Fernanda Mazzoli – Il lettore ansioso, “toujours anxieux au moment de lire …”. «… era il libro a cercarmi, non viceversa, era lui a condurmi per vie impreviste all’incontro e che questo avviene quando è il momento … Il libro che marcherà un’esistenza può avere atteso a lungo, dimenticato apparentemente su un ripiano, oggetto di timorose occhiate in tralice, una promessa per il futuro …».




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Luca Grecchi – “La filosofia morale di Democrito”. Come scrive Francsesco Verde: «Questo saggio ha prima di tutto il merito di richiamare l’attenzione (anche dei non specialisti del settore) sulla filosofia di Democrito e, più nello specifico, sul suo pensiero morale, spesso e volentieri trascurato, o perfino considerato inesistente o di frammentaria, dunque impossibile ricostruzione».



Presentazione di Francesco Verde

Se si provasse a dare un’occhiata anche cursoria agli studi recenti, perfino di carattere specialistico, in Italia o anche al di fuori dello Stivale, sul pensiero di Democrito, ci si accorgerebbe subito che, fatte salve alcune eccezioni (ricordo, per limitarmi ad alcuni esempi, l’utilissimo volume curato da C.C.W. Taylor, The Atomists: Leucippus and Democritus, stampato a Toronto nel 1999, la miscellanea curata da P.-M. Morel e A. Brancacci, Democritus: Science, the Arts, and the Care of the 50Soul, uscita nel 2007 per Brill e tre più recenti lavori in francese, Atomisme et sophistique. La tradition abdéritaine di A. Hourcade, del 2009, proprio sull’etica democritea, Démocrite d’Abdère. Aux origines de la pensée éthique di A. Motte, del 2022, entrambi stampati da Ousia, e la raccolta di saggi per Vrin Le plaisir et la nécessité. Philosophie naturelle et anthropologie chez Démocrite et Épicure di P.-M. Morel, del 2021), la personalità di questo autore non è certamente al centro degli interessi della critica. Se restringiamo, poi, il nostro sguardo all’Italia, dopo il lavoro importante di W. Leszl che pubblica nel 2009 per i tipi fiorentini di Olschki una Raccolta dei testi che riguardano Leucippo e Democrito e dopo l’indispensabile versione italiana del Democrito di S. Luria (Leningrad 1970) che vede la luce per Bompiani due anni prima, nel 2007, non si osserva affatto una pletora di contributi sull’Atomismo antico. Le ragioni sono molteplici; non affronto in questa sede la questione ma sono convinto che una certa diffidenza, tutta, per così dire, ideologica, nei riguardi del materialismo in generale giochi un ruolo non trascurabile in questa vicenda. Per tornare alla storiografia filosofica, ciò che manca (nella nostra lingua e non solo), dopo la rilevante monografia di P.-M. Morel su Démocrite et la recherche des causes (Paris 1996), è proprio un lavoro di insieme sulla filosofia di Democrito che sia in grado di offrire un quadro preciso e aggiornato sulle tante testimonianze che arrivano dall’Antichità su questo autore.

In effetti, sembrerebbe che la critica si sia interessata molto di più alla pur fondamentale collezione/catalogazione ragionata dei testi relativi a Democrito (si pensi, da ultimo, solamente all’edizione commentata del le massime democritee di etica a cura di G. Ruiu – La Vita Felice, Milano 2011 – e al ricchissimo volume VII della Early Greek Philosophy curato da A. Laks e G.W. Most per la Loeb Classical Library nel 2016 dedicato agli Atomismi antichi, che, dopo i capitoli 67 e 68 del Diels-Kranz, è ormai un punto di riferimento inaggirabile per chi intende accostarsi con cognizione di causa a questi filosofi), piuttosto che a una ricostruzione organica e sistematica dell’articolata riflessione filosofica di questo pensatore che spazia dalla fisica all’etica, dalla gnoseologia alla matematica, dalla musica alla medicina. A chi volesse avere un’idea di quanti e quali dovevano essere le opere di Democrito (ordinate da Trasillo in tetralogie esattamente come fece per le opere di Platone) è sufficiente scorrere l’elenco dei suoi scritti che fortunatamente Diogene Laerzio trasmette nel libro IX delle sue Vite.

Va da sé che, a causa dell’enorme naufragio (spesso dovuto al caso ma ancor più spesso dovuto alla netta deliberazione di chi ha voluto che certi scritti non dovessero “passare”) che ha provocato la perdita di buona parte delle opere antiche, non fanno eccezione gli scritti di Democrito: conosciamo solo titoli ma nessun contenuto integrale. Come per buona parte dei filosofi antichi (naturalmente con delle ben note eccezioni), di conseguenza, tocca allo studioso moderno raccordare – frequentemente non senza una buona dose di difficoltà – i testi più disparati e controversi per tentare di fornire un quadro il più possibile coerente e chiaro della riflessione del pensatore oggetto della sua analisi.

Questo, in buona sostanza, è ciò che fa il libro di Luca Grecchi che, a mio avviso, per tutte le ragioni che abbiamo appena esposto, ha prima di tutto il merito di richiamare l’attenzione (anche dei non specialisti del settore) sulla filosofia di Democrito e, più nello specifico, sul suo pensiero morale, spesso e volentieri trascurato o perfino considerato inesistente o di frammentaria, dunque impossibile ricostruzione. I problemi si infittiscono quando si considerano i frammenti etici trasmessi da Stobeo a volte sotto il nome di Democrito, altre volte sotto quello di Democrate; questo ha spinto non pochi studiosi a concludere che alcune di queste massime fossero spurie o addirittura di considerevole banalità per essere attribuite a Democrito, come si legge all’inizio del volume VII (pp. 4-5) della già citata Early Greek Philosophy. La prospettiva che Grecchi offre nel suo libro è un contributo a rivalutare in modo convinto e senza fuorvianti pregiudizi questi testi, nel tentativo di rintracciare, per quanto possibile, un filo rosso e una coerenza teorica tra loro, il che non è affatto scontato sebbene studi recentissimi vadano (per fortuna, aggiungo io) in questa direzione (penso, per esempio, ali articolo di M. Ransome Johnson, The Ethical Maxims of Democritus of Abdera, in D.C. Wolfsdorf (ed.), Early Greek Ethics, Oxford 2020, pp. 211-242).

In effetti, Democrito è celebre soprattutto per essere stato, insieme a Leucippo, il fondatore della tradizione atomistica antica, pertanto, il cuore della sua riflessione filosofica è senz’altro costituito dalla fisica; Aristotele (autore di ben due scritti dedicati a Democrito, come informa Diog. Laert. V 26-27: i Προβήματα ἐκ τῶν Δημοκρίτου in due libri e un Πρὸς Δημόκριτον in un libro solo) riconosce in Democrito il pensatore fisico per eccellenza e non pochi sono i luoghi aristotelici (per esempio nel De generatione et corruptione) nei quali, nel campo dell’indagine naturale, Democrito è perfino preferito a Platone. Del resto, da un certo punto di vista e su questo punto specifico, è difficile dare torto ad Aristotele: il fondamento della fisica democritea sono atomi e vuoto) dunque corpi e vuoto, i due principi che sono in grado di spiegare materialmente la concreta realtà delle cose. Stando al racconto verosimile del Timeo, il demiurgo ordinò il movimento riottoso, disordinato e vorticoso della chora, riducendo il corpo dei quattro elementi della tradizione empedoclea a superfici geometriche, ovvero a triangoli indivisibili: non pochi sono stati coloro che hanno voluto scorgere in questa sorta di “atomismo geometrico” un debito forte di Platone nei confronti di Democrito, tuttavia non mancano passi nei quali la critica eli Platone ai filosofi materialisti è forte e chiara (si tenga conto di luoghi celeberrimi del Sofista, ma anche del Teeteto). Tanto Platone quanto Aristotele, pertanto, hanno avuto ben presente soprattutto (ma non esclusivamente) come bersaglio polemico la filosofia di Democrito che essi considerarono quasi sempre dal suo versante fisico (a tale proposito mi piace segnalare il volume di T. Cole su Democritus and the Sources of Greek Anthropology, Atlanta 1967/1990, che ha il merito di mostrare il profondo debito – spesso deliberatamente non dichiarato – di Platone e Aristotele ma anche di Epicuro e Posidonio nei riguardi di Democrito circa i dibattiti sulla Kulturgeschichte nel pensiero antico).

Malgrado ciò – e questo il volume di Grecchi lo mostra bene – Democrito ebbe anche un importante pensiero etico-morale che non fu affatto da meno rispetto a quello fisico. Ora, il punto centrale che ha maggiormente interessato gli studiosi ha riguardato il rapporto tra la fisica e l’etica di Democrito. Grecchi, riprendendo gli studi di K. von Fritz, G. Vlastos, J.F. Procopé (specialnlente sul pensiero politico democriteo) e, in Italia, di E. Spinelli, è – a mio parere, giustamente – convinto che il legame tra fisica ed etica in Democrito non solo ci sia, ma sia anche indissolubile. Per esemplificare brevemente questo punto, del tutto centrale per Grecchi, può essere sufficiente sviluppare qualche considerazione circa i due termini propri dell’etica democritea, quali l’εὐθυμίη, la stabile condizione dell’anima, e l’εὐεστώ, il benessere. Ambedue i concetti (autentici cardini della riflessione etica democritea), menzionati da Diogene Laerzio (IX, 54), anche nella loro radice etimologica, mostrano un lucido riferimento a una buona condizione che non può che essere compresa in termini genuinamente fisici e materiali. Il punto, insomma, è che a stare al fondamento dell’etica è l’armonica condizione dell’assetto atomico dell’individuo: è, quindi, il misurato ed equilibrato stato della materia a giustificare il benessere dell’anima (altrettanto materiale). Si potrebbe, allora, perfino parlare di una sorta di “riduzionismo etico”, un’espressione, questa, che se contestualizzata all’interno del materialismo democriteo e se epurata da incrostazioni ideologiche storicamente infondate, esprime con efficacia il cuore della teoria morale di Democrito che Grecchi, raccordando insieme i disiecta membra testuali dell’arduo pensiero democriteo, ricostruisce qui con scrupolosa attenzione.

Il lavoro di Grecchi, in conclusione, va salutato con particolare gratitudine perché richiama, finalmente, l’interesse su un autentico gigante del pensiero, sovente intenzionalmente trascurato (a partire dagli stessi Antichi, del resto) ma, in ogni caso, sempre ben presente nel dibattito filosofico antico (e non solo) come ineludibile termine di confronto. La viva speranza con la quale mi sento di chiudere questa sintetica presentazione è che il libro di Grecchi possa aprire e stimolare nuove prospettive di ricerca sulla filosofia democritea: su di essa molte e molte cose rimangono (ancora)  da esplorare e da dire.

 

FRANCESCO VERDE

 



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Paul Claudel – «La filosofia del libro». Le parole hanno un’anima. La scrittura ha questo di misterioso: «Parla!». Con una nota di Ilaria Rabatti: «Lo scrignio di carta: voce, parola, scrittura».

Paul Claudel, La filosofia del libro e Le parole hanno un’anima [La philosophie du livre e Les mots ont une âme]. Testo francese a fronte, traduzione e cura di Ilaria Rabatti. ISBN 978-88-7588-417-8, 2023, pp. 96, formato 130×170 mm., Euro 13 – Collana “au milieu des livres” [2]. In copertina: Kubo Shunman, Horned Owl on Flowering Branch, Museum of Fine Arts, Minneapolis.



Ilaria Rabatti

Lo scrigno di carta: voce, parola, scrittura

 

 

«La scrittura ha questo di misterioso: parla».
Paul Claudel

 

 

Le papier blanc comme un flocon de neige a absorbé le sens.
Il reste l’écriture.
Paul Claudel

 

 

 

«Grand lecteur», «dévoreur de papier imprimé», per sua stessa definizione,1 Claudel nutrì nell’arco di tutta la sua vita una visione nobile, mai strumentale, del libro. Non semplice oggetto d’uso quotidiano, il libro si presenta a Claudel come una forza dinamica, «scrigno» e veicolo delle più alte aspirazioni dell’umanità. Questa concezione alta del libro come «strumento di conoscenza», «ricettacolo del pensiero», «laboratorio dell’immaginazione» è sicuramente connessa ai due maggiori influssi formativi della sua poetica: la Bibbia (il “Libro dei Libri”)2 e Mallarmé – vero maître à penser per Claudel – che considerava il Libro espressione suprema del significato dell’universo.3 Questa esperienza biblico-simbolista della parola e del linguaggio si riplasma in Claudel – grazie ai suoi lunghi soggiorni in Cina e in Giappone4 –, nella scoperta della filosofia cinese (soprattutto del Tao tê ching) e nella rivelazione di quel «culto del segno», di quella «religion scripturale» che caratterizza la cultura orientale e da cui egli rimarrà profondamente influenzato. L’eccezionale ricchezza delle “arti” del libro e della scrittura ideo-grafica aprirà infatti al poeta nuovi orizzonti formali5 spingendolo a considerare in una diversa prospettiva il segno grafico e ravvivando la sua riflessione intorno ad una realtà – quella della parola parlata e scritta – su cui sempre tornerà in tutta la sua opera.

Pur non considerandosi affatto un bibliofilo,6 Claudel mostrerà però sempre una profonda sensibilità per le qualità “fisiche” dell’oggetto-libro e per il valore grafico della parola, partecipando attivamente alla preparazione materiale delle sue opere, collaborando (e spesso confliggendo) con gli editori, a cui non risparmierà dettagliatissime istruzioni su ogni aspetto della realizzazione.7 È per questo che Claudel, quando nel 1925 fu invitato a Firenze a tenere una conferenza alla Fiera del Libro (il primo dei due testi raccolti in questa plaquette), offrì alle persone venute ad ascoltarlo una suggestiva riflessione sulla «filosofia» e/o sulla  «fisiologia» del libro (antenata della bibliologia) – se, come spesso è stato notato, nel titolo della conferenza andata in stampa vi è un refuso. Indeterminazione o misteriosa convergenza in un titolo che, comunque sia, mette ancor più in evidenza la stretta connessione, nel pensiero di Claudel, tra la forma, la funzione ed il significato più profondo del libro, inteso al tempo stesso sia come oggetto (e supporto scrittorio di segni incisi, dipinti, scritti o impressi) che simbolo.8

Lungi da ogni ortodossia bibliofila – come, forse, avrebbe richiesto il contesto in cui era chiamato a parlare – Claudel sembra infatti guardare il libro più come autore che come lettore, scegliendo di valorizzare nella sua conferenza, tra gli elementi che compongono il libro, proprio quello più fragile e mobile: la pagina. Per farlo restringe la sua analisi alla poesia, dove, ai suoi occhi, compiutamente si rivela l’armonia tra il contenuto e lo spazio che lo contiene, tra il pieno ed il vuoto, tra il nero della parola ed il bianco del carta,9 insistendo proprio sul ruolo capitale dello spazio bianco nella disposizione dei versi.10 Chiamando a testimone Un coup de dés di Mallarmé («ce grand poème typographique»), Claudel afferma che è proprio il disporsi degli spazi nella pagina a dare forma sensibile al pensiero poetico, a rendere l’atto della lettura un viaggio di esplorazione creativa e non una progressione meccanica e lineare lungo un «étroit rail d’encre»:11 «le poëme n’est point fait de ces lettres que je plante comme des clous, mais du blanc qui reste sur le papier».12

In questo senso, anche l’invenzione della stampa ed il passaggio dalla pagina manoscritta (qualcosa di vivo, fragile e «vibrante») alla pagina tipografica – con il suo carattere impersonale, stereotipato, monotono – segna per Claudel l’inizio di una decadenza e di un progressivo conformismo culturale – a cui corrisponde nel testo anche un uso differenziato della maiuscola (L) o minuscola (l) di “libro”.

Dopo Gutenberg infatti – salvo gli esordi mitici dell’arte tipografica in cui il libro acquista ad opera di alcuni straordinari stampatori una nuova preziosità – la storia del libro mostra secondo Claudel un progressivo degradarsi che è proporzionale al violento, fagocitante, avanzamento della tecnica tipografica ed alla trasformazione del libro in bene di lusso o in oggetto commerciale. Ed infatti, nell’amaro finale della conferenza, ironizzando sulla bruttezza carica di orpelli della tipografia novecentesca, alimentata dal fatuo gusto dell’esibizione, Claudel lascia intendere una certezza ben più amara: il libro, trasformato in un oggetto qualunque, «fatto per essere preso, ripreso, gettato, spiegazzato, strappato», svuotato della sua dimensione spirituale, certo sopravvive nel tempo, ma “cristallizzato” nell’oggettistica dei soprammobili per “uomini-consumatori” che, avendo «più sensibile l’occhio che l’intelligenza» non avranno più alcun interesse a leggerlo.

L’indissolubile connessione logica tra libro e scrittura, che egli pone a fondamento della Filosofia del libro, andrà (idealmente) proseguendo in quella tra parola e lettera nel secondo e più tardo testo qui raccolto, Le parole hanno un’anima, dove è esemplificata (giocosamente) una delle più importanti idee motrici della poetica claudeliana. Come per il Platone del Cratilo anche per Claudel «i nomi appartengono naturalmente alle cose»,13 cioè vi è un rapporto diretto, oggettivo, fra la cosa e la forma della parola (il suo segno), tra il nome e la realtà. Ma alla sostanza e alla forma sensibile delle parole si aggiunge – suggerito dal loro «tracé expressif» – anche un elemento «dinamico» ,14 una forza magica, viva di per sé, che le fa muovere, «camminare» («notre mot marche»).15

Così, l’appassionato interrogare la parola che Claudel eredita da Baudelaire e Mallarmé – non solo intorno al senso, ma anche intorno al segno grafico in cui essa si manifesta, che, in sintonia con le culture orientali, gli appare a tutti gli effetti un “essere vivente”, una voce che «l’occhio ascolta»16 – apre ad un uso inedito, non ordinario delle parole, un uso poetico, che ha appunto come sua finalità quella di “significare”.17 Ma se per Claudel la parola deve significare, essa deve anche, forse soprattutto, sedurre con il suo «colore», il suo «odore» e i suoi «fantômes sonores». Ed ecco che i suggestivi calembours sfoggiati nel testo – una piccola, ma significativa collezione di trouvailles di non facile traduzione – assurgono, con le loro notazioni, aneddotiche, pittoresche e (pseudo)etimologiche, a veri e propri gioielli dell’uso metaforico e fantastico delle parole di cui Claudel è insuperabile maestro.

 

1 P. Claudel, Mémoires improvisés, Paris, Gallimard, 2001, p. 37.

2 A partire dalla tradizione biblica la creazione e la coscienza dell’essere umano, oltre che la Scrittura, sono concepite come libro. Bibbia è infatti un termine antonomastico di derivazione greca che significa “Libri”. Tale etimologia spiega anche la ragione per cui, fino al Medioevo, la Bibbia spesso venisse chiamata anche “Bibliotheca”.

3 Cfr. S. Mallarmé, Le livre, instrument spirituel: «Tout, au mond, existe pour aboutir à un livre», in Poesie e prose, con testo a fronte, introduzione e note di V. Ramacciotti, Milano, Garzanti, 1992, p. 324.

4 Claudel soggiornò come console per circa quindici anni, dal 1894 al 1909, nella Cina meridionale e successivamente, dal 1921 al 1927, come ambasciatore in Giappone.

5 Questa influenza orientale si manifesta già a partire da Connaissance de l’Est (l’edizione del 1914 realizzata da Victor Segalen nella sua pregiata “collezione coreana”) per poi rafforzarsi nelle successive pubblicazioni “giapponesi” – La muraille intérieure de Tokyo(1923), Le vieillard sur le Mont Omi (1925), dove l’impiego di carte pregiate e ricercate legature mira a creare una sottile corrispondenza tra i testi poetici e la loro forma concreta – per arrivare in Cent phrases pour éventails (1927) alla sostituzione dei caratteri occidentali con gli ideogrammi giapponesi e con la calligrafia della propria mano.

6 Cfr. la lettera a Gide del 27 marzo 1911 in P. Claudel e A. Gide, Correspondance, Paris, Gallimard, 1949, p. 169.

7 Per una dettagliata descrizione delle vicende editoriali e dell’impegno “tecnico” di Claudel nella pubblicazione delle sue opere a partire dalle Cinq grandes Odes si veda il saggio di M. Lioure, L’amateur de livres, in “Bulletin de la Société Paul Claudel”, n. 224 (2018), pp. 11-22.

8 Fin dall’inizio della conferenza infatti è suggerito, come in filigrana, anche l’uso biblico-metaforico della parola “libro” quando Claudel, ripercorrendo brevemente le tappe della sua carriera diplomatica, scrive (p. 15): «La mia vita! Se tento di compulsare quel libro inconsistente che è l’esistenza di un viaggiatore». Come non pensare ad un’eco della visione giovannea nell’Apocalisse (20, 12): «Furono aperti i libri. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. E i morti vennero giudicati secondo le opere loro che vi erano scritte».

9 Cfr. P. Claudel, Sur le vers français, in Œuvres en prose, cit. p. 7: «La parole humaine […] est une sommation du silence, elle appelle, elle provoque quelque chose d’égal ou de comparable à elle-même. Quand le poète a proféré le vers pareil à une formule incantatoire, il répond quelque chose dans le blanc».

10 Cfr. P. Claudel, La filosofia del libro: «Il bianco non è infatti per la poesia solo una necessità materiale imposta dall’esterno. È la condizione stessa della sua esistenza, della sua vita, del suo respiro» (vedi supra, p. 43). Per la metafora del bianco che infonde la vita nel testo attraverso il principio della respirazione, si veda anche il cit. saggio di Claudel Sur le vers français in Œuvres en prose, cit., p. 32: «Le vers composé d’un ligne et d’un blanc est cette action double, cette respiration par la quelle l’homme absorbe la vie et restitue une parole intelligible».

11 P. Claudel, Le Poète et le Shamisen, in Œuvres en prose, cit., p. 821.

12 P. Claudel, Cinq grandes Odes, in Œuvre poetique, cit., p. 224.

13 P. Claude Journal I, cit., p. 245.

14 Cfr. P. Claudel, Journal I, cit., p. 493: «Les mots n’ont pas seulement un timbre, une couleur, une odeur, ils ont aussi certain potential, une tension, une valeur dynamique. C’est même l’element le plus important». È qui evidente l’ascendenza rimbaudiana del Sonnet des voyelles.

15 Le parole hanno un’anima, vedi supra, p. 68.

16 L’œil écoute è il titolo di una raccolta di saggi sull’arte pubblicati da Claudel nel 1946. Claudel guarda alle parole – che talvolta «constituent de vrais petits paysages» come a dei quadri (“tableaux”). Ho sempre trovato suggestivo il fatto che “voce”, in linguistica, sia sinonimo di parola, vocabolo o lemma.

17 Cfr. P. Claudel, Sur l’inspiration poétique, in Œuvres en prose, cit. p. 47-48: «L’habitude est, comme on dit, une seconde nature. Cela veut dire que nous employons dans la vie ordinaire les mots non pas proprement en tant qu’ils signifient les objets, mais en tant qu’ils les désignent […] ils nous en donnent une espèce de reduction portative et grossière, une valeur, banale, comme la monnaie. Mais le poète ne se sert pas des mots de la même manière. Il s’en sert non pas pour l’utilité, mais pour constituer de tous ces fantômes sonores que le mot met à sa disposition, un tableau à la fois intelligible et délectable».

 



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Claudia Baracchi – «Aristotele. Il pensiero e l’animale». L’appassionata, inedita riflessione, della studiosa che ha saputo «affinare l’ascolto» del pensiero di Aristotele tra “logos” e “nous”. Qui una pagina su “desiderio”, sulla domanda del “desiderio” che è domanda su di sé, su “vera eccellenza” e “mera continenza”.

Claudia Baracchi, Aristotele. Il pensiero e l’animale, Feltrinelli, Milano 2023


Aristotele è l’erede per eccellenza. Nessuno ha valorizzato di più i predecessori, riconoscendo il debito nei loro confronti. La sua è una grande lezione sul pieno e sul vuoto della trasmissione, sulla consapevolezza di appartenere a un tempo e a un luogo in cui riecheggiano altri tempi e altri luoghi.


Cosa può significare, oggi, ereditare Aristotele? È possibile accogliere l’antico senza finire vittime della commemorazione, intrappolati nei tediosi codici del canone? O non è forse tempo di disfarci di figure ingombranti del passato, proprio per emanciparci e far spazio al futuro? Eppure il passato non ha esaurito il suo corso vitale, non è stato compreso a fondo. Potrebbe così accadere che le figure dell’antico ci appaiano meno evidenti del previsto, che a ben vedere non si prestino a sommarie riduzioni. Ereditare, di Aristotele, insieme a dottrine e assiomi anche i dubbi, le aperture, il mutismo, comporta prendere atto che la persistenza dei problemi non indica fallimento o paralisi. È un segnale della gravità delle domande fondamentali e della serietà richiesta nell’affrontarle. Comporta disimparare l’Aristotele ricevuto, sottrarlo dall’edificio della trasmissione tradizionale, riconoscere impasse e difficoltà, affinare l’ascolto. E, così facendo, tentare di cogliere nella parola antica l’alterità, la lontananza, ciò che deve essere ancora udito e che, forse, resta a venire. Nella coscienza che la cristallina elaborazione del pensiero razionale si fonda nella vita, non viceversa; e che la vita, a un tempo vulnerabile e immensa, resta indefinitamente eccedente rispetto al logos che pure la attraversa e le appartiene.



Curriculum vitae della Professoressa Claudia Baracchi

Claudia Baracchi


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Lukáš Houdek – «Filosofia dal naso rosso. Il travaglio di un clown, la nascita di un trickster». «Philosophy with a red nose. Clown labour, trickster birth». Prelude di Rodrigo Morganti: «Il Clown è l’emanazione della gioia, della condivisione … il suo linguaggio è il gioco … è la celebrazione della meraviglosa perfezione dell’inperfezione umana». «Clowning the of joy, sharing, of being allowed to show one’s vulnarability while staying open to the point of accepting that people laugh with us. Its language consists of playing games … It’s the celebration of the wonderful perfection of human imperfection».

Lukáš Houdek,
Filosofia dal naso rosso. Il travaglio di un clown, la nascita di un trickster.
Clown Labour – Trickster Birth.
Preludio di Rodrigo Morganti.
Traduzione di Alessandra Filannino Indelicato.

ISBN 978-88-7588-337-9, 2023, pp. 120, formato 130×170 mm., Euro 15 – Collana “coralli di vita” [3].

In copertina: Autore ignoto, Disegno di un Court Jester, probabilmente di epoca medievale.


AUTHOR’S NOTE

I finished writing in Piran – a Slovenian town on the border with Italy and Croatia. A peninsula surrounded by the sea, yet another border, this time between the land and the air. I steadily grew weary of the sentences that have until now accompanied us, as they kept washing me up against a very different but always familiar shore. I realise what I have attempted and, inadvertently, failed at. I tried to describe an experience, to incarnate thought, to touch by conjuring up ghosts of words. I made a leap and bounced back, much like a fly that is ignorant of the concept of transparency. Thresholds are impossible to inhabit and even paradox itself will eventually have to invite its opposite if it seeks a meaningful conversation. I will now go out and look for you, my reader, despite all I had said in the beginning. We will meet in the old town, in the filled-up harbour, by the long-since demolished drawbridge, in the dry scent of the sea to utter the afterword together.

Lukáš Houdek

Praha-Padova-Piran, summer 2023

NOTA DELL’AUTORE

Ho finito di scrivere a Piran – una città slovena sul confine tra Italia e Croazia. Una piccola penisola circondata dal mare, l’ennesimo confine, questa volta quello tra terra e cielo. Ho sentito molto fortemente che mi sono venute a noia le parole che ci hanno finora accompagnato, mentre continuavano a farmi rilavare su una costa davvero differente dalla mia, e tuttavia in qualche modo familiare. Mi rendo conto solo ora del mio tentativo, involontariamente fallito. Ho provato a descrivere un’esperienza, a incarnare un pensiero, di allenare il tocco mentre evocavo fantasmi di parole. Ho fatto un salto e poi sono tornato indietro, più o meno come una mosca che ignora il concetto di invisibilità. Le soglie sono dimensioni impossibili da abitare e anche i paradossi, alla fine, richiamano sempre il loro opposto, se si cerca una conversazione di senso. Ora, caro lettore, esco di casa, e andrò cercandoti, nonostante tutto quello che ti ho detto finora. Ci incontreremo in centro storico, in un porto affollatissimo, al ponte levatoio – quello che hanno demolito da tempo –, nel profumo secco e salato del vento di mare. Pronunceremo insieme la postfazione.

Lukáš Houdek

Praga, Padova, Piran; estate 2023



Preludio di Rodrigo Morganti

Clowning is the emanation of joy, sharing, of being allowed to show one’s vulnerability while staying open to the point of accepting that people laugh with us.

Its language consists of playing games.

It’s everything and its opposite.

It’s the celebration of the wonderful perfection of human imperfection.

It’s a difficult subject for a book: difficult but not impossible. And Lukáš, aware of that, succeeded in this task, breaking the fourth wall, and esta-blishing a direct relationship with the reader.

I hope that you will enjoy this book as I did.

 

Il Clown è l’emanazione della gioia, della condivisione, del poter mostrare la propria vulnerabilità in un’apertura tale da accettare che la gente rida con noi senza chiuderci.

Il suo linguaggio è il gioco.

È il tutto e il contrario di tutto.

È la celebrazione della meravigliosa perfezione dell’imperfezione umana.

Difficile farci un libro, e proprio perché è difficile non è impossibile, e Lukáš lo sapeva e ci è riuscito, rompendo la quarta parete e istituendo una relazione diretta col lettore.

Spero che ve lo godiate come me lo sono goduto io.

(Rodrigo Morganti, clown, clown-dottore e formatore. É stato il primo in Italia (1995) a portare il naso rosso in ospedale, ha girato l’Italia e il mondo formando nuovi health-care clowns, e facendo aggiornamento e formazione continua per clown, personale medico, scuola, aziende e privati. Attualmente è direttore artistico della “Fondazione Dottor Sorriso” e dell’ Ong libanese “Ibtissama”.)




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giovanni Casertano – «Morte (e Vita). Viaggio dal concetto all’incantesimo, ovvero dai Presocratici a Platone». Pensare ed agire con bellezza e con amore, con eccellenza e verità. È questa la mortale immortalità degli uomini.

Giovanni Casertano, Morte (e Vita). Viaggio dal concetto all’incantesimo, ovvero dai Presocratici a Platone.

ISBN 978-88-7588-419-2, 2023, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “il giogo” [179].

In copertina: La Tomba del Tuffatore a Paestum (480-470 a.C.), Museo Archeologico Nazionale di Paestum.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Valentino Saccà – Le armi della commedia per scardinare i paradigmi di una guerra assurda e senza fine e per giungere alla “soluzione dei due Stati”, uno arabo e uno ebraico.

Valentino Saccà

Le armi della commedia per scardinare i paradigmi
di una guerra assurda e senza fine,
e per giungere alla
“soluzione dei due Stati”, uno arabo e uno ebraico

 

Mentre ascolto le notizie dell’ultima ora sul fronte del conflitto Israeliano-Palestinese, e avendo negli occhi quanto si verifica a Gaza, ripenso due film palestinesi come Intervento divino (2001) di Elia Suleiman e Tutti Pazzi a Tel Aviv (2018) di Sameh Zoabi, ambedue legati al tema della sanguinosa  eterna guerra. Ma attenzione! Entrambi i film sono delle commedie!

La commedia, viene troppo spesso considerata un genere cinematografico minore e relegato al semplice e immediato intrattenimento umoristico, quando invece la storia del cinema (e della cultura in genere) ci insegna che a volte l’umorismo può avere uno sguardo profondo che va oltre la superficie, in grado di scardinare con il sorriso a fior di battuta stereotipi e convenzioni che alimentano l’odio ideologico, culturale o più semplicemente l’odio tout court. Un tema delicato e tragico come il genocidio ebraico, che ancora oggi ci tocca da vicino, è stato riletto attraverso la lente della commedia per esempio con La vita è bella (1997) di Roberto Benigni, o con il geniale delicatissimo Train de vie. Un treno per vivere (1998) del romeno Radu Mihăileanu, e possiamo risalire fino a capolavori come Vogliamo vivere! (1942) di Ernest Lubitsch e Il grande dittatore (1940) di Charlie Chaplin (più legato all’ascesa del nazionalsocialismo). Tutti film che hanno saputo usare la chiave del riso e della commedia a un tema profondamente serio come quello della shoah, senza svilirne il portato tragico.

Nelle commedie di Suleiman e Zoabi avviene lo stesso. Se applicato al conflitto arabo-israeliano e rivedendo oggi quelle pellicole, quando si è aperta una nuova e sanguinosa pagina di questo scontro senza fine, si fa più evidente lo spettro della tragedia che aleggia sinistramente dietro il velo dell’umorismo.

Elia Suleiman resta uno degli ultimi grandi comici della storia del cinema, la sua maschera candida e imperturbabile, che fonde Buster Keaton con Harry Langdon, attraversa le tragedie politico-sociali del suo paese facendone emergere le assurdità e le incongruenze, attraverso un humor surreale e lunare, che non nasconde la sua profonda umana tenerezza.

Intervento divino è sicuramente il suo film più noto in Occidente (vincitore del premio della giuria al 55° Festival di Cannes) e racconta le difficoltà del protagonista diviso tra un padre malato e la donna che ama, mentre nella città di Nazareth le tensioni tra arabi e israeliani si fanno sempre più accese. Il film di Suleiman è un gioiello di umorismo nonsense, puntellato di gag che ricordano Jacques Tati, in grado di far riflettere sulla demenzialità di una guerra che sta spersonalizzando gli individui e prosciugando i sentimenti umani.

Tutti pazzi a Tel Aviv presenta invece una doppia struttura temporale e narrativa, il film è ambientato nell’odierna Gerusalemme, ma in parallelo viene riscostruita in forma di soap opera la Palestina del 1967, durante la «Guerra dei sei giorni».

Due piani narrativi, la realtà contemporanea e la rappresentazione di un fatto storico in forma di serie televisiva. Il gioco che mette in scena Sameh Zoabi tra passato e presente e finzione nella finzione, permette di rileggere e reinterpretare la Storia attualizzandola e di smontare (attraverso l’ironia satirica della scrittura di una finta soap) i paradigmi assurdi che muovono il conflitto. Il protagonista si improvvisa sceneggiatore della serie Tel Aviv brucia (che nella finzione filmica monopolizza l’attenzione collettiva), per poter cavarsela durante un interrogatorio al check point israeliano, diventando realmente uno sceneggiatore del programma Tv ma scrivendo i dialoghi su ordine del militare israeliano.

Il meccanismo comico-brillante che avvia la storia può ricordare quello di Pallottole su Broadway (1994) di Woody Allen, ma Zoabi evita qualsiasi forma derivativa, creando una scrittura intelligente, limpida e originale, in grado di rovesciare con sarcasmo i fondamenti culturali e politici che proseguono a dilaniare il Medio Oriente.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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In memoriam di Giancarlo Paciello. Uno sguardo sul Medio Oriente. Giovedì 16 novembre 2023, ore 20,45. Sarà ospite Sami Hallac, originario dei territori palestinesi occupati nel 1967.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Luca Grecchi – «Il concetto di philosophia dalle origini ad Aristotele». Con una prima recensione di Salvatore Bravo e una intervista su «Letture.org».



Salvatore Bravo

Filosofia/Filosofie

La ricerca filosofica di Luca Grecchi è ricerca dell’umano e del suo senso. In questi nostri tempi di sola ragione strumentale, vi sono autori che ci rammentano – con la loro testimonianza – che la filosofia non è soltanto ricerca teorica, ma anche prassi: teoria e prassi, in armonica unità, con il compito di promuovere lo sviluppo delle molteplici dimensioni dell’essere umano, così che ogni soggetto possa esprimere la propria eccellenza, nella luce che si irradia allora dalla ritrovata essenza della propria natura etica e razionale. Si tratta di una trasgressione all’ordine del discorso vigente, una rara postura, la cui presenza ci è sostegno e di incoraggiamento.

La ricerca filosofica non è da chiudere in un forziere come gioielli e diamanti[1], metafora utilizzata da Platone, ma essa è un seme che per svilupparsi necessita del buon terreno e dunque di uomini e donne disponibili all’ascolto dialettico. La filosofia è dunque un bene comunitario, può nascere in qualsiasi tipo di terreno-comunità, purché vi siano uomini e donne orientati alla verità e al bene.

La filosofia è comunità in cammino che trae da sé l’orizzonte etico e razionale verso cui tendere. Ci si salva assieme, per questo il seme della filosofia necessita di buoni terreni da curare e coltivare, mai singolarmente, ma in una relazione paideutica ed etica. Nel suo percorso di ricerca Luca Grecchi ha chiarito il concetto di “Filosofia”. Non è una banalità. In una realtà accademica dominata dalla frammentazione della Filosofia in specialismi, definire la Filosofia significa trascendere divisioni e dispersioni che inevitabilmente hanno condotto la disciplina verso la sua “crisi”. Senza identità non vi è la razionalità del senso. La Filosofia assimilata a qualsiasi altra scienza specialistica, per piacere al mondo, finisce con annichilirsi in una pletora irrazionale di campi specialistici, in cui è rimosso l’essenziale della prassi filosofica. La filosofia è tale se risponde a tre paradigmi, i quali sono tra di loro in una feconda relazione dialettica:

«Per quanto concerne l’analisi che ho cercato di effettuare del concetto di philosophia nel pensiero greco originario, giunsi già nel 2008, come ricordato, ad elaborare una definizione che ho sostanzialmente mantenuto invariata fino ad oggi. In base ad essa la philosophia, nella sua essenza, costituisce, sin dall’inizio, un sapere caratterizzato da tre elementi essenziali: a) come contenuto la ricerca veritativa sull’intero della realtà; b) come fine la buona vita degli esseri umani; c) come metodo principale la dialettica[2]».

La Filosofia sin dalle origini tratta dell’interalità, essa ha come oggetto l’analisi critica e valutativa della realtà storica per verificarne la sua conformità alla natura umana. L’intero (to holon) non è il “tutto” (to pan)[3], in quanto l’interalità pone le parti in relazione, mentre il tutto è semplice giustapposizione delle parti. Lo sguardo filosofico per poter far emergere la verità storica e valutarla con il paradigma della natura umana deve relazionare le parti, in modo da dimostrare dialetticamente il giudizio valutativo e far emergere le connessioni dinamiche. L’infelicità di molti nell’odierno sistema capitalistico è il risultato delle relazioni competitive e crematistiche che muovono il sistema. La buona vita non è mai solitaria, è pratica che si coltiva in comune, in quanto ogni essere umano per “natura” è parte di un intero con il quale si relaziona. La rimozione della Filosofia, e la messa in campo delle Filosofie, ha la sua ragion d’essere nell’occultamento pianificato della valenza etica e valutativa della Filosofia. Il sistema capitalistico si sottrae al giudizio qualitativo, in modo da neutralizzare l’elaborazione di modelli sociali ed economici alternativi. Pertanto la Filosofia sopravvive solo nella forma depotenziata delle Filosofie, le quali sono la riproduzione delle scienze, che colgono, per loro statuto epistemico, la parte e mai l’intero.

 Sophia

La filosofia nei manuali è definita “amore per la sapienza”. La banalizzazione della Filosofia spesso conduce a non pensare la relazione tra l’amore-desiderio e la sapienza. Anche in questo caso lo sguardo filosofico di Luca Grecchi ci offre non solo una descrizione fenomenologica, ma anche una valutazione critica con notevoli risvolti etici. La philia è il desiderio-amore, ma se il desiderio-amore prevale sulla sophia rischia di essere desiderio-passione del male e dell’irrazionale. Il nostro sistema crematistico spinge l’umanità al desiderio dei consumi, in questo caso il desiderio è dimensione funzionale agli interessi del capitale. Si tratta di desideri anche di “cose cattive” ma percepite come buone. Per questo il termine philosophia implica, in primis, la ricerca (theorein) della sophia, in modo che il soggetto sia sottratto al caos e al tumulto dei desideri indotti o pulsionali e possa orientarsi verso (“il bene”). La felicità è nella pratica del desiderio mediato dalla sapienza: ecco trovata la ragione dell’infelicità nel capitalismo, in esso è il desiderio a prevalere fino a cancellare la sapienza critica e dialettica:

«Quando, in effetti, la philia assume il primato, si può facilmente desiderare di divenire philoi di ogni cosa, anche dannosa. Platone parla infatti, in un noto esempio, dei philotheamones, ossia degli amanti degli spettacoli, i quali, nonostante vi siano molte occupazioni utili, tendono ad appassionarsi a tutti gli intrattenimenti inutili che offre il mondo crematistico, finalizzando male il proprio desiderio, pertanto utilizzando male il proprio tempo, quindi vivendo male la propria vita. Chi attribuisce preminenza alla philia rispetto alla sophia, in effetti, si comporta come i Sofisti, i quali “vanno errando tra le molte realtà che sono in molti modi, e per questo non sono filosofi”[4]».

La Filosofia è un sapere teoretico sempre in relazione con la prassi. La felicità è governo delle passioni, ma queste possono assumere una forma etica solo nella chiarezza della verità-bene. La storia della Filosofia, palesa Luca Grecchi, è caratterizzata dalla relazione teoria-prassi con modalità e gradualità differenti, ma sempre all’interno dello stesso canone:

«La philosophia, infatti, si presenta sin dagli inizi della cultura ellenica come unità di pensiero e azione, in quanto l’anthropos, per realizzare la propria natura razionale e morale, deve insieme pensare e agire. Esso deve, meglio, pensare ricercando sul piano teoretico la verità, ed insieme agire ricercando sul piano pratico il bene. È vero, infatti, che la conoscenza teoretica della verità consente la migliore azione pratica finalizzata alla realizzazione del bene, ma è vero anche che la realizzazione di azioni pratiche finalizzate al bene consente al contempo un migliore rivolgimento teoretico alla conoscenza veritativa. Per questo motivo fra verità e bene, così come fra teoria e prassi, vi è circolarità. Una buona prassi di vita consente di conoscere con maggiore verità, così come conoscere con maggiore verità favorisce una buona prassi di vita[5]».

Thauma

Lo Thauma come condizione del filosofare è presente sia in Platone che in Aristotele. Il terrore-meraviglia (thauma) dinanzi all’incerto e all’aporia conduce all’infelicità. L’incerto e la precarietà in ogni loro aspetto conducono all’instabilità e alla passività. L’essere umano ricerca con la verità-bene la stabilità per poter progettare ed essere soggetto attivo della sua esistenza comunitaria. La sophia risponde a tali esigenze, essa non è un sterile domandare, essa è ricerca delle risposte che scaturiscono dalle domande da porre. Sapere perfettibile in quanto dialettico e comunitario non si arena nelle sabbie mobili delle sole domande, ma è risposta all’angoscia dell’esistenza. La Filosofia è prassi, e ciò è testimoniato dalla costante relazione tra teoria e prassi presente sin dalle origini:

«Se è vero, dunque, che il thauma derivante dalla mancata sophia produce la philia verso la sophia, come tale benefica, è vero però anche che, finché si rimane in una situazione di thauma, ossia di mancanza, ci si trova in una condizione di infelicità. Così è sia per la sofferenza di non conoscere le risposte a problemi importanti, sia per la fatica di doverle ancora cercare, sia per l’incertezza di non sapere se si riuscirà a trovarle. È infatti solo quando il desiderio di sophia risulta compiutamente appagato, nei limiti umanamente possibili, che si può giungere ad una condizione, almeno temporanea, di felicità. Per la natura finita dell’anthropos, in effetti, lo spazio per un appagamento definitivo, ossia per l’estinzione totale del desiderio di sophia, con tutto ciò che ne consegue, non è mai per Platone destinato a verificarsi. Il logos, infatti, per quanto si incrementi, in un ente finito come l’anthropos non può mai conoscere infinitamente, ossia non può mai concludere il proprio compito, come già aveva compreso Eraclito (22 B 45, B 115)[6]”.

Sophia e desiderio

La sophia è desiderio raggiungibile e realizzabile. Non è un vano desiderio adolescenziale che si perde e disperde nel gioco delle domande, ma è risposta che trasforma le esistenze e pone le condizioni per “la buona vita”. La felicità è una relazione tra sapienza, bene e desiderio. Solo la conoscenza della verità e del bene è apportatrice di desideri che nel loro realizzarsi pongono in prassi la felicità:

«Il tema della ricerca del bene risulta dunque strettamente connesso, per Platone, con il tema della felicità. I philosophoi, infatti, desiderano conoscere il bene non per curiosità teoretica, ma per l’efficacia pratica che questa conoscenza porta con sé nel favorire una vita felice. Come ripete in effetti più volte il filosofo ateniese, chi conosce con verità il bene è portato a fare il bene, anche il proprio, dunque ad essere felice. Non a caso l’espressione eu prattein, la quale indica lo svolgimento di una buona prassi, è traducibile sia con “agire bene”, sia con “stare bene”. Una vita in cui si agisce bene è infatti una vita in cui si sta bene, ossia in cui si è felici. Per questo nella Repubblica si afferma che il filosofo, ossia la persona che conosce meglio la felicità, facendone quotidianamente esperienza, è anche colui che sa meglio giudicare in merito a questa tematica[7]».

Lo Stagirita affermerà nel frammento “Sulla Filosofia” che la Filosofia è una luce che pone in chiarezza ciò che è nascosto. Essa non vive tra le ombre, ma le pone in fuga, in modo da mostrare-dimostrare non solo com’è la realtà, ma anche come “dovrebbe essere”. È in questa relazione olistica e dialettica che l’essere umano si ritrova e può realizzare compiutamente la sua natura etica:

«La testimonianza attestata da questo frammento, come noto, assai discussa, riporta che per lo Stagirita ”la sophia fu chiamata così come se fosse una specie di chiarezza (sapheia), in quanto rende chiare tutte le cose”. Essa sarebbe, cioè, «una specie di luce», in grado di illuminare le realtà più nascoste, ossia quelle che stanno alla radice di tutto, ovvero le cause prime. Esse, infatti, pur chiarissime in sé, risultano, almeno inizialmente, oscure per noi, a causa dei limiti della umana conoscenza. La sophia rappresenta dunque, per Aristotele, il sapere più profondo, in grado di mostrare non solo come le cose sono, ma anche come devono essere[8]».

La Filosofia nasce per Aristotele per rispondere ai problemi della vita, e affinché ciò possa essere non è necessaria solo la phronesis, ma essa è tale solo se guidata dalla sophia:

«Così è in quanto la phronesis, ossia la capacità di deliberare in maniera efficiente scegliendo i mezzi più idonei alla realizzazione di un fine buono, risulta attività strumentale al bene dell’anthropos, non attività fine a sé stessa, dunque libera, quale è appunto la sophia. Poiché una attività strumentale risulta sempre inferiore rispetto a una attività libera, così come uno strumento risulta sempre inferiore rispetto al fine cui tende, la phronesis risulta subordinata alla sophia. Aristotele utilizza spesso, in merito, l’analogia fra la phronesis/medicina e la sophia/salute, per indicare che la prima può solo essere un mezzo in funzione della seconda, che è fine105. In particolare, egli afferma che la phronesis “non è signora della sapienza (oude kuria … tes sophias)”, per cui può dare “ordini in vista di quella, ma non a quella”[9]».

Il testo di Luca Grecchi ci guida a trascendere i pregiudizi verso la Filosofia, poiché nel nostro tempo “all’ombra del capitale” si censura il corpo vitale della Filosofia mediante l’occultamento del suo senso e con la produzione pianificata di pregiudizi-chiacchiere su di essa. Il testo di Luca Grecchi è catartico, contribuisce a liberare la Filosofia dalle sovrastrutture che ne inibiscono il volo dialettico verso il bene e ci riconcilia con una disciplina che non è mero esercizio di domande, ma è ricerca della “buona vita” per ogni essere umano.

[1] Luca Grecchi, Il concetto di philosophia dalle origini ad Aristotele, Scholè Morcelliana 2023, pagg. 162-163.

[2] Ibidem, pag. 12.

[3] Ibidem, pag. 128.

[4] Ibidem, pag. 101.

[5] Ibidem, pag. 39.

[6] Ibidem, pag. 95.

[7] Ibidem, pag. 139.

[8] Ibidem, pag. 181.

[9] Ibidem, pag. 201.



Intervista a Luca Grecchi su «Letture.org»

Prof. Luca Grecchi, Lei è autore del libro Il concetto di philosophia dalle origini ad Aristotele, edito da Scholé-Morcelliana: innanzitutto, quale definizione è possibile dare della filosofia?

Direi, prima di tutto, che occorre interrogarsi sul fatto se sia o meno possibile dare una definizione della filosofia. In un libro-dialogo di qualche anno fa (Tra teoria e prassi, Petite Plaisance, 2020), composto con l’amico Maurizio Migliori, riflettevamo sul fatto che quasi tutti i manuali di Filosofia, a differenza di quelli delle altre scienze, non definiscono la propria disciplina. Alcuni di essi, addirittura, lasciano intendere che tale definizione è impossibile, in quanto la filosofia, che è un continuo farsi, non potrà mai assumere una forma compiuta, quindi definita. Nel libro esprimo la mia distanza da questa tesi, la quale, oltre che a mio avviso non corretta, ottiene l’indesiderabile effetto di far passare col nome di filosofia ogni contenuto cui si riesce ad applicare questa etichetta, col risultato, a lungo termine, di deformare, nel sentire comune, il nostro amato sapere, il quale ha invece assunto forma compiuta, dunque definita, già con Platone e Aristotele.

Da aristotelico quale penso di essere, ritengo sempre opportuno cercare di favorire, nei limiti del possibile, una univocità del linguaggio che superi l’ambivalenza di cui, già in epoca antica, la retorica sofistica faceva largo uso nel rappresentare la realtà. Ad ogni nome, infatti, è bene che sia associato uno ed un solo significato, per evitare confusione. La filosofia, come ogni altro concetto concepito – appunto – dagli esseri umani, è un ente definito, e pertanto va definita, ossia le va data forma compiuta mediante un significato chiaro, se si desidera comprenderla in maniera chiara. Nella Metafisica (1006 b 6-10), lo Stagirita affermava che “se si dicesse che le parole hanno infiniti significati, non sarebbe più possibile alcun discorso: infatti, il non avere un determinato significato equivale a non avere alcun significato; e, se le parole non hanno alcun significato, allora non ha luogo neppure la possibilità di discorso”, quindi di pensiero.

Perché allora, fino ad oggi, della filosofia non si è quasi mai fornita una definizione esplicita, o comunque non si è mai trovato un accordo su quale sia la definizione più corretta? A mio avviso, per almeno due motivi. Il primo è che la definizione di enti, soprattutto se complessi, è difficile, per cui è facile sbagliare, e nessuno vuole sbagliare, soprattutto oggi. Il secondo motivo è che ogni definizione, una volta formulata, impegna ad essere coerenti, per cui, per fare filosofia, se la si definisce in un certo modo, occorre poi fare quella determinata cosa, non qualunque altra cosa che vagamente le assomigli; ciò riduce molto le possibilità di azione, e pochi nel nostro tempo, anche in campo filosofico, desiderano subire tale riduzione.

In ogni caso, per chi – con la tesi della necessità di definire la filosofia – non concorda, dico subito che può cercare di confutare tale tesi, in quanto il metodo principale della philosophia, sin dal suo nascere, è il metodo dialettico. Esso si basa proprio sul riconoscimento della possibilità dell’errore, ed al contempo della possibilità di correggere, nel dialogo, gli errori, per giungere alla soluzione migliore in rapporto ai temi affrontati. La filosofia non è, infatti, attività adatta per persone narcisiste e permalose, che non accettano di poter sbagliare, e che si pongono dunque in modo dogmatico, ma per persone umili e generose, che si rendono disponibili a porre in comune una idea, anche accettando di essere criticate, pur di giungere più facilmente alla comprensione della verità e alla realizzazione, in questo modo, del bene.

Nel libro scrive: «La philosophia, per come emersa nel primo pensiero greco, risulta strutturalmente in opposizione con le modalità riproduttive della totalità sociale in cui viviamo»: perché è dunque ancora utile studiarla?
Proprio per questo motivo. La totalità sociale in cui viviamo è crematistica (chremata, in greco, sono i beni materiali), ossia è finalizzata alla massima acquisizione di ricchezza privata da parte dei soggetti che detengono la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale. Tutto ciò che è prodotto lo è solo se, in esso, si ravvisa la possibilità di realizzare il massimo profitto privato, altrimenti no. Per questo, ad esempio, vengono prodotti gioielli e auto di lusso, ma non cibo e medicine per i poveri, che pure sarebbero più utili. Miliardi di persone sono condannate, da questo sistema, ad una dolorosa povertà materiale, ed altri miliardi ad una talvolta ancor più dolorosa povertà spirituale.

In una totalità sociale siffatta tutto, ossia gli esseri umani e la natura, viene considerato solo, o prevalentemente, come merce, coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Essendo, tuttavia, gli esseri umani non merci, ma enti comunitari – come dimostra il fatto che stiamo bene in contesti amicali, non in contesti conflittuali –, le regole della felicità sono per noi quelle della comunità, non quelle del mercato. Più si dona, infatti, più si ottiene, in termini di felicità. Chi desidera soltanto avere senza mai dare, invece, alla fine primeggerà sicuramente, ma solo in termini di infelicità. Lo aveva già compreso Esiodo in Opere e giorni (vv. 201-212): gli esseri umani si differenziano dagli animali feroci in quanto stanno bene se si aiutano fra loro, non se si divorano l’un l’altro. Il nostro modo di produzione sociale è invece massimamente conflittuale: per questo, per cercare di modificarlo in senso comunitario, serve la filosofia.

Quali sono gli elementi costitutivi della philosophia?
Innanzitutto, devo dire che non vi è, purtroppo, nemmeno nella cultura greca una definizione esplicita, unanimemente condivisa, di philosophia. La parola inizia a comparire in epoca presocratica, almeno a quanto risulta da alcune testimonianze, discusse nel libro, riferite soprattutto a Pitagora ed Eraclito. Fu in ogni caso principalmente con Platone e Aristotele, coi quali non a caso si ritiene – stavolta in maniera pressoché unanime – costituita la filosofia, che il termine philosoph* ha cominciato a registrare centinaia di occorrenze scritte. Queste presenze lessicali, unite ad ulteriori ricorrenze terminologiche anch’esse significative (episteme, dialektike, sophia ed altre), segnalano indubbiamente l’avvenuta formazione della philosophia. Ogni concetto si forma infatti solo dopo che “la cosa” che esso rappresenta ha iniziato ad esistere, e “la cosa” philosophia, almeno in potenza, esisteva già nel mondo ellenico prima dell’epoca classica (mi permetto di rinviare, in merito, agli altri miei due volumi per Morcelliana: Leggere i presocratici, 2020 e La filosofia prima della filosofia, 2022).

Per porsi compiutamente in atto occorreva però che essa divenisse pienamente formata, dunque chiaramente strutturata nella sua essenza, il che accadde solo con la riflessione sul suo concetto realizzata soprattutto da Platone e da Aristotele. Proprio dalle centinaia di occorrenze del termine presenti nella loro opera – che in questo libro ho tentato, nei limiti del possibile, di esaminare – ho tratto infatti quelli che, a mio avviso, sono i tre elementi costitutivi della philosophia. Essi, in estrema sintesi, sono: a) il contenuto, costituito dalla ricerca della verità dell’intero; b) il fine, costituito dalla ricerca della buona vita degli esseri umani; c) il metodo principale di analisi della realtà, costituito dalla dialettica (nel senso in precedenza precisato).

Io penso che questa sia la definizione migliore, ma, appunto dialetticamente, sono consapevole che essa è la mia sintesi di quelli che ritengo essere i tre elementi costitutivi della philosophia. In questo tentativo di definizione potrei avere dimenticato un elemento, o averne aggiunto uno di troppo, o formulato male quelli esposti. La cosa bella è che, proprio per il suo prevalente metodo dialettico, anche le definizioni, in filosofia, non sono da considerare dogmi, bensì possono sempre essere modificate. Come dicevamo prima, la filosofia non è fatta per chi ritiene di non sbagliare mai, in quanto è sempre, anzitutto, esercizio di umiltà, soprattutto quando si esprimono tesi forti, maggiormente a rischio errore. Non è un caso che Socrate – di cui non abbiamo scritti, ma che molti considerano il “primo filosofo” – discutesse spesso di grandi temi con persone arroganti, assolutamente convinte di conoscere un certo contenuto, mostrando loro, appunto, che le cose non stavano proprio in quel modo.

Quale concezione della philosophia emerge dalle opere dei primi pensatori ellenici, i cosiddetti Presocratici?
Come accennavo poco fa, se la definizione corretta di philosophia è quella che ho dato – ossia un sapere caratterizzato dai tre elementi costitutivi poc’anzi menzionati –, tale, se c’era, essa era, almeno implicitamente, anche nelle opere dei Presocratici, naturalmente tenendo conto delle loro specificità rispetto ai classici, oltre che delle diversità presenti fra questi stessi autori.

Mi soffermerei tuttavia un poco, in merito, sul fatto che, se la filosofia deve davvero contenere tutti tre questi elementi essenziali, allora un pensiero che ne escluda anche uno solo non può, a stretto rigore, definirsi compiutamente filosofico. Questo vale per il pensiero dei singoli autori presocratici, ma vale anche per il pensiero dei nostri contemporanei. Siamo infatti sicuri che l’attività denominata filosofia, oggi, per come svolta nelle varie Università mondiali, comprenda sempre tutti tre questi elementi, ovvero sia realmente filosofia? Siamo, cioè, sicuri che Platone e Aristotele riconoscerebbero molti degli attuali testi accademici di filosofia come tali, in base alla loro concezione, costitutiva della disciplina? In fondo, come dicevamo poco fa, la nostra totalità sociale crematistica, che informa anche l’istruzione universitaria, non è affatto favorevole alla diffusione della filosofia, come dimostra il fatto che il termine, ancora oggi, non gode certo di buona stampa (“filosofia” è spesso usato come sinonimo di “discorso inconcludente”). All’attuale totalità sociale, in effetti: a) la verità dell’intero disturba, in quanto essa è refrattaria verso ogni riflessione onto-assiologica complessiva, la quale potrebbe portare ad una progettualità alternativa sulla stessa totalità sociale; b) il fine della buona vita disturba, in quanto essa è refrattaria verso ogni fine differente da quello della massimizzazione del profitto; c) la dialettica disturba, in quanto essa è refrattaria verso ogni democratico confronto comunitario, essendo l’orizzonte crematistico dogmaticamente dato.

Siamo sicuri, dunque, che gli approcci sempre più particolari (non rivolti all’intero), descrittivi (non valutativi), compilativi (non dialettici) degli attuali prevalenti scritti “scientifici” – come nelle facoltà di Filosofia vengono ormai chiamati anche i saggi filosofici – sarebbero riconosciuti, da coloro che hanno originariamente concepito la philosophia, come vera e propria filosofia? Nessuno di noi, naturalmente, è Platone o Aristotele, ma, quando facciamo filosofia, dovremmo sempre cercare di pensare in grande, come facevano appunto Platone e Aristotele. Lo sguardo teoretico non è infatti un orpello superfluo, ma una abilità necessaria anche per lo storico della filosofia antica, come dimostrano appunto i grandi maestri di questa disciplina (pensiamo solo, fra gli italiani, a Enrico Berti, Giovanni Reale, Mario Vegetti). Ho il sospetto che, se fosse vivo oggi Aristotele, di fronte a molti articoli accademici di ambito filosofico, direbbe che essi sono filosofici solo per analogia, così come è medico solo per analogia il medico dipinto, o è occhio solo per analogia l’occhio di vetro, o è piede solo per analogia il piede di marmo di una statua. Noto peraltro che questi esempi aristotelici riguardano tutti una entità artificiale in rapporto ad una entità naturale, viva, quale appunto per lo Stagirita era, in certo senso, la philosophia, intrinsecamente finalizzata alla comprensione dialettica veritativa dell’intero per favorire la buona vita degli esseri umani.

Che significato assume, nei testi di Platone e Aristotele, il concetto di philosophia?
Assume il significato in precedenza sintetizzato. Circa due terzi del libro sono dedicati a Platone e Aristotele, per cui mi è davvero difficile porre in essere, in poco spazio, una sintesi di tutti i molteplici rimandi che mi hanno portato, per ambedue i pensatori, a ritenere adeguata la definizione di philosophia che ho poc’anzi fornito.

Può però essere interessante sostare ancora un poco su questo concetto di philosophia, che Platone e Aristotele, pur senza darne una definizione univoca, hanno ottimamente contribuito a delineare. Ebbene: per i parametri accademici attuali, lo stesso concetto di philosophia in epoca classica, ossia il tema del libro, potrebbe paradossalmente essere ritenuto un contenuto troppo ampio da trattare filosoficamente in maniera “scientifica”. La filosofia oggi, in Università, procede infatti con criteri molto simili a quelli delle scienze particolari (che come tali, appunto, si occupano di descrivere – non di valutare – solo parti – non l’intero – della realtà), ossia, se mi si passa l’immagine, procede, in ogni analisi, cercando di porre un puntino sempre più piccolo sotto il microscopio. Il livello di precisione che si raggiunge in questo modo risulta sicuramente, così facendo, molto elevato. Di questi articoli scientifici è doveroso essere grati ai rispettivi autori. Ciò nonostante, considerando il concetto di philosophia presente in Platone e Aristotele, è possibile anche domandarsi quale sia l’effettivo contributo alla comprensione complessiva del senso e del valore della realtà – l’ambito, appunto, da sempre proprio della filosofia – che molti di questi articoli forniscono.

Non è mia intenzione, come detto, criticare l’attività di tanti giovani studiosi, che semplicemente si adattano, nel loro modo di fare ricerca, alle modalità dominanti, che hanno ormai introiettato essere, anche in campo filosofico, le uniche funzionali al percorso accademico. Ciascuno può fare ricerca nelle forme che ritiene opportune, sui contenuti che ritiene opportuni e con le finalità che ritiene opportune, ma – occorre dirlo – ciò non è senza effetto per i risultati della ricerca. Rimango in ogni caso amareggiato quando mi accorgo, in merito, che la medesima apertura non risulta talvolta essere presente, in alcuni studiosi, nei confronti della legittimità del fare ricerca filosofica anche sui grandi temi, richiedendo necessariamente quest’ultima, come ben sapeva Aristotele, un approccio più generale, a maglie più larghe.

Risulta significativa, a tal proposito, la terminologia utilizzata, in ambiente accademico, per definire i testi filosofici caratterizzati da un argomento molto ampio, spesso qualificati come “divulgativi” (ricordo il disappunto con cui l’amico Enrico Berti accolse una recensione di un importante studioso, in cui il suo splendido In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, edito da Laterza nel 2007, venne definito tale). Bisognerebbe allora, in primo luogo, chiarire che “divulgazione” non è una brutta parola. Se leggiamo, infatti, l’Enciclopedia Treccani, per “divulgazione” si intende la diffusione di teorie “attraverso esposizioni piane e compendiose, senza tecnicismi, e insieme sufficientemente sistematiche, (..) con lo scopo di interessare un sempre più largo strato sociale”. È in effetti possibile essere insieme “scientifici” e “divulgativi” – i due termini non si oppongono –, ossia al contempo accurati ed essenziali, come era appunto il caso del libro di Berti. Vi è anzi grande bisogno, a mio avviso, di opere di questo tipo in filosofia. Esse tuttavia, in vario modo, sono scoraggiate dalle attuali tendenze dominanti, per motivi che di passaggio, nel libro, provo a spiegare, riferibili sempre, in ultima analisi, al fatto che il nostro tempo ha interesse a reprimere la vera attitudine filosofica.

Ritenere a priori “scientifico”, nel senso di accurato, solo uno studio iperspecialistico su una piccolissima parte di realtà, e “non scientifico”, nel senso di poco accurato, un testo monografico su un grande tema della filosofia, mi sembra davvero l’esito di una conformazione del sapere contraria allo stesso concetto di philosophia per come elaborato dai classici. Sostenere questo equivale infatti – mi si conceda una provocatoria analogia zoologica, che assume come implicito riferimento ancora Aristotele, larga parte del cui corpus è dedicata, come noto, alla zoologia – a considerare “scientifico”, ad esempio, lo studio della riproduzione delle formiche rosse del Madagascar orientale nel luglio del 2023, ed a considerare “non scientifico” lo studio del mondo animale nel suo complesso. Per quale motivo chi osserva, pur con grande acribia, la riproduzione di un campione di formiche per un mese dovrebbe compiere uno studio “scientifico”, ossia accurato, e chi, come lo Stagirita, opera un gigantesco sforzo teoretico per anni analizzando le strutture biologiche di oltre 500 specie animali non dovrebbe compierlo? Tutto dipende, ovviamente, da quale significato si vuole attribuire al termine “scientifico”. Faccio peraltro notare che, come sempre Aristotele ha mostrato, l’intero risulta ontologicamente anteriore alle parti – l’esistenza delle parti richiede l’esistenza dell’intero, non viceversa –, per cui chi non si occupa anche dell’intero non può nemmeno dire di avere ben compreso la parte che analizza, mancandogli le strutture generali mediante cui porre in relazione quella stessa parte con le altre parti (la realtà è interconnessa, quindi queste relazioni vi sono, pertanto vanno conosciute).

Tutto questo solo per dire, soprattutto ai giovani studiosi, di essere benevoli – ossia di orientarsi anche loro, nei limiti del possibile – verso i testi filosofici generali, i quali, per quanto sempre migliorabili, risultano spesso utili per inquadrare anche gli studi particolari.

Un’ultima domanda relativa alla dedica del suo libro, “Ai ragazzi con qualche difficoltà, e a chi sta loro accanto”: c’è qualche collegamento con il tema del libro?
La ringrazio molto per questa domanda. Il collegamento, in effetti, c’è. Dicevamo prima che la nostra totalità sociale è molto competitiva. Nel libro, ogni tanto, faccio riferimento alla ideologia del merito che permea – talvolta in maniera poco attenta nei confronti di chi ha invece qualche difficoltà – anche il mondo della scuola. Penso ai campionati di filosofia, alle gare retoriche dei debates, alla eccessiva attenzione ai voti, e a molto altro ancora. La scuola riflette, naturalmente, i processi della nostra totalità sociale conflittuale. La filosofia però, come abbiamo detto, fu sin dal suo inizio comunitaria, in quanto ricerca comune del vero per il fine della realizzazione comune del bene, ossia del bene di tutti, anche di quelli solitamente considerati ultimi, i quali spesso fanno molta più fatica dei “primi” anche solo per arrivare ultimi.

Mi piacerebbe concludere raccontando una piccola storia. La vostra redazione è giovane, ma forse sapete che, negli anni in cui io ero piccolo, quindi molti anni fa, andò in classifica per diverso tempo una simpatica canzone di Enzo Jannacci, Vengo anch’io. No tu no. Con la sua ironia, il cantautore milanese aveva messo in scena, con quel brano, la storia di un ragazzo con qualche difficoltà che, semplicemente, voleva fare le stesse cose che facevano gli altri. Come evidente, in quel brano c’era molto più dell’ironia, ma io allora, essendo piccolo, non lo capivo. Capivo però che a me quella canzone non divertiva. Il perché l’ho compreso bene molti anni dopo, quando ho avuto la fortuna di conoscere, e poi di diventare amico, di uno dei maggiori critici musicali italiani, Andrea Pedrinelli, autore, fra le altre cose, di una bella monografia su Enzo Jannacci (Roba minima, Giunti, 2014). Fu lui, infatti, ad indicarmi una intervista in cui il grande Enzo diceva più o meno queste parole: “Quello lì, quello che chiedeva Vengo anch’io? e a cui gli altri rispondevano sempre no tu no!, ero io. Anche io infatti, quando ero ragazzo, volevo andare, come gli altri, allo zoo comunale, o con la bella sottobraccio a parlare d’amore, ma nessuno mi voleva, perché ero piccolo, brutto e povero”. Ho edulcorato un poco le parole di Jannacci – mentre lui lo faceva raramente quando rappresentava i suoi personaggi esclusi, sempre in parte autobiografici: in questo, anche, la grandezza della sua arte –, ma il segreto del saper voler bene, del saper accogliere, sta tutto lì, ovvero nella capacità di sapersi mettere nei panni degli altri, di vederli un poco come se fossimo noi. Se infatti “quello lì”, escluso dal “bel mondo sol con l’odio ma senza l’amore”, fossimo noi, o nostro fratello, o nostro figlio, forse saremmo più sensibili nel “vedere di nascosto l’effetto che fa” l’esclusione. La filosofia aiuta a capirlo, mostrando come tutti possono dare il proprio contributo alla realizzazione del bene comune, anche chi ha qualche difficoltà, in quanto spesso possiede risorse di umanità meravigliose, di cui semplicemente la nostra società ipercompetitiva, purtroppo, non si accorge.




Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.
Luca Grecchi – Aristotele: la rivoluzione è nel progetto. La «critica» rinvia alla «decisione» di delineare un progetto di modo di produzione alternativo. Se non conosciamo il fine da raggiungere, dove tiriamo la freccia, ossia dove orientiamo le nostre energie, come organizziamo i nostri strumenti?
Luca Grecchi – Sulla progettualità
Luca Grecchi – Perché la progettualità?
Luca Grecchi – La metafisica umanistica non vuole limitarsi a descrivere come le cose sono e nemmeno a valutare negativamente l’attuale stato di cose. Deve dire come un modo di produzione sociale ha da strutturarsi per essere conforme al fondamento onto-assiologico.
Luca Grecchi – La metafisica umanistica è soprattutto importante nella nostra epoca, la più antiumanistica e filo-crematistica che sia mai esistita.
Luca Grecchi – Logos, pathos, ethos. La “Retorica” di Aristotele e la retorica… di oggi. È credibile solo quel filosofo che si comporta, nella vita, in maniera conforme a quello che argomenta essere il giusto modo di vivere.
Luca Grecchi – «Natura». Ogni mancanza di conoscenza, di rispetto e di cura verso la natura si traduce in una mancanza di rispetto e di cura verso la vita tutta. L’attuale modo di produzione sociale, avente come fine unico il profitto, tratta ogni ente naturale – compreso l’uomo – come mezzo, e dunque in maniera innaturale.
Luca Grecchi – i suoi libri (2002-2019)
Luca Grecchi – L’UMANESIMO GRECO CLASSICO DI SPINOZA. Lo scopo della filosofia non è altro che la verità.
Luca Grecchi – «Uomo» – L’uomo è il solo ente immanente in grado di attribuire senso e valore alla realtà e di porsi in rapporto ad essa con rispetto e cura.
Luca Grecchi – L’etica di Aristotele e l’etica di Democrito: un confronto
Maurizio Migliori, Luca Grecchi – Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli
Luca Grecchi – Multifocal approach. Una contestualizzazione storico-sociale. Occorre porsi con critica consapevolezza progettuale all’interno della totalità sociale.
Luca Grecchi – «Leggere i Presocratici». La cultura presocratica rappresenta tuttora una miniera in buona parte inesplorata.
Luca Grecchi – Questo volume cerca di colmare un vuoto, almeno nella letteratura specialistica in lingua italiana. Mancava infatti, ad oggi, un volume complessivo sul tema della ricchezza nella filosofia antica.
Luca Grecchi – La dolcezza rappresenta una disposizione del carattere volta a configurare in maniera eccellente la propria umanità, nei rapporti con gli altri uomini e con la natura, per favorire la realizzazione di una vita felice.
Luca Grecchi – Intervista sulla «Ricchezza».
 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Francesco Stoppa – «Le età del desiderio. Adolescenza e vecchiaia nella società dell’eterna giovinezza». Le notti senza stelle. È lì che, da sempre, l’uomo avverte in sé i battiti del desiderio. Il desiderio è l’ospite inatteso che spariglia i buoni propositi costringendoci a tornare sui “come” e sui “perché”.


Henri Matisse, Icaro, tavola a pochoir, pubblicata nel 1947 sulla rivista Jazz.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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