Salvatore Bravo – «Indonesia 1965». Il capitalismo genocidiario oggi si cela dietro la cortina della società dello spettacolo. Il suo linguaggio è divenuto finzione filmica

Salvatore Bravo

Il capitalismo genocidiario si cela dietro la cortina della società dello spettacolo.

Il suo linguaggio è divenuto finzione filmica.

 

Capitalismo genocidiario

Il capitalismo non è mai sufficientemente compreso nelle sue dinamiche distruttive e negatrici della natura umana e della vita. La sua azione globale non può che incontrarsi e scontrarsi con i limiti delle conoscenze personali e, specialmente, con le censure dirette e indirette a cui siamo sottoposti. Riorientarsi in una realtà organizzata secondo la forma del capitale mediante il “velo dell’ignoranza” è operazione non semplice. Se ci poniamo nell’ottica del cittadino medio e delle nuove generazioni possiamo ben comprendere quanto “il capitalismo dello spettacolo” riduca il pianeta ad uno strumento da usare e da consumare: in tal modo la vita dei popoli e la storia del capitalismo sono obliati. Il capitalismo senza la mediazione umana della storia può continuare la sua corsa nelle comunità e negli individui; può continuare a bruciare vite e popoli e a percepirsi come “assoluto”.

Il capitalismo si autopresenta come “assoluto” e costruisce di sé una immagine ipostatizzata, in quanto coltiva l’ignoranza di sé. Le esistenze organizzate in stile “reality” consentono ai crimini del passato e del presente di perpetuarsi. Il capitalismo dello sfruttamento e genocidiario si cela dietro la cortina della società dello spettacolo. Anche il linguaggio è divenuto finzione filmica, non a caso la parola “capitalismo” è stata abilmente sostituita con le espressioni “liberale e liberista”, le quali ammiccano alla libertà. Si ha l’impressione di essere dalla parte giusta, e di vivere nella libertà: naturalmente la libertà “capitalistica” deve essere intesa come la possibilità di affermare il proprio “io” usando il mondo e riducendo ogni incontro a mezzo per accrescere l’ego-idolatria. La storia del capitalismo riportato alla sua verità storica e ai suoi crimini è paideutica per accrescere qualitativamente la crescita umana e politica delle soggettività e delle comunità.

 

Il genocidio dei comunisti in Indonesia

Il genocidio dei comunisti in Indonesia, sconosciuto a molti e mai presente nelle “cronache liberali”, dimostra quanto il sistema liberale agisca per manipolazione e censure in modo da impedire la coscienza collettiva sulla realtà sociale ed economica in cui viviamo. Lo sterminio del PKI, del partito comunista indonesiano, oggi è genocidio non riconosciuto, al punto che la ricerca storica è ancora agli albori. Il numero di questo genocidio comunista oscilla tra i 500.000 e i 3.000.000 di morti. Tra gli assassinati non pochi furono gli esponenti di minoranze etniche, tra cui i cinesi, con cui l’Indonesia riformista intratteneva ottimi rapporti.

Gli assassini sono rimasti “stranamente” impuniti e sul tragico destino di tante vittime è sceso il silenzio della storia e dei media. Se si utilizza wikipedia si può leggere quanto segue alla voce “Responsabili” di questo genocidio:

“Esercito indonesiano e squadroni della morte, aiutati e incoraggiati dagli Stati Uniti d’America e da altri governi occidentali”.

 

Nuovo Ordine capitalistico

Le informazioni sono poca cosa, se non sono sostenute dalla coscienza politica ed etica. Il nostro tempo è caratterizzato dal velo dell’ignoranza nella forma dell’indifferenza e del narcisismo dello spettacolo che non incoraggia la ricerca e la formazione. Le informazioni essenziali non si trasformano in ricerca storica, non riescono a collocarsi a distanza collettiva razionale ed empatica dalla “verità” del “sistema liberale”, in quanto il capitalismo coltiva l’ignoranza politica e storica e insegna che la rete informatica è solo un mezzo per il libero scambio.

Il genocidio si consumò tra il 1965 e il 1966 prima che fosse attuata la riforma agraria già avviata dal Presidente riformista Sukarno. In realtà le immense ricchezze minerarie dell’Indonesia e la posizione strategica dell’isola furono la causa del sostegno della CIA e di altri stati europei, tra cui l’Olanda, all’eliminazione del PKI. Il Presidente degli Stati Uniti Nixon affermò:

«Con il suo patrimonio di risorse naturali, il più ricco della regione, l’Indonesia è il tesoro più grande del Sud-est asiatico[1]» .

L’Indonesia era, dunque ad un bivio, Sukarno fu rovesciato da Suharto sostenuto dalle potenze occidentali; iniziò per l’Indonesia l’epoca del genocidio e dell’eliminazione dell’opposizione politica:

«Nel 1965 l’Indonesia era a un bivio. La Guerra Fredda era al culmine nel Sud-Est asiatico e sembrava essere solo questione di tempo prima che il PKI, il più grande partito comunista del mondo al di fuori dell’URSS e della Cina comunista, salisse al potere. L’esercito indonesiano – una forza armata altamente politicizzata che aveva costituito parte integrante della vita politica indonesiana sin dalla rivoluzione nazionale indonesiana – era, tuttavia, determinato a fermare l’ascesa del PKI e a porre lo stato indonesiano sotto la propria direzione. Dall’inizio degli anni ’60 la leadership militare indonesiana cominciò a fare piani specifici per “riorientare” lo stato indonesiano[2]».

Il governo Suharto non aveva i mezzi per operare il genocidio in tempi brevissimi e instaurare il Nuovo Ordine con cui riorientare il popolo indonesiano verso il nuovo corso della storia, per cui le potenze occidentali organizzarono e diedero i mezzi per procedere all’eliminazione di uno dei più grandi partiti comunisti del mondo (il terzo al mondo). Con il riorientamento del Nuovo Ordine le potenze europee rientravano nel mercato indonesiano e, in cambio, appoggiarono le oligarchie indonesiane:

«Il genocidio indonesiano ha avuto luogo nel contesto della presa di potere militare dello stato indonesiano da parte del maggiore generale Suharto. Il risultato fu un completo riorientamento della società indonesiana e l’ascesa di un regime dominato dai militari autodefinito Nuovo Ordine. La leadership anticomunista dell’esercito fu assistita durante il genocidio da sostenitori occidentali con armi ed equipaggiamenti, e incoraggiata attraverso la comunicazione diretta e l’assistenza con la propaganda, soprattutto da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia, a effettuare un’epurazione approfondita delle forze armate. gruppi di sinistra nella società (Simpson,2008). Studi recenti hanno evidenziato anche la complicità o l’indifferenza dei governi europee dell’Unione Sovietica all’attacco al PKI e ai suoi affiliati in Indonesia, dovuto in gran parte alla decisione del partito di schierarsi con la Cina comunista (vedi Schaefer & Wardaya, 2013). Il nuovo regime guidato dai militari fu accolto sulla scena politica dai paesi occidentali e presto iniziarono i negoziati tra i leader di questi paesi e i nuovi leader militari e tecnocrati dell’Indonesia per ripristinare l’accesso straniero ai mercati indonesiani (Simpson, 2008)[3]».

 

Genocidio o Strage?

Il genocidio indonesiano è stato declassato a strage dalla giurisprudenza occidentale, in quanto per “genocidio” si intende la formula adottata del 1948 dall’ONU che esclude l’eliminazione totale di un gruppo politico avversario. La conseguenza della formula ristretta di genocidio alla sola eliminazione etnica consente, allora come oggi, di procedere alla eliminazione totale di un gruppo politico avversario e non incorrere nel crimine genocidiario, il quale ha una attenzione mediatica e giurisprudenziale maggiore rispetto alle stragi di massa; inoltre ha una serie di implicazioni legate ai risarcimenti per i sopravvissuti e per i discendenti:

«Quando si considera la violenza di massa che si diffuse in tutta l’Indonesia alla fine del 1965, c’è in gioco una questione polemica fondamentale, definitiva e concettuale.1 Questa questione si riferisce all’identità del gruppo target che fu sradicato in Indonesia. È stato spesso sostenuto che le vittime degli omicidi furono prese di mira principalmente in termini di affiliazione reale o percepita con il PKI o con una delle sue numerose organizzazioni associate (vedi Capitolo 1 di questo volume). Come in molti di questi dibattiti concettuali nel campo degli studi comparativi sul genocidio, la questione se un gruppo di vittime definito dalla loro affiliazione socio-politica di per sé possa essere vittima di genocidio deriva direttamente dalla definizione giuridica di genocidio contenuta nella Convenzione sul genocidio. il crimine. Come recita l’Articolo II della Convenzione, “per genocidio si intende [una serie di] atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico [sic], razziale o religioso, in quanto tale” (Convenzione sulla prevenzione e Punizione del Crimine di Genocidio, 9 dicembre 1948, 78 UNTS a 280, Articolo II). Questa definizione esclude implicitamente i gruppi politici dalla tutela prevista dalla Convenzione. Tuttavia, come verrà discusso più avanti, il rifiuto automatico degli omicidi del 1965-1966 come caso il genocidio su questa base è prematuro[4]».

Il genocidio di un gruppo etnico o politico ha lo scopo di rinnovare completamente uno Stato. Il genocidio sperimenta la possibilità di un Nuovo Ordine, trasforma la nazione in un immenso laboratorio. Distruggere un gruppo umano è il mezzo mediante il quale trasformare la totalità. Si cancella la presenza di una prospettiva politica e culturale per realizzare una palingenesi criminale e assoluta. Cancellare la presenza culturale o fisica è modalità efficace ed efficiente per ottenere un “nuovo prodotto sociale”. La tecnocrazia capitalistica può essere applicata in larga scala o in modo ridotto, ma ha sempre la finalità di “riorientare” eliminando culture e politiche. Mutilare per rinnovare e sterilizzare culturalmente, e non solo: conservare e preservare gli interessi delle oligarchie è lo scopo finale. Il caso indonesiano rientra all’interno della “distruzione creativa”, nella quale l’altro è negato nella sua verità di soggetto umano:

«Nel caso indonesiano, sulla scia della propaganda disumanizzante dell’esercito in cui i sostenitori comunisti venivano descritti come nemici pericolosi e infidi, la violenza ha funzionato sia per classificare questi pericolosi nemici interni sia per rendere necessario lo sradicamento del PKI, riformando quindi la politica sociale indonesiana (vedere il capitolo 1, questo volume; Pohlman, 2012). Una serie di studiosi ha evidenziato questa funzione trasformativa del genocidio indonesiano, mostrando come non solo il sistema politico indonesiano ma anche il suo fondamentale panorama sociale, culturale e religioso siano stati cambiati per sempre dalla violenza (ad esempio, Dwyer & Santikarma, 2003; Hearman, questo volume; Ida Bagus, 2012). Tutsi e Hutu; turco e armeno) ma è principalmente “una strategia di potere” in cui “lo scopo ultimo del genocidio non è la distruzione di un gruppo in quanto tale ma la trasformazione della società nel suo insieme” (2013, p. 73). la società viene rifatta di nuovo (vedi, ad esempio, Appadurai, 1998; Dunn, 2009; Mamdani, 2001). Per Feierstein, questa concettualizzazione del genocidio come processo socialmente creativo lo porta a rivalutare il modo in cui comprendiamo la distruzione di un gruppo “nazionale”, il che a sua volta porta al nostro terzo argomento in questo capitolo. In sostanza, riconsidera cosa si intendesse con il termine gruppo “nazionale” ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione sul Genocidio nella sua analisi della repressione contro la sinistra politica in Argentina sotto la giunta militare. Feierstein sostiene la comprensione del genocidio come “essenzialmente una distruzione parziale del gruppo nazionale dei perpetratori – una distruzione intesa a trasformare i sopravvissuti attraverso l’annientamento delle vittime” (2013, p. 68). Il caso argentino, come egli sostiene, in cui lo sterminio di un gruppo politico era parte di un gruppo nazionale (la sinistra nel gruppo nazionale argentino) evidenzia come il genocidio non sia tanto il risultato di scontri tra gruppi (es. Tutsi e Hutu; turco e armeno) ma è principalmente “una strategia di potere” in cui “lo scopo ultimo del genocidio non è la distruzione di un gruppo in quanto tale ma la trasformazione della società nel suo insieme” (2013, p. 73)[5]».

 

Smembrare i corpi per cancellare

La cancellazione fisica deve condurre a cancellare dalla memoria “l’esperienza comunista”. Una delle peculiarità del genocidio indonesiano fu lo smembramento dei corpi. Il fine era disumanizzare allo sguardo dei sopravvissuti i comunisti e rimuovere dalle coscienze la prospettiva comunista. I corpi sezionati e smembrati riducevano i comunisti ad animali da macello, era così possibile associare il comunista al corpo di un animale o di un oggetto infranto. Il capitalismo agisce per cosalizzare l’altro: la punta estrema di tale logica è svelata nel genocidio. Il vertice del dolore rivela la verità nascosta del capitalismo:

«Ha notato come i bambini si allineavano lungo il ponte per vedere il fiume, esortando gli altri a unirsi, mentre gli adulti si tenevano a distanza (Juadi, comunicazione personale, 12 agosto 2015). Nel suo studio sulla politica del ferimento e dello smembramento dei corpi nella post-colonia più in generale, Achille Mbembe (2003, p. 35) sostiene che tale violenza funziona “per tenere davanti agli occhi della vittima – e delle persone intorno lui o lei: lo spettacolo morboso della recisione”. A Surabaya, i bambini e le vittime avevano maggiori probabilità di vedere la divisione, mentre gli adulti erano più propensi a vedere quelle che Membe chiama le “tracce” attraverso le quali “l’integrità corporea è stata sostituita da pezzi”. Sia che si vedessero le divisioni o i pezzi, si vedeva una forma incarnata di comunicazione politica che formava quella che Benedict Anderson (2004, p. 1) definì la “fase selvaggia iniziale” del Nuovo Ordine[6] ».

 

La caduta nella continuità

Nel 1998 Suharto è caduto, non serviva più. L’Unione Sovietica e il comunismo erano solo un ricordo, ma l’Indonesia non si è confrontata con la sua memoria. L’anticomunismo è ancora vivo, anzi i comunisti sono ancora oggetto di violenza, in quanto il genocidio non è stato nei fatti riconosciuto e non vi sono state reali e solide azioni giudiziarie. La memoria storica non è ancora emersa nella sua verità:

«Sembra ora che questa ondata di anticomunismo durante la campagna elettorale del 2014 e il cinquantesimo anniversario delle violenze nel 2015 abbiano rappresentato l’inizio di una nuova fase di politica anticomunista più intensa. Nel 2016, ad esempio, l’anticomunismo si è ulteriormente intensificato (Manan et al., 2016; Tempo, 2016; Trianita & Farmita, 2016).11 Questa intensificazione è in parte correlata alle crescenti richieste di giustizia per i sopravvissuti alla violenza ( vedere i capitoli 16 e 17 di questo volume). Tuttavia non si limita alle questioni direttamente collegate alla storia comunista o alla politica progressista in generale. Ad esempio, all’inizio del 2015 è venuto alla luce che la vincitrice del concorso Puteri Indonesia (Miss Indonesia) del 2014 aveva in precedenza, durante una ripresa in Vietnam, indossato innocentemente una maglietta regalatale da un amico vietnamita che aveva un martello e simbolo della falce su di esso[7]».

 

Al momento l’Indonesia è prigioniera del suo passato; ogni iniziativa legislativa per confrontarsi con il genocidio è congelata, in quanto le attuali classi dirigenti sono nei fatti le medesime che avviarono e realizzarono la “distruzione creativa”. L’Occidente dei diritti tace e occulta il passato e il presente indonesiano, in quanto sarebbe costretto a guardarsi nella sua verità:

«Ciò è reso più chiaro in un’altra area in cui l’attuale bozza rivista della TRC avrebbe potuto essere rafforzata rispetto alla Legge TRC del 2004, ovvero nelle disposizioni per le misure di conciliazione. Nella Legge del 2004, le potenziali misure di conciliazione per i sopravvissuti e le famiglie delle vittime riguardavano: il risarcimento, fornito dallo Stato e che comprendeva disposizioni monetarie e sanitarie; riabilitazione attraverso il ripristino del nome, della dignità e dei diritti delle vittime; e la restituzione, che è stata definita come “risarcimento dato dagli autori del reato o da un terzo alle vittime o alle famiglie delle vittime” (vedi Articolo 1, Undang-Undang Nomor 27 Tahun 2004, nostra traduzione). Nella versione attuale non si fa menzione di eventuali atti di restituzione da parte di autori o di terzi. Di per sé, la mancanza di disposizioni specifiche per la restituzione non è così significativa, né è probabile che abbia alcun impatto complessivo sui risultati del risarcimento per i sopravvissuti. Ciò, tuttavia, indica ancora una volta che, in qualsiasi TRC prevista da questa bozza attuale, gli autori e qualsiasi ruolo che potrebbero svolgere in tale Commissione sono stati quasi completamente rimossi. Come sottolineato in precedenza, ciò viola direttamente i diritti delle vittime a un rimedio efficace e alla giustizia, come garantito dall’adesione dell’Indonesia a una serie di strumenti internazionali sui diritti umani[8]».

Uno dei compiti dell’umanesimo comunista è rendere denunciare le pratiche capitalistiche, in modo che “l’assoluto” del capitalismo si riveli nella sua verità apocalittica. Il nichilismo strumentale, vero fondamento del Capitalismo, è la verità da svelare con le sue consustanziali tragedie che minacciano i popoli e il pianeta.

Ed ecco, in ultimo, che le ricchezze della famiglia Suharto rimangono incalcolabili e non sono state minimante intaccate dalla caduta: pertanto l’Indonesia vive la sua tragica continuità, la quale è la nostra verità nascosta.

 

Salvatore Bravo

 

[1] Citado no livro de John Pilger, «The new rulers of the world», Verso 2002, p. 15.

[2] AA. VV., L’indonesiano genocidio del 1965, Studi Palgrave nella storia del genocidio, 2018, pag. 53.

[3] Ibidem, pp. 34-35.

[4] Ibidem, pag. 29.

[5] Ibidem, pag. 35.

[6] Ibidem, pag. 150.

[7] Ibidem, pag. 302.

[8] Ibidem, pag. 323.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Diego Lanza – «Scritti sulla tragedia antica e le teorie del tragico». Prefazione di Gherardo Ugolini

Diego Lanza, Dramata II. Scritti sulla tragedia antica e le teorie del tragico. Prefazione di Gherardo Ugolini.

ISBN 978-88-7588-414-7, 2023, pp. 448, formato 140×210 mm., Euro 35 – Collana “il giogo” [181].

In copertina: Dioniso con i satiri. Pittura vascolare su coppa attica a figure rosse. Attribuita al Pittore di Brygos. Circa 480 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Fonte: Wikipedia.

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Introduzione du Gherardo Ugolini

Gherardo Ugolini

 

Diego Lanza su tragediae “tragico”

 

 

Il tragico sopravvive alla tragedia. Finita questa anche nelle sue forme più consone ai nuovi tempi, non cessa la riflessione su quella che è ormai considerata questione di natura eminentemente teorica. Il tragico s’impone così come categoria forte, anche se e forse proprio perché il suo statuto disciplinare rimane incerto: filosofico, letterario, psicologico?

Questa riflessione, contenuta nel saggio La tragedia e il tragico (1996),1 fornisce non solo un’efficace chiave di lettura, ma indica anche un filo rosso che accompagna i saggi di Diego Lanza raccolti nel presente volume. Sotto il titolo di Dramata II – Scritti sulla tragedia antica e le teorie del tragico sono compresi diciassette interventi che il grecista dell’ateneo pavese ha pubblicato tra il 1976 e il 2007 su argomenti che spaziano dalle regole della prassi drammaturgica nell’Atene del V secolo a.C. ai grandi modelli ermeneutici che hanno ripensato il “tragico” nella modernità sia nel campo degli studi filologico-antichistici (Wilamowitz, Jaeger, Pohlenz, Schadewaldt, Reinhardt, von Fritz), sia in quello prettamente artistico-drammaturgico (Hölderlin, Schiller, Goethe), sia anche in quello teorico-filosofico (Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, Lukàcs, Benjamin, Jaspers).

Il concetto di ‘tragico’ è trattato in particolare nell’ampio studio pubblicato sulla rivista «Belfagor» nel 1976 Alla ricerca del tragico2 e successivamente approfondito in altre due occasioni, nell’intervento La «tragedia» e il «tragico», tenuto nell’ambito di un convegno a Locarno nel 1991 e quindi pubblicato nei «Quaderni di storia,3 e nel saggio La tragedia e il tragico (1996).4

È soprattutto con Hegel, alla fine del XVIII secolo, che la nozione di tragedia si separa dal significato formale che aveva sempre avuto e che rimandava ai testi del teatro attico del V secolo a.C., per divenire una categoria estetica e filosofica, e non più soltanto poetica. La scoperta del ‘tragico’ (nozione di per sé assente nel lessico intellettuale dei Greci antichi) è dunque un’invenzione moderna ed è declinato nelle più varie forme e modelli teorico-esistenziali, fino a denotare un numero sempre maggiore di circostanze che si verificano nella vita quotidiana.

Lanza si chiede e indaga su cosa significhi oggigiorno qualificare come ‘tragedia’ un incidente ferroviario, l’omicidio di un politico eccellente o l’Olocausto. Non siamo di fronte a un semplice degrado semantico del termine, ad una sua totale banalizzazione, bensì si tratta del «supremo logoramento di un paradigma esplicativo».5 Il collegamento con la Shoah, la tragedia per antonomasia del XX secolo, non è casuale. Sulla scorta delle osservazioni di Pierre Vidal Naquet, Lanza s’interroga sulla possibile relazione tra la tragedia greca del V secolo e l’orrore di Auschwitz e conclude che la narrazione in chiave di tragedia dello sterminio, come di altre atrocità storiche, rappresenta una modalità efficace di razionalizzazione e di consolazione, per dare senso a ciò che non può essere concepito e neppure detto:

 

Pensare tragicamente la storia, cioè applicare la categoria, risemantizzare la categoria del tragico parlando di nimenti storici, significa stabilire un rapporto di interconnessione necessaria del prima con il poi e soprattutto del poi con il prima, quasi che ciò che avviene prima sia in funzione di quello che avviene poi, esattamente come nella vicenda tragica.

 

Oltre al continuo rimodularsi dei concetti di tragedia e di tragico nel corso dei secoli ci sono altri nuclei tematici che caratte­rizzano gli studi di Lanza compresi nel presente volume. Uno di questi riguarda la dimensione emozionale del teatro tragico antico ed il suo funzionamento.

Nel saggio Les temps de l’émotion tragique. Malaise et soulagement (1988)6 e in quello successivo I tempi dell’emozione tragica (1995),7 che lo riprendeva e sviluppava, così come anche nella voce Pathos (1977)8 e nell’articolo De l’émotion tragique, aujourd’hui (1999),9 l’analisi s’incentra sui meccanismi drammaturgici mediante i quali i tragediografi rielaboravano le saghe della tradizione mitica al fine di suscitare negli spettatori – attraverso la vista, la parola, la musica e il canto – un forte turbamento emotivo. Gli ingredienti sono quelli consolidati: la morte, la trasgressione, la violenza (reale o soltanto minacciata, ovvero evocata come imminente), la malattia e la follia. Nel momento in cui l’eroe protagonista del dramma realizza l’orrore che lo spettatore già conosceva e temeva, si produce una rottura dell’equilibrio e dell’armonia.

Ma lo sconcerto angoscioso provocato dalla rottura dell’ordine sociale e morale è destinato nel corso dell’azione scenica ad essere in qualche modo riassorbito. In quello che Lanza chiama “ritmo tragico” o anche “curva delle emozioni” subentra nel finale una sorta di ricomposizione. Non si tratta mai di happy end, beninteso, ma di uno sviluppo funzionale che s’indirizza verso momenti di decantazione dell’eccitazione e di sollievo ottenuto per lo più attraverso la mimesi di pratiche rituali ben conosciute al pubblico, per esempio i compianti funebri. L’emozione collettiva, suscitata dagli eventi della messinscena, viene in tal modo riassorbita e disciplinata, convogliata dentro prassi di conforto abituali e consolidate che restituiscono la norma e l’equilibrio.

Non è difficile scorgere dietro questo modello esplicativo, tante volte proposto e approfondito da Lanza e presentato nella forma più compiuta nel volume La disciplina dell’emozione. Un’introduzione alla tragedia greca,10 l’ombra della Poetica di Aristotele e di quella misteriosa nozione di “catarsi” che rimane per gli studiosi un enigma da decifrare, ma che verosimilmente alludeva proprio ad una fase della tragedia successiva a quella dello scatenamento delle emozioni e che prevedeva un disinnesco dei loro effetti. Se ciò avvenisse effettivamente nelle tragedie del V secolo, se riguardasse piuttosto una prassi del secolo successivo, oppure se si tratti di un requisito normativo formulato dallo Stagirita a titolo meramente teorico, è questione su cui la discussione rimane aperta e probabilmente è destinata a rimanerlo per sempre.

Alcuni dei saggi riproposti hanno un taglio prettamente divulgativo, determinato dall’occasione o dalla collocazione editoriale. Mi riferisco, in particolare, a Le regole del giuoco scenico nell’Atene antica. Prime annotazioni (1985) e La poesia drammatica: i caratteri generali, il dramma satiresco, scritti il primo per un convegno di aggiornamento di docenti della scuola media superiore e il secondo come capitolo de Lo spazio letterario della Grecia antica (1992).11 Nello stesso raggruppamento rientrano le due voci Lo spettacolo e L’attore, pubblicate nel I volume dell’Introduzione alle culture antiche (1983).12 Anche in questo caso gran parte del materiale e delle considerazioni è confluito in maniera più organica nella successiva La disciplina dell’emozione. Un’introduzione alla tragedia greca,13 ma rileggendo quei contributi se ne possono apprezzare diversi pregi, a partire dall’attenzione costante che Lanza rivolgeva, parlando e scrivendo di teatro tragico, alla dimensione politica, filosofica e antropologica. Le sue analisi sull’evoluzione del teatro, sulla preistoria, protostoria e storia dei generi drammatici, sul ruolo della scrittura, sulla professione dell’attore nella Grecia classica e sulle forme specifiche della sua recitazione, hanno qualcosa di pioneristico e anticipano di parecchi anni l’affermarsi di approcci centrati sulle nozioni di ‘teatralità’ e ‘performance’.

Se la questione delle origini della tragedia si perde in una lontana ‘preistoria’, sì che risulta impossibile fare luce in modo chiaro e definitivo sul tema in base alle sporadiche e frammentarie testimonianze che possediamo, molto si può ricostruire a proposito della prassi teatrale del V secolo, di quelle “regole del gioco scenico” che investono il rapporto tra poeta e attore, quello tra scrittura e oralità, ma anche l’uso delle didascalie, il ruolo delle partiture musicali, gli oggetti di scena, le maschere, i costumi, i macchinari e la scenografia, la giuria e le modalità di finanziamento. Su tutti questi aspetti, che con una piccola forzatura potremmo definire di ‘cultura materiale’, Lanza ha indagato a fondo, ben consapevole del fatto che la loro conoscenza è una precondizione indispensabile per capire il senso della tragedia greca, cercando di superare i limiti posti dalla Poetica di Aristotele, unico trattato che si sia conservato sull’arte drammatica, ma datato al IV secolo e focalizzato su un approccio decisamente orientato sul versante testuale-letterario del teatro. Tra le tante osservazioni che si potrebbero esprimere a questo proposito, mi pare giusto indicare l’attenzione data alla figura dell’attore. Mentre l’attore comico è l’erede di una tradizione di spettacolo staccato da qualsiasi istituzione civile e non necessariamente legato a testi scritti, l’attore tragico nasce quando il poeta, al tempo stesso tragediografo e regista, decide di introdurre nella rappresentazione una seconda voce che risponda al coro. Lanza indaga in particolare lo statuto specifico dell’attore tragico evidenziando come ben presto egli emerga e si affermi sempre più quale figura di professionista a differenza del tragediografo e dei coreuti.

Gli studi di Lanza, segnati da un approccio mai assiomatico o dogmatico, ma sempre estremamente problematico, prestano costantemente attenzione alla cornice istituzionale e al contesto politico e sociale, il che non significa solo concepire il teatro ateniese come un fenomeno prettamente ‘politico’, saldamente ancorato nel cuore della città (con allusioni più o meno velate ai fatti politici della contemporaneità di allora), ma soprattutto, e più profondamente, mettere in rilievo le modalità di drammatizzazione del mito e l’interazione tra il materiale della tradizione e la sua intelligibilità da parte del pubblico. Fedele al principio per cui non c’è teatro senza pubblico, l’analisi s’interroga su come venivano percepiti gli spettacoli teatrali dagli spettatori dell’epoca per capire cosa rendeva uno spettacolo credibile, riconoscibile e persuasivo per quel pubblico in quel particolare momento.14 Per tale fine è importante conoscere il patrimonio di conoscenze e credenze condivise dal pubblico del quinto secolo, così come anche le pratiche rituali alle quali l’azione drammatica allude o che o mostra esplicitamente sulla scena. L’importanza riconosciuta al pubblico e alla sua ricezione della performance tragica, s’inserisce per altro in un discorso ancora più ampio che punta a ricostruire i codici di ascolto e gli orizzonti d’attesa, tanti differenti rispetto a quelli dell’epoca moderna e attuale.

Tutti i saggi della presente miscellanea si misurano con temi del teatro tragico attico, campo prediletto di ricerca, ma ce n’è uno che si stacca da quell’orizzonte storico e sul quale vale la pena di richiamare l’attenzione. Si intitola Lo spettacolo della parola: riflessioni sulla testualità drammatica di Seneca ed è la versione scritta di un intervento che Lanza pronunciò nel corso di un congresso dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico a Siracusa su Seneca e il teatro.15 Oltre a testimoniare la capacità da parte di Lanza di addentrarsi in un territorio non di sua diretta competenza, il saggio è importante giacché affronta le peculiari caratteristiche di una dimensione tragica in un contesto completamente differente rispetto a quello ateniese di V secolo.

Attraverso numerosi esempi tratti soprattutto dal Thyestes, dall’Oedipus e dalla Phaedra, si evidenzia come la spettacolarità di quelle opere, in assenza di una vera e propria rappresentazione davanti a un pubblico, del tipo di quella che aveva luogo nel teatro di Dioniso ad Atene, è interamente costruita sulla testualità e sul linguaggio. In mancanza di una scenografia, è la parola che si fa spettacolo: dai dialoghi, dai lunghi resoconti, dai canti corali e dalla presenza insistita di sentenze moraleggianti si generano immagini ‘spettacolari’, capaci di condensare il significato di intere scene e personaggi nei loro caratteri essenziali. Più che misurare il rapporto di vicinanza e distanza rispetto agli origi­nali greci, Lanza si concentra sugli aspetti compositivi, verbali e retorici, con i quali il teatro di Seneca riesce a rappresentare concretamente e suggestivamente i momenti topici più significativi della tradizione drammaturgica – in particolare la morte declinata nelle forme più varie e orribili – con un parossistico accumulo di elementi che ne definiscono la tensione drammatica e senza quel riequilibrio conclusivo che nei finali delle tragedie greche segnava un inversione della curva emotiva. Il teatro senechiano è letto in questa prospettiva come un modello che propone via via nel corso dell’azione un massimo di tensione conflittuale senza prevedere alcun meccanismo di compensazione: un modello che ha avuto, per altro, grande fortuna ispirando il teatro elisabettiano e non solo.

La raccolta dei saggi confluiti in questo volume consente al lettore di ritrovare, in una veste tipografica chiara e ordinata, testi che sono stati pubblicati su riviste e miscellanee non facilmente accessibili e di ripercorrere i sentieri delle ricerche compiute da Diego Lanza nei decenni della sua maturità di studioso. Corre l’obbligo di ringraziare i direttori delle riviste e i curatori dei volumi che si sono resi disponibili per la ristampa dei saggi, oltre ai famigliari e a Carmine Fiorillo della casa editrice «petite plaisance» per l’instancabile impegno nell’onorare la memoria di Lanza ristampandone gli scritti. Rimangono esclusi dalla presente miscellanea i saggi dedicati a Euripide, ristampati in Dramata I. Scritti sulla drammaturgia euripidea (petite plaisance, Pistoia 2023), e altri studi su temi tragici che Lanza aveva a suo tempo inserito come appendici nel volume Il tiranno e il suo pubblico (Einaudi, Torino 1977; rist. petite plaisance, Pistoia 2020) e in La disciplina dell’emozione. Un’introduzione alla tragedia greca (il Saggiatore, Milano 1997; rist. petite plaisance, Pistoia 2019).16 Nel volume Dramata IV, di prossima pubblicazione, saranno presentati i saggi ‘minori’ concernenti la Poetica di Aristotele.

 

 

 

 

1 Pubblicato in I Greci, a cura di S. Settis, vol. I Noi e i Greci, Einaudi, Torino 1996, pp. 469-504, cfr. infra, pp. 267-318. Citazione a p. 291.

2 Alla ricerca del tragico, in «Belfagor», 31, 1976, pp. 33-64, cfr. infra, pp. 17-59.

3 La «tragedia» e il «tragico», in «Quaderni di storia», 37, gennaio/giugno 1993, pp. 65-73, cfr. infra, pp. 173-183.

4 La tragedia e il tragico, in I Greci, a cura di S. Settis, vol. I Noi e i Greci, cit., pp. 469-504, cfr. infra, pp. 267-318.

5 La tragedia e il tragico, cfr. infra, p. 318.

6 Les temps de l’émotion tragique. Malaise et soulagement, in «Mètis. Anthropologie des mondes grecs anciens», 3, n. 1-2, 1988, pp. 15-39, cfr. infra, pp. 139-172.

7 I tempi dell’emozione tragica, in «Elenchos», 16, 1995, pp. 5-22, cfr. infra, pp. 225-243.

8 Pathos, in I Greci, a cura di S. Settis, vol. 2 Una storia greca, II Definizione, Einaudi, Torino 1997, pp. 1147-1155, cfr. infra, pp. 319-332.

9 De l’émotion tragique, aujourd’hui, in «Europe», janvier-février 1999, pp. 70-81, cfr. infra, p. 333-348.

10 il Saggiatore, Milano 1997; rist. Petite Plaisance, Pistoia 2019. Cfr. soprattutto pp. 187-219.

11 Le regole del giuoco scenico nell’Atene antica. Prime annotazioni, (1985) in Mondo classico: percorsi possibili, a cura del CIDI Roma e del CRS, Longo, Ravenna 1985, pp. 109-117, cfr. infra, pp. 109-121; La poesia drammatica: i caratteri generali, il dramma satiresco, in Lo spazio letterario della Grecia antica, a cura di G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza, vol. I La produzione e la circolazione del testo, t.1 La polis, Salerno, Roma 1992, pp. 279-300, cfr. infra, pp. 199-224.

12 Lo spettacolo, in Introduzione alle culture antiche, a cura di M. Vegetti, vol. I (Oralità scrittura spettacolo), Torino Boringhieri 1983, pp. 107-126, cfr. infra, pp. 61-88; L’attore, in Introduzione alle culture antiche, a cura di M. Vegetti, vol. I (Oralità scrittura spettacolo), cit., pp. 127-139, cfr. infra, pp. 89-108.

13 Op. cit., pp. 23-96.

14 Su questo aspetto cfr. anche il saggio uscito in lingua tedesca Glaubwürdigkeit auf der Bühne als gesellschaftliches Problem, in «Philologus», 135, 1991, pp. 97-104, cfr. infra, pp. 185-197.

15 Pubblicato in «Dioniso», 52, 1981, pp. 463-476, cfr. infra, pp. 387-403.

16 Per completezza li elenchiamo qui di seguito: Clitemestra, i cori dell’Elettra e la gnome (in Il tiranno e il suo pubblico, pp. 331-335), Tiresia sulla scena: l’indovino e il sacerdote (in Il tiranno e il suo pubblico, pp. 337-341); La paura di Edipo (in La disciplina dell’emozione, pp. 243-257), Edipo rivisitato da Sofocle (in La disciplina dell’emozione, pp. 259-279), Una ragazza, offerta in sacrificio … (in La disciplina dell’emozione, pp. 281-301 e in Dramata, I. Scritti sulla drammaturgia euripidea, Petite Plaisance, Pistoia 2023, pp. 133-152), La donna nella tragedia greca (in La disciplina dell’emozione, pp. 303-319), Ridondanze del mito nella tragedia greca (in La disciplina dell’emozione, pp. 321-332), Finis tragoediae (in La disciplina dell’emozione, pp. 351-361).



Alcune pubblicazioni di Diego Lanza


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Mario Vegettti – «Figure dell’identità greca. L’io, l’anima, il corpo, il soggetto». Prefazione di Silvia Gastaldi.

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Prefazione

 

di   Silvia Gastaldi

 

 

Questo volume comprende dodici saggi pubblicati da Mario Vegetti in un arco di tempo compreso tra i primi anni Ottanta del Novecento e la prima decade del Duemila, scelti nella sua vasta produzione e raggruppati attorno a un tema, quello della concezione antica, in particolare greca, della soggettività.

I contributi sono preceduti da due scritti biografici. Nel primo caso si tratta di una breve Autopresentazione, scritta da Vegetti per il «Bollettino della Società Filosofica Italiana», uscita nel 2002, che ripercorre i tratti salienti delle sue vicende biografiche e parallelamente lo sviluppo dei suoi studi e della sua carriera accademica; nel secondo siamo di fronte a un’ampia intervista concessa a Marco Solinas, pubblicata su Iride nel 2008, con un titolo significativo: Lo strabismo dello storico (fra gli antichi e noi). Si tratta di un’intervista che esordisce, come l’Autopresentazione, con una serie di riferimenti alla biografia di Vegetti, ma si sposta ben presto sulla sua vicenda intellettuale e sui presupposti teorici cui i suoi studi hanno fatto riferimento. Un ruolo particolarmente rilevante in questo ambito è assegnato agli studiosi francesi che, negli anni Settanta del Novecento, si accostano all’antico con nuovi strumenti di analisi, mutuati da una parte al marxismo, dall’altra allo strutturalismo. Tra questi spiccano J.-P. Vernant, M. Detienne e soprattutto M. Foucault, da cui Vegetti afferma di essere stato particolarmente influenzato, individuando nel suo “metodo archeologico” uno strumento fruttuoso per comprendere come le tradizioni antiche abbiano influito sulla nostra modernità e sulla nostra visione del mondo.

Significativamente, l’Autopresentazione finisce là dove l’Intervista ha il suo inizio, e cioè con la menzione del lavoro di traduzione e commento della Repubblica di Platone: nel primo testo quella che Vegetti aveva sempre definito come una vera e propria impresa era ancora in pieno svolgimento, mentre nel 2008 era appena terminata con la pubblicazione del settimo volume. Lo spazio riservato in entrambi i testi a questo dialogo platonico testimonia la sua rilevanza negli studi di Vegetti, come del resto lui stesso spiega ampiamente nell’Intervista. È una centralità che ha modo di manifestarsi anche nei saggi contenuti in questo volume, in cui il riferimento alla Repubblica è tanto frequente da costituirne in una certa misura il filo conduttore.

Il tema cui sono dedicati i dodici articoli ripubblicati in questa raccolta è chiaramente spiegato dal titolo del volume: Figure dell’identità. Il sottotitolo specifica che ci si riferisce a una serie di nozioni – l’io, l’anima, il corpo, il soggetto – tramite le quali si intende spiegare come viene concepita e descritta la percezione che l’uomo greco ha di sé stesso. Il problema, come Vegetti sottolinea nel saggio più ampio e più rilevante dal punto di vista teorico pubblicato nel volume, e che si intitola proprio L’io, l’anima e il soggetto, è che queste nozioni, cui si può aggiungere anche quella di corpo, «pur appartenendo senza dubbio alla stessa famiglia concettuale e rinviando alla stessa esperienza – quella radicata nell’esistenza individuale −, non possono venir pensate come complementari o tali da formare una sequenza lineare» (p. 194). Occorre dunque evitare, utilizzando proprio quello «strabismo dello storico» cui allude il titolo dell’intervista a Solinas, di leggere l’esperienza culturale greca, e dunque anche la categoria di soggettività, alla luce della modernità: la lontananza nel tempo non ci impedisce di comprenderla, ma la colloca nella corretta prospettiva rispetto al nostro presente.

Il saggio citato − L’io, l’anima e il soggetto − che riprende e amplia un altro articolo sullo stesso tema riproposto in questo volume – Un vincolo ambiguo: l’anima, l’io, il soggetto − fornisce proprio le coordinate entro le quali leggere gli altri contributi presenti in questa raccolta. Vegetti mostra che, nel pensiero greco, non è possibile rintracciare la categoria del soggetto né nell’ambito teologico, in cui non è presente alcuna soggettivazione del divino, diversamente da quanto avviene nella tradizione giudaico-cristiana, e neppure in quello psicologico, perché l’anima – con poche eccezioni − si delinea come un’entità superindividuale. Neppure si può, a rigore, parlare di una soggettivazione politico-sociale, poiché l’individuo è parte, in quanto cittadino, della comunità della polis. L’unica concezione cui può essere attribuita in un certo modo la funzione di termine di passaggio dal pensiero antico a quello moderno della soggettività è, secondo Vegetti, quella dell’aristotelico “io proprietario”, cioè dell’individuo che gode di una proprietà privata, connesso ad altri soggetti dotati delle stesse caratteristiche da vincoli di amicizia, un legame che appare come il prolungamento di quella affezione – primaria e fondante – che ciascuno ha per sé stesso.

Si è detto che una nozione che, nel pensiero greco, non appare in grado di assolvere al ruolo di soggetto è l’anima. A questo tema sono dedicati alcuni saggi che esplorano la dimensione psichica. Si tratta anzitutto del contributo intitolato Anima e corpo. La scena iniziale del percorso rimanda ai poemi omerici, dove entrambi i termini di questa coppia sono citati e descritti solo nel momento della morte. Il corpo – soma – è il cadavere, quello dell’eroe o del nemico ucciso che resta sul terreno, mentre la psyche, il soffio vitale, sotto forma di vapore o fumo, esce dalla ferita mortale e va all’Ade, dove sopravvive come doppio fantasmatico del vivente. Vegetti ripercorre le successive vicende della riflessione sull’anima partendo dalla tradizione medica, analizzando in particolare i tentativi finalizzati, nel V secolo, a riunificare le funzioni psichiche, ancora prive di una coerenza unitaria. L’altra tradizione che viene indagata è quella designata come orfico-pitagorica, caratterizzata in senso mistico-religioso, secondo la quale l’anima è un demone. Vegetti mostra come questa concezione sia rievocata in alcuni dialoghi di Platone, ad esempio il Fedone, ma rileva, al tempo stesso, che nella riflessione psicologica platonica coesistono altri modelli di anima, in particolare quella tripartita della Repubblica, rielaborata nel Timeo in una prospettiva bio-fisiologica, in cui le tre parti psichiche trovano la loro collocazione negli organi del corpo. Vegetti prosegue la sua analisi analizzando l’ilomorfismo aristotelico, gli apporti anatomici e fisiologici della scienza alessandrina per giungere a Galeno che, nel II sec. d. C., ristruttura il sistema platonico del Timeo introducendovi una svolta materialistica, rendendo cioè i comportamenti umani dipendenti dalla struttura degli organi. È un percorso che si conclude con Plotino, nella cui visione metafisica l’anima recupera la sua natura di demone divino e subordina a sé totalmente quel corpo di cui il filosofo, secondo la testimonianza del suo allievo Porfirio, addirittura si vergognava.

La vicenda dell’anima, dunque, è complessa, come emerge anche da altri saggi che ne approfondiscono aspetti particolari. Un tema saliente, in questo ambito, è rappresentato dalla sua sopravvivenza. Nel contributo intitolato appunto La sopravvivenza dell’anima nel mondo antico, Vegetti indaga le prospettive secondo cui la concezione dell’immortalità viene proposta. Così, è esaminata, da una parte, la concezione omerica, cui si è già fatto riferimento, e che assegna alla psyche un’esistenza fantasmatica, come semplice doppio del vivente, legando l’immortalità degli eroi alla gloria imperitura derivante dal canto poetico che li celebra. Dall’altra parte viene analizzata la tradizione che designiamo come orfico-pitagorica, e che presuppone l’immortalità dell’anima, dovuta alla sua natura di demone divino, destinata a premi o a punizioni a seconda del tipo di vita condotto dall’individuo in cui si installa, ma si tratta di un’anima trans-individuale: proprio perché la pena o la ricompensa comportano il suo passaggio ad altri corpi, essa non può essere considerata come appartenente a un singolo soggetto. Vegetti sottolinea l’influenza esercitata da questa concezione su Platone, che, soprattutto al fine di incentivare il perseguimento di una vita giusta, in alcuni dialoghi, come il Gorgia, il Fedone, il libro X della Repubblica, introduce per la prima volta nel pensiero greco la concezione di un’anima individuale che va incontro a un destino ultraterreno, descritto nei grandi miti dell’aldilà. Vegetti rileva comunque come in altri dialoghi, ad esempio nel Timeo, Platone affermi chiaramente che solo la parte razionale dell’anima è immortale, ma al tempo stesso trans-individuale. Su questa linea si colloca anche la concezione aristotelica dell’intelletto attivo, che rappresenta la funzione più elevata dell’anima. Di un’autentica immortalità dell’anima individuale si potrà parlare solo a partire dal I secolo d. C., quando avverrà la saldatura tra il Platonismo e il nascente Cristianesimo.

Ancora al tema dell’immortalità è dedicato il saggio Immortalità personale senza anima immortale, che ne esamina due diverse declinazioni, quella esposta da Diotima nel Simposio e quella di Aristotele. Nel suo dialogo Platone, attraverso il discorso della sacerdotessa di Mantinea, passa in rassegna differenti gradi di immortalità che non presuppongono quella dell’anima: dall’immortalità conseguibile con la riproduzione, che perpetua l’individuo nella sua discendenza, a quella culturale, legata alla produzione di opere destinate a durare nel tempo, per culminare con l’immortalità ottenibile tramite la conoscenza delle idee, in particolare di quella del bello. Vegetti riscontra anche in Aristotele forme di immortalità che non sono legate alla sopravvivenza dell’anima: anzitutto, quella biologica, che si identifica con la persistenza delle specie, poi quella – meno esplicitata – che si ottiene con la pratica delle virtù etiche, nel contesto sociale, e infine quell’”immortalizzazione” – athanatizein, un verbo che nel Corpus del filosofo compare una sola volta – conseguibile con la pratica della vita filosofica, la forma di esistenza più elevata consentita all’essere umano e che lo avvicina alla divinità, cui Aristotele – come è noto – attribuisce la sola attività del puro pensiero.

Alla riflessione sulla natura dell’anima è strettamente connesso il problema delle passioni, con cui la cultura greca si confronta costantemente. Nel saggio Passioni antiche: l’io collerico Vegetti mostra la centralità, nell’universo passionale dell’uomo greco, della reattività collerica, partendo dalla sua prima, archetipica manifestazione, quella di Achille nell’Iliade. La menis dell’eroe è una forma peculiare di ira, attribuita da Omero solo a questo eroe, un’ «indignazione» o un «risentimento violento», come la definisce Vegetti (v. infra, p. 157), che appartiene costituzionalmente alla sua figura e ne determina la reazione di fronte a tutti i comportamenti lesivi nei suoi confronti. Proprio nel poema, inoltre, sono descritte altre forme di reattività collerica che ne definiscono con precisione tutte le diverse manifestazioni. Questa attenzione alla pluralità di declinazioni di una passione assolutamente primaria costituisce un’eredità che si trasmette alle epoche successive e che viene assunta soprattutto dai filosofi come tema privilegiato di riflessione. Vegetti approfondisce i momenti salienti di questo approccio, partendo dall’individuazione del ruolo che la reattività collerica ha in Platone. Nella Repubblica, essa, come thymos, caratterizza l’anima dei guerrieri, difensori della kallipolis ed ha uno statuto complesso e anche ambiguo, essendo in grado di allearsi con la razionalità dei governanti-filosofi ma anche di ribellarsi e di assumere il potere, stravolgendo le corrette gerarchie, nell’anima come nella città. Se in Aristotele l’ira, contenuta nei giusti limiti, è la reazione in tutto degna del cittadino libero, che non deve subire passivamente le offese, per gli Stoici è, come tutte le passioni, una malattia dell’anima che deve essere completamente estirpata. Ma se questo è il fine – l’apatheia – è necessario conoscere ogni aspetto dell’universo emotivo: sono proprio gli Stoici a elaborare la più ampia e raffinata catalogazione delle passioni, e delle forme di ira in particolare, che Vegetti riporta tramite accurate rappresentazioni grafiche. Il percorso si conclude con Galeno, che introduce una svolta in questa lunga vicenda, interpretando le passioni dal punto di vista fisiologico, connettendole cioè alla conformazione e al funzionamento degli organi. Una parte rilevante, nelle riflessioni sulle passioni, è dedicata alla loro terapia. Vegetti mostra come in Platone, Aristotele e, sebbene con maggiore problematicità, negli Stoici, un ruolo rilevante in questo ambito sia assegnato ai dispositivi di controllo sociale. Gli Epicurei, per contro, propongono uno sforzo individuale teso al contenimento dei bisogni e dei desideri. Per gli Scettici, infine, le passioni non sono radicate per natura nell’anima, ma sono distorsioni prodotte dalle teorie etiche normative, che indicano quali beni perseguire e quali mali evitare, imponendo di seguire questa o quella “arte del vivere”. Si è dunque di fronte a una vasta gamma di posizioni che testimoniano la ricorrenza di una riflessione sulle dinamiche emotive, e in particolare sulle reazioni colleriche, che dà luogo a una costante produzione di trattati, sia in epoca ellenistica sia nel mondo romano, come il De ira di Seneca.

Sempre in tema di passioni, nel saggio Psicopatologia delle passioni nella medicina antica, Vegetti si interroga sui motivi per i quali queste reazioni emotive, che interessano anche il corpo, non siano state oggetto di indagine da parte dei medici. A questo riguardo rileva che tale lacuna dipende, se ci si riferisce agli Ippocratici, dalla mancata elaborazione di una nozione di anima e di conseguenza delle modalità con cui essa interagisce con il corpo. Il termine pathos, in questo contesto, è sinonimo di nosos, malattia. Si deve giungere a Platone, e in particolare al Timeo, per assistere alla costruzione di un’«immagine articolata della corporeità e della sua interrelazione con la dinamica psichica» (p. 249) che spiega l’eziologia delle passioni: la loro natura patologica è dovuta al malfunzionamento degli organi e insieme a comportamenti psichici scorretti. Anche per Aristotele l’insorgenza delle passioni si colloca all’intersezione tra anima e corpo, ma solo le forme estreme di devianza psichica sono considerate malattie vere e proprie: tutti gli altri comportamenti errati sono attribuiti alla cattiva educazione sia in ambito familiare sia sociale. È proprio l’ambiente in cui si vive, per gli Stoici, la causa del verificarsi delle passioni, malattie dell’anima a cui si può porre rimedio rinforzandone il tonos, l’energia con cui essa riesce a opporsi alle spinte negative provenienti dall’esterno, grazie anche all’aiuto fornito dagli insegnamenti di infine, che recupera il modello platonico del Timeo, le passioni sono ricondotte a cause organiche, su cui solo il medico può intervenire.

Nel contributo Metafora politica e immagine del corpo nella medicina antica Vegetti analizza la terminologia medica utilizzata tra il V e il IV secolo, individuando differenti modalità di utilizzo del lessico politico: da una parte, Alcmeone identifica la salute con l’isonomia, cioè una condizione di uguale potere, tra le forze attive nel corpo, dall’altra negli scritti ippocratici si riscontra la prevalenza di termini che rinviano, nella descrizione dei rapporti tra le parti e le funzioni corporee, al linguaggio della forza e del potere, così come a quello della guerra. Il ricorso a questo vocabolario dipende dalla concezione ippocratica del corpo, considerato come un recipiente vuoto entro il quale scorrono fluidi in lotta tra loro per imporre il proprio dominio e su cui hanno influsso anche i fattori esterni, come il clima e l’ambiente. L’origine di un’immagine del corpo come un organismo costituito di parti che collaborano tra loro, modellato sulla struttura gerarchica dei poteri all’interno della polis, è da individuare, per Vegetti, forse nel pitagorismo ma certamente in Platone, come mostra chiaramente l’elaborazione della sequenza anima-corpo-città che si realizza tra la Repubblica e il Timeo.

Nel saggio Corpo e anima in Galeno, Vegetti esamina le posizioni espresse al riguardo in una delle opere maggiori del medico-filosofo, il De placitis Hippocratis et Platonis. Anzitutto, in merito all’individuazione dell’hegemonikon, il principio direttivo, da cui dipendono i comportamenti, Galeno, confrontandosi con le teorie, ancora rivali al suo tempo, dell’emocentrismo e del cardiocentrismo e fondandosi sull’osservazione anatomica e sull’inferenza logica, opta decisamente per il cervello in quanto principio dei nervi. Sostenendo questa posizione Galeno si rifà a una tradizione illustre, che prende avvio con gli Ippocratici, arriva a Platone e si rafforza con le scoperte dei medici di Alessandria tra il IV e il III secolo a.C. In tal modo Galeno innesta sulla tripartizione platonica i dati acquisiti dagli studi anatomici tra il periodo alessandrino e i suoi tempi, connettendo rispettivamente al cervello, al cuore e al fegato i sistemi nervoso, arterioso e venoso. A differenza di quanto avviene in Platone, tuttavia, non vi è contrasto, bensì collaborazione tra i tre livelli. Galeno individua nella cattiva conformazione degli organi, cioè in una disfunzione fisiologica, la causa delle azioni viziose e malvagie, e indica pertanto nel medico la figura preposta al recupero della salute sia del corpo sia dell’anima, mentre per gli inguaribili – egli sostiene − non rimane che la pena di morte.

Un gruppo di tre saggi indaga infine gli aspetti politico-sociali della soggettivazione greca. Il primo contributo – Politica dell’anima e anima del politico nella Repubblica – studia in particolare le modalità con cui si presenta il rapporto anima-città posto alla base della costruzione della kallipolis. Contro le interpretazioni che assegnano alla tripartizione delle funzioni e alla parallela tripartizione psichica il ruolo di semplice analogia giungendo a mettere in discussione o addirittura a negare il carattere politico della Repubblica, Vegetti vi vede un modello dinamico, in base a cui la psicologizzazione della città e la politicizzazione dell’anima si rispecchiano reciprocamente. In entrambi i contesti vigono gli stessi rapporti gerarchici e di potere: il migliore domina sul peggiore e, in questo modo, in un ambito e nell’altro si realizza la giustizia. Lo sconvolgimento dell’ordine corretto dà luogo a un’anima ingiusta e parallelamente, a livello politico, a quella serie di costituzioni deviate che sono descritte nei libri VIII e IX. Una particolare attenzione è dedicata, in questa analisi, allo statuto e al ruolo del thymos, il centro motivazionale intermedio tra razionalità e appetizione, che caratterizza, nella città, il gruppo dei guerrieri. Nell’ultima parte del suo contributo, Vegetti chiarisce come si debba intendere quell’organicismo che secondo una certa tradizione di pensiero annullerebbe l’individuo nella comunità: Platone rappresenta l’erede di quella concezione tradizionale che fa della polis una comunità educante, preposta alla formazione-conformazione dei cittadini ai valori collettivi.

Proprio i problemi che insorgono nella città greca quando si manifestano le spinte individualistiche, determinate dai desideri corporei e soprattutto da quelli legati all’autoaffermazione e al dominio politico, sono il tema del contributo Antropologie della πλεονεξία in Platone. Vegetti esamina le posizioni espresse da tre personaggi – Callicle nel Gorgia, Trasimaco e Glaucone nella Repubblica – sul tema di quell’istinto di sopraffazione, la pleonexia appunto, insito, come insegna Tucidide, nella natura umana. Per Callicle si tratta di esaltare, al fine di raggiungere la suprema felicità, il soddisfacimento di tutti i desideri, realizzando in tal modo una superiorità sugli altri equiparata a quella del leone nel regno animale, mentre le concezioni espresse da Trasimaco sono molto più cogenti sotto il profilo teorico e investono la natura stessa del potere politico. Trasimaco argomenta con assoluto rigore che il giusto coincide con l’utile del più forte, cioè di chi governa, e parallelamente demolisce la concezione della legge come norma formulata nell’interesse collettivo, mostrando come sia in realtà uno strumento finalizzato alla conservazione del potere stesso. Glaucone, infine, proprio sulla scia delle tesi di Trasimaco, che trovano corrispondenza nelle posizioni sostenute da autorevoli intellettuali del V secolo, come Antifonte, espone una vera e propria “genealogia della morale”: la formulazione delle leggi e l’imporsi di una concezione della giustizia sono l’esito di un accordo stipulato tra i deboli e i forti – e a malincuore da questi ultimi, caratterizzati dalla pleonexia – in vista della mutua conservazione. La necessità di contrastare gli esiti distruttivi della pleonexia, che per Platone è radicata nella componente desiderativa dell’anima, rende necessario progettare un nuovo modello di città – quello della Repubblica – in cui si realizzi una nuova modalità di gestire il potere nell’interesse collettivo per conseguire la vera giustizia.

L’ultimo saggio pubblicato nel volume – Il guerriero e il cittadino. Figure dell’identità greca − discute una forma peculiare dell’identità greca, strettamente legata alle strutture politico-sociali, e cioè quella del cittadino-soldato. Partendo dalla constatazione che il polemos, la guerra contro i nemici esterni, è una presenza costante nella vita delle città, esportando all’esterno quell’aggressività che all’interno produrrebbe la stasis, il conflitto civile distruttivo della convivenza stessa della comunità, Vegetti esamina le varie forme in cui si esplica nella polis la funzione guerriera. Il personaggio paradigmatico è l’oplita, cui si richiede di conservare la posizione nelle file ordinate della falange, per assicurare alla formazione la sua forza d’urto. Questo schieramento riflette la compattezza della città e si contrappone a quel combattimento individuale, finalizzato ad assicurare la gloria al singolo eroe, proprio dei poemi omerici. Sempre nell’ambito della polis sono presenti altre figure di combattenti che non godono della stessa considerazione sociale dell’oplita. È il caso anzitutto dei marinai imbarcati sulla flotta, che per altro ha assicurato ad Atene vittorie marittime, come quella di Salamina, e il controllo delle città alleate, e più tardi – in pieno IV secolo – dei mercenari, stranieri, e dunque estranei al corpo civico. Dopo aver condotto questa rassegna, Vegetti mostra come Platone, nella Repubblica, cerchi di conciliare in un solo personaggio, quello del guerriero-difensore, le diverse figure che rappresentano l’«antropologia di guerra», per usare le sue parole (v. infra, p. 332). Nella guerra, di cui Platone fissa accuratamente le regole, e che si trasforma in un evento collettivo, i guerrieri, privati della proprietà e della famiglia, ricevono una mercede, e rappresentano dunque un tipo del tutto peculiare di mercenari, ottenendo soprattutto l’onore tributato loro dalla città intera. A Platone non sfugge tuttavia che il gruppo armato presente nella kallipolis può sottrarsi al controllo dei governanti e prendere il potere: da questa mossa avrà di fatto origine la prima forma di degenerazione della città descritta nel libro VIII della Repubblica. Benché in quegli anni anni si vada configurando quel panellenismo che propugna la guerra nei confronti dei “barbari”, i popoli orientali di lì a poco assoggettati da Alessandro, l’orizzonte di Platone rimane quello della città, come unica cornice entro la quale è possibile realizzare una vita buona e «trovare un’appartenenza identitaria “felice”» (p. 336).

Da questi saggi emergono la ricchezza di prospettive, la profondità teorica e la limpida chiarezza dell’esposizione che hanno sempre caratterizzato la produzione scientifica di Mario Vegetti. La loro ripubblicazione rappresenta un’importante operazione culturale che ne tiene viva la memoria e la grandezza intellettuale. Un grande merito, a questo riguardo, deve essere attribuito all’editrice «petite plaisance» e al suo instancabile animatore, Carmine Fiorillo, a cui va il ringraziamento mio e di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscere e di apprezzare Mario Vegetti.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Arianna Fermani – «mare dentro»: Navigazioni filosofiche tra le parole greche di Desiderio.

ὄρεξις  βούλησις  ἐπιθυμία  ὁρμή  οἶστρος  ἔρως  ἵμερος  πόθος

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Presentazione e Indice

Introduzione


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Il lettore volenteroso. Da Maurice Blanchot a Lucien Goldmann.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Arianna Fermani … in viaggio alato nel «Fedro» di Platone … vivere è stare nella luce, è vedere la luce … Platone ci insegna che dobbiamo imparare a “vedere sempre le cose diversamente e con altri occhi”, a volare alto senza mai rinnegare la nostra umanità, perché il razionale non sempre è ragionevole, e perché un eccesso di razionalità può essere tossico e disfunzionale alla realizzazione della nostra esistenza.

Sinossi

Ci sono libri che ci accompagnano per una vita, quasi segnando le svolte della nostra esistenza e le trasformazioni che in essa si compiono. Uno di questi è il Fedro di Platone, dialogo che parla della bellezza in tutte le sue forme (da quella dei corpi a quella dei discorsi, scritti e orali, da quella della natura a quella dell’anima) e che è, a sua volta, di una bellezza abbagliante, nella forma e nei contenuti e, come un dono prezioso e fragile, va scoperto con delicata lentezza.

Il Fedro è un vero proprio inno alla vita, alle sue trame sottili, visibili e invisibili, e alla sua infinita e insostenibile “luce”, e un invito a goderne, con saggezza, misura e intelligenza, sì, ma a pieno e senza sprechi.

In questo dialogo, multifocale come pochi altri, Platone insegna che dobbiamo imparare a “vedere sempre le cose diversamente e con altri occhi”, a volare alto senza mai rinnegare la nostra umanità, che abbiamo bisogno di nutrire ogni componente della nostra esistenza, anche quelle più basse, che non tutto può essere dimostrato o spiegato ma che, a volte, bisogna limitarsi a credere e, ancora di più, a sentire.

Indice del volume


Alcuni libri di Arianna Fermani

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Reiner Schürmann – «Maestro Eckhart o la gioia errante». Il termine gemüete o gemuote è una «croce dei traduttori». Viene impiegato tutte le volte che il testo latino ha mens. L’ampiezza del significato psicologico che ricopre questo vocabolo non designa una facoltà che si aggiunge all’intelletto e alla volontà, bensì la loro radice comune, e coincide in larga misura con la mens, disposizione di fondo per conoscere e amare. In questa scintilla, in quanto parte superiore dello spirito, si situa l’immagine dell’anima.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Il lettore ansioso, “toujours anxieux au moment de lire …”. «… era il libro a cercarmi, non viceversa, era lui a condurmi per vie impreviste all’incontro e che questo avviene quando è il momento … Il libro che marcherà un’esistenza può avere atteso a lungo, dimenticato apparentemente su un ripiano, oggetto di timorose occhiate in tralice, una promessa per il futuro …».




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Luca Grecchi – “La filosofia morale di Democrito”. Come scrive Francsesco Verde: «Questo saggio ha prima di tutto il merito di richiamare l’attenzione (anche dei non specialisti del settore) sulla filosofia di Democrito e, più nello specifico, sul suo pensiero morale, spesso e volentieri trascurato, o perfino considerato inesistente o di frammentaria, dunque impossibile ricostruzione».



Presentazione di Francesco Verde

Se si provasse a dare un’occhiata anche cursoria agli studi recenti, perfino di carattere specialistico, in Italia o anche al di fuori dello Stivale, sul pensiero di Democrito, ci si accorgerebbe subito che, fatte salve alcune eccezioni (ricordo, per limitarmi ad alcuni esempi, l’utilissimo volume curato da C.C.W. Taylor, The Atomists: Leucippus and Democritus, stampato a Toronto nel 1999, la miscellanea curata da P.-M. Morel e A. Brancacci, Democritus: Science, the Arts, and the Care of the 50Soul, uscita nel 2007 per Brill e tre più recenti lavori in francese, Atomisme et sophistique. La tradition abdéritaine di A. Hourcade, del 2009, proprio sull’etica democritea, Démocrite d’Abdère. Aux origines de la pensée éthique di A. Motte, del 2022, entrambi stampati da Ousia, e la raccolta di saggi per Vrin Le plaisir et la nécessité. Philosophie naturelle et anthropologie chez Démocrite et Épicure di P.-M. Morel, del 2021), la personalità di questo autore non è certamente al centro degli interessi della critica. Se restringiamo, poi, il nostro sguardo all’Italia, dopo il lavoro importante di W. Leszl che pubblica nel 2009 per i tipi fiorentini di Olschki una Raccolta dei testi che riguardano Leucippo e Democrito e dopo l’indispensabile versione italiana del Democrito di S. Luria (Leningrad 1970) che vede la luce per Bompiani due anni prima, nel 2007, non si osserva affatto una pletora di contributi sull’Atomismo antico. Le ragioni sono molteplici; non affronto in questa sede la questione ma sono convinto che una certa diffidenza, tutta, per così dire, ideologica, nei riguardi del materialismo in generale giochi un ruolo non trascurabile in questa vicenda. Per tornare alla storiografia filosofica, ciò che manca (nella nostra lingua e non solo), dopo la rilevante monografia di P.-M. Morel su Démocrite et la recherche des causes (Paris 1996), è proprio un lavoro di insieme sulla filosofia di Democrito che sia in grado di offrire un quadro preciso e aggiornato sulle tante testimonianze che arrivano dall’Antichità su questo autore.

In effetti, sembrerebbe che la critica si sia interessata molto di più alla pur fondamentale collezione/catalogazione ragionata dei testi relativi a Democrito (si pensi, da ultimo, solamente all’edizione commentata del le massime democritee di etica a cura di G. Ruiu – La Vita Felice, Milano 2011 – e al ricchissimo volume VII della Early Greek Philosophy curato da A. Laks e G.W. Most per la Loeb Classical Library nel 2016 dedicato agli Atomismi antichi, che, dopo i capitoli 67 e 68 del Diels-Kranz, è ormai un punto di riferimento inaggirabile per chi intende accostarsi con cognizione di causa a questi filosofi), piuttosto che a una ricostruzione organica e sistematica dell’articolata riflessione filosofica di questo pensatore che spazia dalla fisica all’etica, dalla gnoseologia alla matematica, dalla musica alla medicina. A chi volesse avere un’idea di quanti e quali dovevano essere le opere di Democrito (ordinate da Trasillo in tetralogie esattamente come fece per le opere di Platone) è sufficiente scorrere l’elenco dei suoi scritti che fortunatamente Diogene Laerzio trasmette nel libro IX delle sue Vite.

Va da sé che, a causa dell’enorme naufragio (spesso dovuto al caso ma ancor più spesso dovuto alla netta deliberazione di chi ha voluto che certi scritti non dovessero “passare”) che ha provocato la perdita di buona parte delle opere antiche, non fanno eccezione gli scritti di Democrito: conosciamo solo titoli ma nessun contenuto integrale. Come per buona parte dei filosofi antichi (naturalmente con delle ben note eccezioni), di conseguenza, tocca allo studioso moderno raccordare – frequentemente non senza una buona dose di difficoltà – i testi più disparati e controversi per tentare di fornire un quadro il più possibile coerente e chiaro della riflessione del pensatore oggetto della sua analisi.

Questo, in buona sostanza, è ciò che fa il libro di Luca Grecchi che, a mio avviso, per tutte le ragioni che abbiamo appena esposto, ha prima di tutto il merito di richiamare l’attenzione (anche dei non specialisti del settore) sulla filosofia di Democrito e, più nello specifico, sul suo pensiero morale, spesso e volentieri trascurato o perfino considerato inesistente o di frammentaria, dunque impossibile ricostruzione. I problemi si infittiscono quando si considerano i frammenti etici trasmessi da Stobeo a volte sotto il nome di Democrito, altre volte sotto quello di Democrate; questo ha spinto non pochi studiosi a concludere che alcune di queste massime fossero spurie o addirittura di considerevole banalità per essere attribuite a Democrito, come si legge all’inizio del volume VII (pp. 4-5) della già citata Early Greek Philosophy. La prospettiva che Grecchi offre nel suo libro è un contributo a rivalutare in modo convinto e senza fuorvianti pregiudizi questi testi, nel tentativo di rintracciare, per quanto possibile, un filo rosso e una coerenza teorica tra loro, il che non è affatto scontato sebbene studi recentissimi vadano (per fortuna, aggiungo io) in questa direzione (penso, per esempio, ali articolo di M. Ransome Johnson, The Ethical Maxims of Democritus of Abdera, in D.C. Wolfsdorf (ed.), Early Greek Ethics, Oxford 2020, pp. 211-242).

In effetti, Democrito è celebre soprattutto per essere stato, insieme a Leucippo, il fondatore della tradizione atomistica antica, pertanto, il cuore della sua riflessione filosofica è senz’altro costituito dalla fisica; Aristotele (autore di ben due scritti dedicati a Democrito, come informa Diog. Laert. V 26-27: i Προβήματα ἐκ τῶν Δημοκρίτου in due libri e un Πρὸς Δημόκριτον in un libro solo) riconosce in Democrito il pensatore fisico per eccellenza e non pochi sono i luoghi aristotelici (per esempio nel De generatione et corruptione) nei quali, nel campo dell’indagine naturale, Democrito è perfino preferito a Platone. Del resto, da un certo punto di vista e su questo punto specifico, è difficile dare torto ad Aristotele: il fondamento della fisica democritea sono atomi e vuoto) dunque corpi e vuoto, i due principi che sono in grado di spiegare materialmente la concreta realtà delle cose. Stando al racconto verosimile del Timeo, il demiurgo ordinò il movimento riottoso, disordinato e vorticoso della chora, riducendo il corpo dei quattro elementi della tradizione empedoclea a superfici geometriche, ovvero a triangoli indivisibili: non pochi sono stati coloro che hanno voluto scorgere in questa sorta di “atomismo geometrico” un debito forte di Platone nei confronti di Democrito, tuttavia non mancano passi nei quali la critica eli Platone ai filosofi materialisti è forte e chiara (si tenga conto di luoghi celeberrimi del Sofista, ma anche del Teeteto). Tanto Platone quanto Aristotele, pertanto, hanno avuto ben presente soprattutto (ma non esclusivamente) come bersaglio polemico la filosofia di Democrito che essi considerarono quasi sempre dal suo versante fisico (a tale proposito mi piace segnalare il volume di T. Cole su Democritus and the Sources of Greek Anthropology, Atlanta 1967/1990, che ha il merito di mostrare il profondo debito – spesso deliberatamente non dichiarato – di Platone e Aristotele ma anche di Epicuro e Posidonio nei riguardi di Democrito circa i dibattiti sulla Kulturgeschichte nel pensiero antico).

Malgrado ciò – e questo il volume di Grecchi lo mostra bene – Democrito ebbe anche un importante pensiero etico-morale che non fu affatto da meno rispetto a quello fisico. Ora, il punto centrale che ha maggiormente interessato gli studiosi ha riguardato il rapporto tra la fisica e l’etica di Democrito. Grecchi, riprendendo gli studi di K. von Fritz, G. Vlastos, J.F. Procopé (specialnlente sul pensiero politico democriteo) e, in Italia, di E. Spinelli, è – a mio parere, giustamente – convinto che il legame tra fisica ed etica in Democrito non solo ci sia, ma sia anche indissolubile. Per esemplificare brevemente questo punto, del tutto centrale per Grecchi, può essere sufficiente sviluppare qualche considerazione circa i due termini propri dell’etica democritea, quali l’εὐθυμίη, la stabile condizione dell’anima, e l’εὐεστώ, il benessere. Ambedue i concetti (autentici cardini della riflessione etica democritea), menzionati da Diogene Laerzio (IX, 54), anche nella loro radice etimologica, mostrano un lucido riferimento a una buona condizione che non può che essere compresa in termini genuinamente fisici e materiali. Il punto, insomma, è che a stare al fondamento dell’etica è l’armonica condizione dell’assetto atomico dell’individuo: è, quindi, il misurato ed equilibrato stato della materia a giustificare il benessere dell’anima (altrettanto materiale). Si potrebbe, allora, perfino parlare di una sorta di “riduzionismo etico”, un’espressione, questa, che se contestualizzata all’interno del materialismo democriteo e se epurata da incrostazioni ideologiche storicamente infondate, esprime con efficacia il cuore della teoria morale di Democrito che Grecchi, raccordando insieme i disiecta membra testuali dell’arduo pensiero democriteo, ricostruisce qui con scrupolosa attenzione.

Il lavoro di Grecchi, in conclusione, va salutato con particolare gratitudine perché richiama, finalmente, l’interesse su un autentico gigante del pensiero, sovente intenzionalmente trascurato (a partire dagli stessi Antichi, del resto) ma, in ogni caso, sempre ben presente nel dibattito filosofico antico (e non solo) come ineludibile termine di confronto. La viva speranza con la quale mi sento di chiudere questa sintetica presentazione è che il libro di Grecchi possa aprire e stimolare nuove prospettive di ricerca sulla filosofia democritea: su di essa molte e molte cose rimangono (ancora)  da esplorare e da dire.

 

FRANCESCO VERDE

 



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Paul Claudel – «La filosofia del libro». Le parole hanno un’anima. La scrittura ha questo di misterioso: «Parla!». Con una nota di Ilaria Rabatti: «Lo scrignio di carta: voce, parola, scrittura».

Paul Claudel, La filosofia del libro e Le parole hanno un’anima [La philosophie du livre e Les mots ont une âme]. Testo francese a fronte, traduzione e cura di Ilaria Rabatti. ISBN 978-88-7588-417-8, 2023, pp. 96, formato 130×170 mm., Euro 13 – Collana “au milieu des livres” [2]. In copertina: Kubo Shunman, Horned Owl on Flowering Branch, Museum of Fine Arts, Minneapolis.



Ilaria Rabatti

Lo scrigno di carta: voce, parola, scrittura

 

 

«La scrittura ha questo di misterioso: parla».
Paul Claudel

 

 

Le papier blanc comme un flocon de neige a absorbé le sens.
Il reste l’écriture.
Paul Claudel

 

 

 

«Grand lecteur», «dévoreur de papier imprimé», per sua stessa definizione,1 Claudel nutrì nell’arco di tutta la sua vita una visione nobile, mai strumentale, del libro. Non semplice oggetto d’uso quotidiano, il libro si presenta a Claudel come una forza dinamica, «scrigno» e veicolo delle più alte aspirazioni dell’umanità. Questa concezione alta del libro come «strumento di conoscenza», «ricettacolo del pensiero», «laboratorio dell’immaginazione» è sicuramente connessa ai due maggiori influssi formativi della sua poetica: la Bibbia (il “Libro dei Libri”)2 e Mallarmé – vero maître à penser per Claudel – che considerava il Libro espressione suprema del significato dell’universo.3 Questa esperienza biblico-simbolista della parola e del linguaggio si riplasma in Claudel – grazie ai suoi lunghi soggiorni in Cina e in Giappone4 –, nella scoperta della filosofia cinese (soprattutto del Tao tê ching) e nella rivelazione di quel «culto del segno», di quella «religion scripturale» che caratterizza la cultura orientale e da cui egli rimarrà profondamente influenzato. L’eccezionale ricchezza delle “arti” del libro e della scrittura ideo-grafica aprirà infatti al poeta nuovi orizzonti formali5 spingendolo a considerare in una diversa prospettiva il segno grafico e ravvivando la sua riflessione intorno ad una realtà – quella della parola parlata e scritta – su cui sempre tornerà in tutta la sua opera.

Pur non considerandosi affatto un bibliofilo,6 Claudel mostrerà però sempre una profonda sensibilità per le qualità “fisiche” dell’oggetto-libro e per il valore grafico della parola, partecipando attivamente alla preparazione materiale delle sue opere, collaborando (e spesso confliggendo) con gli editori, a cui non risparmierà dettagliatissime istruzioni su ogni aspetto della realizzazione.7 È per questo che Claudel, quando nel 1925 fu invitato a Firenze a tenere una conferenza alla Fiera del Libro (il primo dei due testi raccolti in questa plaquette), offrì alle persone venute ad ascoltarlo una suggestiva riflessione sulla «filosofia» e/o sulla  «fisiologia» del libro (antenata della bibliologia) – se, come spesso è stato notato, nel titolo della conferenza andata in stampa vi è un refuso. Indeterminazione o misteriosa convergenza in un titolo che, comunque sia, mette ancor più in evidenza la stretta connessione, nel pensiero di Claudel, tra la forma, la funzione ed il significato più profondo del libro, inteso al tempo stesso sia come oggetto (e supporto scrittorio di segni incisi, dipinti, scritti o impressi) che simbolo.8

Lungi da ogni ortodossia bibliofila – come, forse, avrebbe richiesto il contesto in cui era chiamato a parlare – Claudel sembra infatti guardare il libro più come autore che come lettore, scegliendo di valorizzare nella sua conferenza, tra gli elementi che compongono il libro, proprio quello più fragile e mobile: la pagina. Per farlo restringe la sua analisi alla poesia, dove, ai suoi occhi, compiutamente si rivela l’armonia tra il contenuto e lo spazio che lo contiene, tra il pieno ed il vuoto, tra il nero della parola ed il bianco del carta,9 insistendo proprio sul ruolo capitale dello spazio bianco nella disposizione dei versi.10 Chiamando a testimone Un coup de dés di Mallarmé («ce grand poème typographique»), Claudel afferma che è proprio il disporsi degli spazi nella pagina a dare forma sensibile al pensiero poetico, a rendere l’atto della lettura un viaggio di esplorazione creativa e non una progressione meccanica e lineare lungo un «étroit rail d’encre»:11 «le poëme n’est point fait de ces lettres que je plante comme des clous, mais du blanc qui reste sur le papier».12

In questo senso, anche l’invenzione della stampa ed il passaggio dalla pagina manoscritta (qualcosa di vivo, fragile e «vibrante») alla pagina tipografica – con il suo carattere impersonale, stereotipato, monotono – segna per Claudel l’inizio di una decadenza e di un progressivo conformismo culturale – a cui corrisponde nel testo anche un uso differenziato della maiuscola (L) o minuscola (l) di “libro”.

Dopo Gutenberg infatti – salvo gli esordi mitici dell’arte tipografica in cui il libro acquista ad opera di alcuni straordinari stampatori una nuova preziosità – la storia del libro mostra secondo Claudel un progressivo degradarsi che è proporzionale al violento, fagocitante, avanzamento della tecnica tipografica ed alla trasformazione del libro in bene di lusso o in oggetto commerciale. Ed infatti, nell’amaro finale della conferenza, ironizzando sulla bruttezza carica di orpelli della tipografia novecentesca, alimentata dal fatuo gusto dell’esibizione, Claudel lascia intendere una certezza ben più amara: il libro, trasformato in un oggetto qualunque, «fatto per essere preso, ripreso, gettato, spiegazzato, strappato», svuotato della sua dimensione spirituale, certo sopravvive nel tempo, ma “cristallizzato” nell’oggettistica dei soprammobili per “uomini-consumatori” che, avendo «più sensibile l’occhio che l’intelligenza» non avranno più alcun interesse a leggerlo.

L’indissolubile connessione logica tra libro e scrittura, che egli pone a fondamento della Filosofia del libro, andrà (idealmente) proseguendo in quella tra parola e lettera nel secondo e più tardo testo qui raccolto, Le parole hanno un’anima, dove è esemplificata (giocosamente) una delle più importanti idee motrici della poetica claudeliana. Come per il Platone del Cratilo anche per Claudel «i nomi appartengono naturalmente alle cose»,13 cioè vi è un rapporto diretto, oggettivo, fra la cosa e la forma della parola (il suo segno), tra il nome e la realtà. Ma alla sostanza e alla forma sensibile delle parole si aggiunge – suggerito dal loro «tracé expressif» – anche un elemento «dinamico» ,14 una forza magica, viva di per sé, che le fa muovere, «camminare» («notre mot marche»).15

Così, l’appassionato interrogare la parola che Claudel eredita da Baudelaire e Mallarmé – non solo intorno al senso, ma anche intorno al segno grafico in cui essa si manifesta, che, in sintonia con le culture orientali, gli appare a tutti gli effetti un “essere vivente”, una voce che «l’occhio ascolta»16 – apre ad un uso inedito, non ordinario delle parole, un uso poetico, che ha appunto come sua finalità quella di “significare”.17 Ma se per Claudel la parola deve significare, essa deve anche, forse soprattutto, sedurre con il suo «colore», il suo «odore» e i suoi «fantômes sonores». Ed ecco che i suggestivi calembours sfoggiati nel testo – una piccola, ma significativa collezione di trouvailles di non facile traduzione – assurgono, con le loro notazioni, aneddotiche, pittoresche e (pseudo)etimologiche, a veri e propri gioielli dell’uso metaforico e fantastico delle parole di cui Claudel è insuperabile maestro.

 

1 P. Claudel, Mémoires improvisés, Paris, Gallimard, 2001, p. 37.

2 A partire dalla tradizione biblica la creazione e la coscienza dell’essere umano, oltre che la Scrittura, sono concepite come libro. Bibbia è infatti un termine antonomastico di derivazione greca che significa “Libri”. Tale etimologia spiega anche la ragione per cui, fino al Medioevo, la Bibbia spesso venisse chiamata anche “Bibliotheca”.

3 Cfr. S. Mallarmé, Le livre, instrument spirituel: «Tout, au mond, existe pour aboutir à un livre», in Poesie e prose, con testo a fronte, introduzione e note di V. Ramacciotti, Milano, Garzanti, 1992, p. 324.

4 Claudel soggiornò come console per circa quindici anni, dal 1894 al 1909, nella Cina meridionale e successivamente, dal 1921 al 1927, come ambasciatore in Giappone.

5 Questa influenza orientale si manifesta già a partire da Connaissance de l’Est (l’edizione del 1914 realizzata da Victor Segalen nella sua pregiata “collezione coreana”) per poi rafforzarsi nelle successive pubblicazioni “giapponesi” – La muraille intérieure de Tokyo(1923), Le vieillard sur le Mont Omi (1925), dove l’impiego di carte pregiate e ricercate legature mira a creare una sottile corrispondenza tra i testi poetici e la loro forma concreta – per arrivare in Cent phrases pour éventails (1927) alla sostituzione dei caratteri occidentali con gli ideogrammi giapponesi e con la calligrafia della propria mano.

6 Cfr. la lettera a Gide del 27 marzo 1911 in P. Claudel e A. Gide, Correspondance, Paris, Gallimard, 1949, p. 169.

7 Per una dettagliata descrizione delle vicende editoriali e dell’impegno “tecnico” di Claudel nella pubblicazione delle sue opere a partire dalle Cinq grandes Odes si veda il saggio di M. Lioure, L’amateur de livres, in “Bulletin de la Société Paul Claudel”, n. 224 (2018), pp. 11-22.

8 Fin dall’inizio della conferenza infatti è suggerito, come in filigrana, anche l’uso biblico-metaforico della parola “libro” quando Claudel, ripercorrendo brevemente le tappe della sua carriera diplomatica, scrive (p. 15): «La mia vita! Se tento di compulsare quel libro inconsistente che è l’esistenza di un viaggiatore». Come non pensare ad un’eco della visione giovannea nell’Apocalisse (20, 12): «Furono aperti i libri. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. E i morti vennero giudicati secondo le opere loro che vi erano scritte».

9 Cfr. P. Claudel, Sur le vers français, in Œuvres en prose, cit. p. 7: «La parole humaine […] est une sommation du silence, elle appelle, elle provoque quelque chose d’égal ou de comparable à elle-même. Quand le poète a proféré le vers pareil à une formule incantatoire, il répond quelque chose dans le blanc».

10 Cfr. P. Claudel, La filosofia del libro: «Il bianco non è infatti per la poesia solo una necessità materiale imposta dall’esterno. È la condizione stessa della sua esistenza, della sua vita, del suo respiro» (vedi supra, p. 43). Per la metafora del bianco che infonde la vita nel testo attraverso il principio della respirazione, si veda anche il cit. saggio di Claudel Sur le vers français in Œuvres en prose, cit., p. 32: «Le vers composé d’un ligne et d’un blanc est cette action double, cette respiration par la quelle l’homme absorbe la vie et restitue une parole intelligible».

11 P. Claudel, Le Poète et le Shamisen, in Œuvres en prose, cit., p. 821.

12 P. Claudel, Cinq grandes Odes, in Œuvre poetique, cit., p. 224.

13 P. Claude Journal I, cit., p. 245.

14 Cfr. P. Claudel, Journal I, cit., p. 493: «Les mots n’ont pas seulement un timbre, une couleur, une odeur, ils ont aussi certain potential, une tension, une valeur dynamique. C’est même l’element le plus important». È qui evidente l’ascendenza rimbaudiana del Sonnet des voyelles.

15 Le parole hanno un’anima, vedi supra, p. 68.

16 L’œil écoute è il titolo di una raccolta di saggi sull’arte pubblicati da Claudel nel 1946. Claudel guarda alle parole – che talvolta «constituent de vrais petits paysages» come a dei quadri (“tableaux”). Ho sempre trovato suggestivo il fatto che “voce”, in linguistica, sia sinonimo di parola, vocabolo o lemma.

17 Cfr. P. Claudel, Sur l’inspiration poétique, in Œuvres en prose, cit. p. 47-48: «L’habitude est, comme on dit, une seconde nature. Cela veut dire que nous employons dans la vie ordinaire les mots non pas proprement en tant qu’ils signifient les objets, mais en tant qu’ils les désignent […] ils nous en donnent une espèce de reduction portative et grossière, une valeur, banale, comme la monnaie. Mais le poète ne se sert pas des mots de la même manière. Il s’en sert non pas pour l’utilité, mais pour constituer de tous ces fantômes sonores que le mot met à sa disposition, un tableau à la fois intelligible et délectable».

 



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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