Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.

La convergenza

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Massimo Bontempelli
L’agonia della scuola italiana

ISBN 88-87296-79-0, 2000, pp. 144, € 10,00

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La scuola italiana nel suo insieme è oggetto, per la prima volta dopo tre quarti di secolo, di una riforma complessiva ed incisiva. Le innovazioni che vi sono introdotte, però, esaminate attentamente nei loro effetti concreti, risultano tutte profondamente negative, sia sul piano della formazione educativa dei giovani, che su quello della professionalità degli insegnanti e della trasmissione di un sapere degno di questo nome. Il carattere pubblico e nazionale del sistema dell’istruzione, e la sua capacità di promuovere lo spirito critico e l’autonomia di giudizio dei giovani, ne risultano gravemente compromessi. Questo disastro è il prodotto di una cultura dogmatica e ideologizzata dei promotori della riforma, che li rende incapaci di pensare su un piano conoscitivamente alto, ed eticamente valido, il nesso tra scuola e società. Tale cultura è peraltro funzionale alle inconfessate esigenze totalitarie di un determinato sistema di potere. La scuola italiana, a questo punto, potrà essere salvata soltanto dalla resistenza consapevole degli insegnanti che vogliono continuare ad essere educatori. Il libro si articola in sette capitoli: L’innovazione distruttiva; Il didatticismo di regime; L’autonomia aziendalistica; L’educazione negata; La stupidità rivelata; La scuola del totalitarismo neoliberista; Il destino della scuola

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Vorrei parlare non dei contenuti specifici del mio libro [L’agonia della scuola italiana], che chiunque, se vuole, può andare a leggere, ma dell’attuale evoluzione della scuola italiana dopo la riforma di Berlinguer, a cui il mio libro, pubblicato in quel momento, esclusivamente si riferisce. Per capire il senso profondo di tale evoluzione, bisogna cogliere le continuità di fondo dei tre ultimi ministri della pubblica istruzione, Berlinguer, De Mauro e Moratti, che invece appaiono al senso comune portatori di idee diverse. La pubblicistica ha visto addirittura De Mauro, diverso da Berlinguer. Con questo non voglio dire che tutto sia uguale. Ci sono diversità nelle rappresentazioni mentali dei tre personaggi, e diversità di superficie nei loro atti. Per esempio, nel mio testo insistevo sull’ossessione didatticistica che sembra ora declinante, nel senso che la lobby pedagogistica ha un po’ meno peso che con Berlinguer. Inoltre, più che di autonomia dell’istituzione scolastica oggi si parla di regionalizzazione. Però a mio avviso questi mutamenti rispondono alla medesima logica di fondo: la teleologia, la tendenza delle trasformazioni in atto nella scuola, pur con congegni diversi, rimane la medesima. Si tratta del progressivo smantellamento del sistema nazionale della pubblica istruzione, perseguito perché appare inutile e costoso ad una società organizzata in modo sempre più esclusivo da logiche di mercato. Prendiamo una delle cose che viene più strombazzata come elemento di conflitto: l’introduzione dei consigli di amministrazione nella scuola. Questo sembra un elemento di conflitto aspro, perché la destra sembra sostenere una questione di efficienza aziendalistica contro la sinistra arruffona e demagogica. La sinistra da parte sua accusa che si siano violati i diritti democratici del Collegio docenti e del Consiglio di istituto, espropriati da un consiglio di amministrazione.
Una modesta domanda: quando gli OOCC non discutono più assolutamente, perché non c’è lo spazio istituzionale, perché gli insegnanti non ne sono più capaci, di ciò che realmente si insegna, di ciò che dovremmo insegnare – dei problemi seri: si insegna cosa e perché non c’è traccia, ciò di cui si discute nei collegi è se tirare di scherma rientri nei crediti per l’esame di stato, oppure di progetti, oppure si discute della ripartizione dei finanziamenti sui progetti – se un Collegio deve fare questo, che lo faccia un consiglio di amministrazione conta poi molto, dal momento che è il contenuto della scuola che è stato svuotato? [Continua a leggere le nove pagine]

 

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Massimo Bontempelli,
La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana

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Roberto Signorini, Una lettura critica del libro «L’agonia della scuola italiana». Con la risposta dell’autore: Massimo Bontempelli

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John Dos Passos (1896-1970) – Scrivere per denaro è almeno altrettanto stupido che scrivere per autoesprimersi. L’anima di una generazione è il suo linguaggio.

Dos Passos

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Il ricordo dell’opera che avrei voluto scrivere non è ancora impallidito al punto da rendermi facile il leggere l’opera che ho scritto. Né è abbastanza impallidita la memoria della primavera 1919. Ogni primavera è tempo di cambiamenti, ma allora Lenin era vivo, lo sciopero generale di Seattle era sembrato l’inizio dell’inondazione anziché l’inizio del calo della marea, gli americani a Parigi erano sbronzi di teatro e pittura e musica; Picasso avrebbe ricostruito l’occhio, Stravinskij faceva risuonare nelle nostre orecchie le steppe russe, correnti d’energia sembravano irrompere d’ogni dove mentre baldanzosi giovani emergevano dalle loro uniformi, l’America imperiale era tutta un luccichio nell’idea del nuovo Ritz, da ogni parte i paesi del mondo si protendevano affamati ed arrabbiati, pronti a tutto purché fosse nuovo e turbolento; dovunque andassi vedevi Charlie Chaplin. Il ricordo della primavera 1919 non è impallidito abbastanza da rendere appena più facile la primavera del 1932. Non che l’oggi fosse allora piu piacevole di quel che è adesso, era forse il domani che sembrava piu vasto; tutti sanno come crescere sia il processo di cogliere i germogli di domani. Molti di noi, giovanissimi in quella primavera, ci siamo fatti un giaciglio e vi abbiamo giaciuto; un bel mattino ti svegli e scopri che quel che avrebbe dovuto essere solo una molla per spingerti nella realtà è una professione, che l’organizzazione della tua vita che avrebbe dovuto servire a farti vedere di più e più chiaramente si è rivelata una sorta di paraocchi costruiti in base a uno schema predestinato: il giovane che pensava di fare il vagabondo si ritrova miope intellettuale borghese (o vagabondo, va male comunque). Va bene, sei un romanziere. E allora? Che te ne fai? Che scusa trovi per non vergognarti di te stesso? Non che vi sia una qualche ragione, suppongo, per vergognarsi del mestiere di scrittore. Un romanzo è un bene di consumo che risponde ad una determinata esigenza; la gente ha bisogno di comprare sogni ad occhi aperti come ha bisogno di comprare gelati o aspirina o gin. Qui e là hanno perfino bisogno di comprare un pizzico di intellettualismo per ravvivare i propri pensieri e qualche goccia di poesia per stimolare i propri sentimenti. Quel che basterà a farti sentire soddisfatto del tuo lavoro sarà tirar fuori il miglior prodotto possibile, soddisfare il mercato di lusso e al diavolo tutto il resto […].
Guadagnarsi da vivere vendendo sogni ad occhi aperti, sensazioni, pacchetti di stimolanti mentali, va benone, ma ritengo che pochissimi la ritengano vita adatta ad un adulto sano. Naturalmente ci puoi fare quattrini ma, anche a parte la caduta del capitalismo, il profitto tende ad essere motivo consunto, destinato sempre più ad essere soffocato dal suo stesso potere e complessità.
Scrivere per denaro è almeno altrettanto stupido che scrivere per autoesprimersi […].
E allora per che cosa scrivi? Per convincere la gente di qualcosa? Questo è predicare ed è parte del mestiere di chiunque abbia a che fare con le parole: il non ammetterlo equivale a giocare con un fucile per poi blaterare che non sapevi che era carico. Ma al di là della predica c’è qualcosa come lo scrivere per lo scrivere. Un ebanista si diverte ad incidere il legno perché è un ebanista; così ciascun tipo di lavoro ha il suo inerente vigore. L’anima di una generazione è il suo linguaggio. Uno scrittore rende duraturi taluni aspetti di questo linguaggio stampandoli. Afferra le parole e le frasi di oggi e ne fa forme per forgiare l’anima della generazione di domani. Questa è storia. Uno scrittore che scrive direttamente è architetto di storia […]. Né sarebbe necessario ripetere cose di questo genere qualora non ci avvenisse di appartenere ad un paese e ad un’epoca di così peculiare confusione allorché la sensibilità dell’uomo medio alla carta stampata è stata prima accesa dal nebuloso sentimentalismo dei professori di letteratura che sostituiscono i classici con «buoni libri moderni», e poi atrofizzata dall’abbaiare degli imbonitori delle case editrici su un qualunque piatto di spazzatura contrabbandato tra una portata e l’altra. Oggi noi scriviamo per la prima generazione americana che non è stata educata sulla Bibbia, e nulla l’ha finora sostituita in termini di disciplina letteraria.
Questi anni di confusione, quando tutto deve essere rietichettato e le parole perdono di settimana in settimana il loro significato, possono essere veleno per il lettore ma sono cibo per lo scrittore […].
Chi di noi è sopravvissuto ha visto come questi anni abbiano strappato una ad una le grandi illusioni del nostro tempo; noi dobbiamo avere a che fare con la nuda struttura della storia ora, dobbiamo farlo presto, prima che sia essa a imprimerci il suo stampo e a metterci fuori gioco.

Dall’Introduzione di John Dos Passos alla edizione della Modern Library di Three Soldiers, 1932.

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Three Soldiers (1921, romanzo), tr. Lamberto Rem Picci, Il mondo fuori casa, Jandi Sapi, Roma 1944; tr. Luigi Ballerini, I tre soldati, Casini, Roma 1967.


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Ignazio Silone (1900-1978) – Il primo dovere di uno scrittore è la sincerità, ha il dovere morale di conoscere i problemi della propria epoca e di farsene un’opinione. Io sono dalla parte dell’uomo e non dell’ingranaggio.

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Intervista a cura di Ferdinando Virdia

Quale è, o quale ritieni possa essere, oggi, la funzione di uno scrittore rispetto alla società e alla vita politica del nostro tempo? Ritieni che uno scrittore debba trovarsi
 «impegnato» nei limiti di un'ideologia o in quelli di una determinata politica sociale?

Il primo dovere di uno scrittore è la sincerità. E il primo dovere di una società verso i suoi artisti e scrittori è di rispettarne la sincerità. Sono pertanto lontanissimo da ogni velleità di far prevalere tra gli scrittori una mia particolare concezione delle relazioni tra letteratura e politica. Personalmente io mi sono sempre sentito «impegnato», nel senso piu rigoroso del termine: «impegnato», direi quasi nel senso che il termine ha nel gergo del Monte di Pietà o Monte dei Pegni. Ma sono assolutamente avverso a farne una norma o una misura di valore. Non credo raccomandabile indurre altri scrittori, che spontaneamente non se la sentono, ad attenersi al medesimo criterio. Ogni scrittore deve esprimersi con la sua voce: non deve parlare o cantare in falsetto. Ho sempre riprovato nel concetto d’impegno di Sartre e dei comunisti l’errore di farne una norma e un giudizio di valore. Si è visto a quali disastrose conseguenze conduce una tale aberrazione, quando tale norma diventa legge dello Stato, com’è awenuto nei paesi d’oltrecortina.

 Ritieni che uno scrittore debba prendere posizione direttamente o indirettamente sui grandi temi del mondo contemporaneo, come quelli della minaccia nucleare, della pace mondiale, della povertà, del paesi sottosviluppati, dell'espansione del comunismo, del pericolo costituito tutt'oggi da dittature di destra o di sinistra presenti o future?

Uno scrittore, come ogni altro cittadino, avrebbe il dovere morale di conoscere i problemi della propria epoca e di farsene un’opinione. Ma, ovviamente, non può essere costretto. È da sperare che lo scrittore convinto di una qualche necessità sociale,  la esprima anche in dibattiti pubblici e polemiche. È utile che lo studio e la trattazione dei temi maggiori della nostra generazione non siano lasciati ai professionisti della politica. Ma uno scrittore decade subito nel rango di propagandista appena si fa il portavoce e il propagatore di parole d’ordine elaborate da altri per questioni da lui personalmente non studiate. È un malcostume ora abbastanza diffuso che getta il ridicolo su molti appelli e dichiarazioni di intellettuali. Anche a questo riguardo, dunque, sorge il richiamo alla sincerità. Gli scrittori hanno non l’obbligo, ma il dovere morale di contribuire ad illuminare l’opinione pubblica sulle questioni da essi studiate e approfondite. Si comportano però da autentici imbecilli quegli intellettuali o artisti che firmano qualunque appello o protesta su argomenti di cui non hanno la minima nozione, obbedendo a motivi di vanità o di opportunismo. Questo malcostume purtroppo ha come risultato di gettare il discredito anche sulle iniziative più serie.

 Come pensi possa essere Inquadrata la tua narrativa nell'attuale situazione e nelle linee di sviluppo della letteratura italiana d'oggi? A quale altro scrittore pensi di essere Iphi vicino ed affine?

Non so come possa essere inquadrata la mia narrativa nella nostra storia letteraria contemporanea. Sinceramente non lo so e non mi preoccupa, poiché non ritengo che sia compito mio di stabilirlo. Mi pare che gli accostamenti suggeriti finora dai critici siano inconsistenti. Poiché nei miei racconti ha una cert’a parte la politica, qualcuno in un primo momento ricordò … Domenico Guerrazzi; poiché il paesaggio è rustico un altro accennò a … Renato Fucini; poiché vi figurano dei preti e vi si parla di religione, qualche altro ha tirato in ballo … Fogazzaro; infine, ma non in fine, vari hanno naturalmente scomodato Verga. Mi pare che nessuna di queste varie presunte parentele regga alla riflessione. Vediamo un po’ … i miei romanzi non sono politici, ma antipolitici; in essi è rappresentata la condizione dell’uomo nell’ingranaggio della politica contemporanea, ed è evidente che l’autore è dalla parte dell’uomo e non dell’ingranaggio. In quanto al paesaggio, esso vi è accennato appena, come proiezione dell’animo dei personaggi. Il religioso o il sacro è quello terrestre della tradizione libertaria meridionale, che non ha nulla in comune con quello intellettuale dei modernisti. E i contadini non sono incatenati nella loro tragica pena; dalle sofferenze di Fontamara, malgrado tutto, sprizza un barlume di coscienza. Mi pare sia un elemento essenziale, una «conclusione» che dà carattere a tutto quello che precede. L’oratore non è piu marxista, ma non è passato invano per il  marxismo.

 La tua crisi di militante e di dirigente comunista, il tuo distacco dal partito comunista nel lontano 1927, è stata la causa determinante del tuo «passaggio» alla letteratura, o esisteva in te, prima di quell'evento, una vocazione letteraria, sia pure insicura o repressa?

Vi è una forma di rivolta esistenziale che contiene il germe di sviluppi assai diversi, politici ideologici morali estetici. Sono le circostanze della vita, e anche gli impulsi imprevedibili dello spirito, a favorire piu tardi uno sviluppo piuttosto che un altro. Posso dunque affermare che le vicende interne del comunismo facilitarono il mio distacco dall’azione politica e la mia concentrazione nel lavoro letterario, ma il bisogno di riflettere e di raccontare lo avevo avuto da sempre. È anche fuori dubbio che il senso della vita e dell’uomo, che era all’origine di quel bisogno, contribuì non poco alla rottura con una politica che ne era la negazione. Questo non significa che, di punto in bianco, io diventassi indifferente alla politica. Rimasi antifascista quanto o piu di prima. Tutto quello che ho scritto in seguito mi pare che stia a dimostrarlo.

C'erano stati prima di Fontamara tuoi tentativi letterari, magari non portati a termine a causa di altri Impegni politici o Intellettuali? L'esigenza di raccontare si manifestò in te come una continuazione e magari come un vero e proprio Ersatz dell'azione politica, o essa non passò in primo plano come una vocazione in certo senso primaria della tua vita?

Devo dire che un certo gusto del «bello scrivere» l’avevo fin da ragazzo ed esso fu incoraggiato in senso deleterio dal genere d’insegnamento letterario che ricevetti nei collegi di preti da me frequentati. Quando mi accinsi a scrivere Fontamara la prima precauzione che dovetti prendere fu appunto di dimenticare il bello scrivere appreso in collegio. Francamente non avevo modelli letterari a cui ispirarmi. Fui sorpreso non poco, nel leggere le prime recensioni apparse dopo le edizioni in tedesco e in inglese, di trovarvi menzionati nomi di autori tedeschi inglesi e americani, a me ignoti, che, secondo i critici, mi avrebbero ispirato. Se mi è lecito menzionare un antecedente non letterario, direi che il lavoro di scrittura di Fontamara poteva ricordarmi, in qualche momento, la redazione dei rapporti interni di partito, con in più quello che nei rapporti mancava. Devo aggiungere che le osservazioni che mi sono state mosse sullo stile e la forma, non mi hanno fatto né caldo né freddo, perché mi ricordano appunto l’insegnamento ricevuto in collegio da cùi mi sono liberato. La vita è troppo breve per tornare a discutere ancora di forma e contenuto.

 I tuoi romanzi rlspecchlano, sia pure In una loro particolare prospettiva fantastica, lirica e autobiografica, una certa realtà italiana, la realtà regionale di un mondo contadino che per la prima volta nella storia letteraria Italiana uno scrittore tratta immedesimandosi in esso e immedesimando in esso una sua visione storica ed ideologica e la sua polemica contro la società. Ritieni che quel mondo e quella società siano oggi diverse dall'epoca della tua esperienza giovanile e del tuoi primi libri? Possono essi continuare ad ispirare la tua opera di narratore?

La condizione sociale dei contadini meridionali è in una fase di rapida trasformazione, come, d’altronde, la società italiana in genere. Sono naturalmente soddisfatto di avere contribuito in modo particolare all’espropriazione del Fucino. Vari giornali la chiamarono la «Rivoluzione di Fontamara». Non direi però che la nuova situazione sia quella del Regno di Dio sulla terra. Anche se uno scrittore si applica a rappresentare la sorte di un ceto sociale che poi si trasforma, non si può dire che la sua visione della vita si esaurisca. Non vi sono riforme che possano modificare sostanzialmente il carattere problematico dell’essere umano, il contrasto dell’individuo col collettivo, della società con lo Stato, lo squilibrio tra la ricerca della felicità e il dolore. È giusto lottare per il benessere, ma non c’è da illudersi che esso risolva tutto: risolverà i problemi della miseria e sarà molto. Le incognite più essenzialmente umane risulteranno esasperate. Nel mio libro Uscita di sicurezza, mi occupo largamente di questo. Ma per me non è un tema nuovo, è solo un aspetto dell’unico tema di cui mi sia sempre occupato, la condizione dell’uomo nella società. Mancherei di rispetto verso me stesso se, per cupidigia di successo, mi mettessi anch’io a scrivere d’incesto e prostituzione, secondo la moda. La moda non m’interessa, che, se moda, passerà.

L’intervista è pubblicata in: Ferdinando Virdia, Silone, Il Castoro, Mensile diretto da  Franco Mollia, n. 6, La Nuova Italia, Giugno 1967, pp. 1-6.


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Robert Musil (1880-1942) – Ogni grande libro spira amore per i destini dei singoli individui che non si adattano alle forme che la collettività vuol loro imporre. Abbiamo troppo poco intelletto nelle cose dell’anima.

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Das hilflose europa

Non abbiamo troppo intelletto e troppo poca anima,
ma troppo poco intelletto nelle cose dell'anima.

Robert Musil,
Das hilflose Europa, München 1922.

L'uomo senza qualità

«Come ci si può immaginare che l’uomo avrà ancora un’anima quand’abbia imparato a capirla e a trattarla perfettamente sotto l’aspetto biologico e psicologico?
[…] La conoscenza è un atteggiamento, una passione. Un atteggiamento illecito, in fondo; perché come la dipsomania, l’erotismo e la violenza, anche la smania di sapere foggia un carattere che non è equilibrato.
Non è vero che il ricercatore insegue la verità, è la verità che insegue il ricercatore. Egli la subisce. Il vero è vero, e il fatto è reale senza curarsi di lui; egli ne ha soltanto la passione, è un dipsomane della realtà, e questo foggia il suo carattere, e non gliene importa un fico che dalla sua scoperta venga fuori qualcosa di completo, di umano, di perfetto o di checchessia. È una creatura piena di contraddizioni, passiva, e tuttavia straordinariamente energica […]

Non esiste una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi; essa è pronta e versatile e può indossare tutti i vestiti della verità. La verità invece ha un abito solo e una sola strada, ed è sempre in svantaggio […]

Ogni grande libro spira amore per i destini dei singoli individui che non si adattano alle forme che la collettività vuol loro imporre […] Estrai il senso di tutte le opere poetiche e ne ricaverai una smentita interminabile […] di tutte le norme, le regole e i principi vigenti sui quali posa la società che ama tali poesie! Per di più una poesia col suo mistero trafigge da parte a parte il senso del mondo, attaccato a migliaia di parole triviali, e ne fa un pallone che se ne vola via. Se questo, com’è costume, si chiama bellezza, allora la bellezza dovrebb’essere uno sconvolgimento mille volte più crudele e spietato di qualunque rivoluzione politica […]».

Robert Musil, L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi, 1967, trad. di Anita Rho, Vol. I, pp. 248, 66 e 425.


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