«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
La nostra civiltà è ancora in mezzo al guado, né del tutto bestiale perché non è più guidata dall’istinto, né del turto umana perché non è ancora interamente guidata dalla ragione. Theodore Dreiser, Nostra sorella Came
Una mente senza emozioni non è affatto una mente, è solo un’anima di ghiaccio, una creatura fredda, inerte, priva di desideri, di paure, di affanni, di dolori e di piaceri.
Il cervello emotivo è una rassegna delle mie idee su come le emozioni provengano dal cervello. Non è un trattato esaustivo su ogni aspetto dell’ argomento, ma si concentra sulle questioni che mi hanno interessato maggiormente: sul modo in cui il cervello percepisce gli stimoli emotivamente eccitanti e vi risponde, su come avviene l’apprendimento e si formano i ricordi emotivi, e sul modo in cui i nostri sentimenti coscienti emergono da processi inconsci.
[…]
La ricerca sulle emozioni si è interessata soprattutto alle esperienze emotive coscienti, […] non possono capire le emozioni se prima non si risolve il problema del rapporto tra mente e corpo, del come la coscienza emerga dal cervello: è il problema più difficile che abbiano mai affrontato.
Joseph Ledoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, Baldini Castoldi, Milano 2018, pp. 9, 320.
Per porsi domande e cercare risposte necessitiamo di tempo. Sottrarre tempo alla logica del capitale è già una forma di resistenza.
Iperattivismo di regime Il capitalismo assoluto si caratterizza per una serie di attributi che riflettono la verità della sua sostanza. Comprendere il capitalismo assoluto nella sua attuale fase è possibile mediante un’attenta osservazione delle pratiche che ha introdotto. La velocizzazione è uno degli attributi del capitalismo attuale. L’inno alla velocizzazione è corale, i canti alla divinità del capitale sono perpetui, per cui ogni suo desiderio nel clero mediatico trova la sua conferma. Si inneggia senza problematizzare le conseguenze della cronofagia, ovvero della predazione del tempo. Ci si limita ad un coro sempre affermativo, sempre servile. Lo slogan attuale è la velocizzazione nella forma digitale e dei trasporti. Informazioni e merci devono scorrere senza limiti. Il feticismo della velocizzazione implica l’adeguamento degli esseri umani ai ritmi delle potenze della velocità. Non solo servitù: si richiede di diventare simile al padrone, alla macchina che detta i tempi, per cui ogni segmento temporale vissuto nell’ottica della categoria della qualità è giudicato una pericolosa trasgressione; la condanna sociale si fa stringente, il disprezzo è pubblico. Il famoso detto nietzscheano “Pubbliche opinioni, pigrizie private” è la nuova formula a cui i popoli devono abbeverarsi. Con la velocizzazione si è chiamati a svolgere sempre più attività, a raggiungere nuovi risultati in tempi sempre più brevi: in tal modo si sottrae tempo per ogni attività politica e pensante, per cui l’attività è solo di ordine strumentale. Alla capacità di effettuare innumerevoli attività corrisponde la pigrizia del pensiero; non v’è tempo per pensare il telos (fine) dell’attività: si è parte di un automatismo che divora con la velocità il concetto. Si derealizza la vita e si conserva lo stato presente. Affinché il reale possa essere pensato – e dunque razionalizzato – necessita del tempo del pensiero. Ma la propaganda inneggiante all’attivismo scoraggia ogni scelta legata al pensiero rappresentandola come inutile ed improduttiva. All’attivismo bisogna contrapporre l’ozio, la pigrizia positiva capace di rimappare i significati, di decodificare il presente. Paul Lafargue (Santiago 1842 – Draveil 1911), genero di Marx, in un’intelligente breve testo, Inno alla pigrizia, scorge nell’attivismo industriale che si profila già nell’Ottocento una nuova patologia sociale che mette in catena i sudditi del sistema: classe operaia e classi medie si piegano alla logica dell’iperattività non comprendendone il valore ideologico ed asservente:
«Una strana follia si è impossessata delle classi operaie delle nazioni in cui domina sovrana la civiltà capitalista. Questa follia trascina con sé quella miseria individuale e sociale che da due secoli tortura la triste umanità. Questa follia è l’amore per il lavoro, la moribonda passione per il lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie. Invece di reagire contro questa aberrazione mentale i preti, gli economisti e i moralisti hanno reso sacro e santo il lavoro: uomini ciechi e limitati hanno voluto essere più bravi del loro Dio, uomini deboli e spregevoli hanno voluto riabilitare ciò che il loro Dio aveva maledetto. Io, che non mi professo né cristiano, né economista o moralista, contro il loro giudizio, mi appello a quello del loro Dio, mi appello alle spaventose conseguenze del lavoro nella società capitalista contro le prediche della loro morale religiosa, economica e del libero pensiero. Nella società capitalista il lavoro è la causa di ogni degenerazione intellettuale, di ogni deformazione organica».[1]
Tanto più l’attivismo ghermisce la vittima, tanto più aumenta la miseria dell’operaio. Non solo miseria materiale, ma specialmente miseria morale. Il tempo accelerato del lavoro è causa di alienazione: ci si atomizza dal mondo per diventare semplici esecutori di operazioni il cui fine è incomprensibile.
Mediocrità programmata Se il mondo greco ha conosciuto la grandezza del pensiero, se la cultura greca si è eternizzata ciò è accaduto in quanto l’ozio, quale tempo liberato dal lavoro, e dedicato al logos è stato il fondamento di un’intera civiltà. L’ozio favorito dalla schiavitù in assenza delle tecnologia, non è stato per i Greci semplice astensione oziosa e festaiola dal lavoro, ma simposio del pensiero, processo di umanizzazione e conoscenza. La pratica filosofica e del logos consentiva di vivere con l’essenziale senza rinunciare alla qualità di vita. La pornocrazia industriale, invece, non conosce che la quantità, per cui accumula, aumentando le miserie dell’abbondanza oltre ogni pensabilità:
«Anche i Greci del periodo classico non provavano che disprezzo per il lavoro: solo agli schiavi era permesso lavorare, l’uomo libero non conosceva che gli esercizi fisici e i giochi di intelligenza. Era il tempo in cui un manipolo di prodi sgominava a Maratona le orde provenienti dall’Asia che Alessandro avrebbe presto conquistato. I filosofi dell’antichità insegnavano a disprezzare il lavoro, degradazione dell’uomo libero; i poeti cantavano la pigrizia, dono degli Dei: Oh Meliboee, Deus nobis hæc otia fecit».[2]
Si alleva una nuova umanità organica al potere e mediocre nei desideri mediante l’intensificazione lavorativa. La mediocrità è rassicurante, non aspira che a se stessa, non concepisce che vi siano alternative e giudica il presente come intrascendibile, resta nell’immanenza della certezza sensibile.
Tempo correzionario Allungare il tempo del lavoro e del consumo è la nuova formula correzionaria del capitalismo. Il lavoro sempre più tecnologico e cinetico consente una produzione sempre più elevata, per cui il produttore deve diventare il consumatore coatto delle eccedenze. È l’allevamento in serie del nuovo lavoratore-consumatore, similmente agli allevamenti in batteria degli animali da consumo:
«Dodici ore di lavoro al giorno: ecco l’ideale dei filantropi e dei moralisti del XVIII secolo. Ma siamo riusciti a superare questo nec plus ultra! Le fabbriche moderne sono diventate case di correzione ideali dove vengono incarcerate la masse operaie, vengono condannati ai lavori forzati per dodici e quattordici ore non solo gli uomini ma anche le donne e i bambini! E dire che i figli degli eroi del Terrore si sono lasciati corrompere dalla religione del lavoro a tal punto da accettare dopo il 1848, come una conquista rivoluzionaria, la legge che limitava a dodici le ore di lavoro nelle fabbriche; essi proclamavano il diritto al Lavoro come un principio rivoluzionario. Proletariato francese, vergogna! Solo degli schiavi sarebbero stati capaci di una tale bassezza. Ci vorrebbero vent’anni di civiltà capitalista a un greco del tempo eroico per concepire un tale abbruttimento».[3]
Miseria da lavoro Il lavoro senza limiti osannato produce miseria collettiva. La qualità della vita decade, l’accumulo di tensione diventa aggressività, la distanza spaziale e temporale dagli affetti disintegra le micro e le macro comunità. L’accumulo di lavori in taluni diventa disoccupazione per altri, i lavoratori presi dalla gabbia della competizione sono l’uno contro l’altro nello stesso luogo di lavoro come a distanze chilometriche. La solitudine del lavoratore globale affonda le sue ragioni in un attivismo che mal distribuisce impegni lavorativi come i salari. Tanto più ciò, oggi, è scandaloso, se si considera che l’automazione può sostituire in molte mansioni i lavoratori e che la iperproduzione sta alimentando dinamiche distruttive ed irreversibili a livello ambientale ed umano. Non si ha tempo per pensare, per organizzare la resistenza individuale e di classe, in quanto il paradigma dell’attivismo batte come un martello esiziale nei pensieri di ciascuno: non più esseri umani, ma consumatori e produttori. Lo spirito (Geist) della storia non governa il mondo, al suo posto vi è un immenso ingranaggio cronofago che divora con le vite il tempo del pensiero e della politica:
«Lavorate, lavorate proletari, per aumentare il patrimonio sociale e la vostra miseria individuale; lavorate, lavorate affinché, diventando più poveri, abbiate più motivi di lavorare e di essere miserabili. È questa l’inesorabile legge della produzione capitalista. Poiché, dando ascolto ai fallaci discorsi degli economisti, i proletari si sono consegnati anima e corpo al vizio del lavoro, essi fanno precipitare la società intera in quelle crisi industriali da sovrapproduzione che sconvolgono l’organismo sociale. Allora, poiché vi è sovrabbondanza di merci e penuria di acquirenti, le fabbriche chiudono e la fame flagella il popolo lavoratore con il suo frustino dalle mille corregge. I proletari, abbrutiti dal dogma del lavoro, non capiscono che il superlavoro che si sono inflitti nel periodo di presunta prosperità è la causa della loro miseria attuale; non dovrebbero correre verso i granai gridando: “Abbiamo fame e vogliamo mangiare!… È vero, non abbiamo un soldo ma, benché pezzenti, noi abbiamo mietuto il grano, noi abbiamo vendemmiato l’uva…”. Altro che assediare i magazzini di Bonnet, a Jujurieux, inventore dei conventi industriali, gridando: “Signor Bonnet, ecco le sue operaie ovaliste, torcitrici, filatrici, tessitrici. Tremano di freddo sotto le loro vesti di cotone leggero così rattoppate da far piangere un ebreo; tuttavia sono state loro a filare e tessere gli abiti di seta delle cortigiane di tutta la cristianità».[4]
Cosa resterà della nostra “civiltà”? È una domanda che dovremmo cominciare a porci nei luoghi del lavoro e nei luoghi di formazione, ma per farsi delle domande e cercare risposte necessitiamo di tempo. Rubare tempo al capitale è già una forma di resistenza a cui non ci si può sottrarre.
Salvatore Bravo
[1] Paul Lafargue, Inno alla pigrizia, Aristos, Trieste 2013, pp. 13-14.
Può Heidegger andare oltre il “solo un Dio ci può salvare” ?
Una ennesima descrizione dell’esistente non sembra utile. Ci sono molte fonti critiche a proposito per chi ne è interessato. È più interessante cercare di andare oltre la consueta denuncia lamentevole, che in un contesto di nichilismo assoluto (vale a dire: capitalismo assoluto) rischia di assumere il contorno di voce che grida nel deserto o, nel migliore dei casi, di essere ascoltata distrattamente e rimanere irrilevante.
Dal canto mio, mi limito a elencare fatti solo in vista della elaborazione di concetti. Solo un cenno su tre tuttora ricorrenti impedimenti logici.
1) L’impossibilità apparente di una fuoriuscita dal capitalismo per suo movimento dialettico interno.
2) La mancanza di un soggetto rivoluzionario con precise caratteristiche sociologiche.
3) Il mito salvifico dello sviluppo delle forze produttive, che porta con sé il collasso ecologico del pianeta, ricordando che perfino Marx studiò la possibilità per la Russia di un passaggio al comunismo direttamente dalla comune agricola senza attraversare la fase industriale. Un recente devastante esempio: la diga in costruzione in Etiopia su un affluente del Nilo, che darà l’indipendenza energetica a quel paese, ma metterà in condizione critica l’Egitto con il rischio di una guerra. E quanti lavoratori della terra strapperà alla loro secolare economia di sussistenza gettandoli nel mercato mondiale? E l’istmo del Nicaragua fra i due oceani, anche se attuato dai sandinisti, con l’esponenziale aumento della circolazione di merci che ne conseguirà, quale vantaggio porterà alla causa dell’emancipazione umana?
Esaurite telegraficamente queste argomentazioni, ci si concentra su quell’aspetto antropologico che appare ormai ben più decisivo. Qui ci viene in aiuto Pier Paolo Pasolini, che fu profondamente colpito dalla cesura storica avvenuta con lo sviluppo industriale fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento e che portò con sé il consumismo, imposto dalla televisione, dalla pubblicità e dai supermercati. La mentalità millenaria contadina-artigiana-piccolo borghese (in senso positivo) del popolo italiano, con la sua identità anche formatrice di cultura, scompare di colpo sotto l’urto di una forza gigantesca, ma non per essere sostituita da un “qualcos’altro” in qualche modo evoluto, bensì da un nulla riempito da un fantasma “sensibilmente sovrasensibile”: la merce. Conseguenza ne fu anche il tramonto del ruolo storico della Chiesa, che aveva la sua ragion d’essere nel forgiare la coscienza di quell’antico mondo e il suo relegamento ad azienda capitalistica fra le altre. Clamoroso esempio fu il caso della pubblicità dei jeans Jesus, che all’epoca suscitò una (peraltro già stanca) protesta della Chiesa. Ebbene, di recente uno spot ha chiamato in causa direttamente la voce di Dio non per parlare a Mosè dal roveto ardente a dettare le tavole della Legge, bensì come agente pubblicitario di una merce. Un ecclesiastico da me chiamato in causa nel manifestare la mia indignazione, perché ci vedevo un’offesa non tanto alla teologia, ma al Sacro in generale, ha mostrato indifferenza, e, anzi, la positività del fatto che così, comunque, … «si parlava di Dio».
Come se Dio avesse bisogno di pubblicità televisiva.
Pasolini era impressionato dalla potenza pervasiva del “Carosello” (pochi minuti a sera disciplinati da rigide regole etiche) su un’unico canale TV, mentre oggi è tutto un gigantesco Spot su centinaia di canali, inframezzato da qualche misero minuto di produzioni di evasione nordamericane, col telecomando ormai inutilizzabile a scopo di fuga, o da “approfondimenti” confusionari e menzogneri, che fungono da canovaccio.
L’antropologia pre-consumistica non era stata intaccata minimamente nemmeno dall’enfasi fascista e una traccia se ne può notare nel film Amarcord di Federico Fellini. Certi errori di valutazione di Pasolini non inficiano questa sua intuizione fondamentale, che lo disperò senza rimedio, ma purtroppo con illusioni paradossali come essersi lasciato ingannare dalle esibizioni di un Marco Pannella, che nascondevano l’intento di costui di allargare totalitariamente tutte le libertà di mercato fra cui appunto l’estensione di quei supermercati deprecati dall’intellettuale friulano.
Con tutto ciò non si vuol certo dire che precedentemente al “boom economico”, il capitalismo non avesse già profondamente inciso (narcisisticamente) sulle coscienze. Volendone fare un esempio, il più facile, fra gli italiani, dovrebbe essere Benito Mussolini, il duce del fascismo. Ma, personalmente, considero ancora più significativo il caso del Maresciallo (“d’Italia Capo di Stato Maggiore Generale”) Pietro Badoglio … sulla cui figura e sulle cui “gesta” rimando agli scritti storici di Massimo Bontempelli. Ovviamente ci sono altri grandiosi esempi in tal senso, come gli spietati generali del Regio Esercito Roatta e Robotti, e massacratori vari dei popoli yugoslavo e greco, molto opportunamente “dimenticati” dagli attuali teorici delle “foibe”, che sono, per inciso, i veri negazionisti.
Tuttavia, e questo è il punto fondamentale, questa tipologia di personaggi si poté ancora combattere in base ai principi del grande idealismo classico, secondo la linea di pensiero che va da Parmenide a Hegel, passando per Platone, Aristotele, Spinoza, Kant. Questo pensiero, con la sua esigenza di Giustizia, implicita anche negli incolti, fu la radice che fece nascere la Resistenza, il canto del cigno del popolo italiano.
Nel frattempo, cos’è successo, a livello macroscopico, con la distruzione antropologica, ulteriormente degradata in sussunzione totale della personalità alle esigenze sistemiche crematistiche? Una storica sentenza-ordinanza del giudice Guido Salvini, negli anni Novanta, sancì ufficialmente il coinvolgimento dei servizi segreti nordamericani nella strage di piazza Fontana. Cosa succede? Nulla. Non solo i governi italiani nemmeno si sognano di avviare una procedura di chiusura delle basi militari straniere, ma anche a livello di “opinione pubblica” non c’è nessuna reazione. Lo scrivente, allora illusoriamente iscritto a un partito sedicente comunista, compilò un volantino indignato sul caso, per vedersene rifiutare la stampa dai suoi dirigenti «perché non era il caso di suscitare vespai» … Oggigiorno studenti liceali, interrogati a proposito, o non sanno di che si parla o si dicono convinti essere colpevoli … le Brigate Rosse. Per quanto riguarda l’assassinio di Aldo Moro, numerose contro-indagini fanno parimenti apparire sullo sfondo una trama atlantica, nonché puro fumo negli occhi un “attacco allo Stato” eseguito da malvagi “comunisti”.
Che altro? 11 settembre, distruzione della Yugoslavia, Palestina, Ucraina … l’elenco delle menzogne che non suscitano indignazione e rivolta generalizzata è lungo. E se l’impunità dei criminali di guerra italiani si dovette al quadro generale di lotta al comunismo sovietico, ma comunque suscitò indignazione e polemiche, in seguito l’impunità dei crimini atlantici in Italia nel dopoguerra affoga nell’indifferenza e nelle code ai McDonald’s.
E per quanto riguarda la personificazione individuale di questo inedito stato di cose, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Alla breve galleria di personaggi significativi al passo con questi tempi illustrata da Massimo Bontempelli ne I forchettoni rossi (Massari editore, 2007) fra cui spicca Massimo D’Alema, ineffabile bombardiere, ma “amante della pace”, e oltre al picconatore-gladiatore Francesco Cossiga, paradossalmente chiamato a presiedere le istituzioni della repubblica come prima carica dello Stato, aggiungerei il senatore a vita Giorgio Napolitano, che come esponente dell’ala “destra” più filosovietica del PCI nel 1968 accetta l’invasione della Cecoslovacchia decisa da Breznev, e, in seguito, cambiato il vento della storia, lega il suo nome alla legge Turco-Napolitano del I° governo Prodi (altro eroe dei nostri tempi), che “crea” gli immigrati come clandestini ricattabili e come Presidente della Repubblica si mostra rigoroso garante di fedeltà atlantica.
Cosa si vuol dire ricordando tutto questo? Che il senso della Giustizia (apparentemente scomparso) è certamente eterno, come afferma Massimo Bontempelli nel suo fondamentale Filosofia e Realtà (C.R.T. – Petite Plaisance, 2000), ma esclusivamente finché esiste l’Uomo, con il suo concetto elaborato in origine dalla filosofia greca in poi. Questa dimensione umana è stata però intaccata dalle esigenze di riproduzione del Modo di Produzione Capitalistico e le sue fondamenta ideali offuscate dal nichilismo conseguente. Ma quale potrebbe configurarsi come un possibile aiuto?
Contrariamente a versioni ormai consolidate nel mondo della filosofia ufficiale, lo scrivente guarda a Martin Heidegger non come a un pensatore nichilista, a un portatore di depressione, o a un misticheggiante poeta del Nulla e rifiuta una eventuale etichetta di marxista heideggeriano (definizione di ardua interpretazione: allora fra gli amanti della filosofia dovrebbero essere riportati i marxisti aristotelici, i marxisti platonici, i marxisti spinoziani, ecc.?). Vediamo.
Costantino Esposito, nel suo saggio Il fenomeno dell’essere (Dedalo, 1984, pag. 221 e ss.), opera una decisiva distinzione fra la soggettività, attribuita da Heidegger all’Esserci, e il soggettivismo, tipico del filone di pensiero nato con Cartesio e avente il suo culmine con Kant, con la sua fondazione “riflessa” dell’io nell’attività conoscitiva dell’ente. Invece, secondo Heidegger, l’“intenzionalità”, il rivolgersi sensato all’ente secondo l’atteggiamento “fenomenologico” studiato a lungo negli anni Venti del Novecento ed espresso compiutamente in Essere e tempo, comporta un “sè stesso” ontologico di tipo esistenziale (ovviamente non si tratta dell’esistenzialismo noto come corrente filosofica). Se l’Esserci è un “essere nel mondo”, dotato di una progettualità a-veniente fondata su un passato ri-veniente dell’esser stato, con le sue possibilità da esprimere dotate di tutta la ricchezza dell’intenzionalità, ebbene tutta questa dimensione risulta annichilita dalla distruzione antropologica capitalistica. In altre parole, il capitalismo rappresenta una minaccia non solo per gli ideali e i principi “tradizionali”, ma per lo stesso “essere nel mondo” fenomenologico dell’Esserci.
Ciò si evidenzia nell’attuale disagio profondo e più o meno inconscio di ogni singolo individuo, privato a monte non solo di ogni senso di appartenenza e di comune origine con i propri simili, ma impossibilitato a estrinsecare ogni possibilità umana che non sia sussunta a priori alla forma-merce, cioè nel rischio di una risoluzione a un “nihil absolutum” della forma-uomo. E la distruzione capitalistica della scuola, privando i giovani di una memoria storica, secondo la temporalità originaria di Heidegger toglie loro anche un futuro.
Qui forse consiste il nocciolo incomprimibile dell’essere umano, la sua impossibile riduzione ad animale, il punto di convergenza con la tesi di Costanzo Preve sulla insopprimibilità totale della natura umana. Che non significa un qualche superamento dei valori classici, ma una loro “epoché”, tenendo presente che Heidegger considera la stessa tradizione classica come avente sullo sfondo un inespresso senso dell’essere come differenza. E una ontologia di questo genere non ha la caratteristica di poter essere demolita con metodo nietzscheano, rivolto unicamente contro la metafisica classica.
Certamente sono al corrente delle obiezioni svolte da Massimo Bontempelli alla temporalità heideggeriana nel saggio Tempo e memoria (C.R.T. – Petite Plaisance 1999), secondo le quali le pur grandi acquisizioni del filosofo di Friburgo sono dominate da un “essere per la morte” connesso ontologicamente alla dissoluzione e dunque al Male, che rende disperata e nullificata ogni scelta di vita. E Bontempelli concede che questo atteggiamento sia stato generato dal particolare clima imperante in Germania durante la Grande Guerra, inteso a enfatizzare la morte in guerra come dimensione necessaria per una esistenza dotata di autenticità interiore (si veda a questo proposito, anche il saggio di Domenico Losurdo La comunità, la morte, l’Occidente: Heidegger e l’ideologia della guerra, Bollati Boringhieri,1991).
Tuttavia penso che queste considerazioni siano riduttive: l’infezione della morte, la sua irruzione contaminante la vita, prende certamente la guerra come ragione immediata di comparsa, ma sullo sfondo campeggia la sua vera causa: la devastazione capitalistica. Heidegger non sfugge al destino decretato per la grande filosofia: essere il proprio tempo espresso in pensieri, e non è sua responsabilità se il suo “tempo” è quello che abbiamo compiutamente dispiegato sotto gli occhi ogni giorno con tutto il suo orrore.
Quanto a interpretazioni negative, Heidegger è in buona compagnia. Se il filosofo tedesco è accusato di avere introdotto il nazismo in filosofia con la sua presunta “ideologia della morte”, ignorando tra l’altro la sua biografia, allora Platone si vede incolpato di essere il precursore, con la sua Repubblica, delle dittature novecentesche, oltre a notare che la sua dottrina degli universali logici, che ne fa forse il più grande filosofo di tutti i tempi, è ridotta al mito iperuranico e a una dialettica bimondana, dunque facilmente attaccabile, mentre la sua autentica natura è di essere monomondana quanto quella di un Hegel. Non parliamo poi di Marx e di tutti i fraintendimenti di cui è stato vittima da parte di presunti amici e l’odio di cui è avvolto da parte dei filistei.
Detto questo, sono convinto che debba essere una scelta individuale, e non una esegesi filologica dei testi, l’interpretare Heidegger nel senso disperante e nullificante attribuitogli da Bontempelli o, al contrario, prenderne spunto e ragione per una reazione di vita e rivolta nei confronti della “barbarie che viene”.
Antonio Fiocco
Antonio Fiocco
Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente
Petite Plaisance, 2019, pp. 80
Il problema in discussione, la quistione, consiste se concepire una progettualità in quanto tale. Sembra non ci siano problemi nell’accettarla in linea di principio, ma permane l’idea che occorra indirizzare le forze su obbiettivi pratici immediati. Questo punto di vista, in apparenza ragionevole, vanifica lo scopo principale di migliorare realmente il mondo in cui viviamo e, invece di una reale progettualità comunitaria, si preferisce l’immediatezza della contingenza. Dunque, a quel se, di fatto, si oppone un no. La post-modernità (cioè la fase flessibile a tutti i livelli della modernità) per l’Autore non elabora spontaneamente una sua idea di comunismo, perciò si rende imprescindibile la progettualità. Per essere scoperte, utilizzate e verificate, le possibilità devono essere prima di tutto inventate. In questo senso, ogni uomo è progetto, creatore, poiché inventa ciò che è già a partire da ciò che non è ancora.
Indice
Incipit contingente-empirico
Gesù di Nazareth
Paolo di Tarso e la figura teologica del Cristo risorto
Giovanni l’evangelista e la nascita del Cristo-Dio
L’anti-pensiero di Max Weber
Hegel: il legame fra elaborazione del pensiero e prassi materiale
Lettori di Hege
Lenin non era un vero hegeliano
Pensando a Lenin, in cammino con György Lukàcs
Sartre e la sua svalutazione dell’essenza
L’uomo è essenzialmente progetto
Antonio Fiocco, nella più profonda indignazione per le ingiustizie e le falsità geo-politiche che devastano il mondo, e di cui sono piene le cronache e la storia del Novecento, con spirito dialogico-socratico si è impegnato fin dagli anni giovanili in studi filosofici e politici. Ma, proprio per non fare dello studio della filosofia una normale, ordinaria e rituale professione, a suo tempo si risolse a scegliere una facoltà scientifica. L’amore per le scienze dello spirito ha continuato ad animare la sua ricerca accrescendo l’interesse anche per le discipline estetiche, la musica, la letteratura (le sue passioni: Shakespeare e Proust) e l’arte figurativa.
Incipit contingente-empirico
Il problema in discussione, la quistione, consiste se concepire una progettualità in quanto tale. Sembra non ci siano problemi nell’accettarla in linea di principio, ma permane l’idea che occorra indirizzare le forze su obbiettivi pratici immediati. Ci si sforzerà di indicare che questo punto di vista, in apparenza ragionevole, vanifica lo scopo principale di migliorare realmente il mondo in cui viviamo e a quel se, di fatto oppone un no, sia chiamando in aiuto esempi materiali che ricorrendo alle elaborazioni di alcuni grandi pensatori che hanno fatto la storia della religione e della filosofia. Impiegando concetti hegeliani, ci si propone di operare una contrapposizione fra sapere immediato e ragione filosofica.
In sintesi, indipendentemente dalle condizioni strutturali, una elaborazione teorica carente o incompleta porta comunque a risultati materiali insufficienti o controproducenti. Certo si tratta di una tesi non nuova,1 ma che è sempre utile corroborare. Si sono scelti alcuni nomi e argomenti, ma l’intendimento qui svolto è estensibile all’intera storia della filosofia, e con la convinzione che occorre non essere innovativi (chi ha cercato di esserlo in epoca recente, secondo chi scrive, ha fallito), bensì sia necessario cercare di ben interpretare quanto in essa filosofia è stato già elaborato.
Cominciamo da esempi concreti. Il giornalista e scrittore Giulietto Chiesa da una parte chiede il rispetto della Costituzione del 1948, ma poi propone improbabili soluzioni economiche compatibili con il sistema, senza porsi la questione del capitalismo e vorrebbe non uscire dall’Europa dell’euro, ma “cambiarne le regole”, ignorando che questa “Europa” è nata proprio per la volontà di imporre le sue regole iugulatorie. In altre parole, si vuole conciliare l’inconciliabile: indipendenza e subordinazione al tempo stesso. Per inciso ciò è plasticamente e schizofrenicamente espresso nella moneta da 2 euro coniata per commemorare la nostra Costituzione, che ne è la negazione assoluta! Comunque, non c’è niente da negoziare, niente da ridiscutere e non deve importare nulla di competere “capitalisticamente” con Cina o Giappone, quando il problema è il capitalismo in quanto tale. Anche se le proposte di Chiesa venissero praticate, si perpetuerebbero l’estrazione di plus-valore e il “sovrasensibile” balletto fra le merci nel mentre si usano gli esseri umani come strumenti per il loro spettrale dialogo. Qui comincia già a lampeggiare una carenza filosofica di fondo, una trascuratezza degli scomodi principi comunitari di Platone, Aristotele, Hegel. Del resto, è sufficiente leggere i libri di autori come Roberto Flamigni, Stefania Limiti, Paolo Cucchiarelli, e altri, per rendersi conto che l’infernale governo-ombra di “questi” U.S.A., con tutte le sue ragnatele mondiali, se si rimane all’interno dell’attuale sistema geo-strategico, non permetterà mai alcuna reale politica contraria ai propri interessi di preteso centro dominante e coordinatore del capitalismo globale. Nobili personalità che hanno cercato di fare gli interessi della nazione ne abbiamo avute, da Enrico Mattei ad Aldo Moro, e sappiamo quale destino sia stato loro riservato. Non è un paradosso pensare sia meno utopica una rottura radicale con l’intero attuale modo di produzione. Illusione? Ma qui ci viene in aiuto il precedente storico incancellabile della Rivoluzione d’Ottobre, ovviamente e sapientemente vittima di una damnatio memoriae.
Abbiamo un pullulare di movimenti, associazioni, piccoli partiti (dal destino “ultra-minoritario”, direbbe Costanzo Preve), che si prefiggono l’uscita dal sistema-euro e il ripristino delle prerogative dello stato nazionale, nonché, concetto inespresso, ma sottinteso, il ritorno, dunque, a un capitalismo “regolato”, con le zanne limate. Ma questa fase economica, con il welfare, ecc., è storicamente esaurita, come spiega Massimo Bontempelli nei suoi testi,2 e questi minimalisti anti-euro ricordano quanti, in altra epoca, all’alba tragica della “dittatura della borghesia”, ebbero nostalgia del vecchio ordine feudale, certamente meno disumano. Atteggiamento che Karl Marx si guardò bene dal condividere, poiché egli guardava avanti, alle prospettive future di socializzazione aperte dal nuovo modo di produzione, per quanto non iscritte necessariamente nella storia. Per cui, forzando l’estensione di una categoria temporale heideggeriana dalla analitica dell’esserci agli eventi storici, non sono da considerare “ad-venienti” le leggi e gli ordinamenti sociali, pur venerabili e mai abbastanza rimpianti, dei “trent’anni gloriosi 1945-1975”, bensì, più in profondo, il senso della comunità, ora estinto, che, sia pure in forme parziali, organicistiche, spesso coercitive, caratterizzò le epoche trascorse, prima del trionfo del modo di produzione capitalistico. Finalmente un senso comunitario da realizzare integralmente, secondo l’indicazione hegeliana, come frutto di libera scelta della libera individualità.
D’altra parte, quei movimenti e associazioni di cui sopra, anche quando non sono in aperto contrasto fra di loro, sembra non riescano comunque a coagularsi in una forza unica, tale da riunire le scarse disponibilità. Ciò ricorda irresistibilmente la frammentazione rivaleggiante dei gruppi extra-parlamentari di sinistra figli del Sessantotto, che pure, in linea di principio, sembravano tutti rifarsi agli stessi intendimenti generali. A questo proposito Costanzo Preve ci ricorda come questo fenomeno fosse dovuto (oltre che al narcisismo già individualistico-capitalistico di capi e capetti) alla debolezza della teoria di fondo, cioè il “marxismo” comune sia a ortodossi che a eretici, il quale, oltre alla inconsistenza degenerativa della fondazione kautskyano-engelsiana, pativa, ancora più a monte, anche una mancata elaborazione filosofica esplicita nel pensiero di Karl Marx. Per inciso, come ben sanno i lettori del compianto Costanzo Preve, egli ha evidenziato in Marx una matrice idealistica implicita, con argomenti difficilmente contestabili e che va ben oltre il semplice impiego del cosidetto metodo dialettico da parte dell’estensore del Capitale.
Ma permettiamoci una digressione. Martin Heidegger, nelle lezioni universitarie del 1925-1926,3 studiando Aristotele, dice (enigmaticamente?): “Il mettere insieme che fa vedere quel che è sempre separato deve allora necessariamente coprire; esso fa vedere qualcosa […] che non può mai essere in quel modo. Qui la simulazione è fondata necessariamente […] nel senso dell’impossibilità della composizione di quel che è sempre separato”. A cosa potremmo tranquillamente riferire questo criptico concetto, apparentemente banale? Per es., nella pubblicità abbiamo l’accostamento stridente (e offensivo per l’intelligenza) fra Amore, Amicizia, Libertà, Tradizione, Natura, Rivoluzione e … la forma merce. Ma, per rimanere nel nostro tema, abbiamo dei rimedi riformistici da sempre e per sempre separati dalla vera soluzione. Basterebbe questo per comprendere come la filosofia sia negletta e disprezzata, in quanto, se presa sul serio costituisce un tribunale inesorabile per il mondo capitalista e la debordiana società della spettacolo. Un altro esempio di cose che non possono stare insieme è costituito da una parte dalla dichiarata intenzione di pensare altrimenti e dall’altra dalla esposizione alla pubblicità mediatica e pseudo-politica, benevolmente e astutamente consentita dal sistema.
La televisione abbonda infatti di spot pubblicitari che invitano a finanziare la lotta contro le malattie rare, a contribuire economicamente a favore dei figli dei poveri e dei disoccupati, o per combattere la povertà in Africa, ecc., colpevolizzando l’uomo della strada e deresponsabilizzando le potenze sociali autrici dei mali in questione, facendone così un problema di beneficenza e generosità individuale e proponendo iniziative “aventi le apparenze della pietà, ma prive di quanto ne forma l’essenza”.4 Oltretutto c’è il fondato sospetto che il Capitale osservi l’entità di queste contribuzioni, al fine di studiare l’eventualità di ulteriori riduzioni al salario globale della classe lavoratrice. E questo si può considerare anche un interessante esempio di quel “dono omeopatico”, a piccolissime dosi, emerso in una bella trasmissione radiofonica,5 quale antidoto del capitalismo per esorcizzare l’autentico Dono Gratuito, il quale, se appunto generalizzato, distruggerebbe l’intero sistema. In particolare, per quanto riguarda la disoccupazione – a parte la questione primaria, strutturale, dell’esercito industriale di riserva, necessario per concetto al modo di produzione capitalistico –, basti pensare alla partecipazione italiana alle sanzioni economiche contro la Russia per via della crisi ucraina, la quale, per chi voglia davvero informarsi, risulta di totale responsabilità occidentale. Queste sanzioni, imposte dagli U.S.A. ai Quisling nostrani, hanno comportato un danno enorme all’economia italiana con proporzionale perdita di posti di lavoro. Ma, e rientro nel tema, c’è la certezza che qualunque forma di capitalismo, anche se “sovrano” e “indipendente”, porti a queste storture e sia inemendabile rimanendo al suo interno.
Scorrendo le immagini de Il trionfo della volontà – film documentario della grande cineasta tedesca Leni Riefenstahl sul congresso del partito nazista a Norimberga del settembre 1934 –, si osserva che ormai tali immagini hanno fortunatamente perso la loro immediata attualità. Infatti il nazismo storico si estingue nel 1945 (per quanto ne pensino in contrario i ragazzi dei centri sociali e altri meno ingenui, ma interessati a una legittimazione ideologica per la linea e l’esistenza stessa di partiti e sindacati che ormai hanno perso il loro originario ruolo storico), e non solo perché sconfitto militarmente, bensì perché non sussistono più le condizioni che lo fecero sorgere e prosperare. Ebbene …, la televisione italiana (più precisamente RAI 4), domenica 30 luglio 2017 manda in onda tale Tomorrowland (e già l’uso di un termine inglese la dice lunga), trasmissione diretta di un concerto rock di molte ore, con folla oceanica di giovani dall’entusiasmo fanatico simile a quello dei giovani in uniforme di Norimberga, con l’immagine di migliaia di volti stereotipati in una ininterrotta estasi, sublimata nell’adorazione di una personificazione-individuazione musicale della forma-merce, con annessa ideologia consumistica nell’illusorio individualismo di massa. Nel 1934 la Germania era reduce dalla faida interna al partito nazista della Notte dei lunghi coltelli e nel campo di Dachau erano imprigionati migliaia di comunisti dopo l’incendio del Reichstag: l’uniformità di massa era conseguente a una coercizione diretta. Invece il conformismo del falso anticonformismo “rock” è frutto di catene interiori e dunque infinitamente più efficace e pericoloso: è l’immagine-simbolo di un nuovo nazismo che non si lascia sconfiggere militarmente. In questo contesto, come la guerra di posizione politico-culturale dei decenni scorsi è paragonata da Costanzo Preve alla linea Maginot crollata in pochi giorni, non resta che pensare, quale principio gramsciano sempre valido, l’ottimismo della volontà, sebbene non abbia nulla di teorico. Ma se si pensa che la bruttezza e pericolosità sociale della musica rock siano qui esagerate, vale la pena riportare qualche parola del grande G. Anders a proposito della musica jazz, ma estensibile perfettamente al rock, anche se si dovrebbe leggere l’intero capitolo: “L’estasi è genuina, i ballerini, invece di essere se stessi, sono realmente ‘fuori di sé’, ma non già per sentirsi tutt’uno con le potenze ctonie, bensì con il dio della macchina: culto del Dioniso industriale […] ciò che il ballerino balla è una pantomima entusiasta della propria totale sconfitta […] che questo rito abbia l’effetto di ‘liquidare ‘realmente i ballerini e di far loro smarrire del tutto il loro ‘io’ è documentato da un fenomeno impressionante: cioè dal fatto che durante l’orgia perdono la loro faccia […] già più o meno stereotipa […] e non ci sarebbe nemmeno da meravigliarsi se durante l’orgia nascesse una nuova varietà di vergogna: la vergogna della faccia, la vergogna del ballerino di possedere una faccia in sé e per sé: di essere ancora sempre condannato a portare in giro con sé questo stigma della egoità quale dotazione coatta (corsivi di Anders)”.6
In queste tristi condizioni, lo scopo minimo immediato è l’assumere un ruolo storico simile a quello degli antichi conventi benedettini, quali isole di preziosa e futuribile civiltà in un contesto di circostante barbarie e tenendo presente, parafrasando Hegel, che nella situazione attuale la pianticella della filosofia (a dettare la prassi) si può innestare solo su singoli individui. A scanso di fraintendimenti, Domenico Losurdo ci ricorda che “l’atteggiamento del filosofo (Hegel) non si può certo dire elitario; è costante la sua tendenza a misurare la validità delle idee, non sulla base della loro astratta eccellenza interna, ma sulla base della loro capacità di informare di sé il reale, quindi anche di penetrare nella massa del popolo; ciò caratterizza Hegel in tutto l’arco della sua evoluzione”.7 Per inciso, ciò funge da risposta anche a quanti pensano che il grande filosofo abbia sostituito un mondo immaginario alla realtà, in linea con la distruzione della ragione idealistica imperversante dopo la morte di Hegel.
Conclusa questa parte introduttiva di critica “contingente-empirica” si inizia a corroborare la tesi centrale di queste pagine. Ogni evoluzione o frattura nella storia è stata preceduta o accompagnata da una giustificazione teorica. Ogni progetto di pensiero non cade dal cielo, ma è necessariamente calato nella realtà. Del resto, è facile trovare immediatamente un elemento d’aiuto per questa tesi nella imponente bibliografia del grande storico delle idee Domenico Losurdo, recentemente scomparso. Ci si propone di indicare alcuni esempi di questa apparente ovvietà, che tuttavia, a quanto pare, non è tenuta nel debito conto.
Antonio Fiocco
1 Basti pensare a C. Preve, Il convitato di pietra, Vangelista, 1991.
2 M. Badiale – M. Bontempelli, Il mistero della sinistra, Graphos, 2005; M. Badiale – M. Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari, 2007; M. Bontempelli – F. Bentivoglio, Capitalismo globalizzato e scuola, ed. Labonia-Indipendenza, 2016.
3 M. Heidegger, Logica, il problema della verità, Mursia, 2015, p. 124.
4IIa Lettera a Timoteo.
5Oikonomia. Meditazioni sul capitalismo e il sacro, uomini e profeti, di Luigino Bruni, 17 marzo 2019.
6 G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, 2006, pp. 84-86.
7 D. Losurdo, Hegel e la Germania, Guerini e Associati, 1997, pp. 365-366.
Il rapporto tra i nomi e gli atti rispettivamente espressi dal loro significato, […] fu stravolto e interpretato in chiave assolutamente arbitraria. La temerità irriflessiva acquistò valore d’impeto eroico al sacrificio per la propria parte; la cautela accorta di maschera decorosa, per panneggiare uno spirito vile. La prudenza fu ritenuta un ripiego per celare la paura, spregevole in un uomo; l’intelligenza sollecita a scrutare ogni piega di un problema fu spacciata per totale inettitudine all’azione. Si valutò la furia selvaggia e folle qualità veramente degna di un ingegno virile; il ponderare guardinghi gli elementi di un’iniziativa, per dirigerla sicuri, onesto schermo per ripararsi nell’ombra. Il sordo ringhio della critica, del malcontento, ispirava sempre fiducia; ma la voce che si levava a contrastarlo si spegneva ogni volta nel sospetto. Operare un tradimento con mano pronta e felice pareva indizio di svelta mente, e prevenirlo un traguardo di destrezza anche più fine. Sulla meditata rinuncia a uno di questi metodi s’addensava l’accusa d’essere un fattore d’eversione […]. E le affermazioni di lealtà scambievole non si radicavano nel benedetto terreno delle leggi […], ma nella complicità cosciente d’innumerevoli soprusi. Le proposte del partito avverso, pur quando apparivano immuni da obliqui scopi, venivano accolte, ma solo per premunirsi su concrete basi nell’eventualità che entrassero in vigore, non in ossequio a un senso di liberale fiducia. Era più gradito merito avere un’ingiuria da vendicare che non averne subita nessuna. Se mai si perveniva a un’intesa, fondata su giuramenti, il loro valore si esauriva in quell’istante […]».
«Non cresce nulla di così brutto come il denaro per gli uomini: distrugge anche le città, allontana gli uomini dalle loro case, istruisce deviando le menti oneste a intraprendere turpi imprese, indica agli uomini l’uso di ogni crimine e la conoscenza di ogni empietà»
«I ragazzi abbandonati a se stessi, [… abituati] a non faticare, non apprenderebbero né il leggere e scrivere né la musica né la ginnastica né ciò che più di tutto costituisce il vero fondamento della virtù, il senso dell’onore».[1]
***
«L’istruzione produce le belle azioni imponendoci sforzi, mentre le azioni basse vengono da sé senza fatica. E proprio queste, spesso, costringono ad esser tale [ignobile] suo malgrado un uomo che ha da natura l’animo disposto a debolezza».[2]
***
[1]Democrito, cfr. Stob., II, 57 (= 68 B 179 DK), trad. it. di V.E. Alfieri.
[2]Democrito, cfr. Stob., II, 31, 66 (= 68 B 182 DK), trad. it. di V.E. Alfieri.
«Onori, premi e ogni specie di allettamento che dio ha concesso agli uomini, debbono necessariamente risultare da fatiche e sudori».[1]
«Per prima cosa, bisogna nascere con una buona disposizione naturale, e questo è un dono della fortuna, mentre ciò che dipende solo dall’uomo è l’essere desideroso delle cose belle e buone, amante della fatica, precocissimo nel dedicarsi all’apprendimento e disposto ad applicarsi a queste cose per lungo tempo».[2]
[1]Antifonte, cfr. Stob., IV, Mem., II, 1, 22-66 = 87 B 49 DK, trad. it. di M. Timpanaro Cardini.
Il sistema economico è, in effetti, una mera funzione di organizzazione sociale. La tesi della naturale inclinazione dell’uomo primitivo per le attività lucrose sostenuta da Smith è priva di fondamento.
K. Polanyi
«Non è più l’economia ad essere inserita nei rapporti sociali, ma sono i rapporti sociali ad essere inseriti nel sistema economico. L’importanza vitale del fattore economico per l’esistenza della società preclude qualunque altro risultato […]. La società deve essere formata in modo da permettere a questo sistema di funzionare secondo le proprie leggi» (p. 74).
«La causa della degradazione non è, come spesso si è voluto asserire, lo sfruttamento economico ma la disgregazione dell’ambiente culturale della vittima. Il processo economico può naturalmente rappresentare il veicolo di questa distruzione e quasi sempre l’inferiorità economica porterà il più debole a cedere, ma la causa immediata della sua distruzione non è per questo economica; essa si trova nella ferita mortale alle istituzioni nelle quali la sua esistenza è materializzata. Il risultato è la perdita del rispetto di sé e dei valori, sia che l’unità sia un popolo o una classe, sia che il processo abbia origine da un cosiddetto conflitto culturale o dal cambiamento nella posizione di una classe all’interno dei confini di una società» (p. 202).
«Separare il lavoro dalle altre attività della vita ed assoggettarlo alle leggi di mercato significa annullare tutte le forme organiche di esistenza e sostituirle con un tipo diverso di organizzazione, atomistico e individualistico» (p. 210).
Karl Polanyi, La grande trasformazione, introduzione di Alfredo Salsano, traduzione di Alberto Vigevani, Einaudi, Torino 1974.
«È l’avidità del guadagno che ha fatto uscire le arti di moda. Nel buon tempo andato, quando gli uomini amavano ancora la verità senza orpelli, allora le arti fiorivano veramente … Non vi meravigliate se la pittura non è piu in auge: ora che dèi e uomini insieme cospirano a glorificare un mucchietto d’oro».
Gaio Petronio Arbitro, Satyricon, capitolo 88, Rizzoli, Milano 1987.
«Chi, durante uno spettacolo, non “recita”, non forza ma agisce veramente in modo produttivo, coerente e senza interruzioni; chi riesce in scena a stabilire dei contatti solo col suo compagno e non con il pubblico; chi non evade mai dalla parte e dalla commedia e si mantiene in una costante atmosfera di vita, di verità, di convinzione, di “io sono”, costui vive sulla scena il “vero”».
Konstantin S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, trad. it. Laterza, Roma-Bari 19682, p. 176.
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