«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Le qualità o virtù alle quali alludiamo – nel senso anche della virtus latina, efficaci con forza e potere – sono l’esponente del più alto grado di civilizzazione, quelle che misurano il vero livello a cui la condizione umana è giunta.
Tale è la delicatezza.
La delicatezza è una virtù eminentemente sociale benché abbia un’estensione molto ampia e in essa vengano compresi diversi piani.
Ma quel che si scopre comune in ogni gamma della delicatezza come virtù è la sua capacità di saper trattare con altro, sia esso persona, esseri viventi o cose. E, come qualità, è un’estrema finezza che possiedono certi fiori o creature naturali e certi tessuti; quel che ci restituisce alla delicatezza come azione o come virtù sono la porcellana, i cristalli, certi oggetti fabbricati dalla mano dell’uomo.
[…] La delicatezza balza fuori là dove […] non la si aspetta e, talvolta, in luoghi che sembrano non poterla ospitare.
Ci viene incontro come un profumo leggero e penetrante nel mezzo di un vicolo sporco.
Perché la delicatezza si presenta senza quasi essere notata, come quei profumi che si avvertono poco e che in seguito restano a lungo a impregnare l’ambiente, e il cui ricordo è più vivo della loro presenza.
In effetti, la delicatezza, sia come qualità che come virtù, appartienea quella famiglia di esseri e cose la cui assenza è più intensa, più viva della presenza, sia perché se ne sente la mancanza, sia perché si ricorda.
A volte ci domandiamo in cosa consista il fenomeno, suscitato da un certo tipo di bellezza e di valore morale, il quale fa sì che, quando questi sono ormai passati, ci lascino, anche come sensazione, un’impressione più viva e più forte di quando la loro presenza era immediata.
Certi profumi, certe sfumature di colore in una rosa, certe tinte di un tramonto, certi sorrisi, certi profili, certe mani appena viste, certe silhouettes appena intraviste, certe parole dette con lievità, una musica appena differente dal brusio della brezza.
E, nell’ordine, morale certe insinuazioni che, lontano dall’essere finite nell’oblio, sono rimaste senza essere colte dalla nostra coscienza a causa della loro lievità o della loro morbidezza.
Questo non indica forse che la delicatezza è un frutto ultimo dello spirito umano e, proprio per questo, un frutto indelebile?
La delicatezza, veramente, là dove appare, è imperitura. Si manifesta già all’alba della cultura: vasi, diademi, bracciali, fermagli d’oro o d’altri metalli dell’Età dei metalli escono un giorno alla luce, risplendendo prima ancora che per la lucentezza dell’oro per pienezza della delicatezza con cui furono lavorati. E alcuni monumenti del Neolitico ci impauriscono, ci intimidiscono, perché uniscono il ritmo sottile e delicato alla maestà della prima architettura.
Non si può ottenere la delicatezza in azioni, in parole, in opere se non attraverso la coniugazione dell’udito, della vista e del tatto. Vengono alla mente di per sé metafore tali come quella di “una persona che ha tatto”, “d’udito fine”, «da vista acuta» e altre ancora.
L’udito è senza dubbio il senso primario, protagonista della delicatezza. Perché l’udito ci porta non solo brusii e suoni ma anche il senso dell’orientamento e dell’equilibrio.
E la delicatezza è un ultimo, sottilissimo equilibrio; a volte la delicatezza consiste nell’arrestarsi in tempo.
La vista dà la misura in senso proprio; il tatto, questa conoscenza immediata e diretta delle cose, apporta il fondamento materiale della delicatezza, così come la vista e l’udito la sua forma.
Ma con tutto quel che potremmo continuare a dire circa la delicatezza, il suo mistero resterà sempre affiorante.
Infine, si è sempre detto che la delicatezza è un segreto; un segreto come quello di alcuni giardini chiusi dai quali sale in alto solo il profumo».
María Zambrano (Dicembre 1965)
María Zambrano, Per l’amore e per la libertà. Scritti sullafilosofia e sull’educazione, Marietti, Bologna 2008
«.[…] Il cinema pensa. […] Tuttavia, se non disponiamo di una chiave di lettura […] per cogliere la densità sotterranea del film, quest’ultimo scorrerà via come un fluido su una superficie impermeabile […]. Avremo così perduto, nientemeno, l’occasione di incontrare una verità, spesso molto semplice quanto profonda, mostrata per via sensibile invece che concettuale. […] Si tratta di coglierne, precisamente come dice Hitchcock, la vicinanza con la vita, il suo non essere mero divertissement (anche quando ci diverte molto),la sua autenticità di riflessione visiva, di pensiero per immagini. Le forme del pensare sono custodite e tramandate, nella nostra tradizione, soprattutto (anche se, certamente, non solo) dalla filosofia. Quest’ultima, quando è autentica, non è (e non è mai stata) un esercizio privato di pochi “tecnici del pensiero”, un gergo impenetrabile e artificioso, una sequenza di idee autoreferenziali il cui unico scopo è parlare di filosofi ad altri filosofi o aspiranti tali. La filosofia è pensiero vivo che prova a darsi una forma e a mettersi in gioco, che s’immerge nella vita per esaminarla dall’interno, scovandone le contraddizioni e ammirandone la potenza assai più che giudicandola. Ora, che cosa più del cinema offre al pensiero l’esperienza condensata, aumentata e intensificata della vita, già mediata da un pensiero – quello degli autori – che però si affida a un complesso di immagini, suoni, parole, storie e sogni? […] Se si impara a leggere un film con gli “utensili” (concetti, ragionamenti, idee e persino teorie) della filosofia, si accede a un’esperienza più piena, più consapevole ed elevata […]. Acquisire questa capacità di lettura non è un esercizio esoterico, non è imparare una tecnica, ma può ben consistere nell’adottare un modo di fruire un film, una postura e uno sguardo filosofico che è accessibile a chiunque si dia un’occasione per farlo. È in tal senso che questo libro offre un metodo. Anzi, ne offre quattro. Quattro metodi filosofici per leggere i film […]. Lo spettatore di un film è investito da un flusso di sensazioni che colpiscono tutti i suoi sensi, a eccezione (finora) dell’olfatto […]. La vista, in primo luogo, […]. La filosofia, come suggerisce Andrea Tagliapietra nel saggio dedicato a questo metodo, nasce in un certo senso proprio come teoria dell’immagine (si pensi alla dottrina platonica delle idee), ante litteram rispetto al cinema stesso ma già pronta per esserne l’interprete fin dalle sue origini. […] Tuttavia, la vista ha, nella densità dell’immagine cinematografica, uno spessore quasi tattile. […]. Così, il tatto è in qualche modo, sia pure indiretto, coinvolto nell’esperienza cinematografica. Questo senso indaga, tasta, verifica, mette alla prova ciò che vediamo: […] il tatto pensa e argomenta, saggia le impressioni con i ragionamenti, non potendo realmente esercitarsi su quegli oggetti evanescenti. Questo atteggiamento, che mira a raccogliere le ragioni che sostengono l’immagine, corrisponde al secondo dei metodi qui esposti, quello che ho chiamato filosofia filmica. Un film può essere considerato come un testo argomentativo, cioè come un testo filosofico. […] Un altro senso fortemente coinvolto nell’esperienza cinematografica è l’udito, almeno dall’avvento del sonoro (ma non dimentichiamo che anche i film muti erano per lo più accompagnati da esecuzioni di musica dal vivo). A questo senso arrivano suoni e rumori, ma soprattutto parole. Il linguaggio verbale, che ovviamente non esaurisce affatto il linguaggio cinematografico, è per noi umani il veicolo più fondamentale della comunicazione. Le storie e i dialoghi, le battute fulminanti e i monologhi insistiti sono spesso ciò che ci rimane più a lungo dopo la visione di un film. Tuttavia, parole e dialoghi sono frequentemente l’occasione per mettere a tema qualcosa che parte dal film ma non si esaurisce in esso. In questi casi, si fa quella che abbiamo chiamato filosofia con il cinema. […] Infine, vi è un modo di leggere i film che in un certo senso chiama in causa il gusto. Le sensazioni più persistenti sono quelle più elaborate e il gusto è un luogo primario di questa elaborazione: una percezione di guSto richiede tempo, raffinatezza ed è spesso l’eco di una memoria (la madeleine di Proust) o di una tradizione […]. Questo libro si presenta come un manuale, cioè intende fornire gli elementi essenziali di una “disciplina”: […] una disciplina richiede esercizio, non solo teoria […]. Questo esercizio è fondamentale per acquisire la capacità di leggere filosoficamente un film».
Roberto Mordacci (a cura di), Come fare filosofia con i film, Carocci editore, Roma 2017, pp. 11-17.
Contributi di
Andrea Tagliapietra, Roberto Mordacci, Claudia Bianchi, Luca Pes, Maria Russo, Raffaele Ariano, Francesco Valagussa, Antonio Moretti.
«[… che sia] necessario che colui che meriterà effettivamente [ciò che precedentemente abbiamo chiamato “bellezza e perfezione morale”] questa denominazione debba possedere le virtù particolari è evidente. […] L’essere virtuoso, e l’essere bello e moralmente perfetto differiscono non solo nel nome, ma anche nella sostanza. Tra tutti i beni, infatti, quelli scelti in vista di se stessi sono fini. Tra questi, poi, sono belli tutti quelli che sono degni di lode. Infatti questi sono quelli da cui derivano azioni che sono degne di lode ed essi stessi sono degni di lode».
Aristotele, Etica Eudemia, Libro VIII, 1248 b 10-20, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 386-387.
In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.
«Moralmente bello […] significa fare il bene senza mirare al contraccambio, mentre utile è ricevere del bene».
Aristotele, Etica Nicomachea,1162 a 36 – 1163 a 1.
«L’uomo moralmente retto, inoltre, è vero che egli compie molte cose per gli amici e la patria, anche se dovesse morire per loro: sacrificherà ricchezze, onori, e in generale i beni che sono oggetto di contesa, riservando per sé il bello morale. Infatti preferirà provare un piacesere sublime per poco tempo, piuttosto che un piacesere debole per molto tempo, e vivere bene un solo anno, piuttosto che tanti anni così come capita, e compiere una sola azione bella e grande, piuttosto che molte e piccole. Questo capita, certamente, a coloro che sacrificano la propria vita per un ideale e quindi scelgono per sé un agire grande e bello. E potrebbero dar via la loro ricchezza, qualora da ciò derivi un guadagno anche maggiore per gli amici. In questo modo, infatti, l’amico verrebbe ad acquisire ricchezza, ma lui otterrebbe il bello morale; e così si attribuirebbe il bene più grande. Lo stesso vale per gli onori e per le cariche. […] Giustamente, quindi, costui viene giudicato un individuo moralmente retto, in quanto antepone il bello a tutto il resto».
Aristotele, Etica Nicomachea,1169 a 18-32.
Aristotele, Etica Nicomachea, Libro II, 1106 a – 1107 a 9, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 832-833, pp. 868-869.
In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.
«La parola abita le aule di scuola. Ecco la scelta di mettere al centro le parole. Perché possono essere forti senza essere violente, possono trasformare il mondo, possono ricostituire la fiducia e la giustizia, e mettono in gioco la volontà e l’intelligenza delle donne e degli uomini».
Mariapia Veladiano
«La competizione fa malissimo alla salute della scuola, se è quella che comunemente pensiamo, e cioè l’arte coltivata di voler arrivare primi. Uno su mille ce la fa. Vinca il migliore. Sembra cosa giusta ma non lo è. Competere viene dal latino cum (con, insieme) e pètere (andare verso), ovvero andare insieme verso uno stesso punto. Il contrario della corsa solitaria immaginata dall’ enfatizzazione del voto, del premio, dell’eccellenza intesa come una posizione che lascia il mondo ai lati o meglio ancora alle spalle. L‘apprendimento è sempre cooperativo e solo una scuola che non riflette su sé stessa può davvero enfatizzare la competizione e poi nello stesso tempo organizzare corsi di apprendimento cooperativo e peer to peer. Potrebbe essere “solo” una questione etica ma è anche una verità esistenziale, pedagogica e didattica. Andare insieme vuoI dire non lasciare indietro, andare più lontano» (p. 39).
«Il più potente mito di legittimazione delle diseguaglianze è la meritocrazia. Un mito pericolosissimo perché rende acquiescenti i poveri, persuasi che ognuno abbia quel che si merita […]. Meritocrazia non è una parola di scuola» (p. 44).
«La costruzione dell’equità è irrinunciabile. La scuola deve denunciare ogni attentato alla sua missione di essere luogo delle opportunità per tutti» (p. 79).
«Ancora una volta torna la metafora del coltivare, come per il giardino di parole. Con un tocco di realismo in più per l’orto. Perché richiama la necessità del tempo lungo: non si coltiva niente da un giorno all’altro, servono le stagioni. E la necessità della cura individuale» (p. 108).
Mariapia Veladiano, Parole di scuola, Guanda, Guanda, Milano 2019.
Risvolto di copertina
Mariapia Veladiano, dopo più di vent’anni nella scuola, prima come insegnante e poi come preside, la conosce bene, la scuola. Conosce i ragazzi, l’energia che corre tra i banchi, le adolescenze fatte di paura e desiderio, il futuro che promette, e insieme minaccia. E conosce bene i professori, il loro lavorare in condizioni sempre più difficili, il fare i conti con una professione che ha perso prestigio e riconoscimento, il sopperire all’impietosità dei tagli ministeriali con le risorse (non solo di spirito) personali. Conosce le parole della scuola – paura, entusiasmo, vergogna, condivisione, integrazione, esclusione, empatia, identità, equità – e il suono che fanno tra i banchi, dove la vita è più urgente che altrove, dove la vita stessa sta più che altrove. Perché in aula si imparano le parole giuste per capire se stessi, gli altri, il mondo. E la vita.
Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune.
Prefazione di M. Stella: La storia incantata. Diego Lanza narratore e antropologo dello ‘stolto’. Postfazione di G. Ugolini: Del ridere e del conoscere: la stultitia secondo Diego Lanza.
Dobbiamo esser grati alla casa editrice petit plaisance per aver riportato alla luce Lo stolto, specialissimo libro del grecista Diego Lanza, da tempo assente dalle nostre librerie, che ora rivive in una nuova veste, infiocchettato in testa e in coda da due testi esemplari di Massimo Stella e Gherardo Ugolini. Scomparso nel 2018, in questo saggio del 1997 Lanza mostra tutto il rigore del grande classicista, che con fare ardito e mosso da inesausta curiosità conoscitiva varca ogni orto disciplinare per inoltrarsi nell’inestricabile selva dei mille “stolti”, veri o fantastici, che nel corso dei secoli hanno messo a soqquadro il senso comune. Ecco così comparire Bertoldo, Arlecchino, Pinocchio e il brutto anatroccolo, ma anche, e direi soprattutto, Socrate. Proprio lui: il padre del pensiero filosofico occidentale. Non è però è il Socrate addomesticato di certe «riletture liberali» che lo presentano quale «prototipo di civile confronto». Al contrario, qui si rivela «sempre aggressivamente incalzante, non lascia spazio al dissenso: gli interlocutori o sono costretti a contraddire le loro stesse affermazioni oppure finiscono isolati nella loro ridicola presupponenza». Il «sapere di non sapere» di quest’uomo brutto e trascurato, che ama bere e ha i tratti del satiro, incarna la mina vagante di ogni ratio pacificata. La compenetrazione profonda di clownerie e pensiero abissale è per lui una costante, e il demoniaco che lo anima dimostra come il principium sapientiae abbia assoluto bisogno del principium stultitiae.
Ce lo rammenta con chiarezza l’ultima pagina del saggio: «La risata, che si accompagnava alla stultitia, la risata dello stolto e sullo stolto, poté apparire per molto tempo segno di pluralità pericolose per l’identità della ragione». E tuttavia «il conflitto di ragione e sragione era il segno della loro reciproca complementarietà, del perenne rigenerarsi della ragione da quel che essa avvertiva altro da sé». Il problema, semmai, subentrerà dopo, nel nostro più puerile presente: «Sotto la luccicante policromia del pluralismo postmodemo, sotto il futile moltiplicarsi delle sue ragionevoli irragionevolezze, pare invece consumarsi una più potente omologazione, segnata dall’irrevocabile scomparsa di ogni efficace stultitia». E lo stolto eversivo e drop-out lascerà spazio allo stupido di massa, «che sembra guidare il riso dei suoi simili», mentre ne è soltanto lo specchio fedele.
Franco Marcoaldi, Da Arlecchino a Bertoldo ode agli stolti, «Robinson Libri», la Repubblica, 11-07-2020, p. 12
Un tuffo …
… tra alcuni dei libri di Franco Marcoaldi…
A mosca cieca, Einaudi 1992
Voci rubate, Einaudi, 1993
Celibi al limbo, Einaudi, 1995
Un poemetto che, in tono malinconico, ironico, apparentemente svagato e minimalista, intende toccare invece i grandi temi dell’uomo contemporaneo. Fra intimismo e riflessione filosofica.
Il vergine, Bompiani, 1998
L’isola celeste, Einaudi 2000
La raccolta poetica prosegue, da un lato, la congiunzione tra ordinario e straordinario, tra alto e basso, tra quotidianità e letteratura, già percorsa dall’autore; dall’altro, la visione poetica si fa sempre più ampia e profonda. Anche il linguaggio si pone come una ripresa e al contempo come un superamento di quello già sperimentato: rimangono la leggerezza melodica, la felicità narrativa, il folgorante lavoro su rime e ritmi, la convivenza tra lingua parlata e lingua poetica, ma qui il poeta ha compiuto un ulteriore lavoro in direzione della cantabilità, di un perfetto amalgama tra ironia ed emozioni.
Patanella dreams, con Giosetta Fioroni, Lubrina-Leb 2001
Teatro di pietra. Carlo Leidi e i calvaires bretoni, Lubrina-Leb 2002
Benjaminowo: padre e figlio, Bompiani, 2004
Ritrovandone i diari, un uomo inizia un dialogo con il passato del padre. Rileggendo il racconto della resa dell’8 settembre, della deportazione in un campo di concentramento, il figlio risponde, dal presente, alla memoria del padre, riscoprendone i ricordi e, con essi, la propria infanzia. Mentre i diari rievocano la paura e le privazioni del campo, fino alla liberazione da parte delle forze alleate e al ritorno a casa, il figlio ricostruisce i tasselli dell’identità del padre e, di conseguenza, della propria, in un percorso di formazione alla fine del quale potrà pronunciare, insieme al diario, “dalle rovine si nasce”, un verso corale che esprime la forza del rinnovato legame con il padre.
Gaetano Cipolla. Carte a proposito di Seneca, Lubrina-Leb, 2005
Animali in versi, Einaudi 2006
Franco Marcoaldi evoca la tradizione esopiana e dei bestiari medievali, che sapevano cogliere negli animali i segni di verità spirituali e insegnamenti morali, e le prove novecentesche di Apollinaire e Marianne Moore. Costruisce un bestiario in versi in cui compaiono cani e gatti, ma anche fringuelli, lucertole, cicale e tanti altri esseri viventi che, a differenza degli uomini, vivono un’esistenza piena e sapiente.
Il tempo ormai breve, Einaudi 2008
Al centro della nuova raccolta di Franco Marcoaldi non ci sono piú gli animali e il loro modo istintivo di capire l’universo. C’è il tempo, in tutte le sue sfaccettature: quello da vivere, sempre piú corto man mano che gli anni passano; quello delle discussioni dei filosofi, a partire da Agostino; quello frenetico dei commerci quotidiani, che non consente né pause di riflessione né quei vuoti, quelle assenze che permettono di cogliere il respiro pieno di ciò che sta intorno a noi e di cui facciamo parte.
Grazianio Gregori. Ecce Homo. Bassorilievi e sculture, con Daniele Abbado, Lubrina-Leb 2009
Sconcerto, Bompiani, 2010
La recita sociale, il consumismo compulsivo, le morti sul lavoro, la sete di potere della classe dirigente, gli oscuri meccanismi della finanza, l’immigrazione, una lingua sempre più astratta e irrelata… Com’è possibile orientarsi in un mondo così confuso? Dov’è il senso? Da queste domande è travolto un direttore d’orchestra, che quasi dimentica di dirigere i suoi strumentisti. Fra pause, dubbi, incertezze, interrogativi enormi e piccole verità, il musicista riscopre come proprio la musica possa essere il mezzo per passare dal caos al cosmo, per ritornare al cuore semplice della vita. Dall’incontro eccezionale di tre artisti, un libro che è anche uno spettacolo teatrale diretto e interpretato da Toni Servillo con l’Orchestra del Teatro San Carlo, musica di Giorgio Battistelli, testo di Marcoaldi.
Baldo. I cani ci guardano, Einaudi, 2011
Baldo è un cane tra gli altri, che attende il suo padrone. Ed ecco che in una frizzante mattina di settembre arrivano Uomo e Donna. E lo scelgono. E una scelta affidata al caso, frettolosa e superficiale, eppure in ballo c’è un’intera vita da trascorrere insieme. Così Baldo inizia a fare esperienza del mondo umano, pieno di ossessioni e di meccanismi astrusi e lambiccati. Poco alla volta comprende che gli uomini sono prigionieri di catene invisibili che li riportano sempre al punto di partenza. La dimensione da cui ci osserva, con occhio ironico e compassionevole, è quella di un presente assoluto, dei piccoli gesti che si ripetono, delle meravigliose scoperte legate alla semplicità dei sensi. Ma nella naturale accettazione del mondo per come è si nascondono considerazioni venate di profonda e involontaria saggezza che Baldo suggerisce al padrone, Uomo, invitandolo a disfarsi degli inutili fantasmi che accompagnano le sue giornate. Col passare degli anni, la speciale sintonia che li unisce produce un desiderio di sconfinamento l’uno nell’altro, un rapporto privilegiato, fatto di silenzi e dialoghi che si affidano all’ambiguo “gioco degli occhi”, e che si realizza in uno spazio nuovo, a mezza via: quello della “felice confusione tra specie diverse”.
La trappola, Einaudi, 2012
“Compattezza tematica, potenza e duttilità della metafora, ritmo e sonorità a scatti, con accelerazioni e rallentamenti, ribattute e controtempi. Le caratteristiche tipiche della poesia di Marcoaldi risultano potenziate al massimo in questa sua nuova raccolta in cui la tradizione poetica europea si sposa con l’influenza della sapienza orientale e delle sue forme. Le trappole della vita sono ovunque, nelle leggi della natura, nella politica e anche nell’economia, che oggi più che mai domina il mondo. Ma sono soprattutto dentro la mente degli uomini. Hanno la forma di regole, meccanismi, abitudini, falsi obiettivi che provocano angoscia e allontanano dalle gioie più autentiche. Quasi componendo una piccola guida dei perplessi, i versi di questo libro smontano l’insieme degli artifici sociali con interrogazioni continue, epigrammi sospesi nel silenzio a catturare frammenti di energia da cui ripartire.”
Il mondo sia lodato, Einaudi, 2015
Soltanto un poeta poteva compiere oggi l’azzardo di una lode del mondo, basata sull’immaginazione e sulla sensibilità. Tornando alla forma già sperimentata del poemetto, Franco Marcoaldi sviluppa un flusso verbale dal ritmo incalzante che orchestra i temi della vita quotidiana e dello spirito in un rimando continuo dall’universo naturale al mondo storico, dall’autobiografia alla letteratura in una libera e viva scorribanda nei territori del pensiero analogico. All’apparenza “II mondo sia lodato” è una preghiera laica di intonazione francescana sulla bellezza e la meraviglia del creato. In realtà Marcoaldi loda il mondo nonostante gli infiniti turbamenti in cui incorre chi lo abita, e proprio quel nonostante è l’anima nascosta del libro. Nel suo procedere, il poemetto attraversa l’amarezza delle cose umane nella loro vicissitudine di violenza, malattia, depressione, morte, ma incontra anche il demone erotico, e con esso il sogno, la fantasia, e i libri e le figure del passato che illuminano il presente. Se l’invocazione di lode resiste come un mantra è per lo sforzo generoso di una pietas consapevole e di un’attenzione costante alle pieghe infinite e alle corrispondenze sotterranee dell’esistenza. Così il poemetto che loda il mondo si fa mondo, e convoca in coro altre voci, altri poeti, altri pensatori, in una ridda di rimandi e citazioni che immancabilmente si accordano nell’antifona ricorrente: “Mondo, ti devo lodare”. Espressione di umiltà e gratitudine nei confronti della vita.
Vincitore Premio Internazionale Capalbio 2016 – Sezione Poesia
Di bestie e animali, con Ferdinandio Scianna, Contrasto, 2017
Tutto qui, Einaudi, 2017
Dopo l’importante punto di arrivo raggiunto col poemetto Il mondo sia lodato, la nuova raccolta di Franco Marcoaldi prosegue nel percorso interiore dell’autore tra ricerca sapienziale e piccoli gesti salvifici, mentre il mondo esterno sembra sempre piú dominato dalla brutalità. Il libro si apre con una scena di “perdita di tempo”: l’imbucarsi in un cinema semivuoto per vedere un vecchio film, «due ore | rubate al lavoro, una sposa tradita». Il tema del perdere tempo, ripreso in altre poesie («Perdo il mio tempo guardando | il gatto che fissa l’infinito | come nessuno di noi saprebbe fare?»), è uno dei fili conduttori della raccolta: perdere tempo per trovare se stessi, lasciar cadere le maschere, far tacere i tamburi del narcisismo quotidiano, conquistare uno spazio di silenzio. Questo tipo di esercizi zen richiede prima di tutto professione di umiltà. Ai potenti, agli arroganti, ai troppo sicuri è preclusa qualsiasi via che porti a un momento di autenticità. Umiltà e arroganza però possono presentarsi fuse insieme, e dunque: «Come tenere a bada quella metà | avariata di me stesso che reclama | di continuo voce e combina | di continuo danni?» Quest’ultimo di Marcoaldi è un libro di “esercizi spirituali” per laici, un prezioso breviario per attraversare i dissidi interiori alla ricerca di una piú umana armonia con la natura.
Una certa idea di letteratura. Dieci scrittori per amici, Donzelli, 2018
Nella pericolosa confusione dei nostri giorni, non sarà proprio la letteratura a offrirci la lingua per una nuova, possibile amicizia tra gli uomini? Se oggi la vita interiore di ogni singola creatura è minacciata come mai prima nella sua potenzialità espressiva, la letteratura ne rivendica la costitutiva irriducibilità davanti a ogni imposizione, ogni norma preconfezionata. Il poeta Franco Marcoaldi elegge a numi tutelari di un letterario viaggio dell’anima dieci grandi figure del Novecento: Svevo, Zanzotto, Musil, Szymborska, Canetti, Caproni, Brodskij, Hrabal, Unamuno, Meneghello. Con ciascuno di loro intrattiene un dialogo stretto, serrato; a volte reale, concreto, diretto; altre volte fantastico, maturato soltanto attraverso la pagina scritta. In quegli amici e maestri ritrova le medesime questioni che angustiano la sua esistenza e ricerca: lo scarto incomponibile tra sentimento e ragione; l’inafferrabilità angosciosa del tempo; il mistero invadente della sessualità; il rovesciamento ironico come strategia di difesa; la dialettica potere-libertà; l’enigma del mondo animale; l’inesausta ricerca di un senso anche là dove non si riesca a rintracciarlo. I dieci autori prescelti sono quanto mai diversi tra loro, e tuttavia Marcoaldi riesce a raccoglierli idealmente nell’ascolto delle stesse, imprescindibili domande. Bene lo si intuisce nelle pagine finali del libro, dedicate a Luigi Meneghello. Se sbirciamo nella sua specialissima «bottega», lo troveremo intento a lavorare da solo al tornio delle parole, per compiere il suo piccolo «capolavoro». E lì che lo scrittore, ogni scrittore, incontra una fatica che a volte si converte in sconforto. Eppure non può smettere, perché ubbidisce all’urgenza di cogliere la vitrea sostanza che sta dietro alle cose del mondo. E per perseguire tale risultato ha bisogno tanto della propria caparbia convinzione, quanto di un costante e nutriente scambio con l’esterno. Nasce così quella «certa idea di letteratura» come amicizia, come condivisione di esperienze, che l’autore ci propone in queste pagine preziose.
Il padre, la madre, con Marilù Eustachio, Le farfalle, 2019
«In modo mirabile questo specialissimo libro rinverdisce l’antico detto “ut pictura, poesis” – che sta all’inizio dell'”affair” tra pittura e poesia. La nostra tradizione crede nella relazione tra le arti sorelle e seguendo tale fede nei secoli i pittori si sono ispirati a motivi letterari per le loro composizioni; mentre i poeti hanno cercato di evocare immagini a cui soltanto le arti plastiche potevano rendere giustizia. L'”affair” si ripete tra i versi di Franco Marcoaldi e i segni di Marilù Eustachio». (Dal risvolto di copertina di Nadia Fusini).
Amore con Amore. Cento poesie, La nave di Teseo, 2019
In cento poesie, per buona parte inedite, Franco Marcoaldi indaga questa fantasmatica e concretissima passione universale affidandosi a una tastiera dai toni e timbri i più diversi: tenerezza incantata e accensioni sanguigne, impeto romantico e un’ironia beffarda che a volte sconfina nel sarcasmo. Una divinità capricciosa e imprevedibile governa le nostre esistenze. Si chiama Amore ed è capace di farci perdere la testa per un’altra creatura in un crescendo di febbrile erotismo e impagabili dolcezze. Ma quella stessa divinità, grazie alla sua multiforme e inafferrabile natura, può prendere anche direzioni diverse. Spingendoci a stravedere per un animale, a dialogare con i morti, a esprimere piena gratitudine verso il regno del vivente. Quando invece prevale il lato d’ombra dell’Amore, quell’incontenibile slancio si converte all’improvviso in chiusura, noia, insofferenza, feroce sete distruttiva. Franco Marcoaldi riprende qui il filo di un suo fortunato canzoniere di vent’anni fa. E in cento poesie, per buona parte inedite, indaga questa fantasmatica e concretissima passione universale affidandosi a una tastiera dai toni e timbri i più diversi: tenerezza incantata e accensioni sanguigne, impeto romantico e un’ironia beffarda che a volte sconfina nel sarcasmo. Perché Amore convive sempre con il suo contrario.
Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune.
Prefazione di M. Stella: La storia incantata. Diego Lanza narratore e antropologo dello ‘stolto’. Postfazione di G. Ugolini: Del ridere e del conoscere: la stultitia secondo Diego Lanza.
ISBN 978-88-7588-255-6, 2020, pp. 448, , Euro 35 – Collana “Il giogo” [118].
Socrate, Till Eulenspiegel, Pinocchio, ma anche Solone, Bruto, i profeti di Israele, Bertoldo, Giufà, i «santi folli» di Bisanzio … Sono innumerevoli i personaggi che trasgrediscono il senso comune; figure spesso ridicole, ma portatrici tutte di verità inquietanti di cui la ragione dominante diffida, delle quali tuttavia non può fare a meno. Ciò che si mantiene nella fiaba, nel romanzo, nella letteratura filosofica e religiosa non è tanto la fisionomia dell’insensatezza quanto il suo rapporto conflittuale di esclusione/complementarietà con la ragione, con il sistema dei valori etici e affettivi accettati come fondamentale norma di convivenza. Lo stolto e la stoltezza non costituiscono un elemento chiaramente definibile e persistente della tradizione culturale europea, un topos, ma piuttosto un’incognita alla quale ogni volta si attribuisce ciò che disturba il senso comune. È il senso comune, cioè la razionalità riconosciuta da ciascun assetto sociale come sua propria, che stabilisce quel che deve apparire ripugnante, ridicolo, riprovevole. La figura dello stolto e l’immagine della stoltezza mutano perciò a misura dei cambiamenti del senso comune e della razionalità che le definiscono, serbando tuttavia, di mutamento in mutamento, importanti tratti del passato. Il viaggio intrapreso alla riscoperta delle molte e molto differenti raffigurazioni dello stolto conduce a interrogarci sul difficile ma tenace equilibrio che governa il gioco tra verità e riso, scherzo e ragione.
La scarna indicazione, che Giambattista Vico offre nella Scienza nuova, della differenza tra la filosofia, «scienza del vero», e la filologia, «coscienza del certo», ha sicuramente una portata universale, cioè sta a indicare due momenti della conoscenza in generale, quelli che già Aristotele aveva caratterizzato come conoscenza del «che» (hoti), ovvero esperienza, e conoscenza del «perché», ovvero scienza, presupponendo che la conoscenza del vero sia, appunto, conoscenza del perché, cioè della causa (Metaph., I 1.981a 28-30; II 1.993 b 23-24). Se però si applica tale distinzione allo studio storico di un filosofo, come intenderei fare nella presente occasione, la filologia assume il suo significato più circoscritto, e anche più proprio, di conoscenza dei testi, cioè di «che cosa» il filosofo ha esattamente detto, o meglio scritto, e la filosofia assume il significato di spiegazione di tali testi, cioè di conoscenza del «perché» l’ha detto («causa» infatti, nel senso aristotelico, indica qualunque tipo di spiegazione).
Ovviamente il momento filologico è tutt’altro che semplice, perché non si riduce alla comprensione del dettato linguistico, ma include anche l’accertamento della sua autenticità, cioè della sua effettiva appartenenza all’autore studiato; della sua affidabilità, cioè dell’attendibilità dei testi, per gli antichi in genere manoscritti, in cui esso è contenuto, e quindi dell’origine e della storia di questi; del suo esatto significato lessi cale e grammaticale, e quindi del lessico e della grammatica delle lingue antiche. Non meno importante dell’accertamento di che cosa un filosofo ha realmente detto è l’accertamento di che cosa egli non ha detto, cioè di che cosa non si trova affatto nei suoi testi, il che serve a evitargli attribuzioni troppo generose, o troppo rancorose, di dottrine da lui non mai effettivamente professate.
Il momento filosofico, a sua volta, ha tutta la complessità messa in luce dalle diverse forme di ermeneutica, e quindi comprende la conoscenza del contesto anzitutto testuale (l’intera opera e l’intero corpus delle opere del filosofo), ma poi anche culturale, sociale, insomma storico in generale, e la conoscenza delle interpretazioni che di un testo sono state date nella storia, delle controversie che esso ha suscitato, dell’influenza che esso ha esercitato, ma anche la valutazione del significato che esso ha per noi oggi, cioè del suo valore, sia pure relativo, di verità. È più onesto, infatti, che tale valutazione sia esplicita, piuttosto che taciuta e tuttavia tacitamente operante e influente sull’interpretazione. In tal modo il lettore sarà più libero di prendere, a sua volta, posizione, e di giudicare l’attendibilità dell’interprete. Va detto infatti che, almeno nello studio dei filosofi, la filologia è di per sé poco interessante, se non serve a una conoscenza approfondita del loro pensiero, la quale permetta eventualmente di farne tesoro per il proprio modo di pensare. La tesi che intendo proporre è che senza filologia non c’è buona filosofia, ma senza filosofia la filologia, almeno ai filosofi, non interessa.
Enrico Berti, Filosofia e filologia nello studio di Aristotele, in Id., Storicità e attualità di Aristotele, Edizioni Studium , Roma 2020, pp. 51-52.
«[.. . ] la persona è, al tempo stesso, fonte della legge stessa, e solo in virtù di ciò le è sottomessa. [ …] La nostra propria volontà che agisse solo per rispetto della condizione di una legislazione universale possibile mediante le sue massime, questa volontà [ … ] è l’oggetto vero e proprio del rispetto e la dignità della condizione umana consiste precisamente in questa capacità, di essere universalmente legislatrice, pur congiunta con la condizione di essere, al tempo stesso, sottoposta a tale legislazione».
Immnuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi [1785], III, trad. it. di V. Mathieu, Rusconi, Milano 1994 (ora Bompiani, Milano 2003), p. 171.
«L’autonomiaè, dunque, il fondamento della dignità della natura umana e di ogni natura razionale».
Immnuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, op. cit., II, p. 161.
Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo, e con la natura, dev’essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d’amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità.
Karl Marx
Lo scandalo del denaro
I Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx e pubblicati nel 1932, sono giudicati un’opera “giovanile”. In realtà i manoscritti sono fondamentali per riscontrare – in un periodo di passaggio tra le opere giovanili e le opere della maturità – il nucleo profondamente umanistico del pensiero marxiano. Per umanistico si intende la centralità dell’essere umano nella storia e nel sistema sociale e politico, che può essere giudicato positivamente, se risponde all’essenza generica e sociale dell’essere umano. L’umanesimo marxiano pone al centro della storia l’essere umano. Non si tratta di un essere umano astratto ed idealizzato, ma colto nella concretezza della sua realtà materiale. L’umanesimo marxiano riporta il male ed il dolore alle condizioni storiche che ne determinano la genesi, per trascenderlo. Il male non ha realtà ontologica, ma alligna nei rapporti sociali ed economici. Marx è nello stesso solco di autori come Spinoza e Rousseau, i quali hanno smascherato il male metafisico per riportarlo a quella che è realmente la sua dimensione all’interno delle relazioni sociali. Il male è l’epifenomeno dei sistemi che negano la natura sociale dell’essere umano. L’essere umano che soffre è spesso il portatore infetto di relazioni sociali sbagliate, innaturali. Marx ha la capacità di scandalizzarsi dinanzi al male, non indietreggia, ma lo attraversa. Il negativo, ove necessario, va vissuto e compreso per poter riportare l’ordine razionale dove vige e regna il male. Scandalo[1] in greco significa “inciampo”, per cui bisogna inciampare in esso, per potersi cognitivamente rialzare e ritrovare la dignità dell’essere umano. Essa vive nell’autonomia del giudizio che si coniuga con la prassi storica: teoria e prassi sono tra di loro in una tensione feconda e sono capaci di riorientare l’umanità. Il male non è un destino, ma una condizione socialmente fondata dalla struttura economica e dalla sovrastruttura. Lo scandalo primo è il denaro. Sembra dotato di poteri taumaturgici, visto che è adorato come divinità, al punto da far apparire ciò che non è per ciò che è: il denaro ha il potere di ridurre la persona a sola quantità. È il possesso a determinare il valore della persona, al punto che il possessore di denaro è giudicato eccezionale, ogni virtù gli appartiene miracolosamente: la persona autentica scompare per lasciare spazioin verità ai processi di derealizzazione dell’essere umano; ci si “dis-orienta” dinanzi alla nuova divinità, al feticcio che tutto converte in oro – come Re Mida – fino a morirne.
«Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne».[2]
Il male alberga nel possesso, nella nuda quantità, tanto che se il possessore di denaro è osannato, colui che ne è privo è giudicato un reietto, una non persona, il paria a cui tutto si può chiedere e niente donare. L’antiumanesimo, già si svela nell’analisi del denaro, poiché in realtà colui che possiede il denaro e colui che non ne ha sono egualmente oggetto dello stesso paradigma: il possesso. Il valore delle persone è transeunte: dipende dal denaro; mentre quest’ultimo è ipostatizzato dà il valore. Il denaro imprime il valore, si rende autonomo, non è più mezzo, ma fine, feticcio dinanzi al quale ci si inginocchia:
«S’intende da sé che l’economia politica considera il proletario, cioè colui che senza capitale e senza rendita fondiaria vive unicamente del lavoro, di un lavoro unilaterale ed astratto, soltanto come lavoratore. Essa può quindi sostenere il principio che egli, al pari di un cavallo, deve guadagnare tanto che gli basti per poter lavorare. Essa non lo considera come uomo nelle ore non dedicate al lavoro, ma affida questa considerazione alla giustizia criminale, ai medici, alla religione, alle tabelle statistiche, alla politica e alla polizia».[3]
Economia classica e critica dell’economia L’economia classica occulta la verità che si cela nella genetica della proprietà privata; essa non è semplicemente l’effetto del lavoro. La proprietà privata ha nel suo grembo la violenza del sistema. La proprietà ha la sua ragion d’essere nell’alienazione, non nel semplice sfruttamento, ma nella riduzione graduale della persona in cosa (Ding), l’alienazione (Entfremdung) è dunque male non ontologico, ma sociale. La persona diviene straniera (Fremd) a se stessa, è sciolta da ogni relazione con se stessa e con gli altri, è solo nuda vita. La persona – divenuta oggetto – è negata nella sua natura sociale e generica (Gattungswesen) per diventare strumento di una struttura sociale nichilista, perché idolatra il possesso per negare l’essere umano. Il soggetto che pone la storia diviene oggetto della realtà economica che si rende autonoma. L’alienazione riguarda anche il possessore, ma nell’operaio, nel lavoratore dipendente si rivela la violenza (Gewalt) di un sistema inemendabile:
«L’economia politica nasconde l’estraniazione insita nell’essenza stessa del lavoro per il fatto che non considera il rapporto immediato esistente tra l’operaio (il lavoro) e la produzione. Certamente, il lavoro produce per i ricchi cose meravigliose; ma per gli operai produce soltanto privazioni. Produce palazzi, ma per l’operaio spelonche. Produce bellezza, ma per l’operaio deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una parte degli operai in un lavoro barbarico e trasforma l’altra parte in macchina. Produce cose dello spirito, ma per l’operaio idiotaggine e cretinismo».[4]
Prassi e comunità L’essere umano è nella natura, ma se ne differenzia in quanto non è semplice presenza, non si limita a rispecchiare la realtà (Obiectum), ma la trasforma (Gegenstand) in modo consapevole. L’essere umano trasforma la natura, l’economia, i valori ed in tal modo pone il suo mondo (Welt), il quale non è semplice ambiente (Umwelt). L’animale riproduce il suo ambiente, le sue attività sono complesse, ma istintive e ripetitive. L’essere umano crea mondi, è capace di immaginare il futuro, e di cogliere nel presente non solo le contraddizioni, ma anche le potenzialità da mettere in atto. L’essenza generica dell’essere umano è generatrice di mondi, e ciò non si concretizza in solitudine, ma in modo comunitario. Nell’azione comunitaria vi è la rinuncia al titanismo romantico, all’eroe che fa di se stesso il trasformatore dei mondi. Solo la comunità può operare un’autentica prassi, e quest’ultima è responsabilità etica verso la storia e verso la comunità. La partecipazione collettiva è attività che esige l’impegno etico di tutti, perché la storia non è proprietà esclusiva di taluni o proprietà esclusiva di classe: la storia è il luogo topico dell’umanità, è la casa dell’essere umano:
«L’universalità dell’uomo appare praticamente proprio in quella universalità, che fa della intera natura il corpo inorganico dell’uomo, sia perché essa 1) è un mezzo immediato di sussistenza, sia perché 2) è la materia, l’oggetto e lo strumento della sua attività vitale. La natura è il corpo inorganico dell’uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo sia congiunta con la natura, non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l’uomo è una parte della natura. Poiché il lavoro estraniato rende estranea all’uomo 1) la natura e 2) l’uomo stesso, la sua propria funzione attiva, la sua attività vitale, rende estranea all’uomo la specie; fa della vita della specie un mezzo della vita individuale. In primo luogo il lavoro rende estranea la vita della specie e la vita individuale, in secondo luogo fa di quest’ultima nella sua astrazione uno scopo della prima, ugualmente nella sua forma astratta ed estraniata. Infatti il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva stessa appaiono all’uomo in primo luogo soltanto come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservare l’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita della specie. E la vita che produce la vita. In una determinata attività vitale sta interamente il carattere di una “species”, sta il suo carattere specifico; e l’attività libera e cosciente è il carattere dell’uomo. La vita stessa appare soltanto come mezzo di vita. L’animale è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. E quella stessa. L’uomo fa della sua attività vitale l’oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza. Ha un’attività vitale cosciente. Non c’è una sfera determinata in cui l’uomo immediatamente si confonda. L’attività vitale cosciente dell’uomo distingue l’uomo immediatamente dall’attività vitale dell’animale. Proprio soltanto per questo egli è un essere appartenente ad una specie. O meglio egli è un essere cosciente, cioè la sua propria vita è un suo oggetto, proprio soltanto perché egli è un essere appartenente ad una specie».[5]
Comunismo Nei Manoscritti Marx indica gli elementi essenziali del comunismo, il paradigma a cui deve rispondere. La storia non si può prevedere, pertanto si limita a descrivere i fondamenti del comunismo. Il comunismo è la fine dell’autoestranazione: l’essere umano nel comunismo metterà in atto un sistema sociale che favorisce lo sviluppo e l’affinamento della natura dell’essere umano. Si tratta dell’umanesimo integrale, in quanto la persona deve poter sviluppare le sue potenzialità, dev’essere il fine che guida il sistema socio-economico e non certo esserne l’oggetto. Comunismo, dunque, come inizio della storia e fine della lotta darwiniana che ha reso l’essere umano simile agli animali non umani, come movimento dialettico che trascende le scissioni alienanti che hanno attraversato la storia:
«3) Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. È la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione».[6]
Anno zero Si può ricominciare da Marx per comprendere il presente e per immaginare il futuro. Ma se non vi è il senso etico dello scandalo ogni inizio è improbabile, non bastano le condizioni socio-economiche per guidare la prassi, è necessario ascoltare la profondità etica che ciascuno reca con sé per riprendere il cammino storico. La grande operazione attuale del capitalismo assoluto è l’addomesticamento del senso etico: la nuova disciplina del potere “educa” all’indifferenza ed all’utile personale, in modo che l’ingiustizia possa essere normalizzata e diventare la seconda natura dell’essere umano. Resistere significa donarsi, trasgredire il comandamento dell’utile, e testimoniare che la violenza (Gewalt) è un accidente storico e non la verità dell’essere umano. La nostra è un’epoca che necessita di testimonianza attiva per smentire gli imperativi del turbocapitalismo. I principi di ogni civiltà sono negati in nome della finanza: è l’anno zero della civiltà, è l’epoca della grande dispersione, dopo il diluvio della finanza. Vico ha descritto il diluvio e la regressione umana conseguente, ma ne ha evidenziato anche la devastazione ambientale, in quanto l’abbandono della civiltà riguarda l’umanità e l’ambiente in cui concretamente si vive. Dinanzi al diluvio della storia si ha il dovere di attraversare il negativo per ritrovare il fondamento onto-assiologico senza il quale non vi è che il male di vivere. I classici sono di ausilio per comprendere il reale storico, ci donano immagini con cui concettualizzare la storia: resistere significa, anche, centralità dei classici nelle nostre vite:
«Ma delle Nazioni di tutto il restante Mondo altrimenti dovette andar la bisogna; perocchè le razze di Cam, e Giafet dovettero disperdersi per la gran Selva di questa Terra con un’ error ferino di dugento anni, e così raminghi e soli dovettero produrre i figliuoli con una ferina educazione nudi d’ogni umano costume, e privi d’ogni umana favella, e sì in uno stato di bruti animali: e tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la Terra disseccata dall’umidore dell’Universale diluvio potesse mandar’in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli Uomini storditi, e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varrone giunse a noverarne quaranta, e gli Egizj dicevano, il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti; e si diedero ad una spezie di Divinazione d’indovinar l’avvenire da’ tuoni, e da’ fulmini, e da’ voli dell’ aquile, che credevano essere uccelli di Giove».[7]
Salvatore Bravo
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[1] Scandalo, latino scandalum, a sua volta dal greco σκάνδαλον (skàndalon), ossia “inciampo”. [2] Marx, Manoscritti economico-filosofici, Il denaro, da Archivio Marx-Engels, 2007. [3]Ibidem. [4]Ibidem, Il lavoro estraniato, da Archivio Marx-Engels 2007. [5]Ibidem. [6]Ibidem, Proprietà privata e comunismo, da Archivio Marx-Engels 2007. [7] G. Vico, La Scienza Nova, Edizione Centro di Umanistica Digitale dell’ISPF-CNR, progetto ISPF, “Biblioteca vichiana”, 2007, pag. 44.
Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo, e con la natura, dev’essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d’amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità.
Karl Marx
Se i sentimenti, le passioni, ecc. dell’uomo non sono soltanto determinazioni antropologiche in senso [stretto], ma affermazioni veramente ontologiche dell’essenza (della natura), e se essi si affermano realmente solo per il fatto che il loro oggetto è per essi sensibile, si intende che: 1) il modo della loro affermazione non è per nulla unico ed identico, ma anzi il modo diverso di affermarsi costituisce la particolarità della loro esistenza, della loro vita; il modo con cui l’oggetto è per essi, è il modo particolare del loro godimento; 2) là dove l’affermazione sensibile è la soppressione immediata dell’oggetto nella sua forma per sé stante (mangiare, bere, lavorare un oggetto, ecc.), proprio là ha luogo l’affermazione dell’oggetto; 3) in quanto l’uomo è umano, e quindi anche il suo sentimento, ecc., è umano, l’affermazione dell’oggetto da parte di un altro è anche un godimento suo proprio; 4) solo attraverso l’industria in pieno sviluppo, cioè attraverso la mediazione della proprietà privata, l’essenza ontologica della passione umana diviene tanto nella sua totalità quanto nella sua umanità; la scienza dell’uomo è quindi essa stessa un prodotto dell’attuazione pratica che l’uomo fa di se stesso; 5) il senso della proprietà privata – liberata dalla sua estraniazione – è l’esistenza degli oggetti essenziali per l’uomo, tanto come oggetto di godimento quanto come oggetto di attività.
Il denaro, possedendo la caratteristica di comprar tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l’oggetto in senso eminente. L’universalità di questa sua caratteristica costituisce l’onnipotenza del suo essere; è tenuto per ciò come l’essere onnipotente… il denaro fa da mezzano tra il bisogno e l’oggetto, tra la vita e i mezzi di sussistenza dell’uomo. Ma ciò che media a me la mia vita, mi media pure l’esistenza degli altri uomini per me. Questo è per me l’altro uomo. «Eh, diavolo! Certamente mani e piedi, testa e sedere son tuoi! Ma tutto quel che io mi posso godere allegramente, non è forse meno mio? Se posso pagarmi sei stalloni, le loro forze non sono le mie ? Io ci corro su, e sono perfettamente a mio agio come se io avessi ventiquattro gambe» (GOETHE, Faust, Mefistofele). Shakespeare nel Timone di Atene: «Oro? Oro giallo, fiammeggiante, prezioso? No, o dèi, non sono un vostro vano adoratore. Radici, chiedo ai limpidi cieli. Ce n’è abbastanza per far nero il bianco, brutto il bello, ingiusto il giusto, volgare il nobile, vecchio il giovane, codardo il coraggioso… Esso allontana… i sacerdoti dagli altari; strappa di sotto al capo del forte il guanciale. Questo giallo schiavo unisce e infrange le fedi; benedice i maledetti; rende gradita l’orrida lebbra; onora i ladri e dà loro titoli, riverenze, lode nel consesso dei senatori. È desso che fa risposare la vedova afflitta; colei che l’ospedale e le piaghe ulcerose fanno apparire disgustosa, esso profuma e prepara di nuovo giovane per il giorno d’aprile. Avanti, o dannato metallo, tu prostituta comune dell’umanità, che rechi la discordia tra i popoli…» E più oltre: «Tu dolce regicida, o caro divorzio tra padre e figlio, tu splendido profanatore del più puro letto coniugale, tu Marte valoroso, seduttore sempre giovane, fresco, amato, delicato, il cui rossore scioglie la neve consacrata nel grembo di Diana; tu, dio visibile, che fondi insieme strettamente le cose impossibili, e le costringi a baciarsi! Tu i parli in ogni lingua, per ogni intento [XLII]; o tu pietra di paragone di tutti i cuori, pensa, l’uomo, il tuo schiavo si ribella; e col tuo valore gettalo in una discordia che tutto confonda in modo che le bestie abbiano l’impero del mondo». Shakespeare descrive l’essenza del denaro in modo veramente incisivo. Per comprenderlo, cominciamo dall’interpretazione del passo di Goethe. Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo, Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l’effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva, è annullata dal denaro. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura venti quattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il denaro è il bene supremo, e quindi il suo possessore è buono; il denaro inoltre mi toglie la pena di esser disonesto; e quindi si presume che io sia onesto. Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre costui potrà sempre comperarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti, non è più intelligente delle persone intelligenti? Io che col denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà ? Forse che il mio denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario ? E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che unisce a me la società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli? Non può esso sciogliere e stringere ogni vincolo ? E quindi non è forse anche il dissolvitore universale ? Esso è tanto la vera moneta spicciola quanto il vero cemento, la forza galvano-chimica della società. Shakespeare rileva nel denaro soprattutto due caratteristiche; 1) è la divinità visibile, la trasformazione di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l’universale rovesciamento delle cose. Esso fonde insieme le cose impossibili; 2) è la meretrice universale, la mezzana universale degli uomini e dei popoli. La confusione e il rovesciamento di tutte le qualità umane e naturali, la fusione delle cose impossibili – la forza divina – propria del denaro risiede nella sua essenza in quanto è l’essenza estraniata, che espropria e si aliena, dell’uomo come essere generico. Il denaro è il potere alienato dell’ umanità. Quello che io non posso come uomo, e quindi quello che le mie forze essenziali individuali non possono, lo posso mediante il denaro. Dunque il denaro fa di ognuna di queste forze essenziali qualcosa che esso in sé non è, cioè ne fa il suo contrario. Quando io ho voglia di mangiare oppure voglio servirmi della diligenza perché non sono abbastanza forte per fare il cammino a piedi, il denaro mi procura tanto il cibo quanto la diligenza, cioè trasforma i miei desideri da entità rappresentate e li traduce dalla loro esistenza pensata, rappresentata, voluta nella loro esistenza sensibile, reale, li traduce dalla rappresentazione nella vita, dall’essere rappresentato nell’essere reale. In quanto è tale mediazione, il denaro è la forza veramente creatrice. La domanda esiste, sì, anche per chi non ha denaro, ma la sua domanda è un puro ente dell’immaginazione, che non ha nessun effetto, nessuna esistenza per me, per un terzo, per la […][1][XLIII]; e quindi resta per me stesso irreale, privo di oggetto. La differenza tra la domanda che ha effetto, in quanto è fondata sul denaro, e la domanda che non ha effetto, in quanto è fondata soltanto sul mio bisogno, sulla mia passione, sul mio desiderio, ecc., è la stessa differenza che passa tra l’essere e il pensare, tra la semplice rappresentazione quale esiste dentro di me e la rappresentazione qual è per me come oggetto reale fuori di me. Quando non ho denaro per viaggiare, non ho nessun bisogno, cioè nessun bisogno reale e realizzantesi di viaggiare. Se ho una certa vocazione per lo studio, ma non ho denaro per realizzarla, non ho nessuna vocazione per lo studio, cioè nessuna vocazione efficace, nessuna vocazione vera. Al contrario, se io non ho realmente nessuna vocazione per lo studio, ma ho la volontà e il denaro, ho una vocazione efficace. Il denaro, in quanto è il mezzo e il potere esteriore, cioè nascente non dall’uomo come uomo, né dalla società umana come società, in quanto è il mezzo universale e il potere universale di ridurre la rappresentazione a realtà e la realtà a semplice rappresentazione, trasforma tanto le forze essenziali reali, sia umane che naturali in rappresentazioni meramente astratte e quindi in imperfezioni, in penose fantasie, quanto, d’altra parte, le imperfezioni e le fantasie reali, le forze essenziali realmente impotenti, esistenti soltanto nell’immaginazione dell’individuo, in forze essenziali reali e in poteri reali. Già in base a questa determinazione il denaro è dunque l’universale rovesciamento delle individualità, rovesciamento che le capovolge nel loro contrario e alle loro caratteristiche aggiunge caratteristiche che sono in contraddizione con quelle. Sotto forma della potenza sovvertitrice qui descritta il denaro si presenta poi anche in opposizione all’individuo e ai vincoli sociali, ecc., che affermano di essere entità per se stesse. Il denaro muta la fedeltà in infedeltà, l’amore in odio, l’odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù, il servo in padrone, il padrone in servo, la stupidità in intelligenza, l’intelligenza in stupidità. Poiché il denaro, in quanto è il concetto esistente e in atto del valore, confonde e inverte ogni cosa, è la universale confusione e inversione di tutte le cose, e quindi il mondo rovesciato, la confusione e l’inversione di tutte le qualità naturali ed umane.
Chi può comprare il coraggio, è coraggioso anche se è vile. Siccome il denaro si scambia non con una determinata qualità, né con una cosa determinata, né con alcuna delle forze essenziali dell’uomo, ma con l’intero mondo oggettivo, umano e naturale, esso quindi, considerato dal punto di vista del suo possessore, scambia le caratteristiche e gli oggetti gli uni con gli altri, anche se si contraddicono a vicenda. È la fusione delle cose impossibili; esso costringe gli oggetti contraddittori a baciarsi. Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore, fiducia solo con fiducia, ecc. Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo, e con la natura, dev’essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d’amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità.
Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1948.
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