Andrea Pizzorno – Noi consumatori, che abitiamo nei Paesi ricchi, siamo i veri mandanti di questi orrori. Più ci estraniamo più le nostre mani si sporcano di sangue.

Pizzorno

Clandestino italiano

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Andrea Pizzorno

CLANDESTINO ITALIANO
DIALOGHI E MONOLOGHI SU COLONIALISMO E IMMIGRAZIONE

Un testo teatrale, poetico e saggistico allo stesso tempo, nel quale l’Autore ripercorre i crimini compiuti durante la colonizzazione italiana in Africa e nel corso delle due guerre mondiali, “perché quei crimini ci hanno permesso di diventare uno dei Paesi più ricchi e potenti del mondo”, e propone riflessioni critiche sul modello di sviluppo del nostro Paese. I dialoghi e i monologhi proposti, in maniera semplice e diretta, raggiungono il cuore del problema: “Il capitalismo moderno, la nostra ricchezza, il predominio occidentale sul mondo… tutto è cominciato con la tratta degli schiavi neri. […] Abbiamo maggiore progresso, maggiore cultura, maggiore rispetto dei diritti umani, dei nostri diritti umani. Liberté, égalité, fraternité. Sì, per noi, ma non per gli altri. Gli altri possono pure crepare in mare: sono nostri schiavi. […] Abbiamo conquistato il mondo, abbiamo rubato tutto quello che era possibile rubare (e lo facciamo ancora), abbiamo reso schiavi i suoi abitanti e li abbiamo messi gli uni contro gli altri, acutizzando le rivalità esistenti o fomentando nuovi odii. […] Tutti noi traiamo beneficio da queste atrocità. Noi consumatori. Noi consumatori che abitiamo nei Paesi ricchi, siamo i veri mandanti di questi orrori, e più sprechiamo, più compriamo cose inutili, più buttiamo nella spazzatura cose ancora utilizzabili, più le nostre mani si sporcano di sangue”.

Andrea Pizzorno, affascinato sin da ragazzo da figure come don Milani e don Gallo, ha imparato a cercare sempre il lato nascosto di ogni cosa. È laureato in storia con una tesi sul colonialismo italiano, ama dipingere e stare in mezzo alla natura.

Andrea Pizzorno, Clandestino italiano, Dialoghi e monologhi su colonialismo e immigrazione, Sensibili alle foglie, 2016.

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Henri Poincaré (1854-1912) – L’utile è unicamente ciò che può rendere l’uomo migliore. L’uomo di scienza non studia la natura perché ciò è utile; la studia perché ci prova gusto, e ci prova gusto perché la natura è bella. Chi lavora soltanto in vista di applicazioni immediate non lascia niente dietro di sé.

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Il valore della scienza



a che accumulare tante ricchezze

l'utile è unicamente ciò che può rendere l'uomo migliore

le verità non sono feconde se non sono concatenate le une alle altre

Henri Poincaré, nel suo saggio Il valore della scienza (1904) distingue nettamente tra «pratici intransigenti» e «curiosi della natura»: i primi pensano soltanto al guadagno, mentre i secondi cercano di capire in che maniera possiamo indagare per conoscere. Dice Poincaré:

«Senza dubbio vi hanno spesso domandato a che servono le matematiche e se queste delicate costruzioni, ricavate interamente dalla nostra mente, non siano artificiali e non siano che un parto del nostro capriccio. Fra le persone che fanno tale domanda devo distinguere: la gente pratica ci chiede solamente il mezzo di guadagnare denaro. Essa non merita una risposta. Converrebbe piuttosto domandarle a che accumulare tante ricchezze, e se valga la pena, per avere il tempo di conquistarle, trascurare l’arte e la scienza le quali soltanto ci fanno spiriti capaci di gioirne, et propter vitam vivendi perdere causas» (p. 99).

«Una scienza fatta unicamente in vista delle applicazioni» è una scienza «impossibile», perché «le verità non sono feconde se non sono concatenate le une alle altre» (ibidem). E se «ci si attiene soltanto a quelle [verità] da cui si spera un risultato immediato, mancheranno gli anelli intermedi e non vi sarà più catena» (ibidem).

A fianco «dei pratici intransigenti», Poincaré colloca «quelli che sono soltanto curiosi della natura e ci domandano se siamo in grado di farla conoscere loro meglio» (p. 100).

«Le matematiche hanno un triplice scopo. Esse devono fornire uno strumento per lo studio della natura. Ma non è tutto: esse hanno uno scopo filosofico, e, oso dirlo, uno scopo estetico. Devono aiutare il filosofo ad approfondire le nozioni di numero, di spazio, di tempo. E soprattutto i loro adepti vi trovano un godimento analogo a quello che danno la pittura e la musica» (p. 100).

I matematici «ammirano la delicata armonia dei numeri e delle forme» e si «meravigliano quando una nuova scoperta apre loro un’inattesa prospettiva».

Per queste ragioni, “«le matematiche meritano di essere coltivate per se stesse e le teorie che non possono essere applicate alla fisica devono essere coltivate come le altre». Per Poincaré, insomma, anche «quando lo scopo fisico e lo scopo estetico non fossero solidali, non dovremmo sacrificare né l’uno né l’altro» (p. 100).

Vi è analogia tra matematici e scrittori: «Gli scrittori che abbelliscono una lingua, che la trattano come un oggetto d’arte, ne fanno nello stesso tempo uno strumento più docile, più atto a rendere le sfumature del pensiero», come «l’analista, che persegue uno scopo puramente estetico, contribuisca per ciò stesso a creare una lingua più atta a soddisfare il fisico» (p. 102).

Nell’introduzione all’edizione americana de Il valore della scienza – pubblicata a New York nel 1907 e poi ripresa nel volume Scienza e metodo nel 1908 – Poincaré scrive:

«Per Tolstoj la parola “utilità” non ha chiaramente lo stesso significato che le viene attribuito dagli uomini d’affari, e con loro dalla maggior parte dei nostri contemporanei. Egli si preoccupa poco delle applicazioni industriali, delle meraviglie dell’elettricità o dell’automobilismo, che considera piuttosto come ostacoli al progresso morale; l’utile è unicamente ciò che può rendere l’uomo migliore» (p. 9).

Se le nostre scelte vengono determinate «soltanto dal capriccio o dall’utilità immediata non vi può essere ‘scienza per la scienza’, né, di conseguenza, scienza». Chi lavora «soltanto in vista di applicazioni immediate non lascerebbe niente dietro di sé» (p. 10):

«Basta aprire gli occhi per rendersi conto che tutte le conquiste dell’industria, che hanno arricchito un così gran numero di “uomini pratici” non sarebbero mai state realizzate se fossero esistiti solo questi uomini pratici, se costoro non fossero stati preceduti da pazzi disinteressati, morti in miseria, che non hanno mai pensato al profitto e ciò nondimeno avevano una guida diversa dal proprio esclusivo capriccio» (p. 10).

«Supponiamo che si voglia determinare una curva osservando alcuni dei suoi punti: l’uomo pratico, interessato soltanto all’utilità immediata, si limiterebbe a osservare soltanto i punti di cui avesse bisogno per qualche fine particolare», mentre «l’uomo di scienza, dato che vuole studiare la curva di per se stessa, suddividerà in maniera regolare i punti da osservare, e non appena ne conoscerà alcuni li unirà con un grafico regolare, e in tal modo otterrà la curva completa» (pp. 13-14).

L’uomo di scienza, non solo non «sceglie a caso i fatti che deve osservare” (p. 14), ma soprattutto non studia la natura per scopi utilitaristici:

«L’uomo di scienza non studia la natura perché ciò è utile; la studia perché ci prova gusto, e ci prova gusto perché la natura è bella. Se la natura non fosse bella, non varrebbe la pena conoscerla, né varrebbe la pena vivere la nostra vita. Non intendo parlare, naturalmente, di quella bellezza che colpisce i sensi, della bellezza delle apparenze qualitative; non che la disdegni, tutt’altro, ma essa non ha nientea che vedere con la scienza. Intendo invece parlare di quella bellezza più riposta che deriva dall’ordine armonioso delle parti, e che può essere colta dalla pura intelligenza. Essa dà un corpo, uno scheletro per così dire, alle cangianti apparenze che deliziano i nostri sensi, e senza questo sostegno la bellezza di quei sogni fugaci non sarebbe che imperfetta, perché confusa e sempre fuggitiva» (p. 15).

 

Henri Poincaré, L’analisi e la fisica, in Id., Il valore della scienza, La Nuova Italia, 1984.

 

 

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Pseudo-Longino – L’amore per il denaro è un malattia che rimpicciolisce l’animo. Genera insolenza, illegalità, spudoratezza.

Sublime

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«[…] la brama di ricchezze […] ci porta alla schiavitù, o, si potrebbe dir meglio, mandano a picco i nostri beni con tutto l’equipaggio.

L’amore per il denaro è un malattia che rimpicciolisce l’animo.

[…] Benché ci pensi sopra, non riesco a trovar la ragione per cui non debba esser possibile (a tal punto stimiamo una ricchezzasenza limiti, o, per parlar più schietto, l’abbiamo divinizzata) non subire nell’animo nostro le conseguenze malefiche della stessa natura che con questa si fanno avanti. […]

E se per giunta si lascia che questi discendenti della ricchezza vadano avanti negli anni, generano rapidamente negli animi dei tiranni inesorabili: l’insolenza, l’illegalità e la spudoratezza».

Pseudo-Longino, Del sublime, testo greco a fronte, trad. di Francesco Durante, Introduzione di N. Ordine, Milano, Rizzoli [Edizione speciale per il “Corriere della Sera”], 2012, XLIV, 6-7, p. 209.

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pseudo-Longino  Nome ‒ consacrato da una lunga tradizione ‒ dell’autore non noto del celebre trattato Del sublime (Περὶ ὕψους). Attribuito erroneamente a Cassio Longino, nel titolo del Codex Parisinus graecus 2036, del 10° sec., lo scritto viene detto «Διονυσίου Λογγίνου», ma nell’indice del contenuto del medesimo codice, e in un manoscritto vaticano di età rinascimentale, si legge la più dubbiosa, e perciò rivelatrice, indicazione «Διονυσίου ἢ Λογγίνου» («di Dionisio o di Longino»). Tale scritto è uno dei più importanti documenti della critica letteraria nell’antichità, composto da un ignoto filologo dei primi decenni del 1° sec. d.C.

Dizionario di Filosofia Treccani



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