Cosimo Quarta (1941-2016) – L’utopia trae le sue origini da una profonda coscienza etica. La perenne tensione tra l’essere e il dover essere è ciò che fa dell’uomo un essere progettuale. Platone nella Repubblica sottolinea a più riprese che il progetto da lui delineato non È impossibile, ma solo difficile da realizzare e aveva fatto della paideia il cardine di ogni rapporto umano. Educare è umanizzare. Umanizzare è liberare. La paideia è la via che conduce alla libertà.

Cosimo Quarta 007

È opportuno chiarire che qui il termine «utopia» (con tutti i suoi derivati) non è usato nel senso comune e banale di sogno, castello in aria, chimera, fantasticheria, gioco letterario; né in quello più impegnativo, ma ugualmente distorsivo, di stato ideale. Partendo dalla nuova parola coniata da Thomas More, è agevole scorgere com’essa oscilli, fin dalle origini, tra ou-topia («non luogo») ed eu-topia («buon luogo»), sicché l’utopia si configura come la «società buona» che «non c’è». Solo che questo suo «non essere» non coincide col nudo «non essere» degli eleati, ma si presenta, per dirla con Ernst Bloch, come un «non essere ancora», nel senso che ha la stessa realtà e consistenza di un progetto. L’utopia, dunque, è il progetto della società buona che non è ancora, e che proprio per questo gli uomini sono protesi a realizzare.
Ora il progetto nasce sempre da un bisogno; e il bisogno implica una carenza d’essere, esprime cioè la presa di coscienza che la realtà di fatto, il mondo in cui ci si ritrova a vivere, non soddisfa adeguatamente le profonde esigenze umane. Donde, appunto, il protendersi degli uomini verso realtà nuove e diverse, ritenute idonee a soddisfare i loro fondamentali bisogni di libertà, sicurezza, pace, giustizia, eguaglianza, fraternità, amore. Questi bisogni sono sempre stati presenti lungo la storia, anche se espressi in forme varie e molteplici. In questo senso essi sono fondamentali, ossia primordiali, radicati nella natura umana ab origine. Anzi sono proprio essi a costituire, in certo modo, l’essenza specifica dell’uomo, a farne cioè, come ho detto altrove, un homo utopicus, un essere cioè proteso a realizzare il suo dover essere, ch’è poi l’«umanità» e la società in cui vivere «umanamente»: la società giusta e fraterna.
Questa perenne tensione tra l’essere e il dover essere è ciò che fa dell’uomo un essere progettuale. Ma progettando e realizzando se stesso, l’uomo, proprio perché originariamente dimensionato di socialità, progetta e realizza anche la storia. E nell’incontro-scontro di questi esseri progettanti che sono gli uomini, l’utopia s’invera e diventa il progetto della storia. Non v’è infatti generazione che non abbia tentato non solo di elaborare, ma anche di realizzare, in qualche modo, il suo progetto di umanità e di società. I modi e i criteri di tale elaborazione sono stati certo diversi sul piano della consapevolezza teorica e dell’efficacia storica (miti, favole, messaggi di salvezza, progetti filosofici, prassi politica e rivoluzionaria), ma tutti ugualmente significativi sotto il profilo antropologico.
L’utopia non nasce dunque, come generalmente si crede, da una coscienza ludica, ma trae le sue origini da una profonda coscienza etica. È l’insostenibilità delle condizioni presenti che spinge gli uomini ad elaborare un progetto o, comunque, a prefigurare uno stato di cose diverso da quello in cui essi vivono. L’utopia nasce sotto l’urgenza della prassi, ossia dietro la spinta di bisogni concreti e, in quanto tale, è ben lungi dall’essere qualcosa di «astratto», come opinano molti dei suoi detrattori. L’accusa di «astrattezza» deriva il più delle volte dal fatto di aver confuso lutopia con l’ideale. Infatti, mentre uno dei caratteri fondamentali dell’ideale è quello di essere irrealizzabile per principio, l’utopia si caratterizza invece come progetto teso alla realizzazione. Ciò che del resto era stato già chiarito da Platone quando nella Repubblica sottolineava a più riprese che il progetto da lui delineato non era impossibile, ma solo difficile da realizzare; notando al tempo stesso come le difficoltà di realizzazione derivassero fondamentalmente dallo scarto che inevitabilmente s’interpone tra teoria e prassi.
Occorre inoltre rilevare che il «meglio» o l’«ottimo» che il pensiero utopico persegue non è il «meglio» o l’«ottimo» in senso assoluto, ma solo in senso relativo; ossia è il «meglio» che gli uomini di quella determinata società e di quel determinato tempo sono riusciti o riescono a scorgere. Nell’utopia non v’è quindi alcuna chiusura, né spaziale né temporale. Essa, infatti, non si chiude in se stessa, isolandosi dalla realtà circostante, ma è aperta al mondo, a ciò che di meglio il mondo produce. La tensione verso un futuro migliore non significa negazione della tradizione, del passato-presente. L’utopia se da un lato rifiuta quanto d’ingiusto e di negativo il presente contiene, dall’altro raccoglie e sviluppa tutto quello che di positivo le generazioni passate ci hanno tramandato. Ogni generazione, come si diceva, ha il suo progetto utopico, le cui istanze però, e le relative realizzazioni, dipendono dalle condizioni storiche di fatto. Sicché, ciò che una generazione non riesce a realizzare viene ripreso e istanziato dalle successive. E in questo processo dialettico tra le generazioni o, ciò che è lo stesso, tra passato, presente e futuro, consiste la storia; la quale, almeno per quanto in essa v’è di positivo, può essere a ragione considerata come il prodotto dell’utopia.
Vista in questa luce, l’utopia si presenta come la molla dell’agire umano e, insieme, come il motore della storia. Se poi, come spesso capita, gli uomini utilizzano questo motore per tornare indietro invece che per spingersi in avanti, allora questa forza potente che muove la storia, proprio perché ha mutato segno e direzione, dev’essere chiamata con un nome diverso da quello di utopia. In tal caso, infatti, ci si trova di fronte alla distopia, ossia ad un progetto di società perversa; una forza altrettanto potente con cui l’utopia da sempre si scontra e che è causa non secondaria del lento scorrere dei processi storici, e quindi dei ritardi nella maturazione della coscienza storica. La confusione tra utopia e distopia ha indotto non pochi critici, tra cui Popper, a caratterizzare il pensiero utopico in termini di illiberalità, intolleranza, massificazione, totalitarismo, violenza ecc., generando così numerosi fraintendimenti che, com’è noto, hanno colpito anche Platone.
L’approccio utopico, ossia la rilettura in chiave storico-macrostorica dei testi platonici che questo libro propone, lungi dal ridurre la complessità e problematicità del pensiero di questo grande maestro, mira invece ad esaltarne la profondità, la lungimiranza, l’esemplarità e, ultima ma non per importanza, la perdurante e, per certi aspetti, sconcertante attualità. Platone è attuale non solo perché, come tutti i veri «classici», ha parlato e continua a parlare agli uomini di ogni tempo e luogo, ma anche perché in non pochi passaggi delle sue opere lo sentiamo come un «contemporaneo», come uno che vive in mezzo a noi ed è gravato dai nostri medesimi problemi. Basti, a dimostrazione di ciò, un solo piccolo esempio tratto dalla Lettera settima (325 cd): «Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica, e le leggi e i costumi, quanto più li esaminavo ed avanzavo nell’età, tanto più mi sembrava che fosse difficile partecipare all’amministrazione dello stato, restando onesto» (tr. il. A. Maddalena, Bari, 1971; il corsivo è mio). Un brano, questo, che s’attaglia assai bene a quel che accade oggi, soprattutto in Italia, dove disonestà, corruzione, affarismo, hanno infangato la politica, trasformandola da «attività eroica» in attività criminale. Di qui l’urgenza di ridare alla politica il suo autentico ruolo. E su questo Platone può darci ancora utili suggerimenti.

[…] Platone non trascurava affatto la felicità dei singoli. La sua preoccupazione era quella che lo stato diventasse uno strumento per il perseguimento della felicità dei «pochi». Infatti, egli dice, «il fine propostoci nel fondare lo stato» non è quello di far sì che una sola categoria di cittadini sia «particolarmente felice», ma quello di assicurare allintero stato il massimo possibile di felicità.[1] Come si vede, Platone è ben lungi dal negare ai cittadini del suo stato, in quanto singoli, la felicità . Ciò che egli vieta è che nessun cittadino o gruppo di cittadini goda di una felicità tutt’affatto «speciale», «straordinaria», rispetto agli altri. Se i critici di Platone non avessero sorvolato sul ruolo e significato che il termine «speciale» (diapherontos) assume per una corretta interpretazione del passo in questione, molti equivoci si sarebbero potuti evitare.
Qui Platone sottolinea che, di fronte alla felicità, tutti i cittadini sono uguali; e che nessuno, quale che sia la propria funzione nello stato, può rivendicare il diritto ad una felicità «speciale», «privilegiata». Lo stato esiste perché tutti e non solo alcuni siano il più possibile felici. Era questa una concezione dello stato talmente avanzata che nemmeno Aristotele riuscì a coglierne lo spirito, né tanto meno l’enorme portata utopica. […] Platone enuncia e sancisce proprio questo principio: il diritto di tutti alla felicità senza discriminazione veruna. I «custodi-reggitori» non saranno infelici, ma avranno la loro parte di felicità (e d’infelicità), «per quanto è possibile, nella stessa misura degli altri».[2] E di ciò si contentino. Lo «stato giusto», se vuole essere e conservarsi tale, non può permettere che i suoi «custodi-reggitori» approfittino delle funzioni che la comunità ha loro assegnato per procurarsi una felicità «speciale»; poiché così facendo il «tutto» verrebbe asservito a una sola «parte», stravolgendo l’ordine delle cose. Lo stato cesserebbe in tal modo d’essere una comunità politica e si trasformerebbe in una consorteria di privati, o meglio, in una giungla, dove i più potenti o i più furbi sottometterebbero i più deboli e onesti in vista del loro esclusivo tornaconto.
Si potrebbe a questo punto obiettare: ma questa felicità, cui tutti nello «stato giusto» hanno diritto, in che cosa propriamente consiste? E inoltre: i «custodi-reggitori», che attingono i gradi più alti del sapere, possono essere felici allo stesso modo degli altri cittadini, la cui natura non ha permesso loro di elevarsi ai fastigi della scienza? La risposta al primo quesito non presenta particolari difficoltà, dal momento che Platone ha sempre sostenuto, dai suoi primi scritti fino alle Leggi, che la vera felicità consiste nella virtù, ossia nel possesso della saggezza, della temperanza, della giustizia.[3]
[…] Platone, da un lato, riconosce nei filosofi-reggitori il più alto livello di umanità, proprio a causa della loro sapienza, che li pone in grado di conoscere «l’idea del bene», dall’altro, egli dice pure, come s’è già visto, che tale sapienza, se non è accompagnata dalla giustizia, non è affatto virtuosa. I filosofi-reggitori sono virtuosi soprattutto perché sono «giusti»; e sono «giusti» perché, obbedendo al principio del ta eautou prattein, non si limitano a contemplare il « bene» da loro speculativamente raggiunto, ma devono anche saper usare di questa loro «scienza del bene», dato che per Platone la felicità non si consegue attraverso il possesso dei «beni» […], ma mediante la capacità di usarne rettamente.[4] Ora, l’unico modo che i filosofi-reggitori hanno di usare correttamente, ossia di mettere in pratica la loro sapienza, che è appunto «scienza del bene», è quello di ridiscendere nella «caverna», ossia di impegnarsi concretamente nel governo della polis. In tal modo essi divengono «giusti», cioè virtuosi e, quindi, felici. Al pari degli altri cittadini, i quali, se vogliono essere felici, devono anch’essi usare rettamente dei beni in loro possesso, quali che siano. Se, infatti, la scienza è «lo strumento che procura il retto uso e la buona fortuna», allora, dice Platone, è necessario che «tutti gli uomini … s’impegnino … a divenire quanto più e possibile sapienti …».[5]
Tutti gli uomini, quindi, e non solo alcuni, per essere felici, devono acquisire quel grado di sapienza che consenta loro di svolgere al meglio possibile la funzione sociale per cui sono più adatti. […]
Come avrebbe potuto pensare, d’altronde, di eliminare la « personalità individuale »un autore come Platone che aveva fatto della paideia il cardine di ogni rapporto umano? E qual è lo scopo ultimo della paideia se non quello di sviluppare la personalità di ciascuno? Educare è umanizzare; umanizzare è liberare. La paideia è la via che conduce alla libertà. È vero che nella Repubblica il problema della libertà non viene affrontato in maniera organica; di tale problema infatti si parla solo per fugaci accenni. Ma come poteva Platone escludere dal suo modello «primo», dal suo stato «giusto» e «perfetto» la libertà e istanziarla invece nello «stato secondo» e «imperfetto» descritto nelle Leggi […]? […] Come avrebbe potuto Platone, acuto indagatore e profondo conoscitore dell’animo umano e del suo insopprimibile anelito di libertà, concepire uno stato che fosse in netto contrasto con quelle profonde esigenze umane per la cui crescita e soddisfazione, del resto, lo stato stesso è nato e ha senso?
La considerazione platonica dell’individuo non fa mai astrazione dalla comunità alla quale egli appartiene e in cui vive e convive. Nello stato platonico, individuo e società interagiscono in modo armonioso, senza squilibri. […] Un chiaro esempio di come Platone trattasse con pari dignità individuo e società, senza alcuna propensione a far prevalere l’una a scapito dell’altro, o viceversa, è dato da Repubblica, IV, 441 c-d, in cui, alternativamente, stato e individuo vengono considerati modelli l’uno dell’altro. Per non parlare poi di quelle profonde ed eloquenti pagine dei libri VIII e IX, dove trasformazioni costituzionali e trasformazione dei caratteri individuali procedono in perfetta sintonia, senza squilibri e sfasature.
Se dunque […] per Platone lo stato non è «tutto», nel senso che non è il «fine» assoluto cui la persona si rapporterebbe come puro «mezzo», occorre tuttavia guardarsi dal cadere nell’errore opposto; affermando cioè che nella Repubblica l’individuo è «il prius rispetto allo stato».[6] Questa ipotesi, infatti, al pari della precedente, poggia su basi alquanto labili. […] Il problema dei rapporti stato-individuo non può essere risolto ricorrendo a categorie del tipo prius-posterius. Poiché in tal modo si corre il rischio di falsare gli stessi termini del problema.
In che senso, infatti, l’individuo può essere il prius? Non certo sul piano fisico, ontologico; dov’egli si presenta chiaramente come il «risultato» della volontà o, comunque, dell’azione procreatrice dei genitori e, quindi, come posterius. L’individuo può forse considerarsi il prius sul piano etico? Anche su questo piano il problema si presenta tutt’altro che semplice. Certamente, una norma diviene etica nel momento in cui s’impone alla coscienza, o meglio, nel momento in cui la coscienza la riconosce e liberamente l’accetta come vincolo insuperabile, ossia come un «imperativo» cui si ispira la «massima» che guida il proprio «agire». In questo senso la norma etica, in quanto scaturente da un processo interiore è senz’altro un fatto individuale, anzi si rivela come il fatto individuale per eccellenza. E tuttavia rimane pur sempre, al tempo stesso, un fatto sociale, dal momento che si tratta di una libera (e perciò etica) accettazione di una norma preesistente all’individuo, nel senso ch’egli la « riconosce» (prima ancora di accettarla e farla propria) perché la «trova», per così dire, già in qualche modo operante nel contesto di società-storia in cui vive.
[…] Proprio perché sociali tali «valori» hanno la loro prima radice nella volontà delle singole persone che formano appunto la società. La norma morale, oggettiva e universale, non è un misterioso a priori, un dettame della «pura ragione» di cui si ignora la genesi, ma è un risultato storico, ossia il prodotto della convergenza di una pluralità di singole volontà verso un obiettivo comune: la salvezza e il progresso dell’umanità. Cioè dell’uomo in quanto specie, non in quanto singolo. Un patrimonio (culturale, certo, non genetico) che gli uomini di ieri hanno lasciato alle generazioni presenti le quali, a loro volta, hanno il «dovere» di trasmetterlo, migliorato, a quelle future. Poiché è in tal modo appunto che l’umanità si va costruendo.
[…] Se il problema dei rapporti stato-individuo s’imposta in termini di prius e di posterius, invece di avvicinarsi alla soluzione dello stesso ci si allontana. Stato e individuo non possono essere considerati secondo un prima e un dopo, perché essi non sono entità distinte e contrapposte. La società non è altro che l’insieme degli individui che la compongono, mentre l’individuo, a sua volta, non può essere concepito se non come membro di una società. Al di fuori di ogni rapporto sociale l’individuo umano semplicemente non sussisterebbe come tale. Affermare che l’individuo è il «prius rispetto allo stato» sarebbe come dire che l’individuo è il prius rispetto alla specie. Il che, evidentemente, sarebbe privo di senso dato che l’individuo è, per dirla con Kierkegaard, «in ogni momento … se stesso e la specie».[7]

 

Cosimo Quarta, L’utopia platonica. Il progetto politico di un grande filosofo, Edizioni Dedalo, Bari 1993, pp. 7-7, 240-247.

***

[1] Platone, Repubblica, IV, 420 b-e. Il medesimo concetto è ribadito a VII, 520 e, e anche altrove. Che Platone mirasse a rendere «veramente felice» ogni cittadino del suo «ottimo stato», lo aveva già riconosciuto un critico piuttosto severo del pensiero politico platonico come R.H. Crossman, Plalo Today, London, 1937, p. 111.

[2] Aristotele, Politica, II, 1264 b 22-24. È opportuno osservare che in altro luogo Aristotele affermerà, come Platone, che uno stato è felice non se una sola classe è felice, ma se tutti i cittadini lo sono. Cfr. Ivi, VII. 1329 a 22-24.

[3] Cfr., tra gli altri, Alcibiade primo, 134 b -135 e; Gorgia, 493 b-d; 506 d – 508 a; Repubblica, V, 621 c-d e passim; Leggi, II, 661 d – 663a; anche V, 732 d – 734 e.

[4] Eutidemo, 280 a – 282 a.

[5] Eutidemo, 282 a.

[6] M. Isnardi Parente, Socrate e Platone, p. 245.

[7] S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, tr. it., Firenze, 1968, p. 33.


Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Cosimo Quarta – Se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana.
Cosimo Quarta – Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità, ossia bisogno forte e urgente di utopia, il cui strumento privilegiato è la progettualità.
Cosimo Quarta – Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino.

Cosimo Quarta (1941-2016) – Nell’utopia si esprime la coscienza critica per la carenza d’essere, per l’insufficienza fattuale del reale, per la sua non rispondenza ai bisogni umani.

Cosimo Quarta (1941-2016) – Il mondo ha bisogno come non mai di utopia, di progettualità. L’utopia è un progetto storico, nasce da una profonda coscienza etica, si sviluppa in una coscienza critica e s’adempie in una coscienza progettuale. La coscienza utopica non è una coscienza sognante, pigra, pacificata con la realtà, e proprio perché si riconosce finita, limitata, è pronta al rischio e perfino allo scacco. Fine dell’utopia significa assenza di progettualità, smarrimento dei valori-guida.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Margaret Atwood – Considerando gli animali in sparizione, il proliferare di fogne e di paure, l’addensarsi del mare, l’aria prossima a estinguersi, dovremmo essere gentili, dovremmo sentire l’allarme, Invece siamo contro.

Atwood Margaret 001

Sono versi che lautrice ha scritto  cinquant’anni fa:

 

“Considerando gli animali in sparizione,
il proliferare di fogne e di paure,
l’addensarsi del mare,
l’aria prossima a estinguersi
dovremmo essere gentili,
dovremmo
sentire l’allarme,
dovremmo perdonarci
Invece siamo contro, ci
tocchiamo come chi aggredisce,
i doni che portiamo
persino in buona fede forse
nelle nostre mani si deformano in
dispositivi, in stratagemmi».

 

Margaret Atwood, Esercizi di potere, nottetempo, 2020.


Quarta di copetina

Quella che leggiamo in Esercizi di potere si mostra come un’indagine dell’intelligenza, ma è poesia fatta di una meticolosa crudeltà dello sguardo, di un sentire svincolato dal tempo che mette in rassegna infiniti istanti di interiorità e li affonda nella storia, tutta la storia umana condensata nell’incontro – nello scontro – tra uomo e donna. Ne emana un paesaggio intimo e lunare, una voce cosí forte, cosí onesta, da restare incantata dall’alterità, fino a difenderla, resistendo alla tentazione di una sintesi. È forse a questo potere che allude il titolo.


Margaret Atwood, poetessa e scrittrice canadese particolarmente attenta ai temi dell’ambientalismo e del femminismo, ha vinto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il Booker Prize (per due volte) e il Governor General’s Award. Dal suo romanzo Il racconto dell’ancella (Mondadori, 1988 e Ponte alle Grazie, 2017) sono stati tratti un film nel 1990 e una serie televisiva nel 2017. Tra le sue ultime opere pubblicate in Italia, I testamenti (Ponte alle Grazie, 2019), L’uovo di Barbablú (Racconti edizioni, 2020) e Tornare a galla (Ponte alle Grazie, 2020).


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Ad un popolo impaurito si può far accettare ogni provvedimento: Recovery fund e il MES.

Recovery fund e MES

Salvatore Bravo

Ad un popolo impaurito
si può far accettare ogni provvedimento: Recovery fund e il MES

Ad un popolo impaurito si può far accettare ogni provvedimento. Se il popolo è costituito da individui senza identità, se è una somma di elementi senza unità alcuna: non ha lingua, non ha cultura, non ha tradizioni popolari, non ha religione non è più un popolo, ma solo massa omogenea plasmata dalla finanza. Il popolo non è più popolo da decenni, al suo posto vi è una massa informe che vive di desideri indotti e disperazioni contingenti. A questo popolo diseducato dal capitale ad essere soggetto attivo, a sentire il suono della propria lingua, a vivere l’ambiente e la storia in cui è immerso, che non guarda, perché ha smesso di vedere in modo empatico per calcolare l’immediato. Ad un popolo tradito e vilipeso si può far accettare il Recovery fund e ora, probabilmente, anche il MES. Si consegna il destino di un popolo, ormai plebe in attesa di “soli ristori “, alla finanza internazionale. La sovranità perduta da decenni, è ora palese, ma specialmente il destino è segnato. Nei prossimi decenni l’agenda politica sarà dettata dalla finanza internazionale, la quale concederà i prestiti solo se il governo servitore attuerà “le riforme”: tagli ai diritti sociali, taglio alle pensioni, invasione violenta dei privati nella scuola, la quale non deve formare alla cittadinanza politica, ma ai bisogni del mercato, digitalizzazione per astrarre informazioni da vendere al mercato. La TV di Stato, mentre avviene l’ultimo tradimento, trasmette finanziata dai suoi cittadini-sudditi la disinformazione nella forma dello spettacolo leggero e volgare a reti unificate. La condizione italiana è estrema, non vi è politica, non vi è partito in cui poter essere sicuri che non sia venduto alla finanza. La democrazia del popolo è sostituita dall’oligarchia della finanza.

Covid 19 e finanza
Il Covid 19 è una ghiotta possibilità per la finanza e le multinazionali, in primis il popolo è stato addestrato alla separazione ad essere oggetto di provvedimenti senza che siano stati criticamente letti, nella divisione si amplifica la paura e, dunque, il popolo diventa come il topo davanti al gatto che gioca. Dove vige la separazione regna la paura e l’angoscia. Un popolo angosciato ed impaurito da tutto ed intimorito da un futuro minaccioso non può che accettare l’ancora di salvataggio della finanza che lo porterà a fondo. Decenni di attacchi alla formazione ed ai diritti sociali hanno portato via con la formazione il senso critico per sostituirlo con il consumo, con la pornografia del mercato che addestra all’impotenza collettiva ed alla guerra orizzontale dei sudditi. La paura nella forma della separazione è il grande successo della finanza, essa la usa per spingere governanti senza capacità politica e pronti a difendere i soli interessi personali ad accogliere l’indebitamento patrio come una risorsa per la salvezza delle loro carriere: sono separati dal popolo, ma dipendenti dalla finanza. In una nazione che ha un’evasione fiscale incalcolabile per recuperare denaro da utilizzare nella crisi sarebbe logico lottare contro la grande evasione, invece si punta alla svendita della nazione per non dispiacere coloro che sono stati la causa del problema con il loro individualismo asociale e feudale: gli evasori fiscali. La decadenza della nazione è palese: si continua a cementificare paesaggio e storia con il ricatto del lavoro. Si ruba non solo il futuro, ma anche il passato, in tal modo non vi è presente, non vi sono bussole etiche e valoriali su cui costruire un futuro comune. Stanno portando via tutto per sostituirlo con il nuovo regno in l’imperatore è io mercato. L’azione e l’attacco della finanza internazionale è plurima: indebitamento con taglio diritto sociali e feudalizzazione della società, smantellamento della formazione, eliminazione dalla visuale percettiva della possibilità di pensare la storia e costruire un futuro condiviso. La lingua con cui un popolo pensa è sostituita dall’angloitaliano con la quale destrutturare il pensiero e per comunicare un assoluto e quotidiano disprezzo verso la nazione. Se si è costretti a parlare l’inglese dei mercati ed assimilare la lingua nazionale nell’inglese mercantile il messaggio che arriva alle nuove generazioni è che l’identità nazionale è nulla e le culture locali meritano disprezzo. L’astratto divora il concreto per fondare una bieca rivoluzione antropologica il cui fine è il solo mercato europeo nella quale la religione della finanza regna e consuma ogni risorsa per il trionfo di pochi. La lotta di classe e delle comunità nazionali deve partire dalla possibilità di guardare negli occhi la medusa senza lasciarsi pietrificare. Siamo soli, e nessun Dio verrà a salvarci, da questa verità è necessario riprendere il cammino. “Lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva” (Friedrich Hölderlin ), risuonano i versi del poeta, ma dal pericolo estremo ci si salva con la prassi, con la riorganizzazione dal basso, altrimenti il pericolo divorerà il futuro, per ora si assiste al teatro delle parti, in cui tutti mentono, in quanto le decisioni sono stare già prese fuori dal parlamento, nei salotti buoni della “cattiva finanza”.

Salvatore Bravo

Diego Lanza (1937-2018) – Il libro di A. Meillet ci offre un’immagine della lingua greca oltremodo ricca, nel costante riferimento a precise condizioni storiche. Il rapporto tra lingua e società si definisce con chiarezza come rapporto tra lingua e civiltà, cultura in senso antropologico.

Diego Lanza - Antoine Meillet

Antoine Meillet, in Lineamenti di storia della lingua greca, affronta subito il problema fondamentale dei rapporti tra lingua e società, non limitandosi a ribadire la necessità di un tale rapporto, ma tentando di definirne gli specifici caratteri, ed evitando fin dall’inizio ogni tentazione di spiegazioni meccanicistiche. «L’esperienza – egli scrive – dimostra che, se una lingua comune può sopravvivere al disgregarsi di un’unità nazionale, è però necessaria un’unità – politica e soprattutto culturale – per formare una lingua comune». Su queste righe non è inutile riflettere. Non soltanto perché l’autore vi ritornerà con incisiva brevità nell’introduzione alla terza edizione del libro, nel 1929, ma anche perché esse costituiscono la chiave teorica secondo cui è da leggere tutta la prima parte.
Nel 1929 Meillet sviluppa il rigo incidentale del brano citato, precisandone il significato: «Una lingua vale non perché sia l’organo di una nazione, ma in quanto è lo strumento di una civiltà». Il rapporto tra lingua e società si definisce così con chiarezza come rapporto tra lingua e civiltà, cultura in senso antropologico, evitando le facili scorciatoie di collegare la lingua alla nazione, al popolo, alla razza, di una sociologia d’accatto. La storicità della lingua non ha nulla a che fare con la mitologia nazionalistica o razzistica. La lingua non è la sensibile espressione dell’anima di un popolo (il mito della razza viene risolutamente rifiutato appena una pagina dopo), né rappresenta alcuna forma di autocoscienza dell’unità nazionale; per intenderne la storicità occorre riferirla ad una civiltà. La matrice antropologica della formulazione rivela immediatamente i parametri culturali della ricerca meilletiana. È secondo una tale prospettiva che Meillet adopera subito il principio teorico appena enunciato. Se un’unità o un’affinità linguistica presuppone che un’unità culturale ci sia o ci sia stata, partendo dalle affinità linguistiche accertabili in epoca storica è sempre possibile risalire ad affinità culturali preistoriche difficilmente accertabili altrimenti. È così che Meillet ricostruisce un’unità dei Greci […].
«Una lingua – scrive Meillet nel 1929 nel saggio Lo sviluppo delle lingue – è un sistema rigorosamente legato di mezzi d’espressione comuni ad un insieme di soggetti parlanti. Non ha esistenza al di fuori degli individui che parlano (o che scrivono) la lingua; tuttavia ha un’esistenza indipendente da ciascuno di essi perché ad essi s’impone, la sua realtà è quella di un’istituzione sociale, immanente agli individui, ma nello stesso tempo indipendente da ciascuno di essi[…]». […] Non soltanto Meillet dice che la lingua è un sistema inconcepibile al di fuori del complesso dei parlanti e tuttavia esterno perché superiore a ciascuno di essi, ma subito aggiunge che la conservazione del sistema non è garantita linguisticamente ma socialmente. […] Anche la sistemicità della lingua non è dunque carattere naturale, ma sociale; non è insito in tutti i parlanti, ma viene appreso.
[…] Al di là quindi del suo valore manualistico (non è difficile d’altra parte convenire che si tratta tuttora del più completo e articolato strumento per chi debba accostarsi alla storia della lingua greca), Lineamenti di storia della lingua greca merita di essere oggi riconsiderato anche per le sue prospettive di metodo storiografico e di teoria della lingua. La sua genesi è sì collocabile in un ambiente culturale molto chiaramente determinato, i fermenti di cui è nutrito appaiono di un’epoca conclusa, ma il libro anche se è, come si suoi dire, datato, non può considerarsi superato, perché non appaiono superati i problemi teorici che esso inconsapevolmente affronta. Questi problemi sono stati in parte rimossi, spesso aggirati, talvolta apertamente dichiarati non pertinenti alla linguistica, ma essi si riaffacciano tutte le volte che il linguista, accanto alla riflessione teorica e metodica, pretende di cimentarsi con la reale storia di una lingua. Si tratta della definizione del carattere sociale della lingua non affermata astrattamente, ma concretamente valutata nel rapporto specifico, e perciò mediato, tra una lingua e una società; si tratta della stessa sistemicità di una lingua, che non è eguale per tutti i parlanti, ma presuppone, per essere indagata, la considerazione delle articolazioni proprie della società e l’accertamento del gruppo o dei gruppi che esercitano una effettiva egemonia linguistica sull’intero corpo sociale; si tratta anche dell’accertamento analitico degli usi prevalenti della lingua, uso religioso, giuridico, scientifico, poetico, nella persuasione che tali usi non si presentano mai come il risultato di un’astratta opzione individuale, ma si possono riconoscere collettivamente imposti secondo la logica della stratificazione sociale. In questa prospettiva appare difficile convenire con il liquidatorio giudizio di marginalità espresso sulla riflessione linguistica di Meillet. Si può invece dire che il carattere che più colpisce nell’Aperçu, come nella maggior parte delle altre sue opere, è la tollerante pacatezza […]. La tolleranza non è soltanto dell’uomo, ma anche, soprattutto dello studioso, è un carattere essenziale del suo stesso lavoro scientifico. È anche questa la ragione per la quale un libro come l’Aperçu conserva intatta la propria apertura programmatica e può riuscire utile oggi forse come quando fu scritto. Esso offre coordinate culturali nelle quali non è difficile iscrivere una serie assai importante di studi, di ricerche, di riflessioni recenti sulla tradizione culturale greca, sulla tecnica di composizione e di comunicazione della poesia epica e lirica[…]. L’Aperçu resta anche importante perché il suo vasto disegno originario non esclude arricchimenti, anche assai diversi l’uno dall’altro e ispirati a diverse sollecitazioni. Sono recuperabili all’ampio quadro storiografico qui tracciato sia ricerche lessicografiche di carattere più tradizionale, come quelle pur fondamentali di Mugler; sia indagini ispirate al più rigoroso metodo strutturale, come quelle di Bartonek, o, sul piano semantico, di Lyons; sia infine saggi di ricostruzione insieme linguistica e stilistica come quella di Pavese. E si sono fatti soltanto pochi esempi.
Rileggere il libro di Meillet in questa nuova ottica può essere utile. Esso ci offre un’immagine della lingua greca oltremodo ricca, nel costante riferimento a precise condizioni storiche […] Il sistema linguistico resta sempre per Meillet funzione di un più ampio sistema, quello che egli identifica nella struttura della società, cui, evitando la tentazione di affrettate omologie, la ricerca del linguista deve sempre riferirsi, per tendere coerentemente all’obiettivo della globalità di conoscenza delle scienze sociali.

Diego Lanza, Introduzione a Antoine Meillet, Lineamenti di storia della lingua greca, Einaudi, Torino 1976, pp. IX-XXVIII.


Diego Lanza (1937-2018) – Di mio padre ricordo l’orgoglio tenace, la fedeltà alle proprie decisioni, l’energia necessaria a una silenziosa coerenza, il disprezzo per il mormorio del senso comune. Mi ha insegnato ad essere come chi amiamo si aspetta che noi siamo, perché non pesare su chi ci ama con le nostre sofferenze è amorosa accortezza.
Diego Lanza (1937-2018) – La disciplina dell’emozione. Un’introduzione alla tragedia greca. Prefazione di Anna Beltrametti
Diego Lanza (1937-2018) – Appassionato filologo e grecista, innovativo nella lettura interdisciplinare dei testi, sempre in tensione etica, morale, filosofica, che ci consegna quale suggello, testimonianza vivificante e forte dono.
Diego Lanza (1937-2018) – «Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune». Prefazione di M. Stella. Postfazione di G. Ugolini.
Diego Lanza (1937-2018) – Euripide porta sulla scena lo spettatore, l’uomo della vita di ogni giorno.
Diego Lanza, Gherardo Ugolini – «Storia della filologia classica». Si è cercato di illustrare tutta la problematicità della filologia, mostrando al contempo quanto lo studio dell’antico abbia sempre interferito con i dibattiti che hanno via via segnato lo svolgersi della cultura europea negli ultimi due secoli.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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Salvatore Bravo – All’attesa heideggeriana bisogna opporre lo sguardo profondo della civetta filosofica per responsabilizzarsi nella prassi. La critica che si limita ad attendere la svolta, “l’evento”, diventa complice dello stato presente.

La brocca di Heidegger

Perchè il nulla dilaga?
– Perché la gente ha rinunciato a sperare e dimentica i propri sogni. Così il nulla dilaga.
– Che cos’è questo nulla?
– È il vuoto che ci circonda, è la disperazione che distrugge il mondo, e io ho fatto in modo di aiutarlo.
– Ma perché?
Perché è più facile dominare chi non crede in niente, e questo è il modo più sicuro di conquistare il potere.

Il terrifico
Il terrificante è tra di noi e con noi, l’ipertecnologia con le sue promesse edoniche si è ribaltata nel “terrificante”, si è immersi in esso, si è diventati parte di un sistema che nega la natura umana nella sua capacità di cogliere e vivere la percezione olistica del vivere dalla quale trarre il senso profondo dell’esserci. La distanza è la cifra del terrifico, le tecnologie sono l’espressione compiuta della rappresentazione fisica dell’oggetto, che cade nella “distanza” della rappresentazione. L’oggetto è ridotto a poche variabili “esclusivamente quantitative”, è solo ciò che “ci sta innanzi”, pronto all’uso. La vicinanza finalizzata al solo uso è attività di negazione, in quanto l’oggetto non è vissuto, non è colto nei suoi rimandi vitali e di senso, ma è soltanto immediatezza a disposizione. La distanza è divenuta “non distanza”, poiché la “distanza” implica la “vicinanza”, mentre la contemporaneità nega la “vicinanza” per cui “la distanza” non è colta nella sua verità, dato che solo la relazione distanza-vicinanza dà significato ad entrambe. Il pensiero unico annichilisce ogni comprensione che collassa sotto il giogo dell’omologazione. Il terrifico è l’astratto, nega ogni relazione logica, etica ed ontologica. L’astrazione irrompe nel quotidiano, portando il terrifico che l’accompagna. La rappresentazione dell’oggetto è il luogo astratto su cui si agisce per manovrarlo, in questo modo vi è la totale sostituzione dell’atto percettivo vitale con la rete simbolica che matematizza e smaterializza la vita, la riduce a simboli su cui praticare la delirante onnipotenza globale. Il terrificante è il gelo della corrente fredda che pervade ogni relazione con gli oggetti, con l’ambiente fino ad investire le relazioni umane. Queste ultime sono nel segno del calcolo, l’altro come le istituzioni sono mezzo, sono oggetto della razionalità organica al plusvalore nelle sue forme plurali: dal guadagno all’estorsione delle informazioni fino al narcisismo patologico, per cui, mentre aumentano le informazioni analitiche il mondo scompare falcidiato dalla violenza non riconosciuta. Il progresso nella versione liberista è un calcolo terrifico, si determinano i tempi di vita e di morte di ogni ente, si concede la vita fin quando il calcolo ne svela le potenzialità d’uso e di guadagno, esaurite tali potenzialità lo si lascia cadere nella morte. In realtà già nell’uso vi è una dichiarazione di morte, perché la “distanza” è estraneità, solitudine elevata a sistema nel silenzio del linguaggio e della relazione:

«Il terrificante è quello che pone fuori dalla sua essenza precedente tutto ciò che è. Che cos’è questo terrificante? Esso si mostra e si cela nel modo in cui ogni cosa è presente, nel fatto cioè che, malgrado ogni superamento delle distanze, la vicinanza di ciò che è assente».[1]

 

Distanze senza volto
Il terrificante è l’ovvio della contemporaneità illuministica. Hegel ha insegnato che la filosofia è pensare il proprio tempo, per cui il terrifico, è parte integrante del vissuto quotidiano e come tale non è colto. La filosofia, invece, deve pensare ciò che non è concettualizzato, per cui il mondo necessita dello sguardo e della lingua filosofica. Il terrifico è nella propaganda dei circoli mediatici esposto con indifferenza, in quanto l’unico fondamento del liberismo è il nulla. L’assurdo si coniuga con il nichilismo. La normalità del terrifico emerge nelle cronache ed è accolta con “distanza”. Nelle ultime settimane vi è la proposta, già approvata in Olanda e in alcuni paesi anglosassoni, di liquefare i cadaveri, in quanto smaltimento più efficiente e green. Il corpo del caro estinto è portato in acqua e liscivia a centossessanta gradi, la pressione elevata lo scompone nei suoi elementi chimici, l’acqua è smaltita nelle fogne. Il corpo che è stato abitato dalla vita ed ha una sua storia è ridotto ad ente tra gli enti senza significato. La persona sarà associata alla scomposizione chimica da liberare nelle pubbliche fogne. La morte con i suoi significati, con la pietà che si deve alla cura del corpo è sostituita con lo smaltimento veloce, con un’operazione chimica di nessun significato etico-religioso, per essere solo azione orientata all’efficienza che non riconosce le differenze tra l’umano e il non umano. Il disumano è in questa cecità emotiva e razionale divenuta la regola del vivere nel tempo del capitalismo integrale. La “distanza” non riconosciuta è il pericolo che logora la contemporaneità senza volto:

«Il terrificante si manifesta e si cela nel modo in cui nell’ovvio che giace vicino (das Naheliegende) la vicinanza rimane assente. Che cosa significa ciò? Significa che la cosa non coseggia; la cosa non è presente in quanto cosa. Il mondo non mondeggia».[2]

 

Silenzio ed irrilevanza
Il nulla è il silenzio del riduzionismo quantitativo. Il nulla ci parla, pertanto il mondo si oblia in un silenzio mortale. L’ipertrofia della razionalità scientifica è incapace di dare un significato al mondo, che quindi tramonta travolto da numeri e cifre. Il soggetto che li utilizza non è capace di significarli nell’ascolto, ma semplicemente costruisce la distanza dal mondo, regredisce allo stato di animale razionale e calcolante. L’irrilevanza diviene la regola del suddito globale: ogni ente è categorizzato in parametri sempre eguali e semplici. La rete simbolico-matematica che determina la “distanza”, mentre offre immense possibilità di uso e di accumulo di cui non è chiaro il fine, pone ogni agire come ogni esistente sul piano dell’irrilevanza, per cui si può scomporre un cadavere per smaltirlo nelle fogne come fosse un rifiuto. Si rimuove l’abisso inquietante della contemporaneità con le giornate in ricordo dell’olocausto per occultare che esso è tra di noi, abbiamo smesso di riconoscerlo e pensarlo. L’irrilevanza è il concetto non pensato e perennemente irriso dal circo mediatico con il suo servidorame:

«Ogni cosa acquista il tratto fondamentale dell’equi-valente (das Gleiche – Gultige), per quanto varie cose possano di quando in quando starci ancora a cuore come frammenti perduti. Il riguardo dell’equivalente è lo strappo in avanti (Fortriβ) nell’indifferente che non va e non sta e non cade né vicino né lontano».[3]

 

La brocca
Heidegger per pensare la contemporaneità riporta l’esempio della brocca che ha smesso di “coseggiare”. La brocca nella rappresentazione fisico-matematica è solo un oggetto che accoglie il liquido, il quale sostituisce l’aria. La brocca non è vissuta, ma usata come mezzo, definita nei parametri della fisica, si nullifica tra le mani di chi la usa, non ha provenienza, è solo presenza che si dà per essere manipolata, usata e gettata, è la metafora di un mondo disumano senza centro ontologico ed assiologico:

«Non appena però acconsentiamo a indagare scientificamente la brocca reale guardando alla sua realtà, emerge uno stato di cose diverso. Quando versiamo il vino nella brocca, l’aria che già la riempie è solamente scacciata e sostituita da un liquido. Dal punto di vista scientifico, riempire la brocca significa rimpiazzare un contenuto con un altro.
Queste indicazioni della fisica sono corrette. Con esse la scienza rappresenta qualcosa di reale a cui si conforma in termini obiettivi. Ma questo qualcosa di reale è davvero la brocca?».[4]

Heidegger mostra che l’irrilevanza è una forma di annientamento dell’altro. La “distanza” divenuta il principio fondamentale del “vivere sociale” dell’Occidente è una forma non mediata dialetticamente di nullificazione. Prima ancora dell’atomica l’alterità è nullificata dall’utile scientifico, l’atomica è il punto d’arrivo di un processo di smaterializzazione dell’altro in funzione del dominio. L’atomica diviene punto d’arrivo e nuovo snodo per un salto di qualità terrifico con cui si minaccia la vita nella sua totalità e si educa alla morte-distanza. La DAD è il compimento dell’immenso ingranaggio della nullificazione, la sua normalizzazione, un esperimento per saggiare reazioni e specialmente per comprendere se i tempi sono maturi per l’irrilevanza totale: l’altro è solo un’immagine da accendere e spegnere, la relazione è solo un involucro al cui interno vi è il nulla. Solo la macchina è protagonista:

«Il sapere della scienza, cogente nel suo ambito – quello degli oggetti –, ha annientato le cose in quanto cose ben prima che esplodesse la bomba atomica, la cui deflagrazione è solo la più rozza di tutte le rozze conferme di un annientamento della cosa già accaduto da molto tempo, la conferma cioè che la cosa in quanto cosa rimane nulla (nichtig)».[5]

 

Passività e verità
Per Heidegger il trionfo dell’ontico sull’ontologico è il destino dell’Occidente, e ora che il pericolo è totale, ora che la verità della tecnica è svelata è possibile che giunga a noi la fine della metafisica e l’inizio di una nuova era in cui l’essere umano sia il ritrovato pastore dell’essere. L’analisi di Heidegger è votata alla passività, all’attesa della metamorfosi che pensi e viva i rimandi, per i quali la brocca smette di essere un recipiente oggetto di leggi fisiche per diventare parte del mormorio della vita: 

«La riunione del duplice accogliere nell’atto di versare, che solo in quanto insieme costituisce la piena essenza del donare, la chiamiamo “dono” (das Geschenk). Il carattere di brocca della brocca è essenzialmente nel dono di ciò che è versato. Anche la brocca ottiene la sua essenza dal dono, sebbene una brocca vuota non consenta un versare fuori. Questo non consentire, tuttavia, è proprio della brocca e solo della brocca, mentre una falce o un martello sono incapaci di non consentire tale versare. Il dono di ciò che è versato può essere una bevanda.
Vi sono acqua e vino da bere.
Nell’acqua del dono permane la sorgente. Nella sorgente permangono la roccia e ogni oscuro sapore della terra che assorbe la pioggia e la rugiada del cielo. Nell’acqua del cielo permane lo sposalizio di cielo e terra».[6]

 

La critica che si limita ad attendere la svolta, “l’evento”, rischia di essere complice dello stato presente. Le categorie marxiane possono essere di ausilio per ridefinire nel segno della prassi le critiche heideggeriane nelle quali non è difficile cogliere l’eco di Marx. L’attesa del dono, dell’ascolto, del trascendere la patologia dell’entificazione totale già in Marx assurge ad elemento sostanziale riportato al modo di produzione ed alla storia. L’astoricismo heideggeriano, invece, rischia di essere complice del terrifico, poiché la cultura del dono e dell’emancipazione dal produttivismo è solo attesa, i soggetti devono ridisporsi all’ascolto. Passività ed elezione divengono un connubio che consolida il “terrifico”, mentre il dono rischia di essere esperienza che si svela solo a taluni, un’illuminazione improvvisa che allontana il pericolo senza risolverlo:

 

«Nel dono di ciò che è versato, che è un bevanda, permangono a modo loro i mortali. Nel dono di ciò che è versato, che è una bevanda, permangono a modo loro i divini, che ricevono il dono del mescere come dono dell’offerta. Nel dono di ciò che è versato permangono in modo ogni volta diverso i mortali e i divini. Nel dono di ciò che è versato permangono la terra e il cielo».[7]

 

All’attesa heideggeriana bisogna opporre lo sguardo profondo della civetta filosofica che con il suo volo deve pensare per responsabilizzarsi nella prassi, altrimenti il “terrifico” diverrà la “liquidazione” della storia e dell’umano.

Salvatore Bravo

 

[1] Martin Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002, pag. 20.
[2] Ibidem, pag. 42.
[3] Ibidem, pag. 47.
[4] Ibidem, pag. 25.
[5] Ibidem, pag. 26.
[6] Ibidem, pag. 28.
[7] Ibidem, pag. 29.

Paul Gauguin, Brocca a forma di testa. Autoritratto, 1889
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fëdor Dostoevskij (1821-1881) – Io penso che tutti debbano amare la vita più di ogni altra cosa al mondo. Raccogliamo molti buoni ricordi, portiamoli nel cuore. Se l’uomo può tenere con sé molti di questi ricordi e serbarli per la vita, è salvo per sempre. Se anche un solo buon ricordo ci accompagnasse sempre, anche quello basterebbe un giorno alla nostra salvezza.

Fëdor Dostoevskij 002
A. Karamazov in un’illustrazione di Il’ja Glazunov del 1982

«Io penso che tutti debbano amare la vita più di ogni altra cosa al mondo».
«Anche più del senso della vita?».
«Proprio così, amarla più della logica, come dici tu, anche più della logica, e solo allora se ne afferrerà anche il senso. Ecco ciò che occupa ormai da tempo i miei pensieri» (p. 242).

«Non siate dunque come tutti; non siatelo, anche se doveste essere il solo» (p. 548).

Alëša Karamazov nel Discorso presso la pietra che chiude il romanzo di Dostoevskij, pronuncia queste parole:
«Sappiate dunque che non esiste niente di più nobile, e forte, e importante, e utile per la vostra vita futura, dei buoni ricordi, soprattutto se appartengono ai primi anni della vostra vita, alla casa dei genitori. Quante volte si parla della vostra educazione! Eppure uno di questi buoni e cari ricordi, portato nel cuore fin dall’infanzia, è forse la migliore delle educazioni. Se l’uomo può tenere con sé molti di questi ricordi e serbarli per la vita, è salvo per sempre. Ma se anche un solo buon ricordo ci accompagnasse sempre, anche quello basterebbe un giorno alla nostra salvezza» (p. 746).

Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010.

Dostoevskij in un ritratto di Il’ja Glazunov del 1962

Fëdor Dostoevskij (1821-1881) – La vita è vita ovunque, la vita è dentro di noi, non al di fuori. Voglio essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, qualunque disgrazia capiti, senza lamentarsi, non perdersi d’animo – ecco in che cosa consiste la vita, qual è il suo scopo.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Arianna Fermani – Il messaggio di Socrate è di una attualità straordinaria. La filosofia, con Socrate, si incarna in uno stile esistenziale, e si esplica in quella insaziabile – e, insieme, appagante – fame di vita e ricerca di senso, che accompagnano il filosofo fino all’ultimo istante dell’esistenza

Arianna Fermani - Socrate

Questo breve “incontro” con la figura di Socrate potrebbe iniziare ricordando che egli «stesso si qualificava come “strano”, ossia stravagante e fuori dal normale (átopos)».[1] Non a caso Socrate, filosofo caratterizzato da una “ambivalenza strutturale”,[2] è stato immortalato dal suo più grande allievo Platone mediante immagini tanto potenti quanto “dalle molte facce”. Oltre ad essere descritto come un tafano[3] come una torpedine marina,[4] come una vipera,[5] è stato paragonato ad un ambiguo Sileno, brutto nell’aspetto esteriore ma bellissimo e divino all’interno: come il satiro Marsia,[6] infatti, egli è sgradevole allo sguardo, ma, insieme, è assolutamente irresistibile per il suo carisma e per l’incanto procurato dalla sua parola.

[…]

«Ho un’ultima lezione da dare:
essi mi devono uccidere perché sappiano quello che hanno fatto.
La città dovrà affrontare la propria colpevolezza». [7]

 

Socrate […] rappresenta per molte ragioni un “crinale”: rispetto alle testimonianze, rispetto agli esiti a cui condusse il suo insegnamento, rispetto al fatto che fosse, insieme, da punti di vista diversi, lontanissimo dai Sofisti ma sofista egli stesso.
Il messaggio di Socrate è di una attualità straordinaria. A lui e a tutti i classici, che sono “classici”, appunto, e, dunque, “perenni” proprio perché dicono cose vere, bisogna tornare. Ma Socrate non solo va recuperato; egli va anche urgentemente recuperato. Hannah Arendt scrisse che

«Socrate voleva portare alla luce la verità che ognuno potenzialmente possiede. Se restiamo fedeli alla sua stessa metafora, la metafora della maieutica, possiamo dire che Socrate voleva rendere la città più veritiera facendo partorire a ogni cittadino la propria verità. Il metodo per farlo è il dialéghesthai, ma quest’arte dialettica, che porta alla luce la verità, non distrugge la doxa, l’opinione; al contrario ne rivela la veridicità … Il compito del filosofo, allora, non è quello di governare le città, ma quello di essere il suo “tafano”, di rendere i cittadini più veritieri».[8]

Siamo partiti con l’immagine del tafano e siamo tornati ad esso: il cerchio si chiude. Perché Socrate, oltre che essere un fastidioso provocatore, incarna alla perfezione il senso e l’urgenza della filosofia come pratica di vita:

 

«esistono sostanzialmente due modi di intendere la filosofia, l’uno devoto alla speculazione pura e alla logica del discorso, l’altro impegnato nella ricerca filosofica come modo di vita. Per quest’ultimo […] la figura di Socrate rimane centrale attraverso le epoche».[9]

 

Ecco perché la filosofia di Socrate è letteralmente immortale:

«il segreto di Socrate è forse questo: la forza, la saldezza e coerenza individuale della sua persona, che gli rende possibile affrontar gli altri non su piani di astratti rapporti convenzionali e generici […] ma nella realtà della loro persona, cercandola e suscitandola là dove essi l’hanno dimenticata».[10]

 

La filosofia, allora, con Socrate si incarna in uno stile esistenziale, e si esplica in quella insaziabile – e, insieme, appagante – fame di vita e ricerca di senso, che accompagnano il filosofo fino all’ultimo istante dell’esistenza:

«Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto.
“A cosa ti servirà?” gli fu chiesto.
“A sapere quest’aria prima di morire”».[11]

Arianna Fermani, Socrate e i suoi seguaci, in M. Migliori e Arianna Fermani (eds.), Filosofia antica. Una prospettiva multifocale, Morcelliana, Brescia 2020, pp.99-100, 114.

***

[1] G. Reale, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, RCS, Milano 2000, p. 8.
[2] Ibidem, p. 7.
[3] Cfr., Platone, Apologia di Socrate, 30E2-31A1.
[4] Cfr., Platone, Menone, 79E7-80A4.
[5] Cfr., Platone, Simposio, 217E6-218A7.
[6] Cfr., Platone, Simposio, 215°.
[7] G. Steiner, Totem o tabù, in Nessuna passione spenta. Saggi, Garzanti, Milano 2001, p. 152.
[8] H. Arendt, Socrate, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015, p. 55.
[9] S. Forti, Letture socratiche, Arendt, Foucault, Patocka, in H. Arendt, Socrate, op. cit., p. 99.
[10] A. Banfi, Socrate, intr. di E. Garin, Mondadori, Milano 1990, p. 57.
[11] E. Cioran, Squartamento, Adelphi, Milano 1981.



Arianna Fermani è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’ “International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana.

Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.


Tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani

Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele

Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele

Editore: eum, 2006

Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.

***

L'etica di Aristotele

L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana

Editore:Morcelliana, 2012

Utilizzando tutte e tre le Etiche aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà “si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”. Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta, persino nella loro incompatibilità, convivano.
La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.

Sommario

Ringraziamenti
Premessa
I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni
II “Essere” e “dirsi in molti modi”
Introduzione
I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele
II. Autenticità delle tre Etiche
III. Obiettivi e struttura del lavoro

PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù
Capitolo primo: Giustizia e giustizie
Capitolo secondo: La fierezza
Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia
Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza
Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio”
Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio

SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione
Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca”
Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere
Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore

TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona
Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici
Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza
Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità
Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis
Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi
Conclusioni
Bibliografia
Indice dei nomi

***

Le tre etiche

Le tre etiche. Testo greco a fronte

Editore:Bompiani, 2008

In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.

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Platone e Aristotele

Platone e Aristotele. Dialettica e logica

Curatori: M. Migliori, A. Fermani

Editore:Morcelliana, 2008

Il confronto tra Platone ed Aristotele è stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità: emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici greche delle nostra immagine di ragione.

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Interiorità e animae

Interiorità e anima: la psychè in Platone

Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani

Vita e Pensiero, 2007

Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.

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Humanitas

Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.

Curatore: A. Fermani, M. Migliori

Editore: Morcelliana, 2016

Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas” 1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M. Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani, Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts, and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda. longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F. De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.

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Il Simposio di Platone

Il ‘simposio’ di Platone

J. Rowe, Arianna Fermani

Academia Verlag, 1998

Cinque lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata, Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.

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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità

Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità

“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità;
Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203

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rivista di

ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE

Arianna Fermani

Vita e Pensiero

Rivista di Filosofia Neo-Scolastica

Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202

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Studi su ellenismo e filosofia romana

Studi su ellenismo e filosofia romana

Curatori: F. Alesse, A. Fermani, S. Maso

Editore: Storia e Letteratura, 2017

In questo volume vengono raccolti cinque saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e all’aristotelismo di epoca imperiale.

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Thaumazein cop

Arianna Fermani,
Essere “divorati dal pentimento”.
Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele

in THAUMÀZEIN; n. 2 (2014); Verona, pp. 225-246

Arianna Fermani,
Essere “divorati dal pentimento”. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele


Arianna Fermani – L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristotele
Arianna Fermani – La nostra vita prende forma mediante il processo educativo, con una paideia profondamente attenta alla formazione armonica dell’intera personalità umana per renderla libera e felice.
Arianna Fermani – L’armonia è il punto in cui si incontra e si realizza la meraviglia. Da sempre armonia e bellezza vanno insieme.
Arianna Fermani – VITA FELICE UMANA. In dialogo con Platone e Aristotele. il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permette di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana
Arianna Fermani – Divorati dal pentimento. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele
Arianna Fermani – Mino Ianne, Quando il vino e l’olio erano doni degli dèi. La filosofia della natura nel mondo antico
Arianna Fermani – Nel coraggio, nella capacità di vincere o di contenere il proprio dolore, l’uomo riacquisisce tutta la propria potenza, la propria forza, la propria dignità di uomo. Senza coraggio l’uomo non può salvarsi, non può garantirsi un’autentica salus.
Arianna Fermani – Fare di se stessi la propria opera significa realizzarsi, dar forma a ciò che si è solo in potenza. attraverso l’energeia, e nell’energeia, l’essere umano si realizza come ergon, si fa opera. Chi ama, nutrendosi di quell’energeia incessante che è l’amore, scrive la sua storia d’amore, realizza il suo ergon, la sua opera. È solo amando che un amore può essere realizzato, esattamente come è solo vivendo bene che la vita buona prende forma
Arianna Fermani – Recensione al volume di Enrico Berti, «Nuovi studi aristotelici. III – Filosofia pratica».
Arianna Fermani – «Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele». Si è felici perché la vita ha acquisito un orientamento, si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice sussistenza. Una vita dotata di senso. Felicità come pienezza, come attingimento pieno del ‘telos’ lungo tutto il tragitto della vita.
Arianna Fermani – «Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». La speranza “antica”, tra páthos e areté.
Arianna Fermani – Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani
Arianna Fermani – Quando il rischio è bello. Strategie operative, gestione della complessità e “decision making” in dialogo con Aristotele. L’assunzione del rischio e la sua adeguata collocazione all’interno di una vita “riuscita” implica la continua individuazione di priorità in vista della costituzione il più possibile armonica dell’esistenza.
Arianna Fermani – «Il concetto di limite nella filosofia antica». L’uomo non è dio, ma la sua vita può essere divina. Divina è ogni vita buona, ogni vita che sia stata ben condotta. Ogni vita umana si costruisce entro lo scenario del quotidiano, è fatta delle piccole cose di ogni giorno e di questa quotidianità si nutre.
Maurizio Migliori e Arianna Fermani – «Filosofia antica. Una prospettyiva multifocale». Questo volume aiuta a tornare, con stupore e gratitudine, alle feconde origini del pensiero occidentale, per guardare finalmente, con occhi nuovi, il mondo e noi stessi.

Contributi di
Loredana Cardullo, Selene I.S. Brumana, Francesca Eustacchi, Arianna Fermani, Luca Grecchi, Roberto Medda, Maurizio Migliori, Lucia Palpacelli, Roberto Radice
Sommario

Maurizio Migliori – Non c’è opera e non c’è argomento trattato in cui Aristotele non si misuri con i suoi predecessori.
Maurizio Migliori – La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni. Platone è l’incontro con la grande bellezza e ci insegna che la filosofia è la scienza degli uomini liberi
Maurizio Migliori – Il pensiero classico vuol capire il mondo, la cui complessità non viene messa in dubbio, e che quindi deve essere affrontato con una pluralità molto elastica di strumenti
Maurizio Migliori – La bellezza della complessità. il fatto che la verità si dà sempre con dei limiti e sempre in un gioco di relazioni, non implica la rinuncia alla verità, ma al suo carattere assoluto.
Maurizio Migliori, Luca Grecchi – Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli
Maurizio Migliori – Opportunità e utilità di un approccio multifocale. Un contributo alla lotta contro il relativismo e contro la semplificazione che caratterizza l’orizzonte dell’attuale “cultura di massa”.
Arianna Fermani – L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristotele
Arianna Fermani – La nostra vita prende forma mediante il processo educativo, con una paideia profondamente attenta alla formazione armonica dell’intera personalità umana per renderla libera e felice.
Arianna Fermani – L’armonia è il punto in cui si incontra e si realizza la meraviglia. Da sempre armonia e bellezza vanno insieme.
Arianna Fermani – VITA FELICE UMANA. In dialogo con Platone e Aristotele. il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permette di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana
Arianna Fermani – Divorati dal pentimento. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele
Arianna Fermani – Mino Ianne, Quando il vino e l’olio erano doni degli dèi. La filosofia della natura nel mondo antico
Arianna Fermani – Nel coraggio, nella capacità di vincere o di contenere il proprio dolore, l’uomo riacquisisce tutta la propria potenza, la propria forza, la propria dignità di uomo. Senza coraggio l’uomo non può salvarsi, non può garantirsi un’autentica salus.
Arianna Fermani – Fare di se stessi la propria opera significa realizzarsi, dar forma a ciò che si è solo in potenza. attraverso l’energeia, e nell’energeia, l’essere umano si realizza come ergon, si fa opera. Chi ama, nutrendosi di quell’energeia incessante che è l’amore, scrive la sua storia d’amore, realizza il suo ergon, la sua opera. È solo amando che un amore può essere realizzato, esattamente come è solo vivendo bene che la vita buona prende forma
Arianna Fermani – Recensione al volume di Enrico Berti, «Nuovi studi aristotelici. III – Filosofia pratica».
Arianna Fermani – «Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele». Si è felici perché la vita ha acquisito un orientamento, si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice sussistenza. Una vita dotata di senso. Felicità come pienezza, come attingimento pieno del ‘telos’ lungo tutto il tragitto della vita.
Arianna Fermani – «Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». La speranza “antica”, tra páthos e areté.
Arianna Fermani – Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani
Arianna Fermani – Quando il rischio è bello. Strategie operative, gestione della complessità e “decision making” in dialogo con Aristotele. L’assunzione del rischio e la sua adeguata collocazione all’interno di una vita “riuscita” implica la continua individuazione di priorità in vista della costituzione il più possibile armonica dell’esistenza.
Arianna Fermani – «Il concetto di limite nella filosofia antica». L’uomo non è dio, ma la sua vita può essere divina. Divina è ogni vita buona, ogni vita che sia stata ben condotta. Ogni vita umana si costruisce entro lo scenario del quotidiano, è fatta delle piccole cose di ogni giorno e di questa quotidianità si nutre.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Maurizio Migliori – Per Platone, ogni comunicazione filosofica deve essere sottoposta a vincoli per ragioni educative e filosofiche, in quanto solo la conquista personale caratterizza la crescita filosofica. Si deve aiutare l’interlocutore a scoprire i problemi che il reale e il ragionamento ci pongono davanti e, quindi, le soluzioni. Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta da un essere umano.

Maurizio Migliori - Il disordine ordinato

 

«Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta da un essere umano» (Apologia 38A5-6)

Quale folle ambizione può aver armato la mano che si è impegnata a scrivere questo libro? Nessuna illusoria ambizione, ma un desiderio, una constatazione, una necessità, una convinzione e una speranza.
Il desiderio è quello di pagare il debito che ho, da tanto, nei confronti di Platone. È stata una presenza costante nella mia vita, da quando avevo sedici anni. Vorrei quindi contraccambiare, per quel poco che posso, dando un contributo alla lettura delle sue opere e alla comprensione del suo pensiero.
La constatazione è che, a fronte della totalità degli scritti platonici, un confronto plurisecolare non ha prodotto nemmeno un plafond comune, un quadro unitario a partire dal quale intrecciare un dibattito, magari acceso. Ciò permetterebbe almeno di bloccare posizioni arbitrarie, presenti in questo ambito di studi in una quantità che non ha uguali nella storia della filosofia.
Anche il tentativo della Scuola di Tubinga-Milano, cui appartengo, di indicare una via per superare alcuni blocchi ermeneutici, ha determinato ulteriori fraintendimenti che a fatica stiamo superando. La necessità conseguente è quella di mettere alla prova fino in fondo la portata di quello che è stato definito da Giovanni Reale un nuovo paradigma ermeneutico. […]
La convinzione è che qualunque testo risulta inadeguato rispetto al problema millenario di capire Platone. Comunque, se uno è così folle da affrontare un tema del genere, è meglio essere coerenti, dando una forma e una dimensione folle ad una impresa folle.
Tutto ciò vive perché è accompagnato da una speranza: che questo lavoro serva e che la fatica che ho affrontato con spirito di altri tempi aiuti alla migliore comprensione dei dialoghi. […]
Questo testo, frutto di molti lavori analitici, costituisce uno sforzo di sintesi, una sorta di visione dinsieme per introdurre al pensiero di Platone, che dovrebbe poi essere verificata in una serie di studi che affrontino, per piccoli blocchi, tutti i dialoghi di Platone. […] Questo libro […] si presta ad una duplice fruizione, quella della persona di cultura e quella dello studioso […]. L’ intelligenza di studiosi che discutono va apprezzata, ma non dovrebbe succedere di leggere pagine e pagine chiedendosi dov’è finito Platone, tanta è la distanza tra il testo greco e quello che si sta leggendo. Per questo non resisterò affatto alla tentazione di citare moltissimo Platone perché il testo va, a mio avviso, tenuto sempre in primo piano. […] Per le questioni di metodo, rinvio alla terza appendice. […]
Non esiste, a mio avviso, un modo funzionale di esporre la filosofia dei dialoghi platonici, perché questa si presenta come una ragnatela di temi, legati tra loro da fili sottili e tuttavia folti. Troveremo la ragione teorica di questo nella dialettica di Platone, nel rapporto che lega l’intero alle singole parti e alla totalità delle parti. In sintesi, occorre esporre in successione ciò che in Platone è sì distinto ma non separato, anzi unito in modo tale come, forse, non è stato mai più possibile, dopo Aristotele. Così per il nostro filosofo si può sia affermare sia negare la presenza di un’etica, o di una politica, o di una ontologia e così via, perché tutti questi elementi ci sono – tanto da risultare fondamentali per il successivo sviluppo del pensiero filosofico – ma tra loro intrinsecamente intrecciati, come si impone in una concezione dialettica. […] Tuttavia, data la vastità e difficoltà del lavoro, occorre aiutare il lettore interessato in modo che possa trovare la forza di attraversare questo mare di parole (Parmenide 137 A). […] La prima questione che affronterò sarà quella di come scrive Platone. […] Per Platone, ogni comunicazione filosofica deve essere sottoposta a vincoli per ragioni educative e filosofiche, in quanto solo la conquista personale caratterizza la crescita filosofica. Si deve aiutare l’interlocutore a scoprire i problemi che il reale e il ragionamento ci pongono davanti e, quindi, le soluzioni che possono superare il blocco cui l’aporia ci condanna. Questi vincoli diventano cogenti nel caso della scrittura, per una serie di limiti che questo strumento ha. […]
In sintesi: come vedremo, l’Autore allude ai contenuti filosofici e alle loro aporie per spingere il lettore a fare filosofia. Ciò implica che nei dialoghi ci sia molta filosofia, sia come problema, perché non si dà aporia senza una indagine filosofica, sia come proposta di soluzione, che però rinvia ad altre aporie, chiarite in un testo successivo, il quale ripete lo stesso procedimento. Ciò continua fino alle ultime opere, il che ci porta a dire che la soluzione finale è al di fuori dei dialoghi che Platone ha scritto. […]
Questa filosofia costituiva un sistema. […] Anticipo in modo sintetico quello che a mio avviso emerge dai dialoghi: la ricerca platonica ha un andamento paradigmatico, o se si preferisce ermeneutico, nel senso che egli cerca un quadro interpretativo complessivo che consenta di risolvere le aporie che l’analisi ha evidenziato. Per questo propone Idee e Principi come necessari postulati. Ciò implica che si verifichino, discendendo, le conseguenze di queste premesse; è praticamente certo che, data la modificazione del quadro analitico, si scopriranno nuove difficoltà; da ciò una nuova ricerca, che corregge il paradigma, precisa i postulati, e così via. Tale procedimento – in un certo senso ovvio, perché il circolo ermeneutico, una volta attivato, non ha ragioni obiettive che lo blocchino – non ha nulla a che vedere con un atteggiamento scettico perché i punti fermi guadagnati, anche se sottoposti a continue verifiche, rimangono stabili, se non emergono ragioni forti che li mettono in crisi. Basta pensare al fatto che per Platone la filosofia è superiore alle matematiche: se fosse meno vera o meno stabile di quelle, la sua superiorità non sarebbe giustificata.
[…] Si deve affrontare – come sempre si dovrebbe – questo testo con molto spirito critico ma soprattutto senza prevenzioni. Nel dibattito si è cristallizzato un giudizio per cui si sa già quello che sostiene un autore che appartiene alla Scuola di Tubinga-Milano. Chi avrà la pazienza di leggere questo libro avrà la prova di quanto questo sbrigativo giudizio sia errato. Una scuola ha una unità di metodo e alcune scelte paradigmatiche comuni, cosa che non esclude affatto divergenze anche profonde. Il che è bene […]

 

Maurizio Migliori, Il Disordine ordinato. La filosofia dialettica di Platone, vol. I, Dialettica, metafisica e cosmologia, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 8-22.


Quarta di copertina
Questa ampia e innovativa ricostruzione della filosofia di Platone nasce da due convinzioni di fondo. La prima, di metodo, è che una chiave interpretativa trova la sua legittimità se riesce a integrare in un quadro non dogmatico, ma logico e unitario, i tanti pezzi del puzzle costituito dai testi platonici. La seconda, di contenuto, è che occorre prendere sul serio l’indicazione, più volte data da Platone, che un filosofo scrive nella forma del “gioco serio”, in modo da spingere il lettore, attraverso provocazioni e sollecitazioni, a pensare. Così il filosofo ateniese ha applicato alla scrittura la sensibilità maieutica di Socrate: scopo di un maestro è aiutare l’allievo a “fare filosofia”, non a impararla. Il risultato è una meravigliosa serie di dialoghi che manifestano in crescendo il “sistema” dell’autore come un filosofare in atto, attraverso materiali di riflessione e problemi tesi ad attivare il lettore e quasi a costringerlo a “cercare le risposte”. Quest’opera in due tomi, frutto di una lunga ricerca, scava in profondità i maggiori temi che Platone ha affidato ai dialoghi scritti. In questo senso il suo orizzonte è un “disordine ordinato”: cercare la logica di un sistema, senza accontentarsi di ridurre la filosofia di un genio, in presenza di tutti i suoi scritti e di una molteplicità di testimonianze indirette, a un “rebus avvolto in un mistero”.

Al centro di questa foto sta H.G. Gadamer; a sinistra H. Kramer e G. Reale; a destra Th. Szlezak e M. Migliori. La foto è stata fatta il 3 settembre 1996 a Tubinga, nell’intervallo di un incontro con Gadamer degli studiosi di Platone della Scuola di Tubinga e di quella di Milano. Immagine tratta dal volume: G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle “Dottrine non scitte”, Vita e Pensiero, 1977.

Al centro (fra G. Reale e H. Kramer) sta Th. A. Szlezak (i cui libri su Platone sono, come quelli di Kramer e di Gaiser, in Italia ben noti e molto diffusi). È il successore di K. Gaiser alla direzione del Piaton-Archiv. In piedi, alle spalle di Szlezak, sta M. Migliori (allievo di Reale e professore all’Università di Macerata, autore di alcuni dei più recenti e impegnativi lavori sui dialoghi dialettici di Platone). Questo gruppo rappresenta quella che Kramer chiama Scuola di Tubinga e Scuola di Milano. Questa fotografia è stata scattata a Tubinga, nel Platon-Archiv, il 30 aprile del 1994, a conclusione del convegno platonico in onore di H. Kramer, per festeggiare il suo sessantacinquesimo compleanno. Sul tavolo sta il dattiloscritto della traduzione di V. Cicero del volume di K. Gaiser, La dottrina non scritta di Plalone, con Presentazione di G. Reale e Introduzione di H. Kramer. Immagine tratta dal volume: G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle “Dottrine non scitte”, Vita e Pensiero, 1977.

Invito alla lettura

Pubblichiamo qui di seguito come invito alla lettura  l’ultimo capitolo del libro «La bellezza della complessità», dal titolo: “Maurizio Migliori, Un paradigma ermeneutico per la storia della filosofia antica. L’approccio multifocale“. Si tratta di un PDF, e può essere letto a video, e/o scaricato e stampato (pp. 29).
Per l’indice del volume cliccare qui: indice


Dedico questa raccolta alle allieve e agli allievi
che ho incontrato nell’arco di cinquant’anni,
nella scuola e nell’Università,
e a tutti coloro che hanno avuto la pazienza
di leggermi e di ascoltarmi,
dando un ulteriore senso
al mio lavoro di ricerca con l’amato Platone.

M. M.

coperta 315Questa è l’affermazione che considero come la formula sintetica
di quello che Platone pensa
della realtà cosmica e del suo “disordinato ordine”
(Maurizio Migliori, Uni-molteplicità del reale e dottrina dei Principi):

Οὐκοῦν εἰ μὴ τοῦτο, μετ’ ἐκείνου τοῦ λόγου ἂν ἑπόμενοι βέλτιον λέγοιμεν ὡς ἔστιν, ἃ πολλάκις εἰρήκαμεν, ἄπειρόν τε ἐν τῷ παντὶ πολύ, καὶ πέρας ἱκανόν, καί τις ἐπ’ αὐτοῖς αἰτία οὐ φαύλη, κοσμοῦσά τε καὶ συντάττουσα ἐνιαυτούς τε καὶ ὥρας καὶ μῆνας, σοφία καὶ νοῦς λεγομένη δικαιότατ’ ἄν.

«Sarà quindi meglio affermare, come più volte abbiamo detto, che nell’universo c’è molto illimitato (ἄπειρόν) e sufficiente (ἱκανόν) limite, e, al di sopra di essi, una causa non da poco, la quale, ordinando e regolando gli anni, le stagioni e i mesi, può, a buon diritto, essere chiamata sapienza e intelligenza» (Platone, Filebo, 30 C 3-7).

***

Maurizio Migliori

La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni

ISBN 978-88-7588-247-1, 2019, pp. 592, Euro 38

indicepresentazioneautoresintesi

Locandina M. Migliori – La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni

Questo testo mette a disposizione del lettore importanti studi, alcuni proposti qui per la prima volta in italiano, altri ormai quasi introvabili. Migliori, studioso di Platone internazionalmente riconosciuto, svolge una trattazione che parte da Eraclito e, attraverso la sofistica, raggiunge il filosofo ateniese, che è oggetto di una serie di contributi di assoluto interesse. Molti dialoghi risultano scandagliati in modo approfondito, soprattutto il Fedro e tutti i dialoghi dialettici (Parmenide, Sofista, Politico e Filebo). In effetti, Migliori ha un particolare interesse per la dialettica, il che spiega gli studi su Eraclito e Gorgia. La dialettica è alla base della filosofia platonica, qui ricostruita in modo chiaro e profondo. Le tesi proposte, originali, ma mai svolte per il gusto della novità, manifestano una testarda fedeltà al testo. Lo prova la abbondanza di citazioni presenti in questi articoli, che costituiscono una delle ricchezze offerte al lettore interessato. Anche quando affronta un tema particolarmente dibattuto, come la scrittura filosofica di Platone, Migliori non si limita ad evidenziare l’importanza decisiva del “gioco protrettico” proposto nel Fedro, ma offre una serie di esempi testuali che mostrano nel concreto le tecniche utilizzate dal filosofo.
Tra questi saggi non mancano trattazioni etiche e politiche, al cui interno l’Autore affronta anche tematiche rischiose, come l’analisi del libro X della Repubblica. Mentre vari studiosi vorrebbero quasi espungerlo, Migliori si impegna a mostrare le ragioni che lo rendono utile e necessario per completare questo grande dialogo. Ciò gli dà anche la possibilità di demolire una serie di diffusi luoghi comuni, ad esempio sulla condanna dell’arte, sulle Idee e sull’anima. Quest’ultimo tema è poi affrontato in un saggio, che evidenzia la differenza tra la concezione dell’anima, una delle più grandi “invenzioni” greche, e la visione biblica, centrata sulla resurrezione.
Infine, Migliori fa una proposta ermeneutica e filosofica di fondo, che definisce “approccio multifocale”. Questo paradigma consente, da una parte di capire il pensiero classico che pratica normalmente questo tipo di lettura della realtà, dall’altra di avere una visione che rispetta le relazioni e la complessità del nostro mondo, senza cadere nelle trappole logiche e pratiche del relativismo.


Indice

Introduzione di Luca Grecchi

***

Note sulla dialettica in Eraclito
Premessa
La presenza assente del logos
Il contenuto del logos
L’esito finale dell’eraclitismo

***

Gorgia quale sofista di riferimento di Platone
Il problema del rapporto tra Gorgia e Platone
Un primo nesso tra Gorgia e Protagora
Gorgia retore e sofista
Il Gorgia
Il Parmenide
Il Teeteto e il Sofista
Conclusioni

***

La filosofia dei sofisti: un pensiero posteleatico
Diversi possibili itinerari di ricerca
Il quadro descrittivo del Sofista
Il problema del non essere
Il riferimento a Gorgia
Il rapporto filosofico con Protagora
Intreccio e differenze nell’uso dei due sofisti

***

Come scrive Platone.
Esempi di una scrittura a carattere “protrettico”
Alcune premesse di metodo
Un errore volontario
Una maturità precoce?
Il rinvio della trattazione del Bene
Un esercizio infinito
Una necessaria diffidenza
L’architettonica di un dialogo
Allusioni e inserimenti “estemporanei”
Il (cauto) utilizzo di altri dialoghi
L’utilità del metodo proposto

***

La struttura polifonica del Fedro
Una situazione paradossale
Elementi introduttivi alla lettura del dialogo
Un incontro particolare
La struttura del dialogo
Il motivo dominante: la tecnica di comunicazione orale e scritta
e la responsabilità di colui che comunica
Il centro tematico dell’opera: il vero tra filosofia e mania
Il tema più importante: l’anima e il rapporto uomo-Dio
Conclusioni

***

L’unità della Repubblica
come esempio di scrittura platonica: il libro X
Prologo
Alcune riflessioni di valore generale
La fine del libro IX e il collegamento con il libro X
La condanna dell’arte mimetica
Primo punto
Secondo punto
Terzo punto
Il problema delle Idee
Le Idee dei manufatti
Primo problema
Secondo problema
La divinità e la produzione delle Idee
Il problema dell’anima
La partizione dell’anima
Immortalità dell’anima e sopravvivenza
Il mito di Er
Conclusione

***

Dialettica e Teoria dei principi
Nel Parmenide e nel Filebo di Platone
Prologo
Alle fonti della dialettica
Dialettica e filosofia
L’identità unomolti
Un sistema di postulati risolutivi
Originarietà della dialettica
La dialettica come metodo
Natura del metodo dialettico
L’indicazione metodica
I passaggi metodici
Una metodologia complessa
La dialettica come filosofia
Necessità della struttura polare. La negazione dell’UnoUno
Due processi per una sola realtà
La Polarità originaria
Uno e Non Uno
Limite e Illimitato
Polivalenza funzionale dei Principi
Limite, Uno e Bene
La Misura
La visione dialettica del reale
Tutto è Misto
Misto e Idee
Essere e tempo, divenire e atemporalità.
L’inutilità della dialettica dell’Essere senza Uno
Il Divenire e l’Istante
L’articolazione della dialettica platonica: Tutto e parte
Un rapporto dialettico, ma non paritetico
Conseguenze della dialettica interoparte
Dialettica e aporie delle Idee
La dialettica platonica
Una dialettica né binaria né trinaria
Metodo dialettico e Principi primi

 ***

 Alcune riflessioni su misura e metretica
(il Filebo tra Protagora e Leggi, passando per il Politico e il Parmenide)
Prologo
Una premessa di metodo. lo scritto platonico come “gioco”
La trattazione metafisica del Filebo
Prima parte del dialogo: Processo ontogonico e Causa
Premessa: la realtà è uni-molteplice
Le radici metafisiche di questa realtà uni-molteplice
LApeiron
Il Peras
Il misto
La causa
Conseguenze e conferme sul piano cosmo-ontologico
Ordine e disordine del Cosmo alla luce del Politico
La causalità ideale alla luce del Parmenide
Prime conclusioni
Seconda parte del dialogo: il Bene e la Misura
Premessa: la trattazione del Bene è necessaria

  1. Alcune “anticipazioni” sul Bene
  2. Le “allusioni” alla natura del Bene
  3. Il segno del Bene-Misura
  4. Le due trattazioni a confronto
  5. La metretica
  6. La metretica nelle prime opere
  7. Le due metretiche del Politico
  8. L’applicazione della “misura” nell’azione del politico
  9. Un breve riferimento alle Leggi

La vita buona e misurata

Due tipi di uguaglianza
L’importanza del modello trinario

Appendice I
Le Idee sono composte da altre Idee
Appendice II
La trattazione di cause e concause
Fedone
Politico
Timeo

Due brevi osservazioni finali

 ***

 Cura dell’anima.
L’intreccio tra etica e politica in Platone
La natura bivalente della politica
L’intreccio tra etica e politica
Il parallelo tra anima e polis
Potere politico e dominio di sé
Elementi di antropologia platonica
L’anima
Beni e virtù
Due “Idee” di piacere
Il Bene
L’azione del politico
Il ruolo ordinatore delle leggi
Le responsabilità dei soggetti politici
Centralità dell’impianto educativo
Politica e retorica
Il fine della politica: ordine e felicità
Il Bene come fine
Due modelli di vita a confronto
Il piacere e i beni umani
Virtù e felicità
Un necessario approdo escatologico

***

Polivalenza strutturale della filia in Platone
La semanticità di filia nei dialoghi
La funzione sociopolitica dell’amicizia
L’esempio dei conviti
Due specifiche applicazioni
Critone o dell’amicizia
Il rinvio al Primo amico
Una riflessione finale

***

La domanda sull’immortalità e la resurrezione.
Paradigma greco e paradigma biblico
Prologo
L’evoluzione del paradigma greco
La tradizione orfica e il suo sviluppo filosofico
Platone
Una duplice valutazione
Una riflessione razionale sull’anima
Le prove dell’immortalità dell’anima
Tripartizione dell’anima e sua sopravvivenza
Anima e corpo in Aristotele
Immortalità dell’anima ed etica
Immortalità dell’anima ed opere essoteriche
La concezione ebraica
Una visione mitica
Una visione unitaria dell’essere umano
La condizione dopo la morte
Lo stacco tra immortalità dell’anima e resurrezione
Socrate e Cristo
L’incontro nell’ellenismo e nel cristianesimo
Filone di Alessandria
Il primo cristianesimo
Conclusioni

***

Un paradigma ermeneutico
per la storia della filosofia antica: l’approccio multifocale
Una situazione straordinaria
Il senso e le ragioni di una scelta diversa
L’emergere del multifocal approach
Il contributo della sofistica
L’esperienza platonica
L’elaborazione aristotelica
Il valore attuale di questa visione dell’antico


In copertina: Vasilij Kandinskij, Verso l’alto (Empor), 1929, olio su cartone. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. L’energia del pensiero nella ricerca della bellezza si protende verso l’alto (empor). Le forme geometriche astratte disegnano il volto di profilo di una persona: il personaggio è sorretto – in un punto di equilibrio ideale – da un trapezio e da una lettera E (empor). L’occhio, lo sguardo, è rivolto verso un’altra grande E a destra, in alto.


Alcuni dei suoi lavori

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Maurizio Migliori – Non c’è opera e non c’è argomento trattato in cui Aristotele non si misuri con i suoi predecessori.

Maurizio Migliori, Uni-molteplicità del reale e dottrina dei Principi


Maurizio Migliori su Youtube

Maurizio Migliori: La felicità (Platone) – Università di Macerata

Maurizio Migliori: Introduzione a Platone – Università di Macerata

Maurizio Migliori: La virtu dei greci, realizzazione di se stessi

Maurizio Migliori: Platone, dialettica e complessità del piacere

Maurizio Migliori: Fare un mestiere bellissimo e impossibile, lo storico della filosofia antica

Maurizio Migliori – Platone: Un pensiero della dialettica

Maurizio Migliori: La libertà non è star sopra un albero

Maurizio Migliori – La crisi e la speranza

Maurizio Migliori: Il contributo degli antichi

Maurizio Migliori: La felicità

Maurizio Migliori: Platone, il disordine ordinato

Maurizio Migliori: Il De generatione et corruptione di Aristotele: una base per l’ontologia del sensibile. Parte Prima

Maurizio Migliori: Il De generatione et corruptione di Aristotele: una base per l’ontologia del sensibile. Parte Seconda


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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Raffaele Salvi – Per Mauro Peroni la felicità è possibile eclissando le dinamiche capitaliste che, nell’offerta di infiniti oggetti, rendono illimitato il desiderio. Occorre impegnarsi in una vita ricolma di senso, in cui lo scopo da raggiungere è la vita stessa.

Occorre impegnarsi in una vita ricolma di senso, in cui lo scopo da raggiungere è la vita stessa.

Mauro Peroni

Felicità possibile

Esercizi filosofici su sofferenza, desiderio e tempo

ISBN 978-88-7588-268-6, 2020, pp. 176, Euro 15 – Collana “Il giogo” [122]

indicepresentazioneautoresintesi

Mauro Peroni affronta il tema della felicità in maniera assai differente rispetto ad altre letture, come ad esempio quella socratica ed heideggeriana. Mentre, infatti, tali autori fanno della cura l’oggetto della trattazione, Peroni la considera come stile, piuttosto che come oggetto. Egli, inoltre, prende parzialmente le distanze dal classico tema dell’eudaimonia ed indaga la felicità anche attraverso discipline quali la sociologia e la psicologia, non limitandosi ad uno sguardo di stampo puramente filosofico. La felicità che viene ricercata, inoltre, costituisce il tentativo di raggiungere un’esistenza piena, e non soltanto la soddisfazione di uno stato emotivo transitorio.

Il primo capitolo, dal titolo «Sofferenza e trasformazione», rappresenta il nodo gordiano del problema della ricerca della felicità a partire dal suo opposto, l’infelicità. Ecco perché l’Autore ritiene utile partire da un esame della società contemporanea, in cui la depressione risulta essere una malattia collettiva e simultaneamente uno status costante della società in cui l’individuo si identifica. Perciò la depressione si configura come una mancanza di qualcosa, come una patologia in cui l’individuo non risponde più ad un sistema di virtù collettivamente condiviso. Non ci troviamo, infatti, più di fronte all’idea aristotelica di comunità; al contrario la realtà vigente è quella individualistica, in cui l’individuo è colui che decide ciò che gli manca per essere felice e, in questo modo, diventa l’artefice della propria depressione (che corrisponde alla mancata autorealizzazione). Peroni afferma che «per cogliere appieno la portata sociale e culturale di tale questione, il fenomeno sommerso della depressione va considerato all’interno del più ampio spettro problematico in cui l’io contemporaneo è coinvolto e che può essere condensato nella definizione di individualismo illimitato» (p. 17). Per completare il quadro in cui si alimenta tale fenomeno, bisogna citare anche la dittatura del mercato del lavoro, che si affianca all’insufficienza emotiva di cui ogni individuo diviene artefice: il soggetto viene forzato a desiderare in modo illimitato e così il desiderio, privo di peras, risulta essere il punto di origine della depressione umana. In virtù di questa sua natura, inoltre, la depressione diventa a tal punto interiorizzata da non essere possibile sconfiggerla.

A questo proposito l’Autore dichiara: «si è visto che oggi il ferimento ed il fallimento delle aspirazioni di vita originano dalle stesse dinamiche sociali che inducono tali aspirazioni, pungolando i soggetti a prodursi in un vitalismo drogato» (p. 27). Perciò la depressione costituisce un vero e proprio arcipelago in cui viene relegato il dolore dell’Io, in cui il soggetto sotterra la propria coscienza. Esorcizzando il dolore, viene persa la sua possibile funzione paideutica e così risulta impossibile il superamento della soglia depressiva. La problematica patologica invece viene affrontata da Jung, secondo cui «l’individuazione è un movimento che si offre da sé stesso, naturalmente, ed allo stesso tempo rappresenta un compito, arduo e dai risultati non scontati, perché implica un patire, una passione dell’Io» (p. 43). Così Jung ricorre al concetto di individuazione inquadrandolo come una ricerca per la realizzazione delle potenzialità dell’individuo. Il Sé deve essere colto nella sua dinamicità e non in quella statica visione, destinata alla necrosi, in cui lo relega la psicanalisi di stampo freudiano. Perciò la ricerca della felicità risulta essere una ricerca verso e dentro il Sé, una ricerca dell’Io e della propria identità, una discesa nell’inconscio umano, una ricerca che necessariamente procede attraverso il dolore e lo affronta risolvendolo e potenziando le possibilità dell’Io.

In tal senso il Sé è in continua trasformazione e tale dinamica mutevole deve essere compresa in una forma fluida, in modo tale da poter sconfiggere l’immobilismo della depressione che l’umanità sta affrontando. Successivamente Peroni esamina il nesso tra il desiderio e la vita felice, indagando le motivazioni che sono a fondamento del desiderio. Infatti, alla base dell’agire umano c’è la voglia stessa di vivere, la quale non si riduce alla semplice sopravvivenza fisica del corpo. Proprio per queste ragioni, il desiderio pone la persona all’interno di una molteplicità di scelte.

Inoltre bisogna necessariamente distinguere il desiderio dalla vita felice, poiché se il primo risulta essere infinito, al contrario la vita felice riguarda la nostra finitezza. Il sinologo Francois Jullien definisce la felicità un flusso, perciò un’idea totalmente differente dalla ricerca occidentale dell’autorealizzazione, poiché si perde nel pensiero orientale l’idea e la concretezza dell’Io.

Nella terza sezione viene costruita una traccia di stampo genealogico sul tema della felicità e del desiderio, e viene così affrontato il problema del ritmo, il quale viene definito da Platone come una forma di movimento che il corpo compie durante la danza. In maniera diversa la pensa Bachelard, per cui il ritmo rappresenta il basilare modello di sviluppo della vita, poiché è la radice della dinamica psichica e vitale di ogni essere umano.

L’ultima sezione, intitolata «Pensare bene per agire bene: una proposta educativa», mira a ripercorrere e, al tempo stesso, a concludere il percorso inaugurato nei capitoli precedenti. L’Autore afferma che tale proposta si colloca in uno specifico orizzonte culturale: quello della filosofia pratica di stampo greco. Perciò l’esigenza è quella di educare i ragazzi all’esercizio del kairos aristotelico, inquadrando la ricerca del sé in una specifica temporalità.

Il percorso di Mauro Peroni si declina all’interno di un panorama piuttosto variegato di esemplificazioni e così la stigmatizzazione del desiderio è denotata dalla visione dello stesso nella forma di una ricerca illimitata per un essere limitato come l’uomo. La felicità non deve essere considerata come un traguardo della nostra esistenza, visto che si deve mirare a vivere felicemente e non a raggiungere la felicità. Tale processo può essere accolto soltanto dimenticando le dinamiche capitaliste del desiderio, in cui il desiderio diventa illimitato, poiché gli stessi oggetti del desiderio risultano infiniti. Pertanto, in conclusione, si può dire che l’unica modalità per rimuovere l’infelicità umana e il fenomeno della depressione è la sostituzione degli infiniti oggetti del desiderio con una vita piena, in cui lo scopo da raggiungere è la vita stessa.

Raffaele Salvi

                


Mauro Peroni

Felicità possibile

Esercizi filosofici su sofferenza, desiderio e tempo

ISBN 978-88-7588-268-6, 2020, pp. 176, Euro 15 – Collana “Il giogo” [122]

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«Solo se pensi alla gente saprai qualcosa».

Elias Canetti, Il cuore segreto dell’orologio

 

Questo libro si colloca sulla lunghezza d’onda di quelle che vengono chiamate “pratiche filosofiche”. Esse consistono in modalità di declinazione del filosofare che si prefiggono di integrare, senza volerle sostituire, le tradizionali forme accademiche dell’insegnamento e della ricerca scientifica indirizzata ad un circuito di fruizione prettamente specialistico. A segnare la distanza fra i due orizzonti è, soprattutto, il fatto che le pratiche filosofiche intendono farsi carico delle richieste di senso che circolano diffusamente nell’attuale scenario sociale. Più esattamente, esse provano a fornire possibili risposte a tali richieste: risposte che non esauriscano le domande ma le rendano sostenibili. Ciò significa che mentre la filosofia nella sua configurazione tradizionale tende a limitarsi a studiare il fenomeno contemporaneo della dolorosa mancanza di senso del vivere che molte esistenze vanno sperimentando, le pratiche filosofiche tentano di offrire, ad un’utenza la più vasta possibile, strumenti per ridurre questo spaesamento o almeno limitarne gli effetti più nocivi.

Va evidenziato che esse non costituiscono “applicazioni” della disciplina filosofica (così come, ad esempio, si danno forme di etica applicata all’economia o alla scienza), poiché invece muovono in direzione della promozione di un modo di essere filosofico. Laddove con questa espressione si intende – con chiaro riferimento al tema della saggezza tipico del filosofare antico – anche un modo di vivere, caratterizzato dalla capacità di mettere in discussione se stessi (le proprie idee, i propri criteri di giudizio, la propria maniera di compiere scelte e di relazionarsi agli altri, ecc.), al fine di conseguire un’esistenza coerente, ricca di significato e valore, realmente appagante.

Tali pratiche assumono configurazioni differenti, fra le quali mi limito a segnalare la consulenza rivolta a singoli o a gruppi e la promozione della metodologia dialogico-relazionale all’interno di contesti organizzativi ad alto tasso di complessità gestionale (ad esempio aziende ed ospedali). In tempi recenti esse hanno iniziato a retroagire nella realtà accademica, per cui in alcuni dipartimenti universitari sono stati attivati corsi di pratiche filosofiche. Anche in forza di questo feedback, a mio avviso prezioso, si origina la ricerca concretizzatasi nel presente contributo. Una ricerca in cui l’approccio filosofico essenziale viene affidato al gesto del curare.

Senza dubbio il tema della cura conosce da tempo una vasta diffusione nell’ambito degli studi filosofici, dove viene svolto in una molteplicità di direzioni di indagine che, a seconda dei casi, si rifanno in maniera più o meno esplicita ai due luoghi teorico-concettuali da cui esso proviene: l’epiméleia del pensiero socratico e l’heideggeriana Sorge. Ma si tratta, appunto, del tema della cura. Nel senso che in queste numerose trattazioni la cura rappresenta l’oggetto dei discorsi filosofici, i quali di volta in volta domandano, per esempio, quale sia il significato da attribuire a tale termine, quali siano le pratiche soggettive e collettive che possono essere sussunte sotto di esso, quale sia il suo possibile impiego in sede epistemologica e così via. Questo testo, invece, si caratterizza per un taglio differente, poiché prova a fare della cura lo stile del suo discorso. Esso, cioè, presenta un filosofare che non si occupa di parlare delle pratiche di cura, ma ha l’ambizione di costituire esso stesso una pratica di cura. Nello specifico, presentandosi come serie di esercizi volti a favorire il dispiegamento delle condizioni di possibilità di una vita felice.

Tale intenzione prende corpo, anzitutto, nella scelta preliminare di distanziarsi dall’approccio diffuso che tratta la questione della felicità come se fosse una domanda specifica della filosofia, mentre invece essa è una domanda dell’umano. Una domanda che può essere avvicinata in modo filosofico come anche a partire da altre prospettive, ad esempio psicologiche o teologiche. Facendo della questione della felicità una faccenda di proprietà della filosofia, non di rado si finisce con l’indagarla limitandosi a commentare e confrontare le teorie sulla felicità che la storia del pensiero filosofico ha ampiamente prodotto, smarrendo così il contatto con i mondi di vita storicamente determinati da cui essa continua a scaturire sotto forma, appunto, di domanda di felicità. In questa scelta preliminare è da vedersi la ragione del fatto che nelle pagine che seguono si troveranno rari riferimenti a testi filosofici sulla felicità.

Pertanto, lo stile curante del lavoro si esprime, in primo luogo, nel prendersi cura della domanda di felicità che proviene dal nostro presente e, quindi, nel non impiegare il concetto di felicità come fosse un universale di senso impermeabile al divenire storico.

In secondo luogo, l’assunzione di questo stile ha condotto a non limitarsi a stendere il resoconto delle sciagure del nostro tempo (che pure sono numerose), ma a coniugare la lettura critica dell’oggi con uno sforzo teoretico mirante ad indicare, motivandole, buone pratiche di vita nel presente, ovvero modi di essere che possano rivelarsi capaci di far fiorire l’esistenza anche in un frangente storico che, sotto diversi profili, risulta disumano.

In tal senso, il discorso che segue procede lungo una traiettoria che si distanzia da quelle che mi paiono essere le due prospettive prevalentemente percorse dall’attuale riflessione filosofica intorno alla felicità: da un lato, le indagini che si interrogano sulla plausibilità di un’articolazione interna tra vita felice e vita giusta, distinguendo più o meno nettamente l’aspirazione alla felicità dall’esercizio del dovere; dall’altro lato, gli studi che si propongono di individuare quali siano le istituzioni e le procedure politico-giuridiche capaci di garantire le condizioni sociali dell’esercizio del “diritto alla felicitàˮ. Discostandomi da tali linee di sviluppo – senza tuttavia voler indicare una terza via che le escluda pre­giudizialmente – in questo lavoro indago le condizioni esistenziali, oggi, di una felicità possibile. Come si vedrà, questa indagine ha la natura di un’analisi di carattere etico-antropologico rivolta a tre nuclei fondamentali dell’esperienza umana: la sofferenza, il desiderio ed il tempo. Le si accompagna, a mo’ di appendice, una proposta educativa relativa all’intelligenza pratica.

Inoltre, il proposito di formulare un discorso che potesse risultare curante mi ha indotto a scegliere di lavorare in sinergia con altri saperi del campo delle scienze umane, ai quali mi sono rivolto con la cautela indispensabile quando si maneggiano strumenti che non sono i propri. Così facendo non sono andato alla ricerca di una sorta di attestazione di oggettività per le mie speculazioni; al contrario, spesso mi sono trovato a pensare a partire da contenuti di natura psicologica, sociologica, ecc., ossia grazie ad essi. Ciò è significato procedere in controtendenza rispetto a quell’atteg­giamento di orgogliosa autoreferenzialità che talvolta connota le ricerche che si muovono in ambito etico. Un’autoreferenzialità che – va detto – è anche un’autolimitazione del filosofare, che in questo modo rischia di smarrire la capacità di mantenersi in comunicazione diretta con il vissuto dei soggetti, cioè di non comprendere adeguatamente quel che gli abitanti del presente sperimentano e di non farsi comprendere da loro.

Merita precisare, allo scopo di evitare possibili fraintendimenti, che l’intenzione che ha animato la scrittura del libro – farsi carico dell’attuale domanda di felicità – non è coincisa con la volontà di realizzare un testo che presentasse i tratti tipici di quella produzione pseudo-filosofica che da anni sta conoscendo ampia diffusione e con la quale non simpatizzo affatto. In altre parole, non ho nutrito alcun proposito di imbastire una filosofia prêt-à-porter. Al contrario, la sfida (mi auguro vinta) è consistita nel far convivere il rispetto dei canoni di qualità propri del lavoro scientifico con l’esigenza di comporre un pensiero in grado di dar voce alle istanze che provengono da uno scenario collettivo dove circola, ormai stabilmente, un multiforme disagio esistenziale. Il che significa che questo testo non offre ricette di vita, né avanza tesi senza prendersi la briga di provare a dimostrarle e saltando direttamente alle conclusioni. Il libro presenta, invece, delle rigorose argomentazioni filosofiche, che vengono svolte ed intessute in modo da poter essere comprese (almeno nei loro elementi essenziali) anche dai non “addetti ai lavori”, ossia da coloro che non possiedono una specifica preparazione in questo campo. A loro in particolare chiedo attenzione e pazienza nel seguire i numerosi fili del discorso: una fatica che confido troveranno ben ripagata.

A questo punto, forse si sarà già intuito che la felicità di cui qui si tratta non coincide con una tonalità emotiva (gaiezza, allegria) e nemmeno con la gioia, che, per quanto costituisca una potente elevazione dello stato interiore, possiede un carattere di subitaneità. La felicità che il libro mette a tema non è, insomma, la “condizione positiva” che succede di sperimentare più o meno occasionalmente, secondo quanto espresso dall’inglese happiness (da to happen, “accadere”) o dal francese bonheur e dal tedesco Glück (che significano anche “fortuna”). Si tratta, bensì, del senso di pienezza prolungato, seppur ad intensità variabile, che scaturisce dall’avvertire che la propria esistenza sta riuscendo, ossia sta divenendo ciò che può essere, poiché i semi di vita in cui è racchiusa la propria unicità hanno iniziato a germogliare e a dare frutti. Dunque, non la felicità di momenti di vita, ma la vita felice. L’eudaimonía, nel linguaggio della dottrina etica della filosofia greca.

Per quanto riguarda la distribuzione interna del libro, esso è stato concepito in maniera da presentare quattro capitoli che risultino sia disposti lungo una linea di sviluppo chiaramente percepibile, sia dotati di autonomia argomentativa, tanto da poterli anche leggere separatamente o perfino in un ordine diverso da quello in cui sono collocati.

Nel corposo apparato delle note sono presenti citazioni, riflessioni e proposte di approfondimento che non andrebbero considerate come marginali, poiché sono invece parte integrante del percorso generale. Sono state poste fuori dal testo principale soltanto per evitare di compromettere la fluidità del discorso. Il lettore deciderà se soffermarsi su di esse durante il tragitto o al suo termine.

Mauro Peroni

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Amedeo Anelli – «Quartetti». Tempi sospesi e riflessioni filosofiche giocate con un linguaggio all’apparenza semplice, con i ritmi della filastrocca. Amedeo Anelli scrive di sogni sognati e il pennello di Guido Conti cerca un segno che diventi senso.

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Gatti che s’aggirano con la loro enigmatica presenza nella nostra vita, una natura che scatena le sue forze tra tempi sospesi e riflessioni filosofiche giocate con un linguaggio all’apparenza semplice, con i ritmi della filastrocca. Amedeo Anelli scrive di sogni sognati, guarda la vita passare come davanti ad una stazione con i treni che corrono. Che senso ha la vita? Intanto i gatti giocano, si aggrappano alle maniglie e ci guardano vivere come fanno anche i tigli lungo la strada. Una poesia che riflette sul linguaggio e sul senso del vivere, del mistero delle cose che esistono e ci circondano accompagnando la nostra vita, Parole alla ricerca di un senso, con uno sorriso che forse masconde uno sberleffo.
Guido Conti accetta la sfida e illustra i versi dei quartetti di Anelli in un dialogo complice e divertito, con gli acquerelli che sciolgono e raggrumano le forme, in una dinamica continua. Anche il pennello cerca un segno che diventi senso. E così i quartetti diventano un libro d’arte dove parola e disegni s’inseguono in un gioco in divenire tra segno e forma.

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AMEDEO ANELLI si occupa di poesia, filosofia, critica, teoria della Letteratura e d’Arte con numerose pubblicazioni. Neve pensata (Mursia, 2017; ed. in francese Libreria Ticinum, 2020, traduzione di Irène Duboeuf), Polifonii (Ikon, 2019) in romeno e in italiano, traduzione Eliza Macadan, L’Alfabet du monde, Editions du Cygne, 2020, traduzione di Irène Duboeuf, sono le sue ultime raccolte poetiche. Nel 2016 è stato inserito in Poesia d’ oggi. Un’antologia italiana a cura di Paolo Febbraro (Elliot) e Antologia di poeti contemporanei. Tradizioni e innovazioni in Italia (Mursia) a cura di Daniela Marcheschi. Traduttore dal russo di diversi volumi di poeti novecenteschi ha pubblicato la raccolta di Nikolaj Gumilëv, Nel giorno in cui il mondo fu creato (Avagliano 2020). Ha fondato e dirige la rivista internazionale di poesia e filosofia «Kamen’». È membro di diverse istituzioni nazionali ed internazionali.


GUIDO CONTI è parmigiano, ha pubblicato antologie di racconti come Il coccodrillo sull’altare (Guanda, 1998, Premio Chiara); tra i suoi romanzi, I cieli di vetro (Guanda, 1999, Premio Selezione Campiello), Il tramonto sulla pianura (Guanda, 2005), e Le mille bocche della nostra sete (Mondadori, 2010) tradotto in Olanda e in Spagna. Ha curato la raccolta degli scritti di Cesare Zavattini, Dite la vostra (Guanda, 2002), ha scritto Giovannino Guareschi, biografia di uno scrittore, (Rizzoli, 2008, Premio Hemingway per la critica) e come saggista ha pubblicato Cesare Zavattini a Milano, Letteratura, rotocalchi, radio, fotografia, editoria, fumetti, cinema, pittura (Libreria Ticinum Editore, 2019). Per i ragazzi ha scritto e illustrato la saga della cicogna Nilou: Il volo felice della cicogna Nilou, (Rizzoli, 2015), Nilou e i giorni meravigliosi dell’Africa (Rizzoli, 2015) e Nilou e le avventure del coraggioso Hadì, (Libreria Ticinum Editore) tradotti in Corea del Sud, Grecia, Spagna, Austria e Cina; e la favola ecologica tratta da una storia vera Un giorno tornerò da te, (Libreria Ticinum Editore 2020). Per Parma Capitale della Cultura 2020-2021 ha pubblicato La città d’oro, Parma e la letteratura, 1200-2020, (Libreria Ticinum Editore, 2020 e Giunti ha nel 2018 il romanzo Quando il cielo era il mare e le nuvole balene.


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Amedeo Anelli …


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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