraverso l’antiumanismo77 del fotografico e i suoi rapporti con la filosofia poststrutturalista e postmodernista, ci si affaccia sulle centrali questioni della Verità e del Soggetto, trovandosi a fare i conti con gli sviluppi nichilistici del “discorso filosofico della modernità” che segnano il nostro incerto presente.

In queste aperture problematiche, che spingono a gettare lo sguardo al di là della “soglia filosofica”, il dibattito teorico sulla fotografia dell’ultimo ventennio acquista un interesse che supera i limiti dell’ambito specialistico, e appare un importante episodio della storia della cultura dei nostri anni.


Avvertenze

Questo libro ha origine da un lavoro di ricerca sugli scritti di Rosalind Krauss, Henri Van Lier, Philippe Dubois, Jean-Marie Schaeffer e Jean-Claude Lemagny, che ho compiuto nel 1994-95 per quanto riguarda la traduzione dei testi, e proseguito negli anni successivi per quanto riguarda il loro inquadramento e approfondimento. Parallelamente, i risultati di tale ricerca venivano da me proposti come temi di riflessione e discussione in due seminari (Immagine e avanguardie, 1995; Sguardi sull’immagine, 1996) condotti insieme con il collega Enrico Aceti presso la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, e nel ciclo di incontri La fotografia riflette, da me tenuto nel 1997-98 presso il Circolo filologico milanese. Questa attività seminariale mi ha fatto entrare in contatto con numerosi studenti e adulti, che sono stati dei preziosi interlocutori. Nello scrivere Arte del fotografico, ho dunque pensato a lettrici e lettori somiglianti ad essi, cioè altrettanto motivati e volonterosi, anche se nuovi a un discorso teorico sulla fotografia. Così il libro, se da un lato non nasconde le difficoltà che il suo approccio alla fotografia può a volte presentare, dall’altro non vuole essere un saggio per soli specialisti. Ne derivano le seguenti caratteristiche:

1. Il testo cerca di non dare per scontato nulla, rendendo espliciti rimandi e connessioni che altrimenti chi legge dovrebbe trovare da sé. Ciò spiega la presenza delle numerose note. Troppe, potrebbe pensare qualcuno. Faccio però osservare che esse sono di due tipi:

a) note bibliografiche – costituite dalle sole indicazioni di autore e data –, che rinviano ai riferimenti bibliografici completi alla fine del libro;

b) note esplicative – di commento e di approfondimento –, che vanno a costituire una sorta di discorso parallelo a quello svolto nel testo, mettendo in evidenza la ricchezza sia di rinvii interni sia di implicazioni e rimandi ad altri ambiti di riflessione che il dibattito sulla fotografia presenta; sono queste le note che occupano più spazio, ma – oltre al fatto ovvio che la loro lettura non è indispensabile – vorrei sottolineare come esse intendano costituire non uno sfoggio di erudizione bensì un invito e un aiuto a cogliere la fitta trama di rimandi del dibattito e le sue numerose e complesse aperture problematiche, cioè il suo spessore culturale.

2. Sempre per ragioni di chiarezza, e anche per evidenziare temi e prospettive comuni agli autori nonostante i loro scarsi rapporti diretti, ho scelto di lasciare molto spazio alle loro stesse parole, istituendo una sorta di dialogo virtuale sulla pagina. Di qui la presenza di molte e talvolta lunghe citazioni; esse, fra l’altro, vogliono anche far percepire le peculiarità stilistiche dei singoli autori, che non sono qualcosa di estraneo e di sovrapposto al discorso teorico.

3. I due “Intermezzi” intendono presentare, in forma organica e concentrata, notizie su alcuni aspetti del pensiero filosofico contemporaneo a cui nei capitoli si fa frequente riferimento. Se queste pagine non vanno a costituire un’appendice finale bensì interrompono la successione dei capitoli dopo il primo, è per suggerire che sarebbe meglio leggerle prima di passare ai capitoli seguenti (ma chi vuole potrà anche saltarle e ritornarvi poi alla fine per un approfondimento).

4. Sia nel testo sia nelle note sono inseriti alcuni schemi che intendono visualizzare concetti o modelli teorici degli autori, e quindi renderne più agevole la comprensione: essi sono stati tutti elaborati da me, e quindi solo a me va attribuita l’eventuale responsabilità degli errori d’interpretazione che possono contenere.

5. Per quanto infine riguarda le immagini, poiché non è possibile corredarne il libro, nei “Riferimenti iconografici” finali sono elencati i più importanti fra i movimenti artistici e gli autori menzionati, indicando – ove possibile, e a titolo puramente orientativo – quei libri di costo contenuto e di facile reperibilità dove se ne possano vedere riprodotte le opere alle quali il testo fa riferimento.


Riconoscimenti

Ho ricordato sopra i seminari e incontri nei quali ho proposto i temi del libro. L’interesse e la discussione che essi hanno suscitato sia negli studenti della facoltà di Architettura di Milano sia nei soci e frequentatori della Sezione culturale fotografica del Circolo filologico milanese, sono stati per me una motivazione essenziale e uno stimolo importante ad approfondire la ricerca, che non ho mai concepito come lavoro puramente individuale ma come esperienza condivisa.

Con alcuni degli autori che sono oggetto di questo studio ho un debito particolare: all’attività teorica e artistica di Franco Vaccari e ai saggi di Philippe Dubois e Claudio Marra devo l’apertura di prospettive e l’entusiasmo che mi hanno spinto a interrogarmi sulla fotografia come oggetto teorico e come forma di arte contemporanea; e da Jean-Claude Lemagny ho ricevuto suggerimenti generosi e appassionati che mi hanno fatto meglio conoscere il lavoro di riflessione svolto in lingua francese.

Questo  libro (come in precedenza le traduzioni di alcuni degli studiosi stranieri di cui tratta) è stato da me proposto a numerosi editori. La maggior parte non l’ha neppure preso in esame. Tre di essi, dichiaratisi propensi alla pubblicazione, non vi si sono mai impegnati  con chiarezza, tenendo il progetto indefinitamente in attesa. All’Editrice C.R.T. di Pistoia, a cui mi sono rivolto dopo averne conosciuto i testi filosofici, ho incontrato in Carmine Fiorillo l’unico editore che abbia creduto veramente in ciò che proponevo.

Emilio De Tullio, animatore della Sezione culturale fotografica del Circolo filologico milanese, ha promosso con entusiasmo gli incontri di discussione che lì ho potuto tenere, e ha messo a disposizione per la copertina del libro una sua opera fotografica.

La mia compagna Maria Luisa Tornesello ha condiviso con me gli interessi e le lunghe discussioni da cui il libro è nato, ne ha seguito momento per momento l’elaborazione e le tormentate vicende editoriali, e conosce perciò anche la terza dimensione affettiva che completa in profondità le altre due di ogni pagina.


 

Nel momento in cui questo libro sta ormai per andare in stampa, vengo a conoscenza dell’opera di François Soulages, Esthétique de la photographie. La perte et le reste, edita a Parigi nel 1998 da Nathan nella stessa collana in cui apparve nel 1983 L’acte photographique di Philippe Dubois.

Ad una prima, purtroppo ancora superficiale lettura, il libro si presenta come un’importante sintesi di quella riflessione teorica che anch’io ho provato a esporre in queste pagine, con un analogo orientamento estetico (anche se le questioni filosofiche su cui si conclude il mio discorso, nell’opera di Soulages occupano invece la prima parte, e sulla questione centrale della verità l’autore aderisce ad un approccio di tipo nietzschiano che io invece presento come oggetto di discussione).

Vedo inoltre che fra i teorici a cui Soulages fa riferimento ve ne sono diversi che anch’io ho posto al centro della mia esposizione. Ma mentre in Francia autori come Krauss, di essi (Van Lier, Schaeffer, Lemagny) sono ancora poco conosciuti e attendono a tutt’oggi editori informati e sensibili che si accorgano dell’importanza dei loro scritti e ne promuovano la pubblicazione in italiano.

Per le esperienze che ho avuto finora (fra l’altro proponendo senza alcun risultato mie traduzioni di quattro fra quegli autori), temo che la già lunga lista dei testi teorici stranieri sulla fotografia che sono importanti ma non accessibili in italiano, dovrà allungarsi ulteriormente per comprendere anche lo stimolante e problematico saggio di François Soulages.  

 


 Note all’Introduzione

1 Si vedano i seguenti testi: Marra 1990d, 1992 e 1999, Vaccari 1994b, Adams 1981, Holmes 1859-63, 1983, 1990, 1997, 1997, 1997b, Costa 1998a, Grazioli 1998, Pieroni 1999 (di quest’ultimo v. soprattutto il primo capitolo e la bibliografia ragionata).

2 La fotografia a cui mi riferisco è, ovviamente, quella che comunemente definiamo “d’autore” o “di ricerca”, e che un neologismo francese chiama photographie plasticienne (da plasticien, artista, ovvero cultore di arts plastiques, di ricerche sull’elaborazione della forma). Per l’appunto sotto il titolo La photographie plasticienne. Un art paradoxal Baqué ha di recente tracciato un quadro complessivo delle esperienze di ricerca artistica che negli ultimi vent’anni hanno fatto ricorso alla fotografia (Baqué 1998): una ricostruzione storico-teorica (con ampio corredo di immagini) che si integra utilmente con altre importanti, come Dubois 1986, Grundberg e McCarthy Gauss 1987, Chevrier e Lingwood (cur.) 1989 e Marra 1999; accanto alle quali si devono ricordare anche 1989 e e Colombo (cur.) 1995, nonché, per la situazione italiana in particolare, Altamira e Guadagnini  (cur.)1993 e Guadagnini  e (cur.)1998.

Sul processo d’inserimento, a partire dagli anni Settanta e dagli Stati Uniti, della fotografia nei circuiti dell’arte contemporanea, v. Russo 1995 e Baqué 1998.

3 Quelle di cui ho notizia sono, in ordine cronologico, le seguenti: Lyons (cur.) 1966, Green (cur.) 1973, Cooper e Hill (cur.) 1976, Mellor (cur.) 1978, Kemp (cur.) 1979-83, Petruck (cur.) 1979, Borhan (cur.) 1980, Newhall (cur.) 1980, Trachtenberg (cur.) 1980, Goldberg (cur.) 1981, Vanon (cur.) 1981, Wiegand (cur.) 1981, AA.VV. 1982, Barrow, Armitage, e Tydeman (cur.) 1982, Burgin (cur.) 1982, Dubois (cur.) 1982, Mormorio e Verdone (cur.) 1984, Zannier e Costantini (cur.) 1985, Frizot e Ducros (cur.) 1987, Mormorio (cur.) 1988, Bolton (cur.) 1989, Phillips 1989, Rouillé (cur.) 1989, Squiers (cur.) 1990, .; Younger (cur.) 1991, Marra (cur.) 1992, Baqué (cur.) 1993, Amelunxen, Iglhaut e Rötzer (cur.) 1996, Boveri (cur.) 1997, Lugon (cur.) 1997, Amelunxen (cur.) 2000. Come si può vedere dalle date, la gran parte di queste raccolte sono state pubblicate dalla seconda metà degli anni Settanta ad oggi, e in particolare negli anni Ottanta.

4 Gli scritti stranieri di riflessione teorica sulla fotografia tradotti in italiano negli ultimi vent’anni sono, per quanto mi risulta, i seguenti: Sontag 1977 (tr. it. 1978), Barthes 1980 (tr. it. 1980), Lindekens 1971 (tr. it. 1980), Arnheim 1974 (tr. it. 1982), Barthes 1961 e Barthes 1964 (tr. it. 1985), Flusser 1983 (tr. it. 1987), Moholy-Nagy 1925 (tr. it. 1987), Lyons 1966 (tr. it. 1990), Adams 1981 (tr. it. 1995), Holmes 1859-63 (tr. it. 1995), Dubois 1983 (tr. it. 1996), Krauss 1990 (tr. it. 1996). Come si vede, le traduzioni attraversano vicende alterne, concentrandosi in tre periodi: 1978-1982, 1987-1990, 1995-1996 (i primi due coincidenti con quelli in cui vengono pubblicate la gran parte delle antologie di testi teorici sulla fotografia; v. nt. prec.). Nel primo pe­riodo escono la metà di tutti i titoli del ventennio e domina la grande editoria. Nel se­condo periodo i titoli si dimezzano, e nel terzo vi è una leggera ripresa. In entrambi i casi passano in primo piano i piccoli editori. Questi danno avvio al recupero di un ritardo che però resta an­cora molto grave: v. nt. seguente.

5 Mi riferisco a Krauss 1990 e a Dubois 1983. Ma quest’ultimo è stato tradotto in italiano solo nel 1996, cioè tredici anni dopo; e l’importante saggio di Krauss “Notes on the Index” (Krauss 1977a), di cui si parlerà nel Cap. 1, non ha mai avuto una traduzione, anche se alcuni suoi temi sono presenti in “Marcel Duchamp o il campo immaginario”, contenuto in Krauss 1990.

6 Mi riferisco principalmente a Van Lier 1983, Schaeffer 1987 e Lemagny 1992. Degli ultimi due autori, però, sono stati tradotti, rispettivamente, un saggio di storia dell’estetica (Schaeffer 1992) e un’importante storia della fotografia (Lemagny e Rouillé [cur.] 1986, purtroppo da anni esaurita).

7 V. Kemp (cur.) 1979-83 e Amelunxen (cur.) 2000.

8 V. Trachtenberg (cur.) 1980, p. VII.

9 Ai tre volumi curati da Kemp – Kemp (cur.) 1979-83 – se n’è di recente aggiunto un quarto affidato a un nuovo editor Amelunxen (cur.) 2000 –, che copre gli anni 1980-1995; l’intera opera non è solo un’antologia della letteratura teorica sulla fotografia, ma nei testi introduttivi di ogni volume tratteggia anche una storia degli sviluppi di questa teoria.

10 V. Marra 1992, impostato anch’esso come antologia preceduta da ampi saggi del curatore.

11 V. sopra nt. 3.

12 Questa stretta relazione ha a che fare anche con una importante questione di metodo, ovvero l’impossibilità di separare l’identità della fotografia da una (storicamente) determinata concezione di ciò che è arte, perché altrimenti si rischia di incorrere in quello che Rosalind Krauss chiama scherzosamente “argomento ontologico” (Krauss 1979, p. 138), e Claudio Marra “essenzialismo” (Marra 1994, 1999, p. 52, 74): rischio evitabile solo a condizione di inquadrare rigorosamente entrambi gli aspetti in uno specifico contesto storico-culturale.

Rosalind Krauss osserva che, di fronte alle difficoltà di far accettare, in generale, un medium come arte, spesso “i critici […] cercano di stabilire ciò che questa cosa è in realtà. Operano questa manovra cercando una categoria logica […] che sia […] la condizione necessaria e sufficiente perché il medium in questione possa essere considerato generatore d’arte […]. Il problema che questa strategia pone, per bene intenzionata che sia, è precisamente di essere indifferente alla storia […]. In altre parole, questa strategia rifiuta il più delle volte di riconoscere che solo gli artisti, o più precisamente solo certe opere d’arte fanno di un medium un veicolo per l’arte. […] Definire una categoria a priori […] è dare l’impressione che tale categoria sia sempre esistita e non aspettava che di essere notata e svolta” (Krauss 1979, p. 129, 138; cors. mio).

A sua volta, Claudio Marra scrive: “In genere, quando si è posto il problema dell’identità della fotografia, si è arrivati a tipi di risposte […] che tendono a recuperare questa identità in una sorta di ‘specifico interno’ […], in una qualche capacità o possibilità tecnica della macchina che a un certo punto si sarebbe rivelata. […] Il pericolo di questa impostazione, secondo me, è proprio nello stabilire l’identità della fotografia in modo dogmatico” (Marra 1994). Ciò non è senza precise ragioni nella storia della cultura di questo secolo, perché “è a partire dal secondo decennio del Novecento, sull’onda dei grandi sviluppi vissuti in quegli anni dagli studi sul linguaggio [da Saussure in poi, nt. d. r.], che si fa strada e s’impone in tutte le arti la questione della ‘specificità’ […]. […] Risulta evidente come [essa] poggi sul presupposto che l’artisticità sia una qualità materiale posseduta dall’opera, qualcosa che riguarda la sua fattura e la sua formalità. Tutto il contrario insomma dell’altro percorso che in quegli anni andava Duchamp con l’esperienza del ready-made, dove l’artisticità non riguarda certo la fisicità dell’opera ma l’investimento concettuale del quale essa viene fatta oggetto” (Marra 1999, p. 110-111; v. anche Cap. 1.5). Dunque, “non sarà una specificità di linguaggio a farci intendere una fotografia come arte, ma solo un’operazione di semantizzazione, che in quanto pratica la istituisce come oggetto artistico. […] Anche la fotografia riceverà il suo statuto di artisticità non da un ‘certo’ uso che viene fatto della camera e che si rende poi leggibile e distinguibile nella struttura dell’immagine, […] ma da atti di cultura che la definiscono e la istituiscono in quanto fatto artistico” (Marra 1979, p. 170-171). “L’eventuale domanda sull’artisticità della fotografia deve ricevere una risposta uguale a quella che in genere si dà sull’artisticità di tutte le altre tecniche o espressioni: è arte perché dal di fuori qualcuno decide che sia arte (per riprendere un’affermazione di Dino Formaggio: ‘L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte’ [Formaggio 1973, p. 9; nt. d. r.]). Se nel Novecento è diventato arte un barat­tolo di Merda d’artista (Piero Manzoni, 1961) o un orinatoio (Marcel Duchamp, Fontana, 1917), […] evidentemente non è un problema interno […]: qualcuno, la cultura, decide di accettare qualcosa come arte” (Marra 1994). Non è quindi a caratteristiche strutturali del mezzo ma a tendenze profonde della cultura del Novecento che per Marra va fatto risalire, in questo secolo, il ricorso alla fotografia come rivelazione piuttosto che come illusione (v. Cap. 1.5). E analogamente – per venire al tema del presente lavoro –, non è un caso se il riconoscimento della fotografia come arte si diffonde e si consolida negli anni Sessanta-Settanta: in quello specifico contesto culturale e artistico, infatti, essa “viene accettata come arte non quando scopre ed afferma un proprio linguaggio specifico, ma quando alcune operazioni artistiche, già qualificate come tali (dalla Pop alla Body Art, al Concettuale ecc.) la usano al proprio interno, la fanno strumento indispensabile delle loro performances” (Marra 1979, p. 175, 177); né vanno dimenticati – ricordando Marshall McLuhan – gli “influssi del piano materiale”, cioè il fatto che negli stessi anni “il medium televisivo avrebbe […] rubato alla fotografia buona parte del campo dell’informazione, del documento, permettendo però, nello stesso tempo, alla fotografia un passaggio di funzione: superata e scalzata dalla sua funzione primitiva, la fotografia si è attestata su altre posizioni, è entrata nel museo, nelle gallerie, ha insomma trovato un suo spazio nell’artistico”  (ivi, p. 177).

Secondo Marra, in conclusione (ma è la posizione anche di Krauss), alla nozione di uno “specifico struttural-naturale” va sostituita quella di uno “specifico culturale”, come “motivo di […] una cultura e non invece, riduttivamente, come l’affermazione essenzialistica delle proprietà vere del mezzo” (Marra 1981, p. 165).

Un punto di vista del tutto diverso è espresso da Batchen 1997, il cui discorso (ispirato al decostruzionismo di Derrida) tende a dimostrare che sia la concezione (modernista) di una specificità naturale della fotografia sia quella (postmodernista) di una sua specificità culturale condividono la stessa assunzione di una identità della fotografia chiaramente individuabile, aut nel campo della natura aut in quello della cultura, mentre secondo lui ciò non è consentito dalla costitutiva e ineludibile complessità di questo medium.

13 Krauss 1990, p. 1.

14 Van Lier 1991, p. 153: “la definiremmo l’oggetto, o piuttosto il processo, più filosofico che esista”. E Franco Vaccari mi ha parlato talvolta della fotografia come di una sorta di “filosofia sperimentale”.

15 V. un brano dell’opera riprodotto in Trachtenberg (cur.) 1980, p. 27-36. E si ricordi il titolo della relazione presentata da F. Talbot alla Royal Society di Londra nel 1839: Some Account of the Art of Photogenic Drawing, or, The Process by Which Natural Objects May Be Made to Delineate Themselves without the Aid of the Artist’s Pencil  (Appunti sull’arte del disegno fotogenico, ossia sul procedimento con cui è possibile ottenere che gli oggetti naturali si disegnino da sé senza il sussidio della matita dell’artista; vNewhall [cur.] 1980, p. 23).

16 V. Holmes 1859-63.

17 V. Batchen 1997, p. 230 nt. 49.

18 V. Newhall 1949, p. 159.

19 V. Gilardi 1976, p. 445.

20 V. un brano de L’art de la photographie riprodotto in Frizot e Ducros (cur.) 1987, p. 37-47.

21          V. un brano de La photographie considérée comme art et comme industrie, histoire de sa découverte, ses progrès, ses applications, son avenir riprodotto in Frizot e Ducros (cur.) 1987, p. 49-56.

22 V. Frizot e Ducros (cur.) 1987, p. 31-32; Mormorio (cur.) 1988, p. 23-24.

23 V. Newhall 1949, p. 420.

24 V. Gilardi 1976, p. 445.

25 V. Newhall 1949, p. 232.

26 V. un brano di The Elements of Pictorial Photography riprodotto in (cur.) 1980, p. 91-97.

27 V. Gilardi 1976, p. 445.

28 V. Newhall 1949, p. 119.

29 V. Gilardi 1976, p. 445.

30 V. il saggio “Photography and Artistic-Photography” riprodotto in Trachtenberg (cur.) 1980, p. 130-132 e in Vanon (cur.) 1981, p. 100-102.

31 V. Gilardi 1976, p. 445.

32 Ivi.

33 V. Newhall 1949, p. 233.

34 V. ivi, p. 409.

35 V. Gilardi 1976, p. 445.

36 V. ivi.

37 V. Lemagny e Rouillé (cur.) 1986, p. 277 nt.1 al Cap 5e.

38 V. il saggio di Anonimo “Is Photography a New Art?” riprodotto in Trachtenberg (cur.) 1980, p. 133-140.

39 Ivi, p. XII.

40 V. Newhall 1949, p. 272.

41 V. i saggi “La fotografia” (1917), “La fotografia e il nuovo Dio” (1922) e “Il movente artistico in fotografia” (1923) in Lyons (cur.) 1966, p. 166-188.

42 Trachtenberg (cur.) 1980, p. XII.

43 V. Moholy-Nagy 1925.

44 V. ivi.

45 V. Lemagny e Rouillé (cur.) 1986, p. 278 nt. 4 e nt. 17 al Cap. 7a.

46 V. Kracauer 1927.

47 V. Benjamin 1931, 1936.

48 V. Benjamin 1927-40, 1936a e Frisby 1985.

49 È del 1955 la pubblicazione degli Scritti di Benjamin in Germania, e del 1962 la prima traduzione di suoi testi in Italia; qui Benjamin 1931 e 1936 vengono tradotti nel 1966, e negli Stati Uniti nel 1969-72.

50 È sotto questo titolo che in Lemagny e Rouillé (cur.) 1986 è ricostruita la fotografia dal 1930 al 1950.

51 V. Lemagny 1992, p. 202.

52 V. Newhall 1949, p. 411.

53 V. Benjamin 1931.

54 V. Newhall 1949. Intanto altri due storici della fotografia, Erich Stenger (1931, v. Galassi 1981, bibliografia) e René Hennéquin (1932, v. Lemagny e Rouillé [cur.] 1986, p. 276 nt. 19 al Cap. 1) iniziano un filone di studi sulle premesse tecnico-culturali della fotografia che avrà ampio sviluppo a partire dagli anni Sessanta, con ricerche sulla “preistoria” e “protostoria” della fotografia nei suoi rapporti con la pittura. V. sotto nt. 66.

55 V. l’Introduzione dell’autore al suo Images à la sauvette/The Decisive Moment, Paris-New York 1952, riprodotta in Lyons 1966, p. 50-62.

56 V. Bazin 1945.

57 V. Klein 1956.

58 V. Frank 1958.

59 È sotto questo titolo che in Lemagny e Rouillé (cur.) 1986 è ricostruita la fotografia dal 1950 al 1980.

60 Costantini 1987, p. 13.

61 V. ad es. McLuhan 1964, Bourdieu 1965, Keim 1971.

62 V. ad es. Pollack 1958, Gernsheim 1969, Keim 1970, Gassan 1972, Tausk 1977, Alinovi e Marra 1981, Zannier 1982, Rosenblum 1984, Lemagny e Rouillé (cur.) 1986, Van Lier 1992, Frizot (cur.) 1994.

63 V. ad es. Braive 1965, Neumann 1966, Freund 1974, Gilardi 1976.

64 V. ad es. Barthes 1961, 1964, 1970, Metz 1968-72, Chini 1968, Lindekens 1971, Sekula 1975, Damisch 1977, Miccini 1984, Calabrese 1985, Termine 1988.

65 V. ad es. Gombrich 1960, Black 1972, Gombrich 1982.

66 V. ad es. Coke 1964, Scharf 1968, Schmoll 1971, Carluccio Palazzoli (cur.) 1973, Billeter (cur.) 1977, Stelzer 1978, Lista 1979, Galassi 1981, Jaguer 1982, Krauss, Livingston e Ades 1985, 1986, Grundberg e McCarthy Gauss 1987, Schwarz 1987, Chevrier e Lingwood 1989, e Guadagnini 1993, Taiuti 1996, Didi-Huberman 1997, Baqué 1998, Guadagnini e  Maggia (cur.) 1998.

67 V. ad es. Basilico, Morpurgo  e Zannier (cur.) 1980, Jussim 1985, AA.VV. 1984, Costantini 1985, 1987, Valtorta, Costantini, Jodice, Basilico e Bertelli, 1989, Quintavalle 1993b, Galbiati, Pozzi e Signorini (cur.) 1996, Valtorta 1997.

68 V. ad es. Rouillé e Marbot 1986, Weiermair 1988, Nead 1992, Pultz e Mondenard 1995, Grazioli 1998.

69 V. ad es. Ritchin 1990, Mitchell 1992, Amelunxen, Iglhaut e Rötzer (cur.) 1996Couchot 1998.

70 V. ad es. – oltre ai testi su cui ci si soffermerà nelle pagine che seguono –Kracauer 1960, Damisch 1963, Arnheim 1974, Berger 1974, Burgin 1975, Kemp 1978, Kozloff 1979, Berger 1980, Crimp 1980, Adams 1981, Müller-Pohle 1981, Andre 1985, Burgin 1986, Grundberg 1986, Berger 1992, Tisseron 1996, Batchen 1997, Gravano 1997, Mormorio 1997. Richiamo inoltre nuovamente l’attenzione sulle antologie di teoria della fotografia pubblicate negli anni Settanta e Ottanta, che sono venute delineando una sorta di “canone” dei testi di riflessione teorica sulla fotografia dalle origini ad oggi (v. sopra nt. 3).

71 V. sopra nt. 13. Sono emblematici, in questo senso, i titoli di due libri che escono quasi contemporaneamente all’inizio degli anni Ottanta: Philosophie de la photographie (Van Lier 1983) e Per una filosofia della fotografia (Flusser 1983).

72 V. Barthes 1961, 1964, 1980.

73 V. Dubois 1983 e Schaeffer 1987.

74 Al quadro storico-culturale qui sommariamente tratteggiato, altre considerazioni si possono aggiungere per spiegare il crescente interesse teorico per la fotografia negli ultimi vent’anni.

Per quanto riguarda in particolare la situazione italiana, va ricordata anzitutto l’attività di teorici come Franco Vaccari e Claudio Marra, che hanno mantenuto aperto e sviluppato un discorso teorico sulla fotografia in stretto rapporto con le esperienze dell’arte contemporanea. In secondo luogo, l’affermarsi negli anni Ottanta di una “scuola italiana del paesaggio”, che nell’interpretazione delle imponenti trasformazioni territoriali in corso non solo si è ricollegata alle contemporanee ricerche sul paesaggio urbanizzato dei fotografi statunitensi e francesi (“Nuovi Topografi”, DATAR), ma si è anche nutrita dell’intensa riflessione sul mezzo fotografico praticata dai molti artisti di area concettuale che negli anni Sessanta-Settanta avevano fatto ricorso alla fotografia (v. Ghirri, Leone e Velati [cur.] 1984, Quintavalle  1984, 1993a, 1993b, Marra [cur.] 1995, Signorini  1996, Valtorta 1996, 1997, 1998). Con tali esperienze artistiche intanto – ed è la terza ipotesi di spiegazione che avanzerei – mantenevano un più diretto contatto altri autori (difficilmente inquadrabili nelle categorie contrapposte di “fotografo” e di “artista”), i quali, proseguendo e approfondendo il lavoro sulla fotografia in quanto ambito di ricerca visiva, contribuivano a legittimarla come una delle forme in cui si esprime normalmente l’arte contemporanea (v. Altamira e Guadagnini [cur.] 1993, Gentili [cur.] 1994, Wolf 1995, Ballo Charmet 1995, 1998, Pinto [cur.] 1997, Gravano [cur.] 1998, Guadagnini e Maggia [cur.] 1998, Valtorta 1998); e ciò non solo ha corrisposto ad una tendenza largamente diffusa all’estero, ma è stato anche – al di là delle ragioni della moda o del mercato – una vera e propria acquisizione culturale, che ha reso ormai obsoleta la distinzione tradizionale tra fotografia e arte, da noi particolarmente radicata.

Da ultimo, e tornando a una visione d’insieme, il diffondersi dell’immagine digitale – che non è più foto­grafia da un punto di vista strettamente tecnico (in quanto registrazione delle intensità luminose non più in forma fisico-chimica, continua, analogica, bensì in forma numerica, discreta, digitale appunto) ma alla cultura fotografica resta profondamente legata – induce a rivedere, in modo più problematico e quasi straniato, un medium come la fotografia, che sembrava familiare, ovvio, quasi logorato dall’abitudine: il risultato è una trasformazione sia del carattere e del va­lore delle im­ma­gini che vediamo, sia del nostro stesso modo di guardarle, e di guardare la realtà (v. Mitchell 1992 e Amelunxen, e Rötzer [cur.] 1996 come primi tentativi di riflessione teorica sui cambiamenti culturali che l’affermarsi dell’immagine digitale esprime e promuove, e Wolf 1997 per alcuni esempi di risposte a questa nuova situazione da parte di artisti che continuano ad operare con tecniche fotografiche tradizionali).

75 Nel senso etimologico (dal greco aisthetikós = “concernente la sensazione, la percezione”) di stimo­lazione e ampliamento dell’esperienza percettiva consapevolmente vissuta, che è un orientamento di fondo dell’arte contemporanea dalle avanguardie in poi.

76 Una sua prima formulazione è in Signorini 1998.

77 Qui e in seguito per “umanismo” intendo una concezione che afferma la centralità del soggetto umano nella realtà. È il senso con cui Heidegger impiega il termine nella Lettera sull’“umanismo” (1947), dove esso indica una ricerca dell’essere nell’uomo anziché nell’essere stesso. Si cercherà di indagare, almeno sommariamente, nel Cap. 4.4 le possibili ragioni filosofiche dell’antiumanismo che impronta il dibattito sulla fotografia oggetto di questo libro.


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William Shakespeare (1564-1616) – Se la musica è l’alimento dell’amore, seguitate a suonare, datemene senza risparmio. Oh, spirito d’amore, quanto sei vivo e fresco! Così multiforme si presenta amore, da esser, lui solo, il trionfo della fantasia.

William Shakespeare_ Musica
Twelfth Night di William Shakespeare.

Nella commedia Twelfth Night di William Shakespeare composta tra il 1599 e il 1601, il Duca Orsino apre il suo celebre monologo con l’espressione “If music be the food of love, play on”, rivolgendosi forse ai musicisti sul palco,

 

If music be the food of love, play on,
Give me excess of it, that, surfeiting,
The appetite may sicken, and so die.
That strain again, it had a dying fall:
O, it came o’er my ear like the sweet sound
That breathes upon a bank of violets,
Stealing and giving odour. Enough, no more;
‘Tis not so sweet now as it was before.
O spirit of love, how quick and fresh art thou,
That notwithstanding thy capacity
Receiveth as the sea, nought enters there, of
what validity and pitch soe’er,
But falls into abatement and low price,
Even in a minute! So full of shapes is fancy,
That it alone is high fantastical.

 

Se la musica è l’alimento dell’amore, seguitate a suonare,
datemene senza risparmio, così che, ormai sazio,
il mio appetito se ne ammali, e muoia.
Ancora quell’accordo! Finisce su una nota melanconica.
Giungeva alle mie orecchie come dolce brezza che alita su un banco di violette,
carpendone il profumo e diffondendolo.
Basta! Non più. Non è più così dolce.
Oh, spirito d’amore, quanto sei vivo e fresco!
Sebbene tu sia immenso, come il mare,
niente può penetrare in te,
neppure il sentimento più potente e sublime, senza svilirsi e deprezzarsi,
in un istante. Così multiforme si presenta amore,
da esser, lui solo, il trionfo della fantasia.

Shakespeare anche in una successiva opera, il dramma storico Antony and Cleopatra di cui la prima rappresentazione è datata 1607, il personaggio di Cleopatra richiede della musica, proprio come il Duca Orsino:

Give me some music; music, the moody food of us that trade in love


William Shakespeare (1564-1616) – «Cesare non potrebbe fare il lupo se non fossero pecore, e nient’altro che pecore, i romani».
William Shakespeare (1564-1616) – La sua lezione di regia: «Tenetevi misurati, dovete ottenere e conservare quella sobrietà che consente morbidezza di toni. Accordate l’azione alla parola, la parola al gesto: lo strafare è contrario alla vocazione dell’arte teatrale. Il gigioneggiare quanto il recitarsi addosso non può che disgustare l’intenditore».
William Shakespeare (1564-1616) – Nell’uomo che non ha la musica in se stesso, i moti del suo cuore sono spenti come la notte.
William Shakespeare (1564-1616) – Date parole al dolore. La sofferenza interiore che non parla, sussurra al cuore troppo gonfio fino a quando si spezza.

Bibliografia

Enrico FUBINI, 2003: Estetica della musica, Bologna, il Mulino

Enrico FUBINI, 2002: L’estetica musicale dall’antichità al Settecento, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi

Stefano LA VIA, 2006: Poesia per musica e musica per poesia, Dai trovatori a Paolo Conte, Roma, Carrocci editore

David LINDLEY, 2006: Shakespeare and Music, London, The Arden Shakespeare

Pierpaolo MARTINO, 20012: Mark the Music, The Language of Music in English Literature from Shakespeare to Salman Rushdie, ARACNE editrice

Massimo MILA, 2010: Breve storia della musica, Torino, Einaudi

William SHAKESPEARE, 2006: Antony and Cleopatra, London, a cura di J. WILDERS, The Arden Shakespeare

William SHAKESPEARE, 2009: La dodicesima notte, a cura di N. D’AGOSTINO, Milano, Garzanti

Elvidio SURIAN, 2010: Manuale di storia della musica, vol. I, dalle origini alla musica vocale del Cinquecento, Milano, Rugginenti

Elvidio SURIAN, 2010: Manuale di storia della musica, vol. II, dalla musica strumentale del Cinquecento al “periodo classico”, Milano, Rugginenti

 

Sitografia

http://www.emmakirkby.com

http://imslp.org

The King’s Singers

http://oed.com

http://www.oxfordmusiconline.com

http://www.treccani.it

http://wbyeats.wordpress.com

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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Henry Purcell (1659-1695) – Se la musica è cibo d’amore Canta fino a che io sarò colmo di gioia. I tuoi occhi, il tuo aspetto, la tua lingua proclamano Che tu sei musica in ogni parte.

Henry Purcell_Musica
Henry Purcell, If music be the food of love.

Henry Purcell: Z 379C. If music be the food of love – Kirkby (Hogwood)

Henry Purcell (1659-1695), autore di musica per il teatro, sacra e profana, odi e arie, compone tra le sue songs il brano If Music be the of Love (Z. 379) sul testo di H. Heveningham.

 

If music be the food of love,
Sing on till I am fill’d with joy;
For then my list’ning soul you move
To pleasures that can never cloy.
Your eyes, your mien, your tongue declare
That you are music ev’rywhere.

Pleasures invade both eye and ear,
So fierce the transports are, they wound,
And all my senses feasted are,
Tho’ yet the treat is only sound,
Sure I must perish by your charms,
Unless you save me in your arms.

Se la musica è cibo d’amore
Canta fino a che io sarò colmo di gioia;
poiché tu muovi la mia anima che ascolta
a piaceri che non possono mai saziare.
I tuoi occhi, il tuo aspetto, la tua lingua proclamano
Che tu sei musica in ogni parte.

I piaceri invadono l’occhio e l’orecchio,
e i sentimenti che provo sono così violenti che feriscono,
e tutti i miei sensi festeggiano
in un banchetto di suono,
Certo morirò per il tuo fascino
Se non mi salvi tra le tue braccia.

Salvatore Bravo – filosofia e ordine del discorso. La «passione durevole» di György Lukács per la filosofia è finalizzata a trascendere i condizionamenti del capitalismo che vuole anestetizzare la corrente calda del pensiero critico perché nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi dell’emancipazione.

György Lukács_ 12a
La statua di György Lukács rimossa da Orban dal parco San Istvan di Budapest.

Salvatote Bravo

Lukács: filosofia e ordine del discorso

La «passione durevole» di György Lukács per la filosofia è finalizzata a trascendere
i condizionamenti del capitalismo che vuole anestetizzare la corrente calda del pensiero critico perché nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi dell’emancipazione.

La libertà di pensare ed agire secondo coscienza non è solitudine

Si rimprovera a Lukács di aver contaminato Marx

Libertà e coscienza

La coscienza può trascendere i condizionamenti del capitalismo

Storia e libertà

Libertà e necessità

Come anestetizzare la corrente calda del pensiero critico

Coscienza e comunità

Coscienza e “falsa coscienza”

Alla coscienza nella storia spetta il compito della prassi

Nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi

La libertà non è ineluttabile, ma ha il suo fondamento nella vita della coscienza

Libertas philosophandi


Costanzo Preve, Il testamento filosofico di Lukács


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La libertà di pensare ed agire secondo coscienza non è solitudine
László Rudas (1885-1950) direttore della Scuola centrale del Partito comunista ungherese, membro dell’Accademia ungherese delle scienze e difensore dell’ortodossia marxista, rappresenta la “disposizione” dei burocrati a rinchiudersi in rassicuranti caverne concettuali dalle quali giudicare e condannare coloro che deviano dal cammino stabilito dalle confraternite del pensiero unico ed unidirezionale. La filosofia per sua “natura” è uscita dalle caverne, è attività creativa e logica, è legein attività significante capace di generare concetti nuovi su tradizioni pregresse per trascenderle in nuove configurazioni speculative.
La distanza tra László Rudas e G. Lukács ben simboleggia l’incomprensione intellettuale che vi può essere tra il burocrate di partito ed il libero pensatore, il quale è parte di una storia politica, ideologica, filosofica, ma nello stesso tempo è sempre volto verso l’esodo, poiché “la vita come ricerca” lo porta a divergere dagli schemi, dai paradigmi del potere. L’ortodossia marxista non poteva perdonare a Lukács la sua inesausta aspirazione teoretica, la fedeltà a se stesso, quale condizione imprescindibile per poter aderire ad un progetto politico.
La libertà di pensare ed agire secondo coscienza non è solitudine, non è iattanza intellettuale, ma autonomia senza solitudine. Il potere è corrente fredda che congela l’ideologia, stabilisce il grado di purezza degli intellettuali, ed il livello di dissenso che si può tollerare.

Si rimprovera a Lukács di aver contaminato Marx
Lukács – rispetto ai paradigmi del partito comunista – è stato sempre sull’orlo della colpevole deviazione: László Rudas ne critica lquello che lui, il burocrate, chiama l’«eclettismo» del filosofo, per aver innestato sulla metodologia di Marx la categoria della totalità hegheliana ed il pensiero di Max Weber, e dunque per essersi allontanato dal Marx del partito comunista in un percorso autonomo e, a suo parere, sincretico. In primis si rimprovera a Lukács di aver contaminato Marx con elementi culturali altri. Dunque, l’accusa è aver osato interpretare Marx in modo innovativo ed originale. Non gli si perdona la deviazione rispetto al Marx codificato ed utilizzato per giustificare il comunismo reale. Si rifiuta la dialettica del confronto per prediligere il purismo ideologico senza incontro dialettico:

«Fin da questo articolo voglio altresì dimostrare che Lukács è incoerente ed eclettico e non solo come idealista in generale, ma anche in problemi specifici di rilievo egli deriva elementi da filosofi o sociologi borghesi, tuttavia sempre senza le premesse e le conseguenze che nei pensatori borghesi rendono comprensibili questi concetti e teorie e senza le quali tali elementi rimangono del tutto indigesti e deturpano il marxismo come corpi estranei. Egli mescola il marxismo con elementi che lo contraddicono conseguenza non insolita dell’incoerenza».[1]

 

Libertà e coscienza
Una delle accuse più ricorrenti rivolte a Lukács è l’aver negato il prevalere della struttura sulla coscienza la quale, per l’ortodossia dei burocrati, non è che il riflesso della struttura. La coscienza è parte della natura e va spiegata secondo le leggi della natura, ha la sua genetica all’interno dei rapporti di causa ed effetto: si vuole così applicare alla storia la stessa dialettica della natura seguendo la “coerentizzazione” di Marx svolta da Engels. I fatti sociali sono giudicati alla stregua dei fenomeni naturali e dunque non solo sono spiegabili secondo leggi scientifiche, ma specialmente la storia diventa prevedibile esattamente come qualsiasi fenomeno naturale, nessuna libertà è lasciata alla coscienza, alla storia, nessuno effetto di sdoppiamento è considerato possibile:

«In generale, tanto nella scienza della natura quanto nella scienza marxista della società, la causalità (o l’interazione) è una forza realmente operante naturale o sociale che instaura un certo rapporto reciproco tra i fenomeni, rapporto che è dato nella realtà, non è modificabile e può essere analizzato empiricamente, ma non costruito secondo un “fine conoscitivo”. Si tratta pertanto di un rapporto generale, nel senso che non solo singoli fatti, ma intere serie si trovano in un nesso di reciproca dipendenza causale, espressa da una legge generale. Che può essere, per esempio, la legge darwiniana dell’evoluzione o la legge marxiana della dipendenza tra processo produttivo e processo politico spirituale delle società».[2]

La coscienza può trascendere i condizionamenti del capitalismo
Non vi è spazio per nessuna elaborazione. L’essere umano si forma nelle strettoie dell’economia che modella la coscienza. Quest’ultima, così si vuole credere, non può trascendere tale condizionamento: è costretta all’interno della sua storia. Si esclude la possibilità che la posizione ideologica in cui il soggetto è posto dalla sua storia personale, sociale e di classe possa essere ripensata, vissuta in modo da poter ricostruire orizzonti di senso che possano riorientare al superamento irriflesso dei propri interessi personali e di classe. Gli stessi giudizi di valore sono spiegati dalla classe di appartenenza, senza che essi possano essere l’effetto della riflessione sulla propria ed altrui condizione:

«Marx ed Engels si opposero sempre nella maniera più decisa alla lacerazione del marxismo per mezzo di “giudizi di valore” […]. Anche i giudizi di valore, infatti, pronunciati da un individuo o da un’intera classe, e nei quali qualcosa è eticamente approvato o condannato, devono essere spiegati causalmente. Possono essere sintomi di trasformazioni intervenute nel processo sociale, che vengono proclamate in questa forma (quando, per es., la schiavitù salariata viene condannata senza riconoscerne l’essenza), ma chi affermasse che la coscienza di classe del proletariato è costituita da tali giudizi di valore, potrebbe essere tutto meno che marxista».[3]

Storia e libertà
Si contesta la prassi della coscienza e specialmente l’umanesimo anomalo di Lukács che pone l’atto del pensiero consapevole quale fondamento ontologico della storia, ci si “assicura” vittoria e ruolo mediante un uso acritico ed ideologico della storia:

«Per Lukács il pensiero pensante è l’uomo reale; il mondo pensato il solo reale. Ora, è un fatto che gli uomini hanno una coscienza che svolge una funzione determinata, mai irrilevante. Ogni teoria della società deve fare in primo luogo i conti con questa realtà, sebbene essa sia stata il punto di partenza di tutti gli idealisti i quali ebbero un ruolo del tutto irrilevante nella storia dello spirito dell’umanità. Che cos’è questa coscienza e che funzione svolge nella storia? La risposta del marxismo è una risposta chiara e precisa: io constato il fatto che gli uomini hanno una coscienza; seguo la storia e constato che essa vi adempie questa o quella funzione. Ma non mi riesce di negarla! O di sostituirla mediante una coscienza “costruita”, che non si può cogliere da nessuna parte, di cui non si sa se sia un uccello o un pesce, che esiste solo nel mio concetto». [4]

Libertà e necessità
Per Lukács l’essere umano è un’unione indissociabile di libertà e necessità. Fa la storia in circostanze non scelte, ma è sempre ad un bivio, può scegliere se restare all’interno del confine sociale in cui si è formato o mettere in atto il riorientamento gestaltico. L’essere umano introduce con la teleologia (il fine) la storia della collettività. La storia è l’intreccio di finalità, i cui effetti non sono del tutto prevedibili.
La coscienza per l’ortodossia è solo un ente determinato che ha l’illusione di potersi determinare ed essere libera nelle scelte. Per Lukács le coscienze sono dinamiche, vivono e si formano all’interno del modo di produzione, interagiscono con esso, sono attività creante, quindi sono portatrici di un potenziale di emancipazione capace di portarle al di là degli spazi di significato delle strutture di sistema. Il logos, la razionalità, ha la possibilità di rigenerare la totalità della prospettiva storica di cui la persona è parte con nuovi significati. Per l’ortodossia comunista-marxista la coscienza è invece consegnata ad un determinismo controllabile e concluso:

«Gli uomini hanno idee, sentimenti, si pongono persino taluni scopi e giungono a immaginarsi che tali idee e sentimenti abbiano un ruolo importante e autonomo nella storia; che tali scopi siano i medesimi che vengono realizzati nella storia. I materialisti hanno sempre combattuto questo modo di pensare. A seconda della formulazione specifica della teoria materialista si è perciò ricondotta la coscienza degli uomini ora a questo ora a quello, finché il moderno materialismo marx-engelsiano l’ha collegata in ultima istanza alla struttura economica. Del resto, non si tratta di una coscienza costruita, ma di quella vivente realizzata nella mente degli uomini. Ma ogni materialismo, qualunque sia la sua formulazione, ha in comune l’idea che tra la coscienza degli uomini e il mondo (società) che la circonda sussiste una connessione causale! La coscienza degli uomini è il prodotto del mondo che li circonda. Si tratta di una verità elementare, ma purtroppo tutta la nostra polemica contro il compagno Lukács verte su verità elementari del materialismo marxista». [5]

Come anestetizzare la corrente calda del pensiero critico
La coscienza, per i marxisti-positivisti, è misurabile, è ridotta a mere qualità primarie, è quantificabile e dunque prevedibile. La si può addomesticare per anestetizzare la corrente calda del pensiero critico:

«Le leggi, che dominano nella natura, fanno dunque posto al volere cosciente. L’“atteggiamento che diventa attivo”, la coscienza degli uomini, è certo qualcosa di nuovo rispetto alla natura, pur essendo in egual misura scaturito dalla natura. Ma gli idealisti vogliono servircelo come l’elemento decisivo, l’elemento determinante “in ultima istanza” della storia». [6]

Per riportare la categoria del possibile nella storia è necessario distinguere i processi naturali dai processi storici. I primi seguono un ordine deterministico ed irreversibile, mentre i secondi non sono meccanicamente determinati: le condizioni storiche permettono di progettare l’alternativa al presente con la responsabilità del singolo e della collettività. Attribuire alla storia gli stessi processi della natura è tipico del capitalismo e della sua curvatura tecnocratica che ha l’obiettivo di omologare e sottrarre dalla storia il pericolo dell’indeterminato relativo:

«Le abitudini mentali proprie del capitalismo hanno impresso a tutti gli uomini, e soprattutto a quelli orientati verso gli studi scientifici, la tendenza a voler spiegare il nuovo sula base del vecchio, la realtà d’oggi riducendola ai dati della realtà di ieri». [7]

 

Coscienza e comunità
La coscienza è condizionabile, ma non determinabile. La coscienza individuale, e specialmente di classe, può disalienarsi attraverso la categoria della totalità che consente di ricostruire il dato all’interno di relazioni. Tale genealogia permette di riposizionarsi e di elaborare nuove potenzialità comunitarie, di ribaltare il condizionamento ideologico per un processo storico di liberazione ed emancipazione, introducendo una faglia sostanziale rispetto alla linearità deterministica:

«Infatti, “nel pensiero esso appare come processo di sintesi, come risultato, non come punto di partenza, benché esso sia il vero punto di partenza e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione”. Il materialismo volgare invece – per quanto possa assumere una maschera di modernità, come nel caso di Bernstein e di altri – resta prigioniero della riproduzione delle determinazioni immediate, delle determinazioni semplici della vita sociale. Esso crede di essere particolarmente “esatto” quando le assume semplicemente senza analisi ulteriore, senza sintesi nella totalità concreta, quando le mantiene nel loro astratto isolamento e le spiega unicamente mediante leggi astratte, non riferite alla totalità concreta. “La rozzezza e l’assenza del concetto – dice Marx – sta proprio nel fatto di porre in relazione tra loro in modo accidentale, di inserire in un contesto meramente riflessivo». [8]

Coscienza e “falsa coscienza”
Il proletariato, gli sfruttati, gli infelici, per il filosofo ungherese sono i portatori in potenza della verità della storia. Essi possono riportare la verità dove vige la falsa coscienza con la categoria della totalità, possono risolvere le contraddizioni dal “basso”, svelare l’orrido del sistema, perché lo vivono nel loro doloroso quotidiano, e non vi è partito o burocrazia che si può sostituire alla prassi della emancipazione che spetta solo a coloro che subiscono la violenza del sistema:

«Infatti, la situazione di classe del proletariato introduce direttamente la contraddizione nella sua stessa coscienza, mentre le contraddizioni che provengono alla borghesia dalla sua situazione di classe, dovevano necessariamente manifestarsi come limite esterno della coscienza. D’altro lato, questa contraddizione significa che nello sviluppo del proletariato la “falsa” coscienza ha una funzione del tutto diversa che nelle classi precedenti. Mentre cioè, nella coscienza di classe della borghesia, per via del suo modo di riferirsi all’intero della società, anche il corretto accertamento di singoli dati di fatto o momenti dello sviluppo mette in luce limiti presenti nella coscienza, scoprendosi come “falsa” coscienza, nella stessa “falsa” coscienza del proletariato si cela invece, persino nei suoi errori materiali, un’intenzione verso la verità».[9]

Alla coscienza nella storia spetta il compito della prassi
La coscienza nell’interconnessone attiva resta fondamentale anche nelle fasi successive del pensiero, poiché senza di essa le connessioni storiche non sono possibili: la coscienza non è certo astorica, ma è nella storia, ad essa spetta il compito della prassi, di essere portatrice del movimento decisionale nella storia. L’ontologia dell’essere sociale è in continuità con la fase hegeliano-marxista, non è una discontinuità epistemologica, ma un affinamento del metodo e dei contenuti dell’indagine filosofica:

«La coscienza umana, invece, viene messa in movimento da posizioni teleologiche che oltrepassano l’esistenza biologica di un essere vivente, quantunque poi esse finiscano per servire direttamente anzitutto alla riproduzione della vita, in quanto a tal fine producono sistemi di mediazioni che in misura crescente retroagiscono, dal punto di vista tanto della forma quanto del contenuto, sulle posizioni stesse, per ritrovarsi però, dopo questi giro fatto di mediazioni sempre più ampie, di nuovo al servizio della riproduzione della vita organica». [10]

Nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi
La coscienza umana si forma all’interno dei rapporti materiali, ma non è il suo semplice epifenomeno: l’interazione con la realtà materiale consente “il salto qualitativo”. Nell’interazione si forma la consapevolezza decisionale. Nel lavoro, nella prefigurazione del fine, nella trasformazione attiva, la coscienza struttura la prassi, poiché gli stimoli ricevuti sono rielaborati, ne svelano l’attività decisionale senza la quale nessuna struttura economica è trascendibile:

«L’essenza del lavoro consiste proprio nel suo andar oltre questo arrestarsi degli esseri viventi alla competizione biologica con il loro mondo circostante. Il momento essenzialmente separatorio è costituito non dalla fabbricazione di prodotti, ma dal ruolo della coscienza, la quale per l’appunto qui smette di essere un mero epifenomeno della riproduzione biologica: il prodotto, dice Marx, è un risultato che all’inizio del processo esisteva “già nella rappresentazione del lavoratore”, cioè idealmente». [11]

La libertà non è ineluttabile, ma ha il suo fondamento nella vita della coscienza
Il trionfo della libertà non è ineluttabile, ma ha il suo fondamento nella vita della coscienza, la quale nella storia impara a conoscere la realtà materiale, se stessa e a tessere percorsi teleologici collettivi. La coscienza è libera se trasforma un dato astratto in concreto. La reificazione (“rendere qualcosa di astratto una cosa concreta”) è la condizione da cui emanciparsi, ma tale processo dialettico nella storia dell’umanità non avviene in modo necessario: solo in natura i processi accadono secondo leggi a cui nulla può sfuggire. Costanzo Preve, con la sua capacità di scandaglio, coglie la complessità del concetto di libertà e coscienza di classe nel filosofo ungherese, palesando che in Lukács la libertà e la coscienza non sono atti puri, ma vivono nell’interazione attiva della storia:

«La coscienza proletaria invece lo può fare, perché il proletariato non aspira a divenire una nuova classe sfruttatrice, ma ad abolire tutte le classi. Detto altrimenti, per la borghesia l’universalismo è impossibile, mentre per il proletariato è invece possibile. A sua volta, la categoria di possibilità non deve essere intesa nel senso di scelta arbitraria (katà to dynatòn), ma nel senso di possibilità necessariamente iscritta in una potenzialità ontologicamente garantita (dynamei on)». [12]

Costanzo Preve interpreta e giudica G. Lukács il più grande marxista del Novecento che ha congiunto Marx con le conquiste teoriche di Fichte, e che ha testimoniato – con la sua produzione filosofica controcorrente – la passione durevole per il comunismo e dunque la libertà quale fondamento non contrattabile.

Libertas philosophandi
Lukács è la testimonianza della inevitabile frizione tra potere e filosofia, tra libertas philosophandi e burocrazia. Ogni filosofo è “fedele al proprio destino”, risponde a se stesso, all’esodo perenne che lo sostanzia, che lo trasforma in un problema o in un enigma per il potere. Lukács, e la sua vicenda tormentata, simboleggiano l’errare della filosofia fuori dalle caverne nelle quali si vorrebbe rinchiudere il pensiero teoretico.
Ancora oggi Lukács è oggetto di rimozione nella sua patria, l’Ungheria, al punto che il governo di Viktor Orban ha chiuso nel 2012 l’Archivio Lukács privandolo dello status di luogo di ricerca e nel 2017 ha rimosso, nell’indifferenza globale, la sua statua dal parco San Istvan di Budapest.
Il pensiero, e la teoretica della libertà continuano ad intimorire – nel passato come nel presente. Sono cambiate le forme con cui si effettua l’uccisione, ma i liberi pensatori continuano ad essere una minaccia inquietante per i padroni dell’ordine del discorso. La congiuntura storica attuale ha relegato Lukács tra gli autori da censurare. Ma il pensiero sopravvive alle congiunture nefaste, per cui la storia – nel suo dinamismo – gli restituirà ciò che il presente gli toglie.
La filosofia è libertà dialettica che si occupa e pensa il concreto nella sua espressione massima, è ontologicamente fondata nella necessaria potenzialità umana di pensare per poter costruire percorsi di senso nella storia.

Salvatore Bravo

Costanzo Preve, Il testamento filosofico di Lukács

[1] AA.VV., Intellettuali e coscienza di classe. Il dibattito su Lukacs. 1923-24, Feltrinelli, Milano 1977, pag. 76.

[2] Ibidem, pag. 79.

[3] Ibidem, pag. 80.

[4] Ibidem, pag. 89.

[5] Ibidem, pag. 90.

[6] Ibidem, pag. 103.

[7] G. Lukács, L’uomo e la Rivoluzione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013, pag. 133.

[8] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973, pagg. 12-13.

[9] Ibidem, pagg. 94-95.

[10] G.Lukács, Ontologia dell’essere sociale, volume II, Editori Riuniti, Roma 1981, pag. 267

[11] G. Lukács, L’uomo e la Rivoluzione, op. cit., pag. 13.

[12] C. Preve, Il testamento filosofico di Lukács, IV parte, paragrafo 14, kelebek.


La statua di György Lukács rimossa da Orban dal parco San Istvan di Budapest.
Il governo ungherese odia la filosofia: rimossa la statua di Lukàcs, ebreo e marxista

Il governo ungherese di Orban ha deciso di rimuovere la statua del filosofo ungherese hegelo-marxista György Lukács, autore di pietre miliari della filosofia del Novecento. Un gesto criminale, che denota non solo ignoranza, ma anche un chiaro intento politico.

La statua di György Lukács rimossa da Orban dal parco San Istvan di Budapest.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Orhan Pamuk – Il segreto dello scrittore sta nello “scavare un pozzo con un ago”. Scrittori e lettori, usando la fantasia, avvertono quanto tutti gli uomini hanno in comune.

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«Il segreto dello scrittore non sta nell’ispirazione, che arriva da fonti ignote,
ma nella sua ostinazione e nella sua pazienza.
“Scavare un pozzo con un ago!”.
È un bel modo di dire turco che descrive il lavoro dello scritore.
[…] Chi scrive parla di cose che tutti conscono
ma che non sanno ancora di conoscere.
Così, scrittori e lettori, usando la fantasia,
avvertono quanto tutti gli uomini hanno in comune».

Orhan Pamuk, La valgia di mio padre, Einaudi, Torino 2207

Qual è il senso della letteratura? Come nasce un romanzo? In tre appassionate conferenze tenute nell’arco di un anno, fino al discorso di accettazione del Premio Nobel 2006, Orhan Pamuk disegna un ritratto dello scrittore nel mondo contemporaneo. La letteratura inizia dal gesto di chi si chiude in una stanza, si ripiega in se stesso e tra le proprie ombre costruisce un mondo nuovo con le parole. Proprio quell’isolamento nasconde in realtà un’apertura, la certezza che tutti gli uomini si somiglino e che il mondo sia privo di un centro. Essere scrittori, infatti, significa prendere coscienza delle proprie ferite interiori, e raccontarle ai lettori che le riconoscono per averle provate in prima persona, magari senza esserne consapevoli. E poiché ricordano ai lettori la loro fragilità, la loro vergogna e il loro orgoglio, gli scrittori suscitano ancora oggi nel mondo “molta rabbia” e “inaspettati gesti di intolleranza”. Ma i romanzi sono uno strumento indispensabile che le comunità hanno per riflettere sulla propria identità. “L’arte del romanzo mi ha insegnato che condividendo le nostre segrete vergogne diamo avvio alla nostra liberazione”.
 

 


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